LLA A NNUUOOVVA A IINNFFOOR RM MA AZ ZIIOONNEE CCA AR RDDIIOOLLOOG GIICCA A A Annnnoo 2288°° ­­ M Maarrzzoo ­­ 22000088 F FO OG GLLIIO O E ELLEETTTTRRO ON NIIC CO O D DO OM MIIC CIILLIIA AR REE N N.. 8 8 INDICE: Immagine di ponte muscolare coronarico, pag.1. Editoriale: Embolismo cerebrale cardiogenico, pag. 2-8. Leading articles: Dissincronia intraventricolare, pag. 9-14. Reattività piastrinica, pag.14-20. Medicina e morale: L’Errore medico, pag. 20-25 Ponte Muscolare Coronarico Un uomo di 57anni si è presentato con improvviso dolore retro sternale che faceva sospettare la possibilità d’infarto miocardico. L'angiografia coronarica ha evidenziato un ponte miocardico sull’arteria coronarica discendente anteriore sinistra, mostrato nel pannello A. Il ponte miocardico diminuiva notevolmente il diametro dell’arteria durante la sistole (Panello A, con freccia che punta verso il ponte miocardico). La tomografia a coerenza ottica non ha mostrato segni evidenti di aterosclerosi ma ha permesso di documentare la pervietà durante la diastole (Pannello B) e il collasso del lume durante la sistole (Panello C). Un ponte miocardico è costituito da un nastro di tessuto miocardico che ricopre a ponte un segmento di arteria coronarica epicardica. Il ponte miocardico è un’anomalia congenita che si osserva tipicamente in corrispondenza del segmento medio dell’arteria coronarica discendente anteriore sinistra. Trattasi di una condizione in genere benigna, che si può tuttavia associare ad angina, infarto miocardico, tachicardia ventricolare, e morte improvvisa. I fattori che comportano il rischio di complicazioni in un ponte miocardico includono la lunghezza e lo spessore del nastro muscolare e la gravità della compressione sistolica. I sintomi possono essere trattati con farmaci inotropi e cronotropi negativi quali i beta-bloccanti, i calcio antagonisti, o una loro combinazione. Nei casi refrattari può essere necessario il posizionamento percutaneo di uno stent o il bypass chirurgico. Il paziente della figura fu trattato con successo con beta-bloccanti. 1. Dirk Bose and Sebastian Philipp. High-Resolution Imaging of Myocardial Bridging. NEJM 2008;358:392 1 E Em mb bo olliissm mo oC Ce erre eb brra alle eC Ca arrd diio og ge en niicco o Circa il 20% degli ictus ischemici dipendono da anormalità cardiache a rishio elevato 1,2. In un altro 30%, la eziologia non può essere determinata, ma la gran parte degli ictus ischemici così detti "criptogenetici" presentano caratteristiche emboliche 3, di possibile origine cardio-aortica 2. Il cervello, che riceve il 15% della gettata cardiaca, è estremamente sensibile all’ischemia. Così, materiale rimosso prossimamente ai grandi vasi spesso percorre le arterie cervico-cefaliche, dove l’impatto tende a manifestarsi in termini clinici bruschi. Comunemente, il materiale embolico è un trombo 4, la cui propensione alla dissoluzione spontanea aumenta il rischio di conversione emorragica 5. Invece, i tromboemboli di origine centrale frequentemente occludono piccole arterie cerebrali o rami maggiori 4; microemboli, di aria, grasso, e cristalli di colesterolo, possono raggiungere i più piccoli rami terminali, provocando infarto lineare 6. La presentazione clinica non permette la distinzione dell’ictus embolico cardiogenico da quello non embolico. L’embolia cardiogenica cerebrale si presenta in modo brusco caratteristico con deficit neurologici che sono massimi all’esordio, in seguito all’improvvisa interruzione del flusso ematico 7. Ciò contrasta con il decorso a gradini progressivi tipico dell’ictus trombotico aterosclerotico 8, tuttavia, poiché l’embolo può spostarsi o frammentarsi dopo l’impatto iniziale 2, in circa un quinto degli ictus embolici cardiogenici la presentazione clinica non è brusca 7,8. Inoltre, l’aterosclerosi con trombosi di arteria principale causa non solo ipoperfusione 6, ma anche embolie da arteria ad arteria 2; di conseguenza, caratteristiche di tipo embolico cardiogenico possono presentarsi in oltre i due quinti degli ictus non embolici 8. Le caratteristiche più specifiche dell’embolia cardiogenica sono infarti in molti territori ed embolie sistemiche concomitanti 7,9. La diagnosi di infarto cerebrale cardiogenico dipende dalla dimostrazione dettagliata delle patologie cardiache come possibile sorgente di embolie elencate nella tabella I e dall’appoggio clinico di neuro-immagini, o di reperti di laboratorio. Neuro-immagini. La risonanza magnetica nucleare (RMN) permette di ottenere una risoluzione superiore a quella della tomografia computerizzata (TC), insieme con la capacità di rilevare l’ischemia cerebrale entro pochi minuti dall’inizio 10. Le immagini vascolari non invasive, della tomografia computerizzata, dell’ecocardiografia e della risonanza magnetica nucleare, hanno praticamente sostituito l’angiografia convenzionale, e possono essere di aiuto per riconoscere una sorgente cardiogenica, specialmente se usate 2 precocemente 11. Le tecniche d’immagini più utilizzate sono la tomografia computerizzata (TC) e l’ecocardiografia trans-toracica e trans-esofagea. Tabella I Sorgenti Prossimali di Embolie Cardiogeniche Rischio Elevato Rischio Moderato o Incerto Disritmie atriali Anormalità del setto interatriale • Fibrillazione atriale • Forame ovale pervio • Sindrome del nodo del seno • Difetto del setto atriale • Flutter atriale • Aneurisma del setto atriale Trombo atriale sinistro Malformazione artero-venosa polmonare • Disritmie atriali • Stenosi valvolare mitralica Trombo ventricolare sinistro Eco contrasto spontaneo ("fumo") • Infarto miocardico acuto • Cardiomiopatia dilatativa Tumori cardiaci primari Prolasso valvolare mitralico • Mixoma • Fibroelastoma papillare Metastatisi tumorali nel cuore Calcificazioni valvolari • Calcificazione dell’anello mitralico • Stenosi/sclerosi della valvola aortica Vegetazioni Corde valvolari • Infettive • Non infettive (marantiche) Protesi valvolari cardiache Ateroma aortico complicato 3 Il reperto di un’arteria cerebrale iperdensa in una TC dell’encefalo senza mezzo di contrasto 12, denota un trombo (Fig. 1), nell’assenza di una patologia arteriosa prossimale. Figura 1 Trombo nell’Arteria Cerebrale Media Destra Figura 1: Scansione tomografica computerizzata dell’encefalo in un paziente con fibrillazione atriale, che dimostra una iperdensità in arteria cerebrale media destra compatibile con trombo-embolia (freccia). Illustrazioni nella figura di Rob Flewell.12 Il precoce impiego in ictus acuti della tomografia computerizzata a sezioni sottili, senza mezzo di contrasto, è più efficiente delle sezioni convenzionali, permettendo l’identificazione di circa il 90% dei trombi intracranici 13. La presenza di trombo intracranico può anche essere riconosciuta con altre tecniche non invasive come l’angiografia magnetica nucleare 14, o la CT convenzionale 15, o il Doppler trans-cranico 16. Recentemente, la RMN è stata applicata per identificare trombi ricchi di eritrociti, che costituiscono la prova diretta di embolia cardiogenica 17. In definitiva, tuttavia, la diagnosi di ictus cardiogenico si basa sul riconoscimento proprio della sorgente cardiologica dell’embolia (tab I), per cui si richiede l’immagine ecocardiografica del cuore e dell’aorta e il monitoraggio elettrocardiografico. Ecocardiografia. In pazienti con cardiopatia clinicamente evidente, la dimostrazione di sorgente cardiaca di embolie con la ecocardiografia trans toracica convenzionale (ETC) e l’iniezione di soluzione salina agitata (come eco contrasto) può superare il 25% 18, ma altrimenti cade sotto il 10% 11. Invece, la superiore risoluzione dell’immagine della ecocardiografia trans esofagea 4 (ETE) permette la identificazione di possibile sorgente cardiaca di embolie in più del 50% di pazienti senza cardiopatia clinicamente evidente 18 o con inspiegati eventi cerebro vascolari 19. L'ecocardiografia trans toracica di elevata qualità è ritenuta sufficiente se positiva per la diagnosi di: ● protesi valvolari, ● cardiomiopatia dilatativa, ● aneurisma e/o trombo ventricolare sinistro, ● prolasso valvolare mitralico, ● vegetazione endocardica, ● difetto del setto atriale, ● shunt interatriale, ● aneurisma del setto atriale. L’iniezione di soluzione salina agitata (come eco contrasto) può rivelare uno shunt interatriale da destra a sinistra, ma la diagnosi definitiva di forame ovale pervio, distinto dal piccolo difetto del setto atriale, richiede l’ecocardiografia trans esofagea. 20. L’ecocardiografia trans esofagea non è indicata in tutti i pazienti, ma è necessaria per la diagnosi di: ● trombo atriale sinistro 21(fig. 2), Fig. 2 Trombo nell’Appendice Atriale Sinistra Figura 2: Ecocardiogramma trans esofageo nella proiezione longitudinale che evidenzia materiale eco-denso (teste di freccia) entro l’appendice dell’atrio sinistro (LA) (freccia), attribuibile a trombo; reperto osservato con la fibrillazione atriale o con la stenosi mitralica. Illustrazioni nella figura di Rob Flewell. 21 ● eco contrasto spontaneo in atrio sinistro, ● ateroma aortico, ● forame ovale pervio, la cui presenza si correla specialmente con l’ictus criptogenetico. Il meccanismo presunto è basato su rari esempi di trombo che attraversano" il forame in pazienti con ictus (Fig. 3). L’evento congiunto di trombo-embolia venosa e forame ovale è sufficiente per una diagnosi circostanziata di embolia paradossa 22. L’embolia paradossa è anche molto importante nella patogenesi di alcune forme di emicrania causata da microinfarti cerebrali clinicamente silenti che vengono efficacemente curati con l’occlusione protesica del forame ovale ● corde valvolari. Se l'ecocardiografia trans toracica è negativa, tuttavia, l’ecocardiografia trans esofagea può aumentare l’accuratezza diagnostica, specialmente per quanto riguarda vegetazioni e difetto del setto atriale. In particolare, la ecocardiografia trans esofagea permette la diagnosi di ateroma aortico "complesso", che consiste in una placca protrudente, mobile, o ulcerata 23. Tecniche più nuove hanno portato l’accuratezza diagnostica della ecocardiografia trans toracica 5 convenzionale per gli shunts interatriali destra-sinistra più vicina a quella della ecocardiografia trans esofagea 24-26. La seconda armonica della ecocardiografia trans toracica convenzionale permette di raggiungere sensibilità dal 62.5% al 90% rispetto alla ecocardiografia trans esofagea 24,25. Figura 3: Trombo in Transito Fig. 3: Visualizzazione ecocardiografica trans esofagea sull’asse corto del cuore, che mostra una eco-densità rettangolare con 2 estensioni distali intrappolata nel forame ovale (freccia), prodotta da trombo in movimento. La testa di freccia indica il septum primum. Le illustrazioni della figura di Rob Flewell.22 L’ecocardiografia trans esofagea è l’indagine di prima scelta nei pazienti più giovani con ictus inspiegato, nei quali è più elevata la prevalenza di potenziali sorgenti cardiogeniche di emboli che sono difficili a rilevare con l'ecocardiografia trans toracica, insieme con la presenza di patologia occulta potenzialmente a rischio di gravi conseguenze. Benché il Doppler trans cranico con iniezione di contrasto permetta accuratezza diagnostica degli shunts destra-sinistra comparabile a quella della ecocardiografia trans esofagea 27, non fornisce però informazione diretta sulla struttura cardiaca. Il decorso dell’ictus embolico cardiogenico è peggiore di quello di altri sottotipi di ictus 28. Studi clinici non hanno dimostrato alcun beneficio della terapia anticoagulante acuta endovenosa, complicata invece da maggiori emorragie intracraniche sintomatiche rispetto alla terapia antiaggregante piastinica, ora raccomandata 29. La scelta di un agente antitrombotico dipende dal bilancio tra rischio trombo-embolico e rischio emorragico sia nei trattamenti acuti che in quelli cronici. L’incidenza di trasformazione emorragica nell’ictus embolico cardiogenico, che può variare da formazione di petecchie ad ematoma nel contesto dell’infarto cerebrale, raggiunge in media il 42% 5. Il picco d’inizio è tra 2 e 4 giorni, per cui nella fibrillazione atriale, l’anticoagulazione dovrebbe essere iniziata 4 giorni dopo l’ictus 30. Rispetto al trattamento antiaggregante, l’anticoagulazione di lunga durata raddoppia il rischio di emorragia intracranica (da 0.3% a 0.6% per anno) 31. Il rischio emorragico acuto si correla con l’estensione dell’infarto 5, ma l’entità dei rischi acuti e cronici sono anche 6 determinati da età, dell’anticoagulazione 31. pressione arteriosa, intensità e stabilità Bibliografia 1. Albers GW, Amarenco P, Easton JD, Sacco RL, Teal P. Antithrombotic and thrombolytic therapy for ischemic stroke Chest 2004;126:483S-512S. 2. Kistler JP. Cerebral embolism Compr Ther 1996;22:515-530. 3. Sacco RL, Ellenberg JH, Mohr JP, et al. Infarcts of undetermined cause: the NINCDS Stroke Data Bank Ann Neurol 1989;25:382-390. 4. Marder VJ, Chute DJ, Starkman S, et al. 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E-mail: [email protected] LLA AN NIIC NU UO C)) OV VA A IIN NF FO OR RM MA AZZIIO ON NE EC CA AR RD DIIO OLLO OG GIIC CA A ((N è inviata gratuitamente secondo una mailing list predisposta; si può essere cancellati o essere iscritti per riceverla, inviando la richiesta a: [email protected] L’ARCHIVIO DEI NUMERI PRECEDENTI SI TROVA NEL SITO: http://www.foliacardiologica.it Direttore Responsabile: Prof. Paolo Rossi - [email protected] Direttore Scientifico: Dott. Eraldo Occhetta – [email protected] Segretario Scientifico: Dott. Gabriele Dell’Era - [email protected] 8 D Diissssiinnccrroonniiaa iinnttrraavveennttrriiccoollaarree vvaalluuttaattaa m meeddiiaannttee rriissoonnaannzzaa m maaggnneettiiccaa ccaarrddiiaaccaa ccoom moorrbbiilliittàà ee m mee ffaattttoorree pprreeddiittttiivvoo ddii m moorrttaalliittàà ddooppoo iim mppiiaannttoo ddii rreessiinnccrroonniizzzzaattoorree ccaarrddiiaaccoo. Chalil S, Stegemann B, Muhyaldeen S, et al. Intraventricular dyssynchrony predicts mortality and morbidity after cardiac resynchronization therapy. A study using cardiovascular magnetic resonance tissue synchronization imaging. J Am Coll Cardiol 2007; 50: 243-252. Introduzione La terapia di resincronizzazione miocardica mediante stimolazione biventricolare, si è affermata, nell’ultimo decennio, come una valida ed efficace alternativa terapeutica nei pazienti con scompenso cardiaco refrattario e dissincronia ventricolare (1-4). E’ noto, tuttavia, che circa il 20-30 % dei pazienti non rispondono positivamente all’impianto sottolineando la necessità di ottimizzare la selezione dei pazienti candidati a tale procedura (5). La dissincronia miocardica è, nella stragrande maggioranza dei casi, valutata mediante tecnica ecocardiografica che però è in grado di esplorare solamente parte del ventricolo sinistro; la risonanza magnetica cardiaca, al contrario, permette una valutazione globale di tutto il cuore. In questo studio (6) , gli Autori hanno valutato un nuovo indice di dissincronia miocardica:l’indice di sincronizzazione tissutale (CMR-TSI) ottenuto proprio mediante risonanza magnetica. Metodi e risultati Questo studio prevedeva due fasi: nella prima, il CMR-TSI è stato correlato alla durata del QRS in 66 pazienti consecutivi (età media 60.8 ± 10.8 anni) affetti da scompenso cardiaco in classe funzionale NYHA III o IV e frazione di eiezione del ventricolo sinistro < 35%; 53 pazienti erano affetti da cardiomiopatia postischemica e 13 da cardiomiopatia dilatativa idiopatica. Questi soggetti sono stati comparati con 20 individui sani di controllo. Nella seconda fase, lo stesso indice è stato correlato alla capacità funzionale, alla qualità di vita, al rimodellamento ventricolare sinistro, al tasso di ospedalizzazioni ed alla mortalità in 77 pazienti (42 dei quali erano già stati inclusi nella prima analisi) con insufficienza cardiaca e durata del QRS ≥ 120 msec, sottoposti ad impianto di PM biventricolare. Il CMR-TSI è stato ottenuto mediante impiego di scanner 1.5 T durante una fase di respiro trattenuto per 8 secondi, con acquisizione in asse corto di immagini di 8 mm di spessore dall’anello atrioventricolare all’apice. Il movimento parietale radiale è stato valutato semiautomaticamente suddividendo il ventricolo sinistro in 6 segmenti per costruire mappe polari di sincronizzazione tissutale e per ottenere una misura globale di dissincronia corrispondente proprio all’indice di sincronizzazione tissutale. (Fig.1). Nella sottoanalisi 1 i pazienti con insufficienza cardiaca presentavano una frazione di eiezione media del ventricolo sinistro di 23.9 ± 12.1 % e una durata 9 Figura 1 Fig. 1: Movimento parietale miocardico in un soggetto sano di controllo ed in un paziente con insufficienza cardiaca. (A) Suddivisione del ventricolo sinistro in fette e segmenti. (B) La giunzione tra il setto interventricolare e la parete libera del ventricolo destro (RV) delimita l’inizio del segmento 1 e la fine del segmento 6 del ventricolo sinistro (LV). (C e D) Rappresentazione grafica del movimento di parete dei 6 segmenti del ventricolo sinistro durante un ciclo cardiaco in una porzione basale del ventricolo sinistro in un soggetto di controllo (C) ed in un paziente con scompenso cardiaco e blocco di branca sinistro (D) . media del QRS di 147.8 ± 25.0 msec. Il CMR-TSI è risultato più elevato nei pazienti con scompenso cardiaco e durata del QRS < 120 msec (79.5 ± 31.2 msec; p = 0.0003), nei pazienti con scompenso cardiaco e durata del QRS compresa tra 120-149 msec (98.5 ± 36.2; p < 0.0001) e nei pazienti con insufficienza cardiaca e durata del QRS ≥ 150 msec (112.1 ± 68.7 msec; p < 0.0001) rispetto ai 20 soggetti di controllo (21.2 ± 8.1 msec). Nella sottoanalisi 2, è emerso come i pazienti che presentavano un CMR-TSI ≥ 110 msec avevano una durata del QRS mediamente superiore (157.0 ± 28.0 msec), maggiori volumi telediastolici e telesistolici (282.6 ± 102.9 e 236.8 ± 97.6) e minore FE (17.2 ± 5.9 %) rispetto ai pazienti con CMR-TSI < 110 msec 10 (rispettivamente 145.1 ± 21.4 msec; p = 0.0372, 203.8 ± 69.4; p = 0.0002, 158.0 ± 72.1; p = 0.0002, 26.6 ± 13 %; p = 0.0004). Durante un follow-up medio di 764 giorni (range da 85 a 1602 gg), i pazienti con CMR-TSI ≥ 110 msec avevano una probabilità di 5.2 volte superiore di morte per tutte le cause o di essere ospedalizzati per un evento cardiovascolare maggiore (HR 2.45; 95% IC 1.51-4.34; p = 0.0002), di 11 volte superiore di morte per tutte le cause o di essere ospedalizzati per scompenso cardiaco (HR 2.15; 95% IC 1.23-4.14; p = 0.006) e di 19 volte superiore di morte per causa cardiovascolare (HR 3.82; 95% IC 1.63-16.5; p = 0.0007) rispetto ai pazienti con CMR-TSI < 110 msec. Inoltre, durante un follow-up medio di 557 giorni (range da 59 a 1144 gg), un significativo miglioramento della classe funzionale NYHA e della distanza percorsa durante test del cammino di 6 min sono stati osservati in tutti i pazienti, indipendentemente dal valore di CMR-TSI dopo impianto di resincronizzatore cardiaco; al contrario, un aumento significativo della frazione di eiezione dopo stimolazione biventricolare è stato osservato solo nei pazienti con CMR-TSI < 110 msec (da 26.5 ± 12 a 31.8 ± 12.1; p < 0.01) ma non nei pazienti con CMR-TSI ≥ 110 msec ( da 24.1 ± 10.3 a 24.4 ± 0.09) (tab. I). Tabella I CMR-TSI <110 ms (n = 43) CMR-TSI 110 ms (n = 34) Baseline Follow-Up Baseline Follow-Up NYHA functional class, n (%) I 0 II 0 III 29 (67) IV 14 (33) 6-min walk test, m 273.6 ± 106.2 Quality-of-life score 61.7 ± 18.1 Echocardiography LVESV, cm3 150.7 ± 60.3 12 (28)* 21 (49)* 8 (19)* 2 (5)* 355.1 ± 122.2* 28.2 ± 25.8* 0 0 28 (82) 6 (18) 254.2 ± 99.8 47.1 ± 18.3 6 (18)* 19 (56)* 9 (26)* 0* 326.1 ± 97.8 136.1 ± 58.1 LVEDV, cm3 190.8 ± 60.5 170.0 ± 163.1 ± 49.2 58.8 221.8 ± 209.7 ± 53.4 57.9 24.1 ± 10.3 24.4 ± 0.09 197.3 ± 62.0 29.0 ± 21.0 LVEF, % 26.5 ± 12.0 31.8 ± 12.1 p < 0.0001 * p < 0.001 p < 0.01. p values refer to differences from baseline values within the group. NYHA = New York Heart Association Tab. I: Variabili cliniche ed ecocardiografiche durante il follow-up nei pazienti sottoposti a stimolazione biventricolare divise a seconda del grado di dissincronia in condizioni basali. 11 Identificando un cut-off di 110 msec, questo indice di sincronizzazione tissutale è risultato un fattore predittivo di morte cardiovascolare con una sensibilità del 93% ed una specificità del 67% (p < 0. 0001). Gli Autori concludono pertanto sottolineando l’importanza del CMR-TSI come potente fattore predittivo indipendente di morbilità e mortalità dopo terapia di resincronizzazione cardiaca. Commento I risultati di questo studio sono indubbiamente interessanti e sembrano aprire nuove prospettive per una più corretta identificazione e selezione dei pazienti da sottoporre a resincronizzazione cardiaca. Fino a questo momento, la scelta dei candidati all’ impianto di device biventricolare è stata subordinata alla conferma di una reale desincronizzazione ventricolare valutata attraverso l’ecocardiografia che, mediante una serie di molteplici quanto complicati indici di dissincronia pare essere in grado di predire se un determinato paziente si gioverà di una stimolazione biventricolare. In realtà, come già detto sopra, l’ecocardiografia è una metodica che non è in grado di valutare globalmente tutto il ventricolo sinistro e che comunque non è in grado di predire con una accuratezza del 100% i pazienti che trarranno reali benefici dall’impianto. Peraltro, come ben sottolineato dagli stessi Autori, anche la valutazione dell’indice di sincronizzazione tissutale ottenuto mediante risonanza magnetica, pur con una bassa variabilità inter- ed intraosservatore (riportata < 9%), non è una metodica scevra da errori. E’ noto, come una ridotta contrattilità del ventricolo sinistro si associ ad una minor variazione del movimento parietale durante il ciclo cardiaco; di conseguenza, il CMR-TSI può essere indice di discinesia o di “rumore” piuttosto che di reale dissincronia. E’ altresì indiscutibile che la risonanza magnetica non è certo una metodica alla portata di tutti i centri e diffusa quanto l’ecocardiografia. Inoltre, il suo utilizzo, nonostante quanto riportato da studi recenti (7,8) , è allo stato attuale ancora precluso ai pazienti portatori di PM o defibrillatore. Questo ne limita fortemente l’utilità nel follow-up o nella valutazione dell’eventuale upgrading da sistemi di stimolazione cardiaca convenzionale a sistemi biventricolari nei soggetti con scompenso cardiaco refrattario. Nonostante questi limiti, i risultati di questo studio sono decisamente importanti. Innanzitutto, sembra emergere come tutti i pazienti affetti da scompenso cardiaco presentino una certa quota di dissincronia ventricolare, indipendentemente dalla durata del QRS all’ECG di superficie, questo dato che era già emerso da uno studio di Yu e Coll. (9) potrebbe modificare l’atteggiamento terapeutico anche in quei soggetti senza indicazione classica all’impianto di uno stimolatore biventricolare. Il dato più saliente che però emerge da questo lavoro è che nei pazienti con scompenso cardiaco avanzato, l’indice CMR-TSI è risultato altamente predittivo di aumentata mortalità (globale o per cause cardiovascolari) e di ospedalizzazioni per scompenso cardiaco o per eventi cardiovascolari maggiori e che i pazienti che presentano un ventricolo sinistro più dilatato, più compromesso e dissincrono sono quelli che peggio rispondono alla resincronizzazione. Questi risultati dovrebbero indurci ad una attenta 12 riflessione prima di sottoporre un paziente in classe funzionale NYHA IV all’impianto di un dispositivo biventricolare. Conclusioni Numerosi trials clinici hanno dimostrato l’importante ruolo della stimolazione biventricolare nei pazienti con scompenso cardiaco refrattario e dissincronia inter- ed intraventricolare. E’ esperienza comune, tuttavia, che alcuni pazienti, pur presentando indicazioni classiche non rispondono ad una terapia di resincronizzazione elettrica. Questo studio, seppure limitato dall’esiguità della casistica presa in esame, sembra documentare come una valutazione preliminare dell’indice di sincronizzazione tissutale mediante risonanza magnetica, possa meglio identificare i pazienti che trarranno reali benefici dall’impianto ed i pazienti non-responders. Sono ovviamente necessari ulteriori studi , condotti su popolazioni più ampie per confermare definitivamente la validità di questo nuovo e promettente parametro. Bibliografia 1) 2) 3) 4) 5) 6) 7) 8) 9) Abraham WT, Fisher WG, Smith AL, et al. for the MIRACLE Study Group: Multicenter InSync Randomized Clinical Evaluation. Cardiac resynchronization in chronic heart failure. N Engl J Med 2002; 346: 1845-1853. Linde C, Leclercq C, Rex S, et al. Long-term benefits of biventricular pacing in congestive heart failure: results from the Multisite Stimulation in Cardiomiopathy (MUSTIC) study. J Am Coll Cardiol 2002; 40: 111-118. Bristow MR, Saxon LA, Boehmer J, et al. Comparison of Medical therapy, Pacing, and Defibrillation in Heart failure (COMPANION) Investigators. Cardiac resynchronization therapy with or without an Impantable Defibrillator in advanced chronic heart failure. N Eng J Med 2004; 350: 2140-2150. Cleland JGF, Daubert JC, Erdmann E, et al, for the Cardiac Resynchronization-Heart Failure (CARE-HF) Study Investigators. The effect of cardiac resynchronization on morbidity and mortality in heart failure. N Engl J Med 2005; 352: 1539-1549. 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High prevalence of left ventricular systolic and diastolic asynchrony in patients with congestive heart failure and normal QRS duration. Heart 2003; 89: 54-60. Miriam Bortnik Divisione Clinicizzata di Cardiologia 13 Azienda ospedaliera Maggiore della Carità-Novara Fax 0321 3733407 e-mail: [email protected] IIm mppaattttoo ddeellllaa rreeaattttiivviittaa’’ ppiiaassttrriinniiccaa ssuuggllii oouuttccoom meess ccaarrddiioovvaassccoollaarrii nneeii ppaazziieennttii ccoonn ddiiaabbeettee ddii ttiippoo 22 ee m maallaattttiiaa ccoorroonnaarriiccaa.. Impact of platelet reactivity on cardiovascular outcomes in patients with type 2 diabetes mellitus and coronary artery disease. Angiolillo DJ, Bernardo E, Sabate’ M, et al. J Am Coll Cardiol, 2007; 50:1541-1547 Scopo dello studio Lo studio è stato disegnato in modo da determinare l’impatto prognostico di un’elevata reattività piastrinica sull’incidenza di eventi cardiovascolari maggiori in un lungo periodo di follow up in pazienti con diabete mellito di tipo 2 , affetti da malattia coronarica. Metodi Furono inseriti nello studio pazienti con diabete mellito di tipo 2(T2DM) e malattia coronarica (CAD) in trattamento cronico con una doppia antiaggregazione con clopidogrel 75 mg/die per 12 mesi ed aspirina 100 mg/die indefinitamente. La terapia doveva essere iniziata da almeno 6-9 mesi. Al momento dell’ingresso nello studio fu valutata la funzione piastrinica e quindi i pazienti furono suddivisi in 4 gruppi secondo il quartile di distribuzione in funzione dell’aggregabilità massima (Aggmax) dopo infusione di 20 μmol/l di adenosina difosfato (ADP). Il quartile superiore di Aggmax indotta dall’ADP determinava i soggetti ad elevata aggregabilità piastrinica (HPR). Criteri di esclusione furono la comparsa di un evento cardiovascolare acuto od il ricorso ad una procedura interventistica percutanea . I prelievi di sangue, per studiare la funzione piastrinica, furono prelevati da 2 a 4 ore dopo l’assunzione della terapia antiaggregante. L‘aggregazione piastrinica fu valutata utilizzando un aggregometro a trasmissione di luce, dopo uno stimolo con 20 μmol/l di ADP su un campione di plasma arricchito di piastrine. L’aggregazione fu misurata al picco (Aggmax) ed a 5 min (Agglate). La percentuale di disaggregabilità piastrinica (D) tra Aggmax e Agglate fu definita da: D(%)= 100 x (1- Agglate/Aggmax). Furono utilizzati altri stimoli per valutare l’aggregabilita’ piastrinica quali il collagene (6 μg/ml), l’epinifrina (20 μmol/l) ed il peptide agonista del recettore per la 14 trombina (25 μmol/l). L’attivazione piastrinica fu valutata attraverso la valutazione dell’espressione sulla superficie delle piastrine delle glicoproteine attivate GP IIb/IIIa e della P-selectina. Gli eventi cardiovascolari maggiori (MACE) furono definiti in accordo con quanto proposto dall’American College of Cardiology e comprendevano: la morte secondaria ad una causa cardiovascolare, l’infarto del miocardio con elevazione del tratto ST (STEMI), la sindrome coronarica acuta senza elevazione del tratto ST (NSTEMI), l’angina instabile (UA) e lo stroke. Il follow up fu condotto per via telefonica ogni 6 mesi ed i pazienti furono sottoposti ad una visita medica ogni anno. Le variabili continue furono analizzate con il test di Kolmogorov-Smirnov. I confronti fra le variabili furono studiati con il test del chi-quadro. Le curve di sopravvivenza furono costruite secondo il metodo di Kaplan-Meier. La sopravvivenza libera da eventi fra i diversi gruppi fu confrontata utilizzando il test log-rank. Le correlate indipendenti degli end-point cardiovascolari furono valutate con l’analisi di regressione del rischio proporzionale di Cox. La ROC analisi fu utilizzata per la valutazione sperimentale del punto di cutoff di Aggmax dopo stimolo con ADP quale fattore predittivo dei MACE. Risultati Furono arruolati 173 pazienti consecutivi dal gennaio 2003 al febbraio 2005. La Aggmax dopo stimolo con ADP fu 52.0± 14% e fu estremamente variabile nei singoli pazienti distribuendosi secondo una curva a distribuzione gaussiana. La reattivita’ piastrinica al 25th, 50th e 75th percentile fu 44.0%, 52.0% e 62.0% rispettivamente. Il quartile maggiore fu definito quale HPR. La Aggmax fu 34.2±8%, 47.6±3%, 56.8±3% e 68.6±6%, dal quartile inferiore a quello superiore,rispettivamente (p ‹0.0001). Il maggior numero di eventi MACE fu rappresentato da UA/NSTEMI, che si manifestarono nel 9.8%, 10.9%, 12.2%, e 33.3% dei pazienti dal quartile minore al maggiore, rispettivamente (p=0.007). Non si manifestarono invece differenze significative per gli altri eventi cardiovascolari maggiori considerati separatamente. Sei pazienti presentarono piu’ di un evento ischemico. Quattro di questi pazienti presentavano HPR; 1 paziente con 3 eventi aveva una HPR. La sopravvivenza libera da eventi Cardiovascolari maggiore fu significativamente piu’minore nei pazienti con HPR se confrontata con gli altri gruppi (p=0.002). Pazienti con MACE avevano un valore maggiore di Aggmax (56.8 ± 13.8% vs 50.9± 13.6%, p=0.03) rispetto a quelli che non presentarono eventi nel follow-up. L’ analisi multivariata di regressione Cox dimostro’ che la HPR (HR 3.35, 95% CI 1.68 to 6.66, p=0.001), l’insufficienza renale (HR 2.98, 95% CI 1.44 to 6.17, p=0.005) e la classe funzionale III e IV NYHA (HR 2.87, 95% CI 1.38 to 5.98, p=0.005) sono fattori predittivi indipendenti di MACE. La ROC analisi dimostro’ che un valore di cutoff del 62% di Aggmax fu il miglior predittore di MACE nella popolazione dello studio. I MACE furono significativamente maggiori nei pazienti con HPR rispetto a coloro che presentavano un valore inferiore al cutoff del 62% con sensibilita’ del 37% e specificita’ del 84%. Il valore predittivo positivo e negativo del 62% di Aggmax fu rispettivamente del 41% e del 86%. L’incidenza di MACE fu maggiore nella popolazione con HPR sia prima 15 (13.3% vs 3.9%,p=0.03) che dopo (24.4% vs 9.4%, p=0.01) la sospensione del clopidogrel. I pazienti con HPR dimostrarono un’alterata funzione in tutti i parametri valutati. I pazienti con HPR presentavano anche un’aumentata Agglate (24.7 ± 11.3%, 36.8± 11.4%, 48.2± 7.0%, 65.1± 8.4% dal primo al quarto quartile, rispettivamente (p 0.0001) ed una diminuita disaggregazione piastrinica (30.5± 26.2%, 22.9 ± 23.3%, 15.4± 10.3%, 5.4± 7.0% dal primo al quarto quartile rispettivamente (p‹0.0001).L’aggregazione piastrinica, valutata con agonisti non-specifici dei recettori purinergici (collagene, epinefrina, e peptide agonista dei recettori della trombina) ed i markers di attivazione piastrinica (espressione di P-selectina ed attivazione dei recettori GP IIb/IIIa) erano aumentati nei pazienti con HPR. Tutti i parametri di funzione piastrinica furono significativamente maggiori nei pazienti con reattività superiore al cutoff ROC-determinato (p ‹ 0.0001 per tutti i dosaggi). Discussione Lo studio dimostra l’impatto prognostico nel lungo termine dell’aumentata reattività piastrinica (HPR), in risposta all’ADP, nei pazienti con diabete di tipo 2 e CAD. In particolare i pazienti con HPR, determinata nella fase di steady state della doppia antiaggregazione, presentano un rischio cardiovascolare a 2 anni 3 volte superiore se confrontato con i pazienti senza HPR. Inoltre nei pazienti con HPR sono up-regulated molte vie di attivazione delle piastrine, indicando pertanto uno stato di iper-reattività globale. La variabilità della risposta individuale alla doppia antiaggregazione e’ un’entità’ clinica emergente (1,2). Recentemente alcuni studi hanno valutato le implicazioni prognostiche di un’adeguata inibizione dell’aggregabilita’ piastrinica in pazienti sottoposti ad interventi di rivascolarizzazione percutanea e/o nella fase iniziale della doppia antiaggregazione, momento ove esiste un’elevata proporzione di soggetti che presentano un’inadeguata inibizione (3,4). Inoltre gli studi sulla funzione piastrinica condotti in questa fase della terapia anti-aggregante comprendono anche pazienti con sindrome coronarica acuta che presentano spesso un’elevata reattività piastrinica, confermata da livelli elevati di fattore di von Willebrand (5). Lo studio di Angiolillo et al. dimostra per la prima volta l’impatto sfavorevole nel lungo termine della HPR, misurata durante lo steady state di una terapia cronica con antiaggreganti, senza i fattori confondenti legati da un lato alle complicanze delle procedure percutanee e dall’altro all’aumentata reattività piastrinica frequente durante gli eventi ischemici acuti. L’analisi funzionale è in grado di identificare un subset di pazienti con marcata reattivita’ piastrinica caratterizzata da una up-regulation di molte vie di attivazione piastrinica compresi i recettori purinergici. Questa caratteristica puo’ spiegare perche’ molti pazienti con T2DM presentano un’elevata reattività piastrinica anche dopo elevate dosi di mantenimento di clopidogrel (6). Questa osservazione fornisce un elemento di riflessione sugli effetti della sospensione del clopidogrel nei pazienti con HPR, potendo cosi’ aumentare il loro rischio cardiovascolare. Pertanto questi soggetti ad alto rischio potrebbero avere un beneficio o da una doppia antiaggregazione piu’ prolungata o utilizzando farmaci piu’ potenti, o in grado di inibire differenti target quali ad esempio i recettori attivati dalle proteasi piastriniche. I pazienti con T2DM sono ad alto 16 rischio di sviluppare eventi cardiovascolari (7) e sono caratterizzati, in generale, da un’aumentata reattività piastrinica se confrontati con i soggetti non diabetici. I pazienti con T2DM con HPR rappresentano un sottogruppo di pazienti ancora a più alto rischio, suggerendo l’utilità’ di uno stretto monitoraggio clinico degli stessi. Potrebbe pertanto essere utile studiare e valutare in questi casi una terapia antiaggregante personalizzata, adattata alle caratteristiche del singolo paziente, in analogia con quanto gia’ si effettua con la terapia ipolipemizzante o ipoglicemizzante. Una delle maggiori difficolta’ in questo senso e’ la mancanza di un metodo standardizzato per valutare la funzione piastrinica cosi’ come l’identificazione di un valore di cut-off ottimale (1,2). L’ aggregometro a trasmissione di luce e’ considerato il gold standard per valutare la funzione piastrinica (1) ed e’ la metodica utilizzata per definire il grado di reattivita’ piastrinica in questo studio. I pazienti nei terzi quartili piu’ bassi presentano simili outcomes, mentre MACE sono marcatamente aumentati nel quartile maggiore (e.g. HPR). Gli autori dimostrano che circa il 90% dei pazienti con eventi presentano una Aggmax › 40%, mentre solo circa il 10% dei pazienti senza eventi ha una Aggmax › 62%. La ROC analisi dimostra che una Aggmax del 62% e’ il migliore predittore di eventi ischemici nella popolazione con T2DM. Questo valore presenta un buon valore predittivo negativo, supportando il concetto che i pazienti con T2DM con reattivita’ piastrinica inferiore a questa soglia sono a basso rischio, con un’incidenza di MACE del 13.3% in un periodo di 2 anni. Commento Il lavoro di Angiolillo DJ et al. e’ di particolare interesse in quanto individua un sottogruppo di pazienti con T2DM con HPR che presentano una prognosi particolarmente sfavorevole nel lungo periodo per l’elevato rischio di sviluppare MACE nonostante una corretta doppia antiaggregazione. Questo riscontro riveste chiaramente una notevole importanza clinica in quanto individua nell’ambito della popolazione diabetica i soggetti che devono essere valutati con particolare attenzione e rigore. Due considerazioni paiono fondamentali. La prima e’ che i pazienti con HPR devono essere sicuramente sottoposti ad un’attenta correzione dei fattori di rischio tradizionali quali il controllo della glicemia, dell’ipertensione e dei lipidi. Il trattamento farmacologico dovra’ essere particolarmente aggressivo al fine di raggiungere target terapeutici ambiziosi e difficili quali ad esempio valori di C-LDL inferiori a 70 mg/dl, facendo ricorso spesso all’interazione di piu’ farmaci. La seconda riflessione riguarda il trattamento antiaggregante. Dallo studio infatti emerge che nonostante una doppia antiaggregazione con clopidogrel ed aspirina alcuni pazienti diabetici presentano ancora una HPR. E’ noto che in generale i pazienti diabetici rispetto ai non diabetici presentano un’aumentata reattivita’ piastrinica. Infatti le piastrine dei diabetici di tipo I e di tipo II (8-11) sono ipersensibili agli agenti aggreganti quali l’ADP, il collagene, l’acido arachidonico e la trombina. Non e‘ chiaramente dimostrata una correlazione fra il compenso metabolico e l’aumentata aggregabilita’ piastrinica. Esistono dati, inoltre, di una maggiore liberazione del contenuto di alfa-granuli dalle piastrine quali il fattore 4 e la beta-tromboglobulina (11) cosi’ come un 17 aumento dell’attivita’ della via dell’acido arachidonico con un’aumentata formazione di trombossano A2 in risposta alla trombina (11). Quando le piastrine sono stimolate da agenti agonisti viene espresso sulla superficie piastrinica il complesso della glicoproteina IIb/IIIa, che rappresenta il recettore per il fibrinogeno. E’ stato dimostrato che le piastrine di pazienti diabetici non stimolate presentano comunque un numero aumentato di molecole di glicoproteina IIb/IIIa, attribuibile al maggior volume di queste piastrine (11). L’iperesensibilita’ delle piastrine alla trombina e’ confermata anche da una aumentata idrolisi del fosfoinositide, da una maggiore mobilizzazione del Ca intracellulare e da una maggiore fosforilazione chinasidipendente delle catene leggere della miosina (12). E’ stato proposto che la glicosilazione delle proteine di membrana abbia un ruolo nell’ipersensibilita’ delle piastrine che si osserva nei diabetici, sebbene altri studi non abbiano confermao questo dato (11). Questi elementi spingono pertanto a considerare come nei diabetici si debba cercare di adeguare la terapia anti-aggregante alle caratteristiche cliniche del singolo soggetto. D’altro canto questa e’ una prassi comune per quanto riguarda la terapia antiipertensiva o ipolipemizzante. La HPR puo’ almeno in parte spiegare anche la cosiddetta resistenza agli antipiastrinici che e’ argomento spesso dibattuto in letteratura. Ritengo che questo termine sia spesso abusato e vada ricondotto a due situazioni fondamentali: • • La resistenza clinica intesa come recidiva di eventi cardiocerebrovascolari nonostante la somministrazione regolare di una dose terapeutica considerata efficace La resistenza biochimica o persistente attivazione piastrinica nonostante la somministrazione di una dose terapeutica dei farmaci La HPR di alcuni pazienti con T2DM puo’ spiegare entrambe queste condizioni e pertanto ritengo che sia opportuno parlare non tanto di resistenza agli antipiastrinici ma di variabilita’ nella risposta agli antitrombotici. Anche la necessita’, in alcuni casi di utilizzare la doppia antiaggregazione con aspirina e clopidogrel, parte proprio da questa considerazione. Infatti in alcune situazioni cliniche, quali ad esempio nelle procedure percutanee con posizionamento di stent coronarici, e’ stata dimostrata una marcata attivazione piastrinica suggerendo il razionale di un trattamento antiaggregante piu’ aggressivo con l’associazione di farmaci con diverso meccanismo d’azione. D’altro canto e’ noto che l’attivazione piastrinica avviene attraverso molteplici vie quali l’ADP, i recettori GP IIb/IIIa, il collagene, la trombina ed il trombossano. Un solo antiaggregante, ma anche l’associazione di due antiaggreganti va ad interessare solo una parte delle vie di attivazione piastrinica. E’ comunque dimostrato che la terapia con aspirina piu’ clopidogrel e’ piu’ efficace rispetto alla sola aspirina nel ridurre l’infarto del miocardio non fatale nei pazienti con angina instabile (UA) e con NSTEMI (13), nei pazienti sottoposti a procedura interventistica coronarica percutanea (14), nei pazienti con elevato rischio di malattia vascolare aterosclerotica (15) e nell’infarto del miocardio con ST sopraslivellato (STEMI) (16,17). Questo vantaggio clinico si associa pero’ ad un aumentato rischio di complicanze emorragiche. 18 Altro problema che pone lo studio e’ la durata del trattamento antiaggregante con clopidogrel associato all’aspirina nei pazienti con T2DM, suggerendo la possibilita’ che in soggetti ad alto rischio quali sono i diabetici con HPR debba essere proseguita per un lungo periodo. Attualmente gli unici dati che abbiamo a disposizione sono quelli dello studio CHARISMA (15) che dimostrano che, nei pazienti con malattia cardiovascolare cronica e stabile, la valutazione del rapporto rischio/beneficio sconsiglia un trattamento prolungato. I dati dello studio di Angiolillo DJ et al sembrano pero’ indicare che debba essere fatto uno sforzo ulteriore in modo da identificare, nelle singole categorie di pazienti, quelli ad elevato rischio cardiovascolare valutato non solo attraverso i comuni fattori di rischio cardiovascolare ma anche attraverso lo studio della reattivita’ piastrinica. Se e’ presente HPR si determina un’aumentata trombogenicita’ del sangue, introducendo accanto al concetto di “placca vulnerabile” anche quello di “sangue vulnerabile” un fattore meno consolidato e meno considerato dalla letteratura medica ma che espone i pazienti ad un elevato rischio di eventi cardiovascolari acuti. Bibliografia 1. Angiolillo DJ, Fernandez-Ortiz A, Bernardo E, et al. 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Responsabile Nazionale Area Emostasi e Trombosi CENTRO STUDI FADOI [email protected] LL’’EErrrroorree M Meeddiiccoo Nella polis L’ottuagenaria aspettativa di vita, enfatizzata dai “media”, raccontata come una bella favola dalla pubblicità televisiva che ci somministra immagini ripetitive di longevi e sani centenari, non è più qualcosa di cui si deve ringraziare la natura, ma viene - assunta - da tutti come la normalità della propria esistenza. Malattie croniche e invalidanti, morti anticipate, percorsi di vita segnati dalla necessità delle cure, vengono vissuti come un diritto negato di una felicità promessa, e si procede subito alla ricerca del presunto errore medico. Oggi il medico e la medicina non curano più il paziente ma la malattia. E’ invece lo Stato che si prende cura del paziente. Il potere centrale fissa i livelli minimi ed essenziali di assistenza (L.A.R.), definisce gli obiettivi di intervento, determina dall’alto le scelte di tutti, di fatto impera “senza alcuna assunzione reale di responsabilità” che invece viene riversata sempre sui medici. Crolla il rapporto di fiducia con i pazienti: un camice bianco su tre è sotto inchiesta. Eppure i processi li vedono quasi sempre assolti. E il decreto Bersani incentiva i ricorsi. Lo «stato d’emergenza socio sanitaria della Regione Calabria», dichiarato nei giorni scorsi dal Consiglio dei ministri dopo la tragica morte di una sedicenne nell’ospedale di Vibo Valentia, è niente al confronto con quest’altra emergenza che ha colpito l’Italia dalle Alpi a Lampedusa. Un terzo dei medici italiani e l’80 per cento dei chirurghi hanno ricevuto almeno una richiesta di risarcimento o un avviso di garanzia per presunta malpractice 20 (o malasanità). La categoria ormai trascorre un terzo della propria vita lavorativa sotto processo. Due sanitari su tre vengono poi riconosciuti innocenti, o con un’assoluzione o con il rigetto dell’istanza per infondatezza. Ma intanto chi è stato accusato non ha nessun modo di rivalersi e subisce un vulnus morale e d’immagine incalcolabile. Se si considera che 12 milioni di persone, cioè poco meno di un quarto della popolazione italiana, vengono ricoverate ogni anno negli ospedali dove lavorano 650.000 operatori, andrebbe proclamato lo stato di calamità nazionale. Chi sta male non nutre alcuna fiducia, o ne nutre assai poca, in chi cura. Chi cura s’è stufato, non ci sta a essere additato al pubblico disprezzo come causa d’ogni guaio, ha paura di finire alla sbarra sui giornali e nelle aule di giustizia. Il risultato è grottesco: 4 errori su 10 sono causati dal mancato intervento del camice bianco titubante, come emerge dall’esame di 1.286 sentenze della Cassazione (emesse fra il 1995 e il 2006) condotto dall’Università di Bari. Dallo studio si rileva come la ritardata prestazione (5%) e l’errata prescrizione, trascrizione e somministrazione di un farmaco (1,5%) si attestino su percentuali decisamente più basse rispetto all’inadeguata (43,2%) od omessa prestazione (39,7%). Secondo Alessandro Dell’Erba, professore associato di medicina legale nell’ateneo pugliese, questa situazione è da ascriversi all’atteggiamento «difensivo» del medico, «che, per il timore di sbagliare, evita d’intervenire, commettendo in tal modo un errore». Il più grave. In un decennio il numero degli incidenti denunciati nella sanità è aumentato del 278%, passando dai 3.154 del 1994 agli 11.932 del 2004. Una spiegazione la si rintraccia fra le novità del decreto Bersani, che ha reso possibili a costi ridottissimi le valutazioni mediche e legali nei casi di sospetta malasanità, accordando il cosiddetto ‘patto in quota lite’. In sostanza il cliente che si ritenga vittima di malpractice non deve anticipare alcuna parcella ai professionisti da cui si fa assistere. Solo alla fine della causa o a seguito di un accordo stragiudiziale devolverà all’avvocato e ai periti una percentuale del risarcimento incassato. Questa appare essere una malevola sollecitazione legalitaria alla lite sconsiderata e alle rivendicazioni ingiuste. Non si contano le associazioni a favore delle vittime di errori medici che valutano gratuitamente con tanto di numero verde - l’opportunità di azioni legali. Una che va per la maggiore presenta la sanità come «il killer silenzioso» (sic). Poi vai a leggerti le storie di malasanità raccolte nel suo sito e scopri che sono appena 9 in due anni. Ma è giustificato l’allarmismo sulle negligenze ospedaliere? Molto, a leggere i quotidiani e a guardare i telegiornali. Poco, a scorrere il Protocollo sperimentale di monitoraggio degli «eventi sentinella» del ministero della Salute (chiamasi «evento sentinella» un episodio «di particolare gravità, potenzialmente evitabile, che può comportare morte o grave danno al paziente e che determina una perdita di fiducia dei cittadini nei confronti del servizio sanitario»). Nel periodo settembre 2005-febbraio 2007 le segnalazioni di «eventi sentinella» pervenute da un centinaio di strutture ospedaliere sono state 123. 1Tenuto conto dei circa 18 milioni di ricoveri registrati in quei 18 mesi, stiamo parlando di una percentuale di incidenti pari allo 0,00068; e il 68% degli «eventi sentinella » hanno portato al decesso. 21 Nella scienza. Nelle scienze sperimentali non è presente “un criterio di verità” o di certezza in base al quale si possa stabilire una volta per tutte l’accordo fra una teoria ed i fatti. Privata del requisito della certezza, la verità della scienza sarà sempre aperta alla possibilità di essere corretta. Anzi, proprio per questo la conoscenza non arriverà mai ad esaurirsi ed è teoricamente, senza limiti precostituiti. Nella scienza, si può parlare di “dottrina della fallibilità”, senza alcun intento pessimistico: infatti l’idea della fallibilità umana e dell’errore non possono essere disgiunte da quella della verità, una verità da cercare nella consapevolezza di sapere di non sapere, ma al tempo stesso di essere capaci di migliorare il livello attuale di conoscenza. Nell’ambito della medicina, quale scienza sperimentale, l’atteggiamento critico è quindi il primum movens per accrescere la conoscenza. Insigni clinici del passato hanno dedicato all’errore medico grande attenzione, 2 con l’intento preciso di utilizzare gli errori come fonte di conoscenza. Il bolognese Augusto Murri alla fine dell’Ottocento scriveva: “nella clinica bisogna avere un preconcetto, uno solo ma inalienabile, il preconcetto che tutto ciò che si afferma e che par vero, può essere falso: bisogna farsi una regola costante di criticar tutto e tutti prima di credere”.3 Da buon razionalista, teneva ben presente che “la pretesa di non errare mai è un’idea da matti”, ma nella consapevolezza della fallibilità della ragione, la considerava l’unica via per giungere al sapere scientifico in medicina. Con il suo aiuto infatti “ogni giorno si corregge un errore, ogni giorno si migliora una verità, ogni giorno si impara a saper meglio quello che possiamo fare di bene e quello che siamo condannati ancora a lasciar avvenire di male. Ogni giorno erriamo meno della vigilia e impariamo a sperare di far meglio la dimane. Errare, sì. È una parola che fa paura al pubblico. Errare a nostre spese? Errare a costo della nostra vita? La meraviglia pare giustissima, l’accusa pure grave! Eppure, o avventurarsi al pericolo d’un errore o rinunciare ai benefizi del sapere. Non c’è altra strada. L’uomo che non erra, non c’è”.4 Considerando questo contesto concettuale, i concetti di verità e certezza in medicina vengono sostituiti dal concetto di probabilità, quale misura del grado di affidabilità delle conclusioni a cui si è pervenuti. Una distinzione di particolare interesse epistemologico è quella compiuta da Ettore de Benedetti tra gli errori del medico e gli errori della medicina, “i primi sono ascrivibili all’incapacità del medico di giungere ad una diagnosi fattibile alla luce delle conoscenze, anche terapeutiche, che all’epoca si possedevano, mentre i secondi sono determinati esclusivamente dalle lacune o dalle insufficienze delle conoscenze mediche del momento”.5 Dal punto di vista della responsabilità, ciò che interessa non sono gli errori contenuti nelle teorie mediche vigenti, ma gli sbagli compiuti dai medici. Nella Guida all'Esercizio Professionale troviamo questa caratterizzazione dell'errore clinico: "L'errore clinico si verifica quando, essendo presenti, manifesti e non equivoci i sintomi fondamentali, un caso non sia correttamente inquadrato a causa di negligenza, imprudenza o imperizia dal medico nell'ambito di una delle malattie attualmente note alla scienza medica". Esistono due tipi di errore medico: l'errore cognitivo e l'errore operativo. L’errore cognitivo ha un confine tracciato dallo stato dell’arte della conoscenza medica, la cui imperfezione 22 strutturale è causa dell’errore della medicina, ed un limite inferiore legato all’ignoranza del medico in merito a quanto noto alla medicina del suo tempo. Gli errori possono essere classificati per responsabilità prevalente come: 1. Forme da ricondurre nella catena dell’errore al rapporto uomo/sistema. 2. Forme da ricondurre nella catena dell’errore al rapporto paziente/medico. Nel primo caso è l’organizzazione che gioca il ruolo prevalente nella genesi dell’errore, perché se pur commesso da una sola persona va riconosciuta l’importanza della concomitanza di altri fattori di tipo organizzativo. Si inquadrano in queste forme alcuni errori in ambienti connotati da: • disattenzione per la qualità del servizio • scarsa attenzione alla valutazione della sicurezza • scadente organizzazione • mancanza di chiare regole con norme conflittuali • interazioni tra gruppi non coordinate. Nel secondo caso si riconducono gli errori in ambienti caratterizzati da: ¾ forzature da stress ¾ elevata dinamica lavorativa ¾ condizioni di mutamenti frequenti di obiettivi ¾ coesistenza di differenti priorità ¾ presenza di competitività di più leader ¾ troppe e diverse fonti informative anche indirette o riferite ¾ uso di tecnologie complesse e avanzate.6 L'errore operativo è quasi sempre legato alla terapia. Quando deve prescrivere una terapia al proprio paziente un medico si trova spesso di fronte a diverse strade possibili. In questa situazione appare ovvio che scelga, fra le diverse decisioni, quella che avrà il miglior esito o almeno l'esito meno negativo per il proprio malato. Il medico si trova quindi sempre di fronte ad un certo numero di esiti possibili, ognuno dei quali è caratterizzato da una certa probabilità di verificarsi. Il curante non può quindi limitarsi a considerare la bontà delle conseguenze dei suoi atti, ma deve contemporaneamente valutare la probabilità che questi hanno di verificarsi. Ancora una volta l'operare del medico si trova davanti al problema della probabilità. In ogni sua decisione si tratti della scelta di un'indagine rischiosa, o di rassicurare un malato e di dimetterlo dall'Ospedale o di iniziare una terapia- il medico deve sempre calcolare una probabilità. La probabilità domina da cima a fondo tutta la Medicina. Ma parlando di probabilità, si parla anche di probabilità dell'errore. Quando si afferma che esiste una certa probabilità di cogliere nel segno - cioè di fare un'affermazione "vera" o di prendere una decisione "corretta"- si afferma contemporaneamente che esiste un'altra probabilità, che è l'inverso della prima, di non cogliere nel segno, cioè di fare un'affermazione non vera o di prendere una decisione non corretta.7 L’errore cognitivo è un evento in linea di principio ineliminabile dalla scienza medica e quindi statisticamente misurabile. Considerando l’ipotesi “il malato x è affetto da malattia y”, con le diverse fasi del procedimento diagnostico il medico può arrivare a confermare l’ipotesi “x ha la malattia y”, oppure a negare l’ipotesi “x non ha la malattia y”. Dal momento che il ragionamento si basa su probabilità e non su certezze, si può verificare che x erroneamente venga ritenuto affetto (falso positivo), oppure al contrario erroneamente ritenuto non affetto (falso negativo). 23 L’errore cognitivo di tipo alfa è l’errore causato dal rifiuto dell’ipotesi che in realtà è vera; è cioè un giudizio sbagliato il cui errore consiste nel negare l’ipotesi. L’errore cognitivo di tipo beta è l’errore causato dal mancato rifiuto dell’ipotesi che in realtà è falsa; è un giudizio sbagliato il cui errore consiste nel rimanere ancorati all’ipotesi. In bioetica Se in medicina, passiamo dall’aspetto conoscitivo, più squisitamente scientifico, a quello della prassi, la distinzione tra verità ed errore non è più semplicemente un giudizio di carattere gnoseologico, ma implica un giudizio di valore: questo ci introduce direttamente nell’ambito della morale. Gli errori cognitivi di tipo alfa e di tipo beta hanno un corrispettivo negli errori operativi, che sono errori di comportamento del medico con una forte valenza morale. Il medico che erroneamente nega l’ipotesi di una malattia che invece è presente sottostimando un certo indizio clinico incorre nell’errore operativo di omissione curativa, al contrario il medico che erroneamente ritiene che ci sia una malattia sovrastimando i segni ed sintomi del paziente incorre nell’errore operativo di esagerazione curativa. Dal punto di vista oggettivo sia l’assenza di cura dovuta che la cura esagerata sono un male morale. Dal punto di vista soggettivo dell’agente morale, sia l’errore di omissione che di accanimento terapeutico hanno una radice cognitiva che si inscrive tuttavia nella totalità della persona. L’atto del conoscere, applicato all’arte medica, assume quindi una valenza morale, anche in virtù della natura stessa della medicina.8 Cogliere l’uomo nella pienezza delle sue dimensioni, ci permette da una parte di rispettare la verità della sua natura, dall’altra di coglierne meglio la sua umanità, cioè quanto è a lui proprio, in ciò che compie. Agere sequitur ad esse in actu: l’uomo agisce in virtù di ciò che è. 9 Questo significa che, nell’analisi di un atto umano, non si può privilegiare una dimensione piuttosto che un’altra, per comprenderne fino in fondo il significato: bisogna sempre fare riferimento alla realtà umana nella sua interezza, alla completezza che lo caratterizza, alla molteplicità delle dimensioni che lo costituiscono. Il medico conosce, decide, ed opera non solo in virtù di ciò che sa o sa fare ma soprattutto in virtù di ciò che sa essere. Il medico “precauzionista” tenderà ad essere sempre eccessivamente conservativo per evitare di fare troppo, ad astenersi di fronte al minimo dubbio. È l’atteggiamento di chi interpreta in modo estremo l’ippocratico primum non nocere, messo in pratica mediante un processo ‘difensivo’ per cui rifiuta di percepire i falsi negativi. Il medico “scientista” all’opposto tenderà a fare troppo, ad operare sempre anche nel forte dubbio. È l’atteggiamento di chi nel profondo nutre una fiducia cieca nelle possibilità della medicina di cambiare il corso degli eventi, messo in pratica mediante un processo ‘aggressivo’ per cui rifiuta di percepire i falsi positivi. Sia l’errore del precauzionista che quello dello scientista non denotano un fatto meramente cognitivo, sono errori che affondano le radici nel modo di essere del medico, nelle sue qualità umane.10 È immediatamente evidente infatti che il medico precauzionista è un medico “non coraggioso”, pusillanime; al contrario il medico scientista è incosciente e temerario. Il medico che evita entrambi gli eccessi è colui che sa veramente essere medico virtuoso e 24 prudente. La virtù della prudenza consente al medico in ordine al bene del paziente come fine, di individuare i mezzi proporzionati nell’hic et nunc. La virtù della prudenza è la perspicacia clinica finalizzata al bene del paziente, che non si esprime come qualità solo occasionale e saltuaria, quanto piuttosto come abito, stile di comportamento per il medico. La prudenza richiede una ricca esperienza clinica, ma ancora di più richiede che il medico sia dotato di una solida formazione morale. Bibliografia 1. Lorenzetto S. Medici nel mirino sale la febbre da denuncia. Il Giornale 02/12/2007 2. POLI E. Metodologia medica, Principi di logica e pratica clinica (p. 139), ripreso da: BALDINI M. La logica della diagnosi clinica in FERRO FM (a cura di). Passioni della mente e della storia. Milano: Vita e Pensiero; 1989: 545-554, p. 546. 3. MURRI A. Lezioni di Clinica Medica, Anno Accademico MCMV-VI. Milano: Società Editrice Libraria; 1920: 21. 4. MURRI A. Il pensiero scientifico (p. 41), ripreso da: BALDINI M. La logica della diagnosi…, p. 549. P.45-46. 5. BALDINI M. Gli errori della medicina e gli sbagli dei medici. L’Arco di Giano 1994; 6: 92-100, p. 94. 6. Costa Angeli M. L’errore nella pratica medica ospedaliera e ambulatoriale. S.N.A.M.I. Ospedalieri. 7. Federspil G. Limiti della medicina, errore, probabilismo e linee guida. www.studiomedico.it . 8. K. Jaspers ritiene che la medicina abbia per sua natura una dimensione, o una valenza morale. Cfr. JASPERS K. Essenza e critica della psicoterapia in ID. Psicopatologia generale. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore; 1952. 9. TOMMASO D’AQUINO. Summa Contra Gentiles. lib. 3, cap. 69, n. 20. 10.Vincenza Mele V, Mangione MA. Per una lettura antropologica dell’errore medico. Medicina e Morale 2007;6: 1247-1257 Prof. Paolo Rossi, primario cardiologo, Novara. e-mai: [email protected] 25