Anno XLI - n. 5 - luglio 2011 ISSN.: 0391-6154 In caso di mancato recapito, rinviare all’Ufficio Postale di Vicenza per la restituzione al mittente che si impegna a corrispondere la tassa di spedizione. Direzione: Via delle Grazie, 12 - 36100 Vicenza - tel. 0444 324394 - e-mail: [email protected] - Direttore responsabile: Giuseppe Dal Ferro Mensile registrato al Tribunale di Vicenza n. 253 in data 27-11-1969 - Reg. 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In questo caso la memoria è vissuta come qualcosa di intrinsecamente positivo. Dall’altro lato un ruolo centrale nell’esperienza dell’anziano lo ha anche la sensazione di “avere problemi di memoria”, tanto più angosciosa quanto più è legata alla paura di perdere una parte così importante della propria identità. Nella prima accezione si parla di memoria come di patrimonio di ricordi accumulati dall’individuo negli anni della sua vita (memoria autobiografica). Nella seconda accezione invece ci si riferisce al funzionamento della memoria, intesa come processo cognitivo che comprende l’operazione di codificare e immagazzinare l’informazione in una fase di apprendimento e di rievocarla in una fase di recupero. Queste due accezione di “memoria” non vanno confuse. Allo scopo di separare il loro ambito e di sottolineare solo dopo le possibili interconnessioni, questo lavoro è diviso in alcune parti che si tratteranno brevemente: il ruolo che ha la memoria autobiografica nell’identità dell’anziano; impressioni soggettive che hanno gli anziani sulla propria memoria; qualche cenno sul funzionamento della memoria umana. Non c’è qui una parte in cui si dica che cosa può fare un anziano per migliorare la sua memoria: non sarebbe corretto, da parte mia e in questa sede, dare ricette o consigli che vadano oltre qualche cenno sulla direzione che sta prendendo la ricerca psicologica sugli anziani. Ma, come si potrà vedere, il quadro complessivo che esce da questa presentazione non è certamente quello di un anziano che ha perduto i contatti con la propria memoria e quindi con pezzi della propria identità. Il mio tentativo sarà quello di EVOLUZIONE DELLA MEMORIA chiarire quali siano, al di là dei luoghi comuni e delle sensazioni vaghe, gli ambiti precisi (e limitati) in cui si può parlare di deterioramento delle prestazioni di memoria dell’età anziana. La conoscenza di questi ambiti potrebbe forse essere d’aiuto a non rappresentarsi un quadro a tinte più fosche del necessario ma a ridimensionare i cambiamenti portati anche alla nostra memoria da un processo non patologico di invecchiamento. Memoria autobiografica e identità dell’anziano L’attività di “ricordare” spontaneamente dei periodi anche lontani della propria esistenza ha un ruolo centrale nella vita quotidiana di quasi tutti gli anziani. Si ricordano nei particolari avvenimenti, persone, luoghi. I luoghi hanno anche un’importanza specifica in questo ricordare; spesso gli anziani riferiscono che un luogo (una strada, una casa) li aiuta particolarmente a ricordare, a ricreare presenze e sentimenti lontani nel tempo. Molti eventi della nostra vita sono associati strettamente al luogo in cui sono avvenuti. Questo è certamente uno dei fattori per cui agli anziani spesso è molto difficile immaginare di vivere in un posto diverso da quello a cui sono abituati, ed è anche certamente uno dei fattori di depressione quando le circostanze costringono l’anziano a cambiare casa o quartiere. Non sempre il passato può essere ricordato con piacere, ma anche se al ricordo si mescolano sensi di colpa o disperazione, pure ricordare fa parte della nostra identità, in quanto ci si assicura una continuità nel tempo. Questa sembra essere la funzione MARIA ROSA BARONI Università di Padova (continua a pag. 2) BIOLOGIA E MEMORIA “Noi siamo quelli che siamo in virtù di ciò che abbiamo imparato e che ricordiamo”. Con questa frase lo psichiatra e neuroscienzato Eric Kandel, premio Nobel nel 2000 per le sue ricerche sulla memoria, sintetizza 50 anni di studi e sperimentazioni. Apprendimento, conoscenze ed esperienze lasciano un segno tangibile dentro di noi, una specie di cicatrice. Modellano la struttura stessa del nostro cervello, rendendoci assolutamente unici, diversi da tutti gli altri. Ma un’esperienza non diventa necessariamente un ricordo permanente: deve essere legata strettamente al circuito emozionale dell’individuo o al sistema di gratificazione dei suoi bisogni. Esiste infatti una relazione diretta tra le emozioni suscitate da un’esperienza ed il radicamento del ricordo nella mente. Già la psicologia e la psicoanalisi avevano chiarito la fondamentale importanza delle esperienze e dei ricordi nella costruzione della identità personale, ma ora le neuroscienze sono in grado di svelarci come in realtà i ricordi significativi vengono a far parte stabilmente del nostro cervello. Si sono svelate le basi biologiche della memoria. Ogni ricordo è una modificazione dello stato biochimico (memoria a breve termine) o anatomico (memoria a lungo termine) del cervello. Studiando l’elegante semplicità del riflesso di ritrazione della branchia nella lumaca di mare Aplysia, il grande neuroscienziato Eric Kandel è giunto a svelarci che ciò che si modifica durante l’apprendimento è la rete di connessioni tra neuroni cerebrali attraverso le relative sinapsi. Il segreto sta proprio lì, nella sinapsi, sottilissimo spazio vuoto tra la terminazione di un neurone e il corpo di un altro. I neuroni non si toccano, ma sono così vicini da potersi trasmettere messaggi elettrochimici: “come labbra che parlano molto vicino a un orecchio”. Se la sinapsi è solo rinforzata per l’aumentata presenza del neurotrasmettitore glutammato, il ricordo sarà temporaneo, giusto quello che serve per usarlo (memoria di lavoro o a breve termine). Ma se si formano nuove sinapsi, come nuove radici per una pianta, allora il ricordo sarà per sempre, anche per tutta la vita (memoria a lungo termine). Quando un ricordo è meritevole di diventare persistente? Semplicemente quando è ripetuto, elaborato, consolidato. Oppure, con una straordinaria scorciatoia, quando è accompagnato da una carica emozionale, che funziona come innumerevoli ripetizioni dell’esperienza.Il rimodellamento delle sinapsi richiede la sintesi di nuove proteine e perciò chiama in causa il controllore supremo del metabolismo cellulare, il DNA, attraverso i suoi geni. In definitiva la costruzione di nuove sinapsi dipende da variazioni dell’espressione genica nei neuroni, legate all’esperienza. Kandel con la sua lumaca ha risolto perciò l’annosa questione sul primato della genetica, dell’evoluzione e dell’esperienza nella costruzione dell’architettura individuale del cervello. I processi genetici ed evolutivi determinano le connessioni neurali, ma non ne determinano la forza, che è regolata invece dall’esperienza. L’apprendimento, infatti, compie una selezione tra un vasto repertorio di connessioni preesistenti alterandone la forza. Queste scoperte sulla natura sinaptica della memoria sono l’ossatura della concezione connessionista della mente, ma lasciano ancora largo margine al mistero e alla magia di un fenomeno così complesso. Alla fine Kandel ci sorprende con una ultima, audace ipotesi relativa ai ricordi indelebili: “e se vi dicessi che la proteina attivatrice dei geni ha proprietà simili al prione?”. MARIA LUISA PEDROTTI Pag. 2 REZZARA NOTIZIE PAURA DI NON RICORDARE (continua da pag. 1) essenziale del ricordo del passato; nonostante un certo irrigidimento e resistenza al cambiamento che sembrano caratterizzare i cambiamenti di personalità e atteggiamenti dell’invecchiamento, a molti individui questo “fare i conti con il proprio passato” dà un aiuto per mettere in atto quei cambiamenti necessari per adattarsi meglio al proprio presente. Il ricordare diventa una vera attività di difesa del proprio sé minacciato dall’immagine del presente. Anche il ricordo di parenti e amici scomparsi serve a questo tipo di difesa. La letteratura psicologica riporta anche casi in cui questo attaccarsi al ricordo porta episodi di vere e proprie allucinazioni, come credere di vedere o udire qualcuno che non è presente realmente. Queste allucinazioni però non vengono interpretate esclusivamente in senso positivo come risorse per ricostruire una sensazione illusoria di vicinanza affettiva che è venuta a mancare. Ricordare per ritrovare una propria identità, soprattutto in condizioni in cui il presente è per qualche ragione insoddisfacente o addirittura insopportabile, infine, non è solo prerogativa degli anziani, ma può essere una risorsa anche in altre età. Non tutti gli anziani fanno ricordo ai ricordi del passato allo stesso modo: anche in questo campo, come in altri, la ricerca psicologica sugli anziani ha messo in luce che esistono grandi differenze individuali. È importante però notare che questo non avviene perché una parte dei ricordi non sia più accessibile ad alcuni individui anziani. La cosiddetta memoria terziaria è una funzione sostanzialmente inalterabile con l’età. Intervengono invece fattori in parte cognitivi in parte affettivi come gli “stili” individuali che determinano, indipendentemente dall’età ma più frequentemente negli anziani, scelte differenti di comportamento. Impressioni soggettive sulla memoria È opinione diffusa che la memoria abbia un deterioramento nell’età anziana. Esperienze in cui la memoria sembra venirci meno, come l’incapacità di associare una faccia a un nome, di ricordare se abbiamo chiuso o no la Il numero riprende interventi deregistrati in vari convegni organizzati dall’Istituto Rezzara. porta di casa, o di ricordare il titolo di un libro che abbiamo letto l’anno scorso, sono abbastanza comuni a tutte le età e dipendono da una quantità di fattori, legati sia al momento in cui abbiamo immagazzinato il ricordo sia al momento in cui ci sforziamo di recuperarlo. Tuttavia queste esperienze sembrano essere più frequenti nelle persone anziane; questa opinione è rafforzata dal fatto che uno stesso episodio di “vuoto di memoria” come quelli citati, in un giovane è attribuito ai fattori più vari, ma in un anziano viene infallibilmente attribuito all’età. Qui si evidenzia un primo aspetto del problema, che è l’impressione soggettiva che un anziano ha della propria memoria, e soprattutto dei propri fallimenti di memoria. La tendenza che hanno gli anziani ad esagerare i loro problemi di memoria (e ad attribuirli all’avanzare dell’età) emerge da una ricerca di Roberts (1983), da cui risulta che riferiscono di avere problemi di memoria il 6% delle persone tra i 20 e 29 anni; il 12% delle persone tra i 40 e 59 anni; il 46% delle persone sopra i 59 anni. In Italia, una ricerca di Cornoldi e De Beni (1988) mette in luce come, nel fare una previsione della propria prestazione prima di una prova di memoria, soggetti anziani diano stime meno realistiche dei giovani di pari istruzione. Questo atteggiamento pessimistico nei riguardi della propria memoria dipende, secondo gli autori, da vari fattori, tra cui soprattutto: 1) dal fatto che spesso l’anziano da molti anni non è sollecitato a compiere compiti di memoria; 2) dall’atteggiamento depressivo generale dell’anziano, che implica anche la sottovalutazione delle proprie capacità di memoria. I magazzini di memoria Ma che cosa succede quando si va a vedere che cosa veramente l’anziano è in grado di ricordare? Per rispondere a questo quesito è necessario dare alcune semplici definizioni e presentare brevemente un modello di come funziona la memoria umana. Questo modello di Atkinson e Shiffrin (1971), presentato qui nella versione di Cornoldi (1986), descrive il passaggio delle informazioni (stimoli ambientali in arrivo) dapprima attraverso la memoria a breve termine e infine nella memoria a lungo termine. Il registro sensoriale si ipotizza che sia un primo “magazzino di memoria”, che trattiene gli stimoli per pochi decimi di secondo, per permettere ai nostri organi sensoriali di percepirli. In altre parole, questa funzione ci permette di analizzare stimoli anche molto brevi (per esempio una luce o un suono istantanei) anche dopo che sono fisicamente svaniti. Da questo magazzino l’informazione (che non ha ancora subito nessuna elaborazione) passa nella cosiddetta memoria a breve termine, dove si ritiene che venga conservata per qualche secondo (fino a 30 secondi circa). Il magazzino della memoria a breve termine ha una capacità molto ridotta, e permette solo una limitata quantità di informazioni di essere presenti. Quando entrano nuove informazioni, quelle più vecchie escono. Per esempio, se sentiamo, o leggiamo, una serie di numeri di una cifra, possiamo tenerli a mente se sono 6 o 7 (per esempio un numero di telefono, per il tempo di comporlo sull’apparecchio); ma se la lista è più lunga e non mettiamo in atto nessuna particolare tecnica per ricordare, una parte dei numeri che ascoltiamo o leggiamo certamente andrà perduto. Se leggiamo una frase lunga due o tre righe, ne capiamo il significato perché, arrivati all’ultima parola, manteniamo nella memoria a breve termine le parole precedenti. In genere non occorre nessuno sforzo volontario per compiere un’operazione di questo genere, però, se dobbiamo tenere a mente un numero di telefono per un certo tempo (per esempio, per raggiungere un apparecchio in un’altra stanza), la tecnica più semplice che possiamo mettere in atto è quella di ripeterne mentalmente le cifre. Ma se non lo fissiamo in altro modo, per esempio scrivendolo, è facile che il numero esca dalla nostra memoria a breve termine appena facciamo entrare delle altre informazioni. Dalla memoria a breve termine alcune informazioni entrano nel magazzino successivo, cioè quello della memoria a lungo termine, che può essere considerato un magazzino permanente della memoria. Le informazioni apprese vengono immagazzinate in quantità teoricamente illimitata. Questo non vuol dire che tutte le informazioni contenute nella memoria a lungo termine siano sempre immediatamente disponibili. Il motivo per cui, in certe circostanze, non riusciamo a recuperare un particolare ricordo è che, anche se lo conserviamo da qualche parte della memoria a lungo termine, abbiamo perso la traccia per raggiungerlo. A volte è sufficiente uno sforzo di concentrazione nostro o un aiuto esterno, o semplicemente riprovare a recuperare l’informazione in un momento diverso, e il ricordo torna alla nostra mente. Naturalmente non tutte le informazioni che entrano nel nostro registro sensoriale e nella memoria a breve termine passano poi nella memoria a lungo termine. Il passaggio tra questi due ultimi magazzini di memoria è nei due sensi; avviene cioè anche il passaggio di un’informazione dalla memoria a lungo termine alla memoria a breve termine. Per esempio, se vediamo una faccia conosciuta (informazione che entra nella memoria a breve termine) cerchiamo di ripescare nella memoria a lungo termine il nome di questa persona o la circostanza in cui l’abbiamo già vista (in quest’ultimo caso si tratta di memoria episodica). In questo modo richiamiamo un contenuto della memoria a lungo termine a breve termine. Il processo può avvenire anche in modo meno cosciente: per esempio, quando leggiamo una frase, il significato delle parole ci viene fornito dalla memoria a lungo termine (in questo caso la memoria semantica), con cui confrontiamo lo stimolo (parola letta) presente nella memoria a breve termine. Memoria secondaria e memoria terziaria Sempre ai fini di una migliore rappresentazione di come funziona la memoria degli anziani, è utile introdurre un’altra differenziazione all’interno della memoria a lungo termine tra “memoria secondaria” e “memoria terziaria” (per “memoria primaria” si intende la memoria a breve termine). La memoria secondaria si riferisce alle informazioni immagazzinate in tempi recenti e la memoria terziaria a informazioni immagazzinate da lungo tempo, per esempio, per un anziano, a memorie dei tempi della scuola, o della giovinezza. Rievocazione e riconoscimento Quest’ultima nota è relativa alle tecniche per esaminare le prestazioni di memoria. Le due più usate sono la rievocazione e il riconoscimento. Nella prova di rievocare (oralmente o per iscritto), una data informazione, senza dargli nessuno stimolo che gli sia d’aiuto: per esempio “Qual è il contenuto del libro che hai letto?”; “Qual è il nome della capitale dell’Afghanistan?”; “Qual è il nome dell’attore rappresentato in questa foto?”. Nella prova di riconoscimento, invece, sono presentate al soggetto alcune delle possibili risposte, tra cui deve “riconoscere” quella giusta (cioè lo stimolo che gli è stato presentato nella fase di apprendimento). Per esempio la domanda può essere: “Quale di queste quattro facce è quella che hai già visto?”; oppure “Questa parola era o no compresa nella lista che hai letto precedentemente?”. Naturalmente esistono anche altre tecniche, come quella del “ricordo guidato”, ma per esigenze di brevità non se ne parlerà qui. PUBBLICAZIONI SULL’ETÀ ADULTA Da più anni l’Istituto Rezzara attua ricerche sociologiche sulla problematica della vita adulta ed anziana per cogliere il modo di pensare delle persone, la loro crescita culturale, le loro attese, così da poter aggiornare costantemente i programmi da proporre, non in base a desideri superficiali ma a bisogni profondi. Nelle ricerche appare chiaramente la centralità della vita di relazione e la valenza della proposta culturale per tenere desto l’esercizio delle facoltà mentali ed i motivi per conoscere ed apprendere senza limiti di età. DAL FERRO G., Uso dei mass media nell’età adulta, Rezzara, Vicenza, ISBN 88-85038-71-9, pp. 64. DAL FERRO G., Le Università della terza età: chi le frequenta e perché, Rezzara, Vicenza, ISBN 88-8659007-5, pp. 104. DAL FERRO G., La vita di relazione, Rezzara, Vicenza, ISBN 88-86590-43-1, pp. 140. DAL FERRO G., Adulti maturi intraprendenti e saggi, Rezzara, Vicenza, ISBN 88-86590-83-0, pp. 136. * * * AA.VV., La relazione nella vita umana, Rezzara, Vicenza, ISBN 88-86590-66-0, pp. 208. REZZARA NOTIZIE Pag. 3 STEREOTIPI SOCIALI CREANO L’ANZIANO L’EMOTIVITA` GIOCA UN RUOLO PRIMARIO Affrontando il tema anziani ed emozioni credo di poter affermare che non esista una particolare capacità emozionale nella terza età, capacità intesa come caratteristica comportamentale specifica di questo stadio della vita. Personalmente ritengo che gli anziani si comportino come qualsiasi altro adulto e che quindi vivano la loro quotidianità usando tutte le emozioni, che dopo i primi mesi di vita e l’adolescenza, sono diventate patrimonio di ogni adulto. Non bisogna negare però che spesso ci si occupa degli anziani come una categoria fin troppo speciale, raggruppando sotto questo termine realtà, vissuti e storie di vita tra loro molto differenti. L’invecchiamento L’invecchiamento è un processo a rilevanza biologica, sociologica e psicologica. La biologia fa iniziare l’invecchiamento al venticinquesimo anno di età; la vecchiaia inizia invece, nel momento in cui è possibile rilevare i segni anatomici della stessa, sia esterni che a carico dei diversi organi e apparati, anche determinate limitazioni in alcune funzioni. Generalmente tale momento viene fissato verso il 65° anno di età, mentre la longevità si ritiene, oggi, che sia il periodo di vita oltre gli 80 anni. Per la sociologia l’ingresso nella vecchiaia inizia con l’età pensionabile, questo limite è stato fissato proprio perché è a questa età che avviene il maggior numero di ritiri, ossia la maggior parte degli uomini e delle donne abbandona la propria attività lavorativa e deve perciò trovare un adattamento alle nuove condizioni di vita, sia dal punto di vista individuale che familiare e sociale. Per quanto riguarda la psicologia è necessario precisare, che nell’affrontare lo studio dell’invecchiamento e della vecchiaia, essa ha sempre cercato di rispettare le caratteristiche della personalità di ogni individuo, integrando anche la visione biologica e quella sociale. Gli aspetti che abbiamo considerato, vale a dire quello biologico, sociale e psicologico, anche se non sempre si sovrappongono, si influenzano reciprocamente. A seconda dell’epoca storica, della cultura e dell’organizzazione produttiva la società divide in maniera differente il ciclo di vita, dandogli rilevanza e valori diversi. In epoche passate La società industriale e la cultura che essa produce finiscono per incidere pesantemente sugli aspetti psicologici e biologici della senescenza, quasi obbligandola entro scansioni temporali e ambiti istituzionali. l’ingresso nell’area degli anziani era molto anticipato rispetto ad oggi ed acquistava per l’individuo significati di prestigio e di autorevolezza. Nella nostra realtà l’innalzamento dell’età media, l’aumento della popolazione anziana hanno determinato un allungamento dei vari cicli vitali, quali l’adolescenza, la giovinezza e la maturità. Tuttavia, il pensionamento è l’elemento che segna il passaggio verso la sene- Si parla spesso di un appiattimento della capacità emotiva nell’anziano, di un disinteresse emozionale alla vita, di una limitata capacità relazionale e affettiva. Ma se non fossimo condizionati da stereotipi e da pregiudizi, e non cercassimo di inscatolare la realtà in categorie divise da un filo spinato, ci renderemmo conto che tutto ciò non solo è falso, ma che produce anche delle situazioni di emarginazione e di disadattamento per le quali l’anziano non è il regista, ma solo una comparsa della scena. scenza sociale. La società industriale e la cultura che essa produce, finiscono per incidere pesantemente sugli aspetti psicologici e biologici della senescenza, quasi obbligandola entro scansioni temporali e ambiti istituzionali. Ma anche all’interno della nostra cultura la vecchiaia è una categoria relativa che si rifà ad ambiti e ruoli; difatti là dove un campione sportivo viene considerato ormai anziano, un uomo politico o un intellettuale possono considerarsi ancora giovani. Relatività del concetto di vecchiaia Nella nostra realtà la condizione di vecchio è intrinseca di valori negativi e posta sempre in relazione ad un qualche criterio di produttività. La relatività del concetto di vecchiaia può essere estesa anche alla dimensione biologica, il decadimento di certe funzioni può avere una rilevanza soggettiva e sociale solo in rapporto all’importanza di queste nell’ambito di una qualche produttività. Esistono poi vari modi di invecchiare, ognuno dei quali risente dei percorsi biografici individuali. Il processo di senescenza Il processo di senescenza va messo in rapporto con l’ambiente che lo ospita, che lo previene, che lo ritarda, oppure che lo accelera. Hanno un peso rilevante in questo processo, la famiglia, l’ecosistema urbano, le strutture sanitarie ed assistenziali; soprattutto quando si programmino ed agiscano nei confronti di un vecchio immaginato, non reale, frutto di stereotipi, di pregiudizi e di etichette istituzionali. La definizione di anziano, il relegamento a tale ruolo, il riconoscersi negli attributi emotivi, comportamentali e relazionali, in altre parole la definizione della propria identità, avviene nel vecchio attraverso le persone per lui più significative. Ai figli, ai medici, agli infermieri, ai nipoti è attribuita inconsapevolmente tale facoltà, non senza resistenze e conflitti. L’adattamento a tali attribuzioni di ruolo, produce nella persona anziana una falsa consapevolezza. È così che egli è portato a credere che i bisogni e le motivazioni che gli vengono proposte come corredo della vecchiaia siano sue. È qui che a mio parere possiamo inserire il discorso sulle emozioni nella terza età. È chiaro a questo punto che l’anziano fa suo un corredo emotivo che gli viene suggerito dalle persone e dalle situazioni che lo circondano e che gli attribuiscono un’identità alla quale deve semplicemente aderire, senza possibilità di contrattazione. Vediamo allora che le persone, soprattutto dopo il pensionamento, perdono l’identità principale a cui avevano assicurato la loro vita, vale a dire l’identità legata al ruolo di lavoratore, e vengono a trovarsi in una condizione di smarrimento e quindi sono più vulnerabili e assorbono più passivamente condizioni, luoghi comuni e attribuzioni comportamentali riguardo il loro ruolo e la loro identità. In realtà la maggior parte delle convinzioni sulla condizione emozionale degli anziani è solo frutto di pregiudizi a cui molto spesso gli anziani si adeguano. Le ricerche sulla “profezia che si autorealizza” hanno dimostrato che alcune caratteristiche, anche fisiche e motorie, che riteniamo prodotte dalla senescenza, derivano in gran parte dall’adesione dell’anziano alle immagini stereotipiche della vecchiaia. Se le generazioni, produttive in senso stretto, non Lo studio dell’uomo anziano non può essere una astrazione ma deve fare riferimento costante alle realtà in cui vive. A 60 anni, se non intervengono situazioni di patologia fisica e più precisamente neurologica, il decadimento psichico non supera il 15% e a 70 anni il 18% della massima efficienza mentale, queste riduzioni sono compensate da altre capacità acquisite, non soggette a decadimento, come per esempio il vocabolario, la capacità logica e la cultura. espropriassero gli anziani della possibilità di decidere della propria vita, probabilmente si accorgerebbero che gli anziani di ambo i sessi sono vivi, pronti a esperienze nuove, a relazioni rinnovate e non hanno mai perso la capacità di incidere ancora in maniera significativa nella vita di tutti i giorni. Da un punto di vista emotivo, la capacità di rapporto e di affetto con le generazioni più giovani potrebbe essere una importante ricchezza, se non fosse inibita dalle generazioni di mezzo, che con la loro superficialità relazionale si stanno, a mio parere, preparando un terreno non facile per la loro vecchiaia. Oggi, anche attraverso una sempre maggior attenzione verso questa tappa della vita, si sono sviluppati ambiti di ricerca che, in maniera sempre più incisiva, dovrebbero contribuire ad abolire gli stereotipi che circolano nell’opinione comune ri- spetto alla condizione di anziano. Per esempio alcuni recenti studi sulla perdita di memoria dell’anziano hanno mezzo in evidenza che tale deficit è da porre in correlazione soprattutto alla diminuita motivazione dell’anziano verso il ricordo a breve termine, in quanto frustrante e scarsamente significativo, e in quella che possiamo chiamare perdita di esercizio. La perdita di memoria Il deficit di memoria risulta essere anche una tattica difensiva molte volte inconscia, oppure un assecondamento al ruolo di anziano, invalido, incapace, minorato e quindi all’utilizzo di un ruolo dipendente. Altre ricerche sul decadimento psichico dimostrano che l’ingresso nella categoria dell’anziano, con tutte le implicazioni negative che questo ingresso comporta nella nostra realtà, è soggetto a differenze individuali che non possono essere evocate dal pensionamento. Indubbiamente i vecchi sono un gruppo sociale che corre in particolar modo il rischio di essere percepito attraverso stereotipi. I valori dell’attivismo, dell’efficienza, a cui noi aderiamo, peggiorano l’immagine dell’anziano, divenendo l’unico parametro attraverso cui valutiamo le sue risorse psico-fisiche. Le idee preconcette sulle capacità e i bisogni della vecchiaia determinano anche le prassi istituzionali, gli atteggiamenti, le convinzioni assistenziali e terapeutiche, programmate più per un anziano debole, incapace ed inutile, frutto del nostro immaginario collettivo, piuttosto che della sua realtà biologica e psicologica. Una cultura della vecchiaia che scaturisca da questi presupposti determina nell’anziano condizioni di disadattamento oggettivo. Disadattamento che tende ad aggravarsi quando si salda con gli effetti della senescenza, ossia con i processi involutivi che riguardano la memoria ed altre capacità cognitive espressive e culturali. Oggi più che mai sembra importante l’impiego conoscitivo, preventivo e terapeutico, che per potersi attuare deve superare le fissità delle immagini e degli stereotipi a cui si accompagna il fatalismo della vecchiaia, accettando che essa è anche molto spesso prodotta. CRISTINA MAZZINI psicologa e psicoterapista Pag. 4 REZZARA NOTIZIE conoscenza ???????? ed emotività CAPACITA` COINVOLGENTE DELLA CONOSCENZA OGGETTIVITA` E SOGGETTIVITA` INTERAGISCONO Una premessa introduce la necessità di scomporre il termine stesso “conoscenza”: la questione del rapporto fra conoscenza ed emotività è infatti, credo, affrontabile diversamente a seconda che si parli di conoscenza oggettiva o conoscenza soggettiva. Conoscenza oggettiva La conoscenza oggettiva è quella della scienza (della scienza occidentale del nostro tempo): in essa si tratta di mettere da parte tutto ciò che è contingente, storico; è pertanto caratterizzata dalla ripetibilità degli eventi e si definisce in funzione della possibilità di verifica o, in termini più moderni, di falsificazione dei suoi enunciati. Quello che si tratta di mettere fuori gioco è il soggettivo, il soggetto. Si avvale di un’idea di verità in senso forte, eternamente ricostituibile in quanto data, o oggettivamente raggiungibile una volta per tutte seguendo un metodo di aggiustamenti successivi. Compito del ricercatore, a questo livello, potremmo dire sia quello - per molti versi impossibile seppure proficuo - di uscire da sé per incontrare le cose, senza pregiudizi. Conoscenza soggettiva La conoscenza soggettiva si definisce rispetto a questo innanzitutto per ciò che non è: non è semplicemente quella che fa del soggetto il proprio oggetto di studio; in tal senso l’obiettivo sarebbe ancora quello di uscire dalla contingenza per andare a stabilire definitivamente cosa oggettivamente sia il soggetto, renderlo afferrabile, incasellabile, eternamente ricostruibile, controllabile e verificabile. È quello che d’altra parte generalmente fa la psicologia volendosi costituire come scienza obiettiva della soggettività, ed è quello che secondo Husserl le scienze europee hanno fatto a partire da Galileo (dal suo tentativo di “matematizzazione del mondo dei pieni”) ed hanno continuato con e dopo Cartesio (col tentativo di riduzione dello psichico al fisico), sebbene in entrambe le teorizzazioni esistessero i presupposti per avviare anche un altro tipo di discorso. Il risultato di tale impostazione è ancora una volta la dimenticanza del soggetto. Se non si può dire che la conoscenza soggettiva sia questa, sarà allora quella che reimmetterà il soggetto fra i suoi interessi, non accontentandosi di fare di esso il proprio oggetto di studio, ma ben più radicalmente includendolo fra i dati del problema: il soggetto in quanto soggetto, cioè il soggetto in quanto tale, nella sua specificità irripetibile, nella più assoluta contingenza. Ma è possibile una conoscenza siffatta? Già per Husserl la cosa non è solo possibile, bensì addirittura implicita nella stessa formulazione cartesiana del cogito. Quando cioè Cartesio nel formalizzare la sua ipotesi ci dà il noto aforisma “cogito, ergo sum”, con esso non pone solo la certezza di sé, della propria esistenza, ma fonda anche nel soggetto la certezza di ogni conoscenza. Solo che si tratta di un soggetto inteso come res (res cogitans), di una mente ridotta a cosa. Come Husserl rende evidente con la sua analisi del percorso della scienza in Occidente, quello che ne è risultato è stata infatti la progressiva sottomissione dello psichico al somatico, nel senso di assuefarlo alle leggi di ciò che è “cosa estesa”, in quanto leggi già sperimentate come valide. Così nel XIX secolo, con la nascita ufficiale delle “scienze dello spirito”, pur nel tentativo di fondarle autonomamente da quelle “della natura”, ci si lascia ancora dominare da un tale modello; così ancora la psicologia continuerà a nutrirsi del sogno di realizzarsi come scienza universale dell’essere psichico ad immagine delle scienze della natura: le “anime”, anche se non res extensae, saranno considerate rette da leggi causali analoghe a quelle della fisica. Bagaglio di conoscenza Potremmo chiederci e vedere, a questo punto, se la filosofia, di fatto, non abbia percorso questo cammino, se non sia lei quindi in grado di fornirci quel bagaglio di conoscenza di cui andiamo in cerca e che sembra così radicalmente escluso dal mondo della scienza. Ciò in cui ci imbattiamo a questo livello è la critica di Heidegger al percorso intrapreso dalla metafisica occidentale: essa sareb- be caduta in un “errore” analogo a quello accorso nel campo della ricerca scientifica (potremmo, anzi, meglio, parlare di riduzione, invece che di errore, dato che la scienza al di là di ciò conserva la sua validità). Quello che oltretutto, in più, viene reso evidente, è che se “errore” c’è stato, ciò è stato possibile in considerazione di una specificità propria dell’essere umano (l’Es- Con le tecniche di tipo psicoanalitico è spesso possibile far riapparire il ricordo. La rimozione è ben lontana dall’oblio, e costituisce uno dei meccanismi difensivi della psiche di fronte all’introduzione di un contenuto che potrebbe, se presente, essere ancor più gravemente disturbante della sua cancellazione. serci, nella terminologia heideggeriana). Cioè: se le scienze umane sono potute cadere nell’errore di ridurre il soggetto ad una sorta di organismo caratterizzato semplicemente dal fatto di duplicare i suoi caratteri fisici a livello psicologico, è perché è possibilità propria, costitutiva dell’essere umano, quella di assumere su di sé le determinazioni che gli vengono proposte (sebbene, in una lettura psicanalitica, a ciò corrisponda poi uno scarto - inconscio - un effetto di deriva non padroneggiabile). La filosofia, lo dicevamo, per Heidegger non è stata esente dall’errore ed è sostanzialmente finita col ridurre a dimensione di determinatezza il referente delle proprie indagini. Il concetto di semplice-presenza racchiude un po’ quello che cerchiamo di dire. In base ad esso risulta evidente come sia modalità propria del nostro modo di pensare quella di ridurre le cose (ogni cosa, non solo l’uomo) alla dimensione cristallizzata della presenza oggettiva, dimenticando con questo che niente per l’uomo è semplicemente-presente (questo è semmai il modo particolare della scienza), ma è in primo luogo strumento (il che sembra essere ben chiaro in psicologia dell’età evolutiva: il neonato si costruisce il mondo in funzione dell’uso che fa delle cose che gli capitano a tiro), l’obiettività è semmai qualcosa che si raggiunge come modo derivato dell’utilizzabilità. Come dalle parole di Vattimo “nel modo di esistere della banalità quotidiana l’esserci si pensa come ente fra gli enti” e questo lo garantisce contro l’angoscia: essere un ente come gli altri, ridurre le cose ad una dimensione afferrabile, ci fa sentire “a casa nostra”, protetti entro confini “maneggiabili”. L’angoscia come paura del nulla Vediamo qui che comincia ad introdursi il discorso della valenza emotiva: l’angoscia come paura del nulla, di quel nulla che traspare oltre l’ente, viene a costituirsi come determinante di un percorso di conoscenza di sé e degli altri (delle cose del mondo) ed ha effetti determinanti per tutto il percorso di vita dell’individuo. L’angoscia (affrontare l’angoscia) sarà infatti per Heidegger anche la nostra unica possibilità di riscatto da questo mondo di essere in autentico. Il cammino della filosofia a questo punto sembrerebbe essere quello del recupero di una dimensione del mondo ancor più comprensiva. Questo partendo dalla constatazione del fatto che pur avendo accettato di prendere avvio da spinte irrazionali, pur avendo riconosciuto in esse un elemento propulsore, è caduta spesso nell’inganno di ritenersi disinteressata, puramente teoretica per chi conduce la ricerca, oltretutto schiava di un presupposto che vede l’uomo come attraversato da una capacità critica (razionale) infinita, in grado di impadronirsi (teoreticamente e praticamente) della cultura e della storia. È l’uomo che tende a dimenticare la propria finitezza e che identifica la certezza della coscienza con la verità. In nome della scoperta della finitezza del soggetto una parte del pensiero filosofico contemporaneo ripropone una concezione della filosofia che si ponga, quindi, come ricerca del senso dell’essere, ma in funzione del recupero di una dimensione storica, della considerazione della stessa storicità della ragione, del suo legame col mondo dell’emotività, degli interessi, ecc. Ma usciamo per un attimo dalla filosofia per entrare nel campo di un altro settore delle scienze umane che sembra interessarci da vicino. Nel campo occupato da questa “scienza umana” - la psicologia - si ripropongono tutte le considerazioni fatte finora a proposito delle diverse forme di conoscenza e la frammentazione dei discorsi si cristallizza in una settorializzazione quasi a compartimenti stagni delle discipline, o meglio delle correnti, che ad essa fanno capo. Mi limito a proporne una ristrutturazione del campo che, sebbene sommaria, sia esemplificativa del nostro discorso. Distinguerei pertanto il settore “psicologia” in due sottoinsiemi, distinti ancora una volta dallo spartiacque soggettività/oggettività. Nel settore degli “oggettivi” metterei tutte quelle correnti cui accennavo prima quando denunciavo la nascita della psicologia in funzione dell’accoglimento dei residui delle scienze umane (da cui la costruzione di un mondo parallelo a quello dei corpi, retto da principi analoghi a quello di causalità, di ragione sufficiente…); in un altro contenitore, questa volta semivuoto, metterei invece un settore di ricerca che si è aperto con la psicanalisi - con la clinica psicanalitica, più che con la speculazione psicanalitica - e che si caratterizza per il tentativo di includere il soggetto nell’indagine (come sopra anche qui s’intende: il soggetto dell’indagine entro l’indagine stessa, colui che riflette entro la riflessione, colui che parla nel suo detto). È un contenitore ancora povero di contenuti, ma, direi, ricco di potenzialità di riempimento, visto che sta agganciando i settori più disparati e all’avanguardia del sapere: fra essi le tesi filosofiche che abbiamo precedentemente indicato, attribuendo loro una pregnanza particolare e sicuramente un peso ineludibile in ogni pratica clinica. Ad un tale livello il peso della conoscenza soggettiva, quindi soprattutto della conoscenza che il soggetto ha SILVIA FAILLI psicologa e psicoterapista (continua a pag. 5) REZZARA NOTIZIE Pag. 5 conoscenza ed emotività LA MEMORIA CUSTODE DELLE COSE SI EVOLVE NELL’ARCO DELLA VITA “La memoria è tesoro e custode di tutte le cose” (Cicerone, De Orat., 1,18). Questa frase esprime bene come in tutti i tempi l’uomo abbia considerato la memoria una funzione preziosa che ha sempre desiderato di sviluppare e ha sempre avuto l’impressione di perdere. “Tutti si lamentano di aver poca memoria, nessuno si lamenta di aver poco giudizio” (La Rochefaucauld, Massimes, LXXXIX). La memoria, definibile come conservazione di un’informazione o di un comportamento appreso, è un meccanismo adattativo indispensabile per la sopravvivenza di tutte le specie animali. Essa è presente, in forma elementare, anche in organismi molto primitivi quali i molluschi che per la semplicità della loro organizzazione nervosa hanno offerto un modello per lo studio delle sue basi molecolari ed elettrofisiologiche. I processi immunitari stessi possono essere considerati una forma di memoria cellulare che permette il mantenimento dell’identità dell’organismo. E a questo proposito potremmo ricordare lo scritto di Hering del 1870 intitolato Sulla memoria come funzione universale della materia organica. Sapere è ricordare Se ci limitiamo a prendere in esame quella memoria che ha sede nel sistema nervoso centrale e che è il cardine delle nostre capacità cognitive, “sapere è ricordare” (Cicerone, De fin., 2,32), possiamo distinguere numerosi tipi di memoria: motoria, visiva, uditiva, olfattiva, semantica, spaziale. Il processo di apprendimento e di memorizzazione passa attraverso diverse fasi ed è possibile riconoscere fasi della memoria con durata diversa. L’attenzione è la condizione senza la quale il processo di apprendimento non può iniziare, ed essa dipende dall’attivazione del complesso sistema reticolare ascendente. La memoria sensoriale di breve durata, pochi secondi, raccoglie gli stimoli e li passa a una memoria primaria di durata maggiore ma di limitata capacità dove le nuove informazioni rimpiazzano quelle precedenti. Queste a loro volta sono accumulate in una memoria permanente, di lunga durata, anni, tutta la vita, che raccoglie informazioni di ogni tipo. Memoria è il ricordare un movimento, per esempio andare in bicicletta o nuotare, memoria è riconoscere un profumo, un oggetto, ricordare un volto, una poesia. Ma la memoria sarebbe inutile se non esistesse un meccanismo che richiama le informazioni alla coscienza e anche a livello inconscio come nel caso dei movimenti o del sogno. La complessità della memoria trova una speculare conferma nella complessità della sua patologia, dimostra- ta dalla sconcertante varietà e selettività delle amnesie. Questa sommaria elencazione dei molti aspetti della memoria, ha il solo scopo di richiamare l’attenzione sulla estrema complessità di questa funzione, la cui sede nel cervello è difficile da localizzare perché molte aree sono coinvolte, a seconda del tipo di informazioni che sono accumulate. E non deve sorprendere che le basi Si ricercano farmaci per conservarla. Il segreto è esercitarla ed ancor prima scoprire le sue diverse forme. biochimiche e morfologiche di un processo così articolato e integrato siano ancora in buona parte ignote. Sotto quale forma sono accumulate le informazioni? Numerosi dati sperimentali indicano la possibilità che esse siano accumulate sotto forma di proteine sintetizzate o modificate dagli impulsi nervosi che trasmettono l’informazione da memorizzare. Le nuove proteine sembrano tradursi nelle modificazioni della morfologia dei dendriti e delle sinapsi descritte da alcuni autori. Sappiamo di più sui meccanismi neurochimici che sono alla base delle prime fasi del processo di memorizzazione e forse dei meccanismi di richiamo dell’informazione. E questo perché numerosi farmaci interferiscono con la memoria: tutti i neurodeprimenti perché attenuano i meccanismi dell’attenzione coinvolti sia nell’apprendimento che nel richiamo dell’informazione; le benzodiazepine con un meccanismo forse più complesso; gli anticolinergici bloccando quei circuiti colinergici corticali e ippocampali che sono risultati essenziali per la memoria di breve durata. Se è quindi facile inibire la memoria con i farmaci, dovrebbe essere possibile anche aumentare, stimolare, ripristinare la memoria con i farmaci. Uso di farmaci La domanda di farmaci attivi sulla memoria è sempre esistita, per dimenticare “farmaco infuse… che l’oblio seco induceva di ogni travaglio e cura” (Odissea, IV,283-286) e per ricordare. In passato erano soprattutto i più giovani che li richiedevano, per apprendere più facilmente; basti ricordare l’uso delle piccole dosi di anfetamina e quello, senza sicure basi sperimentali, della glutamina. Oggi con il cambiamento della composizione della popolazione, sono gli anziani che vorrebbero farmaci per eliminare quella perdita della memoria che si riscontra, in maniera più o meno spiccata, sia nell’animale vecchio che nell’uomo vecchio. La “dimenticanza benigna” come essa è chia- mata per distinguerla da quella vera e drammatica perdita della memoria che caratterizza la demenza senile di Alzheimer. Scoprire farmaci attivi sulla memoria è quindi una delle sfide della farmacologia per il prossimo decennio. Alcuni nuovi farmaci per la memoria vengono introdotti in terapia in questi tempi. Solo una estesa sperimentazione clinica ci dirà se essi sono veramente utili, confermando i brillanti risultati ottenuti nella sperimentazione sull’animale, se ci aiuteranno a comprendere meglio i meccanismi neurochimici della memoria e a progettare futuri farmaci più attivi. Vorremmo farmaci che ci aiutassero a ricordare ciò che serve per la nostra vita di relazione, per il nostro lavoro, per la nostra vita affettiva. Non vogliamo ricordare tutte le piccole cose inutili della nostra vita quotidiana, i dolori e le sofferenze del passato. Ci dobbiamo chiedere se i meccanismi neurochimici dei diversi tipi di memoria sono tanto selettivi da permettere di ottenere farmaci così specifici. In attesa di questi farmaci del futuro, ricordiamoci tuttavia che “La memoria diminuisce… se non la tieni in esercizio” (Cicerone, Cato major, 6), con le implicazioni che questa massima ha su quanto la famiglia e la comunità possono fare per aiutare la memoria dell’anziano. GIANCARLO PEPEU Università di Firenze CAPACITA` COINVOLGENTE DELLA CONOSCENZA (continua da pag. 4) di sé (e degli altri), ricade come un macigno sul soggetto stesso, poiché ne va della sua stessa vita, della sua esistenza; la conoscenza dovrà obbedire a regole diverse da quelle cui siamo abituati: ad un principio d’indeterminazione, ad una diversa idea di verità (che includa l’azione soggettiva fra i dati della verifica), addirittura ad un diverso concetto di tempo. È la conoscenza propria di un soggetto storico, finito, ma non nel senso di perimetrato, ma nel senso della finitezza dell’orizzonte, cioè di qualcosa che segna sì un limite, limite che non può essere valicato poiché si sposta con ogni nostro movimento. I confini di un tale soggetto si dilatano giungendo ad includere ciò che è più specificamente, singolarmente suo. È ovvio che anche la questione delle emozioni a questo livello cambia statuto. Emozioni nell’individuo Per entrare nel vivo della seconda premessa, potremmo chiederci cosa vuol dire parlare di emozioni in riferimento ad un soggetto siffatto. In ambito psicanalitico, a questo proposito, si è sentita la necessità di articolare la terminologia diversificando ciò che può riguardare il soggetto-oggetto da ciò che può interessare il soggetto singolare di cui si è deciso di occuparsi. In psicanalisi, infatti, si preferisce parlare di affetti, più che di emozioni, e non si tratta certo di una pura questione nominalistica. Vediamo di arrivare a questo punto da un altro versante: una distinzione corrente in certa speculazione psicanalitica è quella fra corpo ed organismo. S’intende per organismo un ente, anche astratto, oggettivabile, una sorta di macchina (spesso la macchina di cui si occupa la medicina), composto di organi, ma non riducibile alla loro semplice somma nella misura in cui dà ad essi una certa forma, un funzionamento. Quando un organismo è attribuito ad un soggetto, ecco che diventa corpo: a questo livello si può dire che il soggetto è un corpo ed anche ha un corpo; a questo livello il corpo è “aperto” rispetto ai suoi organi, può essere arricchito di organi non naturali… e tutti gli organi stanno all’organismo come gli affetti stanno al corpo. Reazioni oggettivabili “Le emozioni - leggiamo in M. Binasco - sono reazioni del tutto oggettivabili, anche fuori della parola, con strumenti fisici o chimici, azioni di un organismo a qualcosa che succede nel suo Umwelt (e che possono perciò essere utilizzate anche come segnali del fatto che qualcosa è successo: vedi macchina della verità) reazioni anche visibili, come l’arrossire, il sudare o altro”. Gli affetti, diversamente, hanno “qualità singolare”, possono essere accompagnati da un’emozione generica che non necessariamente ci dice qualcosa circa il soggetto che la prova, ma nella loro determinazione sono frutto dell’intersecarsi di più piani: quello corporeo, quello linguistico, quello cognitivo… La percezione di un affetto (necessaria perché affetto ci sia) è segno di una passione nel corpo e pertanto indice di una vicenda più vasta di quella dell’organismo, giungendo ad includere il soggetto con tutte le sue determinazioni, pertanto sia ciò che agisce sul soggetto, sia i suoi atti di decisione e responsabilità. Pag. 6 REZZARA NOTIZIE ruolo ???????? della menoria LA MEMORIA: STRUTTURA LA CONOSCENZA CONFERISCE UNITÀ ALLA VITA UMANA È più facile ricordare qualcosa che ci colpisce in vario modo, rispetto ad un materiale che ci è indifferente; quindi sono anche le relazioni che intercorrono tra il nuovo stimolo e ciò che già conosciamo, a decidere se attuare il “lavoro”, in senso psichico, necessario a ricordare; non c’è niente infatti di più difficile da ricordare di una cosa che non ci interessa in qualche modo, in confronto alla apparente facilità di ricordo di eventi o stimoli carichi per il soggetto che li vive, di particolari significati o valori affettivi a tonalità sia piacevole che spiacevole. Desidero introdurmi all’argomento da trattare con la considerazione che non esisterebbe vita psichica alcuna se il passato non esistesse e in qualche modo non influenzasse gli eventi attuali. Di fatto se un essere vivente si comportasse solo in funzione degli stimoli attuali, siano essi di natura interna o esterna, vivrebbe solo nel presente e le sue reazioni, di fronte alla stessa situazione, sarebbero sempre le stesse rinunciando a qualunque apprendimento o evoluzione, vivendo così una vita puramente meccanica. Il ricordo del passato, o meglio, l’apprendimento e la capacità di utilizzare le nuove acquisizioni, sono quindi nel singolo individuo, come nelle specie viventi, le basi dell’evoluzione e della trasformazione. Le capacità di ricordare, sia in senso genetico che in senso quotidiano, sono dovute a quella funzione estremamente complessa degli esseri viventi che prende il nome di “memoria”. Concetto di memoria Si fa un gran parlare oggi di “memoria” riferendosi a memorie meccaniche o a quelle dei computer. È infatti vero che esistono numerosi componenti di macchine che hanno la capacità di conservare un qualcosa di molto simile ad una traccia, come i nastri magnetici o i dischi dei computer, ma questi tipi di memoria sono, in ultima analisi, solo una modificazione di uno stato della materia che rimane costante ed è quindi privo di una dinamica rispetto al tempo. A queste memorie manca la peculiarità essenziale della vita psichica che è la modificazione nel tempo, sia della traccia, che del comportamento dell’essere vivente, che continuamente aggiorna il suo modo di essere ed il suo stile cognitivo in funzione non tanto dei puri eventi vissuti, ma di ciò che di essi è stato ricordato e trasformato in una traccia che va ad integrarsi in un insieme in continua evoluzione e trasformazione (ciò che viene ricordato è già ciò che viene selezionato ed elaborato sulla base di un precedente patrimonio mnestico che da quel momento non è più uguale a come era prima del nuovo apprendimento e che adesso avrà una modalità di reazione agli stimoli e quindi anche all’apprendimento diverso). Questa dinamica del ricordare è l’essenza del trascorrere (nel mutare) del tempo, che è esso stesso una creazione dell’essere psichico. Per intendere quindi questo particolare modo con cui una informazione si inserisce e modifica un qualcosa di esistente parliamo, anche nella vita biologica, di traccia. Essa è una variazione in una struttura plastica che non è mai uguale a se stessa, non è quindi il solco di una registrazione (immutabile nonostante il trascorrere del tempo), ma un frammento sottoposto anch’esso al dinamico mutare della struttura in cui si inserisce, capace a sua volta di modificare le funzioni di questa struttura. Struttura della memoria Per quanto riguarda la struttura della memoria, le vecchie teorie che parlavano di un magazzino unitario hanno dovuto cedere il passo ad una divisione in più strutture, che rispondevano ai dati sperimentali delle ricerche fatte da molti autori sulla capacità di ricordare vari tipi di nozioni. Seguendo le più recenti vedute, possiamo rifarci ad uno dei modelli più accettati e tentare di spiegare quale oggi si crede sia la struttura della memoria, seguendo il destino di un qualsiasi dato che vogliamo immagazzinare, o meglio “ricordare”. Il primo anello di questa catena è quindi il dato o la notizia o la sensazione che ci stimola, e questa può essere di qualsiasi natura, ad esempio verbale, come la frase “La penna è nel calamaio”. Perché questa frase cominci ad esistere per noi è necessario udirla, e questo implica l’entrata in gioco dell’apparato sensoriale necessario, in questo caso l’apparato acustico, che trasforma il suono in un codice di impulsi elettrochimici che vengono ricevuti ed elaborati dal cervello. Bene, è stato dimostrato che, già a livello del segnale codificato, esiste una forma di memoria o “magazzino dell’informazione sensoriale” che può conservare come un’eco lo stimolo per un tempo di 1 o 2 secondi. L’evento successivo implica il “confronto” tra il nuovo dato e le nozioni che già esistono nella memoria, questo implica la “comprensione” della frase ed è il cosiddetto “riconoscimento percettivo”. La motivazione del “voler ricordare” diventa determinante, e la sua mancanza può facilmente confondersi con un reale deficit della memoria. È in questa fase che la frase assume un valore più o meno grande in base a ciò che riesce a stimolare in noi (questo è un dato assai importante perché vedremo che è più facile ricordare le cose a cui attribuiamo un valore, sia esso gradevole o sgradevole, di ciò che ci risulta indifferente). A questo punto l’informazione passa nel primo dei due principali magazzini della memoria, precisamente in quello che si chiama “memoria a breve termine” dove l’informazione può rimanere per un breve periodo di tempo, non oltre i 30 secondi, per poi essere o perduta, o rielaborata per accedere alla “memoria a lungo termine”, la vera e propria “memoria”, un magazzino di capacità enorme dove l’informazione può rimanere per tempi lunghissimi e forse illimitati. Diverse strutture di memoria Abbiamo quindi tre diverse strutture di memoria che formano il processo mnestico, il “registro sensoriale”, la “memoria a breve termine” e la “memoria a lungo termine”. Il registro sensoriale. Per quanto riguarda quello che abbiamo chiamato “registro sensoriale”, termine introdotto da Sperling nel 1960, si può pensare che per ogni organo di senso, ad esempio quello uditivo, esista una memoria ecoica specifica dell’impulso tradotto in un segnale che ancora non ha una sua identità, cioè non è stato ancora decodificato in qualcosa che sia in relazione con il patrimonio già esistente. Questa memoria, estremamente labile, si limita a trattenere per uno o due secondi lo stimolo ricevuto senza dargli nessun contenuto (ad esempio a questo livello una A maiuscola non è distinta da una a minuscola, ma si tratta di due unità percettive diverse). Se, a questo punto, interviene un processo di riconoscimento, lo stimolo identificativo passa in una “memoria tampone” che contiene non più il semplice stimolo, ma anche la sua decodificazione, cioè il suo significato di relazione con il patrimonio esistente. A questo punto l’informazione decodificata entra in quel particolare magazzino che prende il nome di “memoria a breve termine”. La memoria a breve termine. La memoria a breve termine, come ho già accennato, è considerata una struttura non molto ampia, e di durata breve, sull’ordine dei 30 secondi, in cui l’informazione lasciata a sé viene ad essere perduta e rapidamente sostituita dalle informazioni che seguono. La dimostrazione dell’esistenza di questo tipo di memoria si deve a Peterson e Peterson, i quali, nel 1956 idearono un esperimento congegnato in modo da misurare la possibilità di memorizzare in una persona alla quale fosse impedita la “ripetizione” del materiale. In pratica al soggetto veniva proposta una lista di tre o quattro consonanti a caso, esempio DFGR; immediatamente dopo gli veniva richiesto di impegnarsi in un’altra attività che lo distraesse dal ripetersi mentalmente questa serie di consonanti, gli veniva cioè proposto ad esempio di contare all’indietro, a tre per volta, a partire da un numero, esempio 478, 475, 472, ecc. fino al momento dell’interruzione. Dopo un certo numero di secondi stabilito dallo sperimentatore, al soggetto veniva richiesto di ripetere la serie di lettere ascoltate all’inizio. Esaminando i risultati si poteva stabilire una caduta molto rapida del ricordo della serie; dopo circa 20 secondi, solo il 10% dei soggetti ricordava correttamente la serie iniziale di lettere. Partendo da questo esperimento, e dalla scoperta del fatto che l’oblio assumeva caratteristiche del tutto diverse per quanto riguardava la memoria a breve o a lungo termine, è stata accettata la teoria dualistica della memoria. Ciò che differenzia la memoria a breve termine dal registro sensoriale di cui abbiamo parlato prima, è il fatto che, a questo secondo livello, l’informazione ha già assunto un suo specifico significato, e può essere sottoposta ad un procedimento che prende il nome di “reiterazione”, una sorta di ripetizione, che può avvenire anche a livello non cosciente, e che permette il suo ingresso nella memoria a lungo termine. Abbiamo visto che, impedendo con varie tecniche la “ripetizione” del materiale arrivato a questo livello, esso viene perduto. In base a cosa viene però presa la decisione di sottoporre un’informazione a “reiterazione”, cioè a fare sì che essa entri in un patrimonio pressoché permanete dell’individuo? Importanza del voler ricordare Questo passaggio comprende attività psichiche molto complesse, infatti può essere anzitutto legato ad una scelta per così dire “volontaria”, ad uno sforzo di memorizzazione di un certo materiale e può essere quindi fortemente influenzato da meccanismi diversi da quelli strettamente meccanici, come la motivazione e l’attenzione. Nell’anziano ad esempio è noto che i ricordi antichi, i fatti e le esperienze del passato, vengono conservati e ricordati saldamente, mentre vi è un declino nel consolidare e ricordare nuove esperienze. L’anziano tende a ricordare per breve tempo le nuove informazioni ma sembra incepparsi proprio PIETRO SARTESCHI Università di Pisa (continua a pag. 8) REZZARA NOTIZIE Pag. 7 ruolo della ???????? memoria SI CANCELLANO I RICORDI SGRADITI MECCANISMO INCONSCIO DI DIFESA La memoria nei suoi vari aspetti, con le sue indubbie interrelazioni, è l’elemento essenziale per la formazione e la strutturazione delle nostre conoscenze, per cui diventa largamente conseguenziale l’affermazione: memoria è vita! Per potersi adattare a vivere adeguatamente in rapporto al suo ambiente, l’uomo deve poter immagazzinare una enorme quantità di nozioni e stimoli che a loro volta possono essere estremamente complessi, considerando che ad ogni ricordo si legano sensazioni, colori, odori, sentimenti ed una enorme quantità di percezioni che fanno parte integrante della struttura del ricordo stesso. Alcune di queste informazioni sono destinate a durare ben poco (spesso è inutile ricordare un numero di telefono dopo averlo composto), altre invece sono destinate a rimanere per sempre come patrimonio e parte integrante del nostro essere. Ci si è chiesti quali fossero le strutture cerebrali implicate in questo lavoro, e quale fosse il magazzino della memoria a lungo termine. Quando si cerca un corrispettivo anatomico di una funzione psichica il compito è sempre arduo, pare comunque che, per quanto riguarda le funzioni mnestiche, sia indiscutibile l’importanza di una parte molto antica ed interna del cervello, l’ippocampo. Una particolare malattia di questa zona del cervello, la sindrome di Korsakoff, nella quale i pazienti, pur ricordando bene, almeno nelle fasi iniziali, gli avvenimenti lontani, hanno delle gravi difficoltà nel memorizzare dati nuovi, ha, come spesso capita in medicina, dato un importante contributo a questa scoperta. Infatti, in questa sindrome, è stato dimostrato un danno proprio a livello della zona dell’ippocampo. Anche esperienze di tipo chirurgico concordano con l’ipotesi che l’ippocampo sia un punto essenziale di passaggio per l’informazione che deve venire immagazzinata; infatti in un paziente, nel quale fu necessario asportare bilateralmente l’ippocampo, si creò una particolare situazione in cui un ricordo poteva essere mantenuto soltanto fino a che su di esso era concentrata l’attenzione, ma, appena essa cadeva, il ricordo scompariva immediatamente, mentre il patrimonio mnestico preesistente sembrava non venire particolarmente modificato. Da quanto esposto si può concludere che i deficit mnemonici, conseguenti a danni dell’ippocampo, sono più facilmente spiegabili in termini di mancato trasferimento dell’informazione nel magazzino della memoria a lungo termine, piuttosto che di richiamo dell’informazione del magazzino stesso. I risultati sperimentali dimostrano infatti che i pazienti con lesioni dell’ippocampo non hanno difficoltà a ricordare gli eventi precedenti le lesioni stesse, e non presentano deficit per quanto riguarda le capacità tipiche della memoria immediata. Il ruolo dell’ippocampo sembra quindi essere quello di trasferimento della traccia dalla memoria immediata a quella a lungo termine. Forse è però ancora più interessante osservare che l’ippocampo fa parte di un sistema chiamato “limbico” (il sistema della vita affettiva), che è uno dei più antichi del cervello, e che si crede strettamente in relazione con le attività emozionali di maggior rilievo per l’essere vivente. Questo ci riporta ad un’indiretta conferma di quanto dicevamo parlando delle relazioni tra la capacità di memorizzare qualcosa, e l’intensità dell’emozione che questa cosa stimola. Per cercare di comprendere però meglio quale e cosa possa essere il magazzino della memoria a lungo termine è necessario parlare della memoria in termini di modificazioni di una qualche parte della materia vivente, in quanto il ragionamento ci dice che un qualche mutamento deve pure essere intervenuto nel momento in cui una traccia mnestica si è consolidata. Questo ragionamento ci porta sul terreno delle basi biologiche della memoria. Memoria cellulare e acidi nucleici Si è osservato a livello biochimico che la stimolazione da parte ad esempio di stimoli luminosi, cinetici, termici, ecc. produce nelle cellule neuronali una modificazione e un aumento di formazione di una particolare sostanza in esse contenuta, denominata acido ribonucleico (RNA). Gli stimoli esterni possono quindi indurre delle modificazioni che sono, a livello della percezione, quindi in una prima fase, di tipo bioelettrico e, successivamente, nella memoria a lungo termine, sono probabilmente di tipo chimico. Come si può spiegare su questa base il funzionamento della memoria? A fronte dell’apparente scomparsa di dati e ricordi, che spesso ci disturba e ci colpisce nella vita quotidiana, le ricerche sull’oblio ci dicono che esso non è tanto dovuto al progressivo attenuarsi di una traccia, quanto piuttosto alle modificazioni che essa subisce per raggiungere una maggiore stabilità. Infatti le tracce tendono a stabilizzarsi e ad aggregarsi in complessi organici, eventualmente perdendo una parte della loro individualità. La memoria a breve termine sarebbe legata all’attività bioelettrica in forma di circuito neuronico chiuso, una specie di riverbero elettrico, e come tale soggiace rapidamente all’oblio. Le informazioni invece che, attraverso l’RNA sono riuscite ad inscriversi in un certo numero di proteine specifiche, possono considerarsi immagazzinate più stabilmente nella memoria a lungo termine, capace di pronto utilizzo nel caso di ripetersi di stimoli analoghi a quelli che l’hanno improntata. Secondo questo approccio, la scorta di proteine specifiche presenti nel cervello costituirebbe in pratica la memoria di ciò che le cellule nervose hanno percepito. Questa teoria molecolare trova il suo fondamento nella osservazione dell’aumento della sintesi di RNA e proteine nei neuroni in seguito a stimolazione, e nello studio delle conseguenze sulla memorizzazione di agenti che inibiscono la sintesi proteica. Eseguendo infatti esperimenti in animali con farmaci che interrompono la sintesi proteica, essi diventano incapaci di ricordare piccoli comportamenti appresi in quel momento, mentre non dimenticano apprendimenti precedenti. Tutto ciò per ora ci dimostra che un meccanismo biochimico entra a fare parte della memoria, anche se per il momento le nostre conoscenze anatomiche sono limitate alla fase di trasferimento dell’informazione da un magazzino all’altro della memoria; mentre la teoria, peraltro realistica, che la memoria a lungo termine sia la trascrizione di variazioni chimiche in un patrimonio proteico preesistente, resta un’ipotesi da dimostrare. Tipi di prestazione mnestica Lo studio delle tracce mnestiche si evolve attraverso tre fasi, una prima di fissazione o apprendimento, una seconda fase di ritenzione, che non è direttamente indagabile se non attraverso la terza fase che è quella di rievocazione, che ci permette inoltre di vedere se e come la traccia mnestica si è modificata o integrata nel tempo trascorso durante la fase di ritenzione. La rievocazione è dunque il primo dei metodi per saggiare la capacità della memoria. Un esame scolastico, per esempio, è un test di “rievocazione”, cioè si chiede a una persona di ripetere fedelmente ciò che ha imparato, dando risposte corrette. Il secondo metodo che si può usare per verificare la funzione della memoria è il “riconoscimento”, in cui il soggetto deve discriminare, tra vari materiali che gli vengono presentati, quello che aveva imparato in precedenza; si tratta di un compito quindi di identificazione che, notoriamente, risulta assai più facile del precedente. Il terzo metodo, generalmente poco usato a fini pratici, ma con un grande interesse teorico, è il riapprendimento. Per indagare questa attività chiediamo ad un soggetto di imparare qualcosa, per esempio un elenco di sillabe senza senso, poi, trascorso un periodo di tempo che può variare da alcuni secondi a molti mesi od anni, gli chiediamo di “riapprendere” la stessa lista. Se il tempo richiesto nell’esecuzione di quest’ultimo compito diminuisce, cioè se il soggetto “riapprende” più velocemente, oppure il numero degli errori nella prova diminuisce, ebbene allora abbiamo la prova che esiste una qualche persistenza del ricordo. Il riapprendimento, anche se un po’ artificioso, costituisce uno strumento di misura molto sensibile, che di solito segnala l’effetto di eventi mnestici anche nei casi in cui gli altri due metodi di misura non mettono in evidenza alcuna ritenzione. Nelle prove mnestiche, con la rievocazione, si ottengono, inevitabilmente i punteggi più bassi, mentre il riconoscimento è di solito legato a quelli più alti. Questi ultimi valori potrebbero essere ridotti facilmente, presentando gli elementi che devono essere riconosciuti in mezzo ad altri a loro simili: ad esempio, una sillaba senza senso può essere riconosciuta più facilmente se viene presentata tra dei colori che tra delle sillabe a lei simili. Tuttavia, ciò non significa che la traccia mnestica sia più forte quando esaminiamo il ricordo per mezzo del riconoscimento o del riapprendimento, significa soltanto che è più facile scoprirne la persistenza, se utilizziamo un procedimento di misura più sensibile. L’evoluzione delle tracce e l’oblio Abbiamo parlato della traccia e dei probabili meccanismi che sono alla base della sua ritenzione, tuttavia come abbiamo visto, non esiste ancora un preciso accordo sulla natura di questa traccia e sulla sua collocazione spaziale nel cervello, anche se sembra indubbia la sua natura biochimica. Il problema, che la pratica quotidiana della scomparsa col tempo di molte tracce pone, è quello del loro “destino”. È forse utile escludere tutte le cause di oblio di tipo patologico, per prendere in considerazione ciò che la ricerca ci suggerisce a proposito di quella che si può considerare la “normale” evoluzione delle tracce mnestiche. Anche l’oblio potrebbe non essere che un caso particolare, il caso estremo di trasformazione di una traccia, che magari nel modificarsi perde proprio quelle caratteristiche che la rendevano rapidamente PIETRO SARTESCHI Università di Pisa (continua a pag. 8) Pag. 8 REZZARA NOTIZIE ISTITUTO DI SCIENZE SOCIALI “NICOLÒ REZZARA” VICENZA 44° Convegno sui problemi internazionali LE DEMOCRAZIE A CONFRONTO (Recoaro Terme, 9-11 settembre 2011) venerdì 9 settembre ore 16.00 introduzione ai lavori (Sua Ecc.za mons. Beniamino Pizziol, Vescovo di Vicenza) prolusione: La comunione, modello cristiano di vita sociale (Sua Em.za card. Martins Josè Saraiva, Prefetto emerito della Congregazione delle Cause dei Santi) intervento: Valori costitutivi della democrazia (prof. Giorgio Campanini, Università di Parma) LA MEMORIA: STRUTTURA LA CONOSCENZA (continua da pag. 6) a livello della codifica, cioè dell’ingresso nel magazzino a lungo termine. Si è tentato di dare molte risposte al perché di questo fatto, anche a livello biologico, tuttavia non si può tralasciare il fatto che spesso una persone anziana non è realmente “motivata” a ricordare dati e informazioni in quanto queste possono essere sovrabbondanti e irrilevanti ai suoi fini. Si ricordi anche come molti prodotti farmaceutici indicati nei disturbi della memoria, agiscano, nella migliore delle ipotesi, sulle capacità attentive; e come gli stati ansiosi, interferendo con queste ultime, e quelli depressivi, riducendo le motivazioni, possono tradursi in una ridotta capacità a ricordare e ad apprendere. A questo proposito è opportuno far presente come un certo livello di ansia sia indispensabile e favorisca l’apprendimento; se però essa supera una determinata misura ottimale, interferisce negativamente, riducendo l’apprendimento stesso. Ancora per quanto riguarda l’apprendimento, alcuni risultati indicano che vi sarebbe, nell’anziano, un certo rallentamento nell’acquisizione di nuove informazioni, mentre altri dati indicano che nell’età avanzata si utilizzano tempi e strategie diverse nell’imparare, e, che per alcuni compiti nuovi, giovani ed anziani possono equivalersi. Questo tipo di lavoro, a differenza del primo, sembra svolgersi indipendentemente dalla nostra volontà, e ci sorprende, in quanto talora ricordiamo dei fatti o delle cose a cui ci sembra di non avere prestato la minima attenzione, ma forse un esame più attento ci farebbe trovare significati o associazioni che hanno stimolato un meccanismo inconscio di rielaborazione di quel materiale. SI CANCELLANO I RICORDI SGRADITI sabato 10 settembre ore 9.00 lezione: Modelli di democrazie europee e democrazia degli Stati Uniti a confronto (prof. Paolo Feltrin, Università di Trieste) ore 11.00 lezione: Potere e società civile nei Paesi arabi (prof. Massimo Campanini, Università di Napoli) ore 15.30 relazione integrata: Forme diverse di democrazia 1. Democrazia e governabilità (prof. Damiano Palano, Università Cattolica di Milano) 2. Democrazia e relazioni internazionali (prof. Carla Meneguzzi, Università di Padova) 3. Controlli istituzionali della democrazia (prof. Lorenza Carlassare, Università di Padova) 4. Consenso e mass media (dott. Marco Tarquinio, Direttore “Avvenire” di Milano) 5. Partecipazione e democrazia (prof. Franco Riva, Università Cattolica di Milano) domenica 11 settembre ore 9.00 intervento: Democrazia e società civile: sussidiarietà (prof. Gian Candido De Martin, LUISS di Roma) intervento: Democrazia, valori, sicurezza (prof. Filippo Pizzolato, Università “Bicocca” di Milano) intervento: Democrazie occidentali ed Unione europea (dott. Antonio Preto, Capo di Gabinetto del Vice Presidente della Commissione europea) ore 12.30 conclusione dei lavori QUOTA D’ABBONAMENTO La quota di abbonamento per il 2011, da versare sul c.c.p. 10256360 intestato a Istituto “Nicolò Rezzara”, contrà delle grazie 14, 36100 Vicenza è di € 25,00. A quanti invieranno una cifra significativa sarà inviata al più presto una pubblicazione delle nostre edizioni. (continua da pag. 7) rintracciabile. Ciò non significa, però, che una traccia non possa effettivamente sparire, disgregarsi; anche se non possiamo avere una prova certa di ciò (sappiamo solo che quella traccia non è più tale, ma non possiamo dire se essa si è trasformata o sparita), è plausibile che le tracce meno organizzate, meno articolate, caotiche, si disgreghino rapidamente. La rimozione Un particolare argomento che non si può trascurare parlando della memoria è quello della “rimozione”. Il termine, introdotto da Freud, si riferisce ai non infrequenti eventi o vissuti che assumono per la nostra coscienza un contenuto affettivo molto particolare a tonalità generalmente sgradevole, e che, in funzione di meccanismi psicologici ancora non chiariti, divengono del tutto inaccessibili alla coscienza, pur rimanendo a livello inconscio attivi nel determinare delle reazioni o dei comportamenti che spesso non riusciamo a comprendere. Modelli della memoria Lo studio della memoria ha portato nel tempo a concepire la memoria attraverso dei modelli teorici; il più antico di questi è il modello associativo, che ci presenta la memoria come un insieme che si organizza per somiglianza, contrasto e contiguità; sarebbe la forza dell’associazione a fare sì che un ricordo sia mantenuto più o meno bene; in pratica una parola o un evento sarebbero più o meno facilmente ricordabili in funzione di quanto si integrano o si collegano ad un “reticolo” di tracce già presenti. In questo schema teorico pertanto, la memoria è vista come un immenso reticolo associativo che consta di unità verbali e di relazioni. Questo modello, come anche altri, tende a porre l’accento sul dato, sulle cose od oggetti, che il soggetto deve immagazzinare o ricordare; altri modelli invece, partendo da esperimenti di rievocazione di avvenimenti realmente vissuti, hanno accertato che i soggetti non ricordano passivamente ciò che vedono o sentono, ma scelgono e interpretano a seconda di quelli che sono i loro atteggiamenti nel momento in cui l’evocazione ha luogo. Il ricordo è quindi spesso una costruzione attiva basata su schemi che si evolvono. Questi modelli si propongono di considerare l’uomo come oggetto psicologico che opera sull’informazione proveniente dal mondo esterno, codificandola e decodificandola. È quindi sulla base di questi schemi che si ricorda l’esperienza passata che viene per così dire filtrata due volte, una attraverso l’atteggiamento, o il “colore” emotivo con cui essa è stata vissuta la prima volta, la seconda attraverso il momento della ricostruzione. Questo modello, che vede la memoria non come una funzione isolata, ma come un processo di rielaborazione che coinvolge l’intera personalità, potrebbe far pensare ad una memoria che non sia realmente “fedele”, ma in realtà, sarebbe il risultato di un lavoro di investimenti emozionali, cioè di una interazione tra le informazioni provenienti dall’esterno e le conoscenze del soggetto. Questa è anche una via attraverso la quale si può, in parte, capire perché certe esperienze o sensazioni sembrano mutare nel ricordo e nel trascorrere del tempo; non tanto per un deterioramento della memoria o per una perdita delle tracce, quanto perché il loro valore muta con il mutare della persona, delle sue spinte, dei suoi bisogni, del suo essere nel mondo. In quanto unità dinamica l’uomo è in uno stato di costante cambiamento; in termini psicologici la sua “motivazione”, cioè la spinta conscia o inconscia ad agire, si trasforma continuamente, e gli atti di rievocazione e di riconoscimento fanno parte di una situazione dinamica e complessa. Abbiamo cercato di vedere la funzione della memoria da vari punti di vista: quello strutturale che, ancora limitato dalle nostre scarse conoscenze, ci ha però indicato l’importanza di alcune regioni del cervello e della loro integrità per il corretto funzionamento della complessa funzione del ricordare; quello sperimentale, il quale ci ha fornito dei dati che ci hanno portato a modificare profondamente le antiche visioni della memoria come struttura unitaria, quasi un “serbatoio” di informazioni, per indicarci una molteplicità di funzioni che si integrano a formare un complesso sistema articolato in più strutture funzionali; quello biologico, su cui si centrano la maggior parte delle attuali ricerche farmacologiche di sostanze che siano in grado di migliorare e di mantenere più a lungo nel tempo la stabilità delle tracce mnestiche; ma soprattutto abbiamo visto quale importanza possa avere, anche nella funzione del ricordo, la psiche nel suo complesso, che si rivela capace in un certo senso di “scegliere” e di selezionare, talvolta già nella fase dell’apprendimento, ciò che deve entrare a fare parte del nostro patrimonio psichico e quanta importanza in questo abbia la sfera dell’affettività e delle motivazioni, e quale sia il ruolo dell’attenzione e della concentrazione, ed in un certo senso del “desiderio” di imparare o ricordare.