PAURA DI NON RICORDARE MEMORIA E IDENTITA PERSONALE `

Anno XLI - n. 5 - luglio 2011
ISSN.: 0391-6154
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PAURA DI NON RICORDARE
` PERSONALE
MEMORIA E IDENTITA
Non sempre il fatto di non ricordare è dovuto ad un “errore” della memoria,
ma può essere il frutto, per così dire, di una “scelta”, anche inconscia, legata a nuove motivazioni o momenti del divenire nel tempo dell’uomo, che
apparentemente cancella cose che forse, a ben vedere, potrebbero essere
non utili o addirittura fastidiose nella sua “economia” psichica presente.
Quando si parla di età
anziana e memoria si deve
constatare l’esistenza di
un paradosso. Da un lato è
noto a tutti che, tranne rare
eccezioni, per gli anziani
i ricordi sono un elemento centrale dell’esistenza,
come è esemplificato da
una serie di luoghi comuni
sul “vivere di ricordi”, “non
potersi separare dai propri
ricordi”, ecc. In questo caso
la memoria è vissuta come
qualcosa di intrinsecamente
positivo. Dall’altro lato un
ruolo centrale nell’esperienza dell’anziano lo ha
anche la sensazione di “avere
problemi di memoria”, tanto
più angosciosa quanto più è
legata alla paura di perdere
una parte così importante
della propria identità.
Nella prima accezione si
parla di memoria come di
patrimonio di ricordi accumulati dall’individuo negli
anni della sua vita (memoria autobiografica). Nella
seconda accezione invece
ci si riferisce al funzionamento della memoria, intesa
come processo cognitivo che
comprende l’operazione di
codificare e immagazzinare
l’informazione in una fase di
apprendimento e di rievocarla
in una fase di recupero.
Queste due accezione
di “memoria” non vanno
confuse. Allo scopo di separare il loro ambito e di
sottolineare solo dopo le
possibili interconnessioni,
questo lavoro è diviso in alcune parti che si tratteranno
brevemente: il ruolo che ha
la memoria autobiografica
nell’identità dell’anziano;
impressioni soggettive che
hanno gli anziani sulla
propria memoria; qualche
cenno sul funzionamento
della memoria umana.
Non c’è qui una parte in cui
si dica che cosa può fare un
anziano per migliorare la sua
memoria: non sarebbe corretto, da parte mia e in questa
sede, dare ricette o consigli
che vadano oltre qualche
cenno sulla direzione che
sta prendendo la ricerca
psicologica sugli anziani.
Ma, come si potrà vedere,
il quadro complessivo che
esce da questa presentazione
non è certamente quello di
un anziano che ha perduto
i contatti con la propria
memoria e quindi con pezzi
della propria identità. Il
mio tentativo sarà quello di
EVOLUZIONE DELLA MEMORIA
chiarire quali siano, al di là
dei luoghi comuni e delle
sensazioni vaghe, gli ambiti
precisi (e limitati) in cui si
può parlare di deterioramento delle prestazioni di
memoria dell’età anziana.
La conoscenza di questi
ambiti potrebbe forse essere
d’aiuto a non rappresentarsi
un quadro a tinte più fosche
del necessario ma a ridimensionare i cambiamenti portati
anche alla nostra memoria da
un processo non patologico
di invecchiamento.
Memoria autobiografica
e identità dell’anziano
L’attività di “ricordare”
spontaneamente dei periodi
anche lontani della propria
esistenza ha un ruolo centrale
nella vita quotidiana di quasi
tutti gli anziani. Si ricordano
nei particolari avvenimenti,
persone, luoghi. I luoghi
hanno anche un’importanza
specifica in questo ricordare;
spesso gli anziani riferiscono
che un luogo (una strada,
una casa) li aiuta particolarmente a ricordare, a ricreare
presenze e sentimenti lontani
nel tempo. Molti eventi della
nostra vita sono associati
strettamente al luogo in cui
sono avvenuti. Questo è certamente uno dei fattori per cui
agli anziani spesso è molto
difficile immaginare di vivere
in un posto diverso da quello
a cui sono abituati, ed è anche
certamente uno dei fattori di
depressione quando le circostanze costringono l’anziano
a cambiare casa o quartiere.
Non sempre il passato può
essere ricordato con piacere,
ma anche se al ricordo si
mescolano sensi di colpa o
disperazione, pure ricordare
fa parte della nostra identità,
in quanto ci si assicura una
continuità nel tempo. Questa
sembra essere la funzione
MARIA ROSA BARONI
Università di Padova
(continua a pag. 2)
BIOLOGIA E MEMORIA
“Noi siamo quelli che siamo in virtù di ciò che abbiamo
imparato e che ricordiamo”. Con questa frase lo psichiatra e neuroscienzato Eric Kandel, premio Nobel nel 2000
per le sue ricerche sulla memoria, sintetizza 50 anni di
studi e sperimentazioni. Apprendimento, conoscenze ed
esperienze lasciano un segno tangibile dentro di noi, una
specie di cicatrice. Modellano la struttura stessa del nostro
cervello, rendendoci assolutamente unici, diversi da tutti
gli altri. Ma un’esperienza non diventa necessariamente
un ricordo permanente: deve essere legata strettamente
al circuito emozionale dell’individuo o al sistema di gratificazione dei suoi bisogni. Esiste infatti una relazione
diretta tra le emozioni suscitate da un’esperienza ed il
radicamento del ricordo nella mente.
Già la psicologia e la psicoanalisi avevano chiarito la
fondamentale importanza delle esperienze e dei ricordi
nella costruzione della identità personale, ma ora le neuroscienze sono in grado di svelarci come in realtà i ricordi
significativi vengono a far parte stabilmente del nostro
cervello. Si sono svelate le basi biologiche della memoria.
Ogni ricordo è una modificazione dello stato biochimico
(memoria a breve termine) o anatomico (memoria a lungo
termine) del cervello. Studiando l’elegante semplicità del
riflesso di ritrazione della branchia nella lumaca di mare
Aplysia, il grande neuroscienziato Eric Kandel è giunto a
svelarci che ciò che si modifica durante l’apprendimento
è la rete di connessioni tra neuroni cerebrali attraverso
le relative sinapsi. Il segreto sta proprio lì, nella sinapsi,
sottilissimo spazio vuoto tra la terminazione di un neurone
e il corpo di un altro. I neuroni non si toccano, ma sono
così vicini da potersi trasmettere messaggi elettrochimici:
“come labbra che parlano molto vicino a un orecchio”.
Se la sinapsi è solo rinforzata per l’aumentata presenza
del neurotrasmettitore glutammato, il ricordo sarà temporaneo, giusto quello che serve per usarlo (memoria di
lavoro o a breve termine). Ma se si formano nuove sinapsi,
come nuove radici per una pianta, allora il ricordo sarà
per sempre, anche per tutta la vita (memoria a lungo
termine). Quando un ricordo è meritevole di diventare
persistente? Semplicemente quando è ripetuto, elaborato,
consolidato. Oppure, con una straordinaria scorciatoia,
quando è accompagnato da una carica emozionale, che
funziona come innumerevoli ripetizioni dell’esperienza.Il
rimodellamento delle sinapsi richiede la sintesi di nuove
proteine e perciò chiama in causa il controllore supremo
del metabolismo cellulare, il DNA, attraverso i suoi geni.
In definitiva la costruzione di nuove sinapsi dipende da
variazioni dell’espressione genica nei neuroni, legate
all’esperienza. Kandel con la sua lumaca ha risolto perciò
l’annosa questione sul primato della genetica, dell’evoluzione e dell’esperienza nella costruzione dell’architettura
individuale del cervello. I processi genetici ed evolutivi
determinano le connessioni neurali, ma non ne determinano la forza, che è regolata invece dall’esperienza.
L’apprendimento, infatti, compie una selezione tra un vasto
repertorio di connessioni preesistenti alterandone la forza.
Queste scoperte sulla natura sinaptica della memoria sono
l’ossatura della concezione connessionista della mente,
ma lasciano ancora largo margine al mistero e alla magia
di un fenomeno così complesso. Alla fine Kandel ci sorprende con una ultima, audace ipotesi relativa ai ricordi
indelebili: “e se vi dicessi che la proteina attivatrice dei
geni ha proprietà simili al prione?”.
MARIA LUISA PEDROTTI
Pag. 2
REZZARA NOTIZIE
PAURA DI NON RICORDARE
(continua da pag. 1)
essenziale del ricordo del
passato; nonostante un certo
irrigidimento e resistenza al
cambiamento che sembrano
caratterizzare i cambiamenti
di personalità e atteggiamenti
dell’invecchiamento, a molti
individui questo “fare i conti
con il proprio passato” dà un
aiuto per mettere in atto quei
cambiamenti necessari per
adattarsi meglio al proprio
presente. Il ricordare diventa
una vera attività di difesa
del proprio sé minacciato
dall’immagine del presente.
Anche il ricordo di parenti
e amici scomparsi serve a
questo tipo di difesa. La
letteratura psicologica riporta anche casi in cui questo
attaccarsi al ricordo porta
episodi di vere e proprie allucinazioni, come credere di
vedere o udire qualcuno che
non è presente realmente.
Queste allucinazioni però non
vengono interpretate esclusivamente in senso positivo
come risorse per ricostruire
una sensazione illusoria di
vicinanza affettiva che è venuta a mancare. Ricordare per
ritrovare una propria identità,
soprattutto in condizioni in
cui il presente è per qualche
ragione insoddisfacente o
addirittura insopportabile,
infine, non è solo prerogativa
degli anziani, ma può essere
una risorsa anche in altre età.
Non tutti gli anziani fanno
ricordo ai ricordi del passato
allo stesso modo: anche in
questo campo, come in altri,
la ricerca psicologica sugli
anziani ha messo in luce che
esistono grandi differenze
individuali. È importante
però notare che questo non
avviene perché una parte dei
ricordi non sia più accessibile
ad alcuni individui anziani. La
cosiddetta memoria terziaria
è una funzione sostanzialmente inalterabile con l’età.
Intervengono invece fattori
in parte cognitivi in parte
affettivi come gli “stili” individuali che determinano,
indipendentemente dall’età
ma più frequentemente negli
anziani, scelte differenti di
comportamento.
Impressioni soggettive
sulla memoria
È opinione diffusa che la
memoria abbia un deterioramento nell’età anziana.
Esperienze in cui la memoria
sembra venirci meno, come
l’incapacità di associare una
faccia a un nome, di ricordare
se abbiamo chiuso o no la
Il numero riprende
interventi deregistrati
in vari convegni organizzati dall’Istituto
Rezzara.
porta di casa, o di ricordare il
titolo di un libro che abbiamo
letto l’anno scorso, sono abbastanza comuni a tutte le età
e dipendono da una quantità di
fattori, legati sia al momento
in cui abbiamo immagazzinato il ricordo sia al momento in
cui ci sforziamo di recuperarlo. Tuttavia queste esperienze
sembrano essere più frequenti
nelle persone anziane; questa
opinione è rafforzata dal fatto
che uno stesso episodio di
“vuoto di memoria” come
quelli citati, in un giovane è
attribuito ai fattori più vari,
ma in un anziano viene infallibilmente attribuito all’età.
Qui si evidenzia un primo
aspetto del problema, che è
l’impressione soggettiva che
un anziano ha della propria
memoria, e soprattutto dei
propri fallimenti di memoria.
La tendenza che hanno
gli anziani ad esagerare i
loro problemi di memoria
(e ad attribuirli all’avanzare
dell’età) emerge da una ricerca di Roberts (1983), da
cui risulta che riferiscono di
avere problemi di memoria il
6% delle persone tra i 20 e 29
anni; il 12% delle persone tra
i 40 e 59 anni; il 46% delle
persone sopra i 59 anni.
In Italia, una ricerca di Cornoldi e De Beni (1988) mette
in luce come, nel fare una
previsione della propria prestazione prima di una prova
di memoria, soggetti anziani
diano stime meno realistiche
dei giovani di pari istruzione.
Questo atteggiamento pessimistico nei riguardi della
propria memoria dipende,
secondo gli autori, da vari
fattori, tra cui soprattutto: 1)
dal fatto che spesso l’anziano
da molti anni non è sollecitato
a compiere compiti di memoria; 2) dall’atteggiamento
depressivo generale dell’anziano, che implica anche la
sottovalutazione delle proprie
capacità di memoria.
I magazzini di memoria
Ma che cosa succede quando si va a vedere che cosa veramente l’anziano è in grado
di ricordare? Per rispondere
a questo quesito è necessario
dare alcune semplici definizioni e presentare brevemente
un modello di come funziona
la memoria umana.
Questo modello di Atkinson e Shiffrin (1971), presentato qui nella versione di
Cornoldi (1986), descrive il
passaggio delle informazioni
(stimoli ambientali in arrivo) dapprima attraverso la
memoria a breve termine e
infine nella memoria a lungo
termine. Il registro sensoriale
si ipotizza che sia un primo
“magazzino di memoria”,
che trattiene gli stimoli per
pochi decimi di secondo, per
permettere ai nostri organi
sensoriali di percepirli. In
altre parole, questa funzione
ci permette di analizzare
stimoli anche molto brevi
(per esempio una luce o
un suono istantanei) anche
dopo che sono fisicamente
svaniti. Da questo magazzino l’informazione (che non
ha ancora subito nessuna
elaborazione) passa nella
cosiddetta memoria a breve
termine, dove si ritiene che
venga conservata per qualche
secondo (fino a 30 secondi
circa). Il magazzino della
memoria a breve termine ha
una capacità molto ridotta,
e permette solo una limitata
quantità di informazioni
di essere presenti. Quando
entrano nuove informazioni,
quelle più vecchie escono.
Per esempio, se sentiamo,
o leggiamo, una serie di numeri di una cifra, possiamo
tenerli a mente se sono 6 o
7 (per esempio un numero
di telefono, per il tempo di
comporlo sull’apparecchio);
ma se la lista è più lunga e
non mettiamo in atto nessuna
particolare tecnica per ricordare, una parte dei numeri
che ascoltiamo o leggiamo
certamente andrà perduto.
Se leggiamo una frase
lunga due o tre righe, ne capiamo il significato perché,
arrivati all’ultima parola,
manteniamo nella memoria a
breve termine le parole precedenti. In genere non occorre
nessuno sforzo volontario
per compiere un’operazione
di questo genere, però, se
dobbiamo tenere a mente un
numero di telefono per un
certo tempo (per esempio, per
raggiungere un apparecchio
in un’altra stanza), la tecnica
più semplice che possiamo
mettere in atto è quella di
ripeterne mentalmente le
cifre. Ma se non lo fissiamo
in altro modo, per esempio
scrivendolo, è facile che il
numero esca dalla nostra memoria a breve termine appena
facciamo entrare delle altre
informazioni.
Dalla memoria a breve
termine alcune informazioni entrano nel magazzino
successivo, cioè quello della
memoria a lungo termine,
che può essere considerato un
magazzino permanente della
memoria. Le informazioni
apprese vengono immagazzinate in quantità teoricamente
illimitata. Questo non vuol
dire che tutte le informazioni
contenute nella memoria a
lungo termine siano sempre
immediatamente disponibili.
Il motivo per cui, in certe
circostanze, non riusciamo
a recuperare un particolare
ricordo è che, anche se lo
conserviamo da qualche
parte della memoria a lungo
termine, abbiamo perso la
traccia per raggiungerlo. A
volte è sufficiente uno sforzo
di concentrazione nostro o
un aiuto esterno, o semplicemente riprovare a recuperare
l’informazione in un momento diverso, e il ricordo torna
alla nostra mente.
Naturalmente non tutte le
informazioni che entrano nel
nostro registro sensoriale e
nella memoria a breve termine passano poi nella memoria
a lungo termine. Il passaggio
tra questi due ultimi magazzini di memoria è nei due
sensi; avviene cioè anche
il passaggio di un’informazione dalla memoria a lungo
termine alla memoria a breve
termine. Per esempio, se vediamo una faccia conosciuta
(informazione che entra nella
memoria a breve termine)
cerchiamo di ripescare nella
memoria a lungo termine il
nome di questa persona o la
circostanza in cui l’abbiamo
già vista (in quest’ultimo
caso si tratta di memoria
episodica). In questo modo
richiamiamo un contenuto
della memoria a lungo termine a breve termine. Il processo
può avvenire anche in modo
meno cosciente: per esempio,
quando leggiamo una frase,
il significato delle parole ci
viene fornito dalla memoria a
lungo termine (in questo caso
la memoria semantica), con
cui confrontiamo lo stimolo
(parola letta) presente nella
memoria a breve termine.
Memoria secondaria
e memoria terziaria
Sempre ai fini di una
migliore rappresentazione
di come funziona la memoria degli anziani, è utile
introdurre un’altra differenziazione all’interno della
memoria a lungo termine
tra “memoria secondaria”
e “memoria terziaria” (per
“memoria primaria” si intende la memoria a breve termine). La memoria secondaria
si riferisce alle informazioni
immagazzinate in tempi recenti e la memoria terziaria
a informazioni immagazzinate da lungo tempo, per
esempio, per un anziano,
a memorie dei tempi della
scuola, o della giovinezza.
Rievocazione
e riconoscimento
Quest’ultima nota è relativa
alle tecniche per esaminare le
prestazioni di memoria. Le
due più usate sono la rievocazione e il riconoscimento.
Nella prova di rievocare
(oralmente o per iscritto),
una data informazione, senza
dargli nessuno stimolo che
gli sia d’aiuto: per esempio
“Qual è il contenuto del libro
che hai letto?”; “Qual è il
nome della capitale dell’Afghanistan?”; “Qual è il nome
dell’attore rappresentato in
questa foto?”. Nella prova di
riconoscimento, invece, sono
presentate al soggetto alcune
delle possibili risposte, tra cui
deve “riconoscere” quella
giusta (cioè lo stimolo che gli
è stato presentato nella fase di
apprendimento). Per esempio la domanda può essere:
“Quale di queste quattro facce
è quella che hai già visto?”;
oppure “Questa parola era o
no compresa nella lista che
hai letto precedentemente?”.
Naturalmente esistono anche
altre tecniche, come quella
del “ricordo guidato”, ma per
esigenze di brevità non se ne
parlerà qui.
PUBBLICAZIONI SULL’ETÀ ADULTA
Da più anni l’Istituto Rezzara attua ricerche
sociologiche sulla problematica della vita adulta
ed anziana per cogliere il modo di pensare delle
persone, la loro crescita culturale, le loro attese, così
da poter aggiornare costantemente i programmi da
proporre, non in base a desideri superficiali ma a
bisogni profondi. Nelle ricerche appare chiaramente
la centralità della vita di relazione e la valenza della
proposta culturale per tenere desto l’esercizio delle
facoltà mentali ed i motivi per conoscere ed apprendere senza limiti di età.
DAL FERRO G., Uso dei mass media nell’età adulta,
Rezzara, Vicenza, ISBN 88-85038-71-9, pp. 64.
DAL FERRO G., Le Università della terza età: chi le
frequenta e perché, Rezzara, Vicenza, ISBN 88-8659007-5, pp. 104.
DAL FERRO G., La vita di relazione, Rezzara, Vicenza,
ISBN 88-86590-43-1, pp. 140.
DAL FERRO G., Adulti maturi intraprendenti e saggi,
Rezzara, Vicenza, ISBN 88-86590-83-0, pp. 136.
* * *
AA.VV., La relazione nella vita umana, Rezzara,
Vicenza, ISBN 88-86590-66-0, pp. 208.
REZZARA NOTIZIE
Pag. 3
STEREOTIPI SOCIALI CREANO L’ANZIANO
L’EMOTIVITA` GIOCA UN RUOLO PRIMARIO
Affrontando il tema anziani
ed emozioni credo di poter
affermare che non esista una
particolare capacità emozionale nella terza età, capacità
intesa come caratteristica
comportamentale specifica
di questo stadio della vita.
Personalmente ritengo che
gli anziani si comportino
come qualsiasi altro adulto
e che quindi vivano la loro
quotidianità usando tutte le
emozioni, che dopo i primi
mesi di vita e l’adolescenza,
sono diventate patrimonio di
ogni adulto.
Non bisogna negare però
che spesso ci si occupa degli
anziani come una categoria
fin troppo speciale, raggruppando sotto questo termine
realtà, vissuti e storie di vita
tra loro molto differenti.
L’invecchiamento
L’invecchiamento è un processo a rilevanza biologica,
sociologica e psicologica. La
biologia fa iniziare l’invecchiamento al venticinquesimo anno di età; la vecchiaia
inizia invece, nel momento in
cui è possibile rilevare i segni
anatomici della stessa, sia
esterni che a carico dei diversi
organi e apparati, anche determinate limitazioni in alcune
funzioni. Generalmente tale
momento viene fissato verso
il 65° anno di età, mentre la
longevità si ritiene, oggi, che
sia il periodo di vita oltre gli
80 anni.
Per la sociologia l’ingresso
nella vecchiaia inizia con l’età
pensionabile, questo limite è
stato fissato proprio perché
è a questa età che avviene il
maggior numero di ritiri, ossia
la maggior parte degli uomini
e delle donne abbandona la
propria attività lavorativa e
deve perciò trovare un adattamento alle nuove condizioni
di vita, sia dal punto di vista
individuale che familiare e
sociale.
Per quanto riguarda la
psicologia è necessario precisare, che nell’affrontare lo
studio dell’invecchiamento
e della vecchiaia, essa ha
sempre cercato di rispettare
le caratteristiche della personalità di ogni individuo,
integrando anche la visione
biologica e quella sociale.
Gli aspetti che abbiamo
considerato, vale a dire
quello biologico, sociale e
psicologico, anche se non
sempre si sovrappongono, si
influenzano reciprocamente.
A seconda dell’epoca storica, della cultura e dell’organizzazione produttiva la
società divide in maniera
differente il ciclo di vita,
dandogli rilevanza e valori
diversi. In epoche passate
La società industriale e la cultura che essa produce finiscono per incidere pesantemente sugli aspetti psicologici e biologici della senescenza, quasi obbligandola entro scansioni temporali e ambiti istituzionali.
l’ingresso nell’area degli
anziani era molto anticipato
rispetto ad oggi ed acquistava
per l’individuo significati di
prestigio e di autorevolezza.
Nella nostra realtà l’innalzamento dell’età media,
l’aumento della popolazione
anziana hanno determinato
un allungamento dei vari cicli
vitali, quali l’adolescenza, la
giovinezza e la maturità.
Tuttavia, il pensionamento è l’elemento che segna
il passaggio verso la sene-
Si parla spesso di
un appiattimento della capacità emotiva
nell’anziano, di un disinteresse emozionale
alla vita, di una limitata
capacità relazionale e
affettiva. Ma se non
fossimo condizionati
da stereotipi e da pregiudizi, e non cercassimo di inscatolare la
realtà in categorie divise da un filo spinato,
ci renderemmo conto
che tutto ciò non solo è
falso, ma che produce
anche delle situazioni
di emarginazione e di
disadattamento per le
quali l’anziano non è
il regista, ma solo una
comparsa della scena.
scenza sociale. La società
industriale e la cultura che
essa produce, finiscono
per incidere pesantemente
sugli aspetti psicologici e
biologici della senescenza,
quasi obbligandola entro
scansioni temporali e ambiti istituzionali. Ma anche
all’interno della nostra
cultura la vecchiaia è una
categoria relativa che si rifà
ad ambiti e ruoli; difatti là
dove un campione sportivo
viene considerato ormai
anziano, un uomo politico
o un intellettuale possono
considerarsi ancora giovani.
Relatività del concetto
di vecchiaia
Nella nostra realtà la condizione di vecchio è intrinseca
di valori negativi e posta
sempre in relazione ad un
qualche criterio di produttività. La relatività del concetto di vecchiaia può essere
estesa anche alla dimensione
biologica, il decadimento di
certe funzioni può avere una
rilevanza soggettiva e sociale
solo in rapporto all’importanza di queste nell’ambito
di una qualche produttività.
Esistono poi vari modi di
invecchiare, ognuno dei quali
risente dei percorsi biografici
individuali.
Il processo di senescenza
Il processo di senescenza
va messo in rapporto con
l’ambiente che lo ospita,
che lo previene, che lo ritarda, oppure che lo accelera.
Hanno un peso rilevante in
questo processo, la famiglia, l’ecosistema urbano,
le strutture sanitarie ed assistenziali; soprattutto quando
si programmino ed agiscano
nei confronti di un vecchio
immaginato, non reale, frutto
di stereotipi, di pregiudizi e di
etichette istituzionali.
La definizione di anziano,
il relegamento a tale ruolo,
il riconoscersi negli attributi
emotivi, comportamentali
e relazionali, in altre parole
la definizione della propria
identità, avviene nel vecchio
attraverso le persone per lui
più significative. Ai figli, ai
medici, agli infermieri, ai
nipoti è attribuita inconsapevolmente tale facoltà, non
senza resistenze e conflitti.
L’adattamento a tali attribuzioni di ruolo, produce nella
persona anziana una falsa
consapevolezza. È così che
egli è portato a credere che
i bisogni e le motivazioni
che gli vengono proposte
come corredo della vecchiaia
siano sue.
È qui che a mio parere
possiamo inserire il discorso
sulle emozioni nella terza età.
È chiaro a questo punto
che l’anziano fa suo un corredo emotivo che gli viene
suggerito dalle persone e
dalle situazioni che lo circondano e che gli attribuiscono un’identità alla quale
deve semplicemente aderire,
senza possibilità di contrattazione. Vediamo allora che
le persone, soprattutto dopo
il pensionamento, perdono
l’identità principale a cui
avevano assicurato la loro
vita, vale a dire l’identità
legata al ruolo di lavoratore,
e vengono a trovarsi in una
condizione di smarrimento e
quindi sono più vulnerabili e
assorbono più passivamente
condizioni, luoghi comuni e
attribuzioni comportamentali riguardo il loro ruolo e la
loro identità. In realtà la maggior parte delle convinzioni
sulla condizione emozionale
degli anziani è solo frutto di
pregiudizi a cui molto spesso gli anziani si adeguano.
Le ricerche sulla “profezia
che si autorealizza” hanno
dimostrato che alcune caratteristiche, anche fisiche e motorie, che riteniamo prodotte
dalla senescenza, derivano
in gran parte dall’adesione
dell’anziano alle immagini
stereotipiche della vecchiaia.
Se le generazioni, produttive in senso stretto, non
Lo studio dell’uomo
anziano non può essere una astrazione
ma deve fare riferimento costante alle
realtà in cui vive. A
60 anni, se non intervengono situazioni
di patologia fisica
e più precisamente
neurologica, il decadimento psichico non
supera il 15% e a 70
anni il 18% della massima efficienza mentale, queste riduzioni
sono compensate da
altre capacità acquisite, non soggette a
decadimento, come
per esempio il vocabolario, la capacità
logica e la cultura.
espropriassero gli anziani
della possibilità di decidere
della propria vita, probabilmente si accorgerebbero che
gli anziani di ambo i sessi
sono vivi, pronti a esperienze
nuove, a relazioni rinnovate
e non hanno mai perso la
capacità di incidere ancora
in maniera significativa nella
vita di tutti i giorni.
Da un punto di vista emotivo, la capacità di rapporto e
di affetto con le generazioni
più giovani potrebbe essere
una importante ricchezza, se
non fosse inibita dalle generazioni di mezzo, che con la
loro superficialità relazionale
si stanno, a mio parere, preparando un terreno non facile
per la loro vecchiaia.
Oggi, anche attraverso una
sempre maggior attenzione
verso questa tappa della vita,
si sono sviluppati ambiti
di ricerca che, in maniera
sempre più incisiva, dovrebbero contribuire ad abolire
gli stereotipi che circolano
nell’opinione comune ri-
spetto alla condizione di
anziano.
Per esempio alcuni recenti
studi sulla perdita di memoria
dell’anziano hanno mezzo
in evidenza che tale deficit
è da porre in correlazione
soprattutto alla diminuita
motivazione dell’anziano
verso il ricordo a breve termine, in quanto frustrante e
scarsamente significativo, e in
quella che possiamo chiamare
perdita di esercizio.
La perdita di memoria
Il deficit di memoria risulta essere anche una tattica difensiva molte volte
inconscia, oppure un assecondamento al ruolo di
anziano, invalido, incapace,
minorato e quindi all’utilizzo
di un ruolo dipendente. Altre
ricerche sul decadimento
psichico dimostrano che
l’ingresso nella categoria
dell’anziano, con tutte le
implicazioni negative che
questo ingresso comporta
nella nostra realtà, è soggetto
a differenze individuali che
non possono essere evocate
dal pensionamento. Indubbiamente i vecchi sono un
gruppo sociale che corre in
particolar modo il rischio di
essere percepito attraverso
stereotipi. I valori dell’attivismo, dell’efficienza, a cui
noi aderiamo, peggiorano
l’immagine dell’anziano,
divenendo l’unico parametro
attraverso cui valutiamo le
sue risorse psico-fisiche.
Le idee preconcette sulle
capacità e i bisogni della
vecchiaia determinano anche
le prassi istituzionali, gli atteggiamenti, le convinzioni
assistenziali e terapeutiche,
programmate più per un
anziano debole, incapace
ed inutile, frutto del nostro immaginario collettivo,
piuttosto che della sua realtà
biologica e psicologica.
Una cultura della vecchiaia che scaturisca da
questi presupposti determina
nell’anziano condizioni di
disadattamento oggettivo. Disadattamento che tende ad aggravarsi quando si salda con
gli effetti della senescenza,
ossia con i processi involutivi
che riguardano la memoria
ed altre capacità cognitive
espressive e culturali.
Oggi più che mai sembra
importante l’impiego conoscitivo, preventivo e terapeutico, che per potersi attuare
deve superare le fissità delle
immagini e degli stereotipi a
cui si accompagna il fatalismo
della vecchiaia, accettando
che essa è anche molto spesso
prodotta.
CRISTINA MAZZINI
psicologa e psicoterapista
Pag. 4
REZZARA NOTIZIE
conoscenza
????????
ed emotività
CAPACITA` COINVOLGENTE DELLA CONOSCENZA
OGGETTIVITA` E SOGGETTIVITA` INTERAGISCONO
Una premessa introduce
la necessità di scomporre il
termine stesso “conoscenza”: la questione del rapporto
fra conoscenza ed emotività
è infatti, credo, affrontabile
diversamente a seconda che
si parli di conoscenza oggettiva o conoscenza soggettiva.
Conoscenza oggettiva
La conoscenza oggettiva
è quella della scienza (della
scienza occidentale del nostro tempo): in essa si tratta
di mettere da parte tutto ciò
che è contingente, storico; è
pertanto caratterizzata dalla
ripetibilità degli eventi e si
definisce in funzione della
possibilità di verifica o, in
termini più moderni, di falsificazione dei suoi enunciati.
Quello che si tratta di mettere
fuori gioco è il soggettivo, il
soggetto. Si avvale di un’idea
di verità in senso forte,
eternamente ricostituibile in
quanto data, o oggettivamente raggiungibile una volta per
tutte seguendo un metodo di
aggiustamenti successivi.
Compito del ricercatore, a
questo livello, potremmo
dire sia quello - per molti
versi impossibile seppure
proficuo - di uscire da sé
per incontrare le cose, senza
pregiudizi.
Conoscenza soggettiva
La conoscenza soggettiva
si definisce rispetto a questo innanzitutto per ciò che
non è: non è semplicemente
quella che fa del soggetto il
proprio oggetto di studio; in
tal senso l’obiettivo sarebbe
ancora quello di uscire dalla
contingenza per andare a
stabilire definitivamente
cosa oggettivamente sia il
soggetto, renderlo afferrabile, incasellabile, eternamente
ricostruibile, controllabile
e verificabile. È quello che
d’altra parte generalmente
fa la psicologia volendosi
costituire come scienza
obiettiva della soggettività,
ed è quello che secondo Husserl le scienze europee hanno
fatto a partire da Galileo (dal
suo tentativo di “matematizzazione del mondo dei
pieni”) ed hanno continuato
con e dopo Cartesio (col
tentativo di riduzione dello
psichico al fisico), sebbene
in entrambe le teorizzazioni
esistessero i presupposti per
avviare anche un altro tipo di
discorso. Il risultato di tale
impostazione è ancora una
volta la dimenticanza del
soggetto.
Se non si può dire che la
conoscenza soggettiva sia
questa, sarà allora quella
che reimmetterà il soggetto
fra i suoi interessi, non accontentandosi di fare di esso
il proprio oggetto di studio,
ma ben più radicalmente
includendolo fra i dati del
problema: il soggetto in
quanto soggetto, cioè il soggetto in quanto tale, nella sua
specificità irripetibile, nella
più assoluta contingenza. Ma
è possibile una conoscenza
siffatta?
Già per Husserl la cosa
non è solo possibile, bensì
addirittura implicita nella
stessa formulazione cartesiana del cogito. Quando cioè
Cartesio nel formalizzare
la sua ipotesi ci dà il noto
aforisma “cogito, ergo sum”,
con esso non pone solo la
certezza di sé, della propria
esistenza, ma fonda anche nel
soggetto la certezza di ogni
conoscenza. Solo che si tratta
di un soggetto inteso come
res (res cogitans), di una
mente ridotta a cosa. Come
Husserl rende evidente con
la sua analisi del percorso
della scienza in Occidente,
quello che ne è risultato è
stata infatti la progressiva
sottomissione dello psichico
al somatico, nel senso di
assuefarlo alle leggi di ciò
che è “cosa estesa”, in quanto
leggi già sperimentate come
valide.
Così nel XIX secolo, con
la nascita ufficiale delle
“scienze dello spirito”, pur
nel tentativo di fondarle
autonomamente da quelle
“della natura”, ci si lascia
ancora dominare da un tale
modello; così ancora la psicologia continuerà a nutrirsi
del sogno di realizzarsi come
scienza universale dell’essere psichico ad immagine
delle scienze della natura:
le “anime”, anche se non
res extensae, saranno considerate rette da leggi causali
analoghe a quelle della fisica.
Bagaglio di conoscenza
Potremmo chiederci e
vedere, a questo punto, se la
filosofia, di fatto, non abbia
percorso questo cammino,
se non sia lei quindi in grado
di fornirci quel bagaglio di
conoscenza di cui andiamo
in cerca e che sembra così
radicalmente escluso dal
mondo della scienza.
Ciò in cui ci imbattiamo
a questo livello è la critica
di Heidegger al percorso
intrapreso dalla metafisica
occidentale: essa sareb-
be caduta in un “errore”
analogo a quello accorso
nel campo della ricerca
scientifica (potremmo, anzi,
meglio, parlare di riduzione,
invece che di errore, dato
che la scienza al di là di ciò
conserva la sua validità).
Quello che oltretutto, in più,
viene reso evidente, è che se
“errore” c’è stato, ciò è stato
possibile in considerazione
di una specificità propria
dell’essere umano (l’Es-
Con le tecniche di
tipo psicoanalitico è
spesso possibile far
riapparire il ricordo.
La rimozione è ben
lontana dall’oblio,
e costituisce uno
dei meccanismi difensivi della psiche
di fronte all’introduzione di un contenuto che potrebbe,
se presente, essere
ancor più gravemente disturbante della
sua cancellazione.
serci, nella terminologia
heideggeriana). Cioè: se le
scienze umane sono potute
cadere nell’errore di ridurre
il soggetto ad una sorta di
organismo caratterizzato
semplicemente dal fatto di
duplicare i suoi caratteri
fisici a livello psicologico,
è perché è possibilità propria, costitutiva dell’essere
umano, quella di assumere
su di sé le determinazioni
che gli vengono proposte
(sebbene, in una lettura psicanalitica, a ciò corrisponda
poi uno scarto - inconscio
- un effetto di deriva non
padroneggiabile).
La filosofia, lo dicevamo, per Heidegger non è
stata esente dall’errore ed
è sostanzialmente finita
col ridurre a dimensione di
determinatezza il referente
delle proprie indagini. Il concetto di semplice-presenza
racchiude un po’ quello che
cerchiamo di dire. In base ad
esso risulta evidente come sia
modalità propria del nostro
modo di pensare quella di ridurre le cose (ogni cosa, non
solo l’uomo) alla dimensione
cristallizzata della presenza
oggettiva, dimenticando con
questo che niente per l’uomo
è semplicemente-presente
(questo è semmai il modo
particolare della scienza), ma
è in primo luogo strumento
(il che sembra essere ben
chiaro in psicologia dell’età
evolutiva: il neonato si costruisce il mondo in funzione
dell’uso che fa delle cose che
gli capitano a tiro), l’obiettività è semmai qualcosa che
si raggiunge come modo
derivato dell’utilizzabilità.
Come dalle parole di Vattimo “nel modo di esistere
della banalità quotidiana
l’esserci si pensa come ente
fra gli enti” e questo lo garantisce contro l’angoscia:
essere un ente come gli altri,
ridurre le cose ad una dimensione afferrabile, ci fa sentire
“a casa nostra”, protetti entro
confini “maneggiabili”.
L’angoscia come paura
del nulla
Vediamo qui che comincia
ad introdursi il discorso della
valenza emotiva: l’angoscia
come paura del nulla, di quel
nulla che traspare oltre l’ente, viene a costituirsi come
determinante di un percorso
di conoscenza di sé e degli
altri (delle cose del mondo)
ed ha effetti determinanti
per tutto il percorso di vita
dell’individuo. L’angoscia
(affrontare l’angoscia) sarà
infatti per Heidegger anche
la nostra unica possibilità di
riscatto da questo mondo di
essere in autentico.
Il cammino della filosofia
a questo punto sembrerebbe
essere quello del recupero
di una dimensione del mondo ancor più comprensiva.
Questo partendo dalla constatazione del fatto che pur
avendo accettato di prendere
avvio da spinte irrazionali,
pur avendo riconosciuto in
esse un elemento propulsore,
è caduta spesso nell’inganno
di ritenersi disinteressata,
puramente teoretica per chi
conduce la ricerca, oltretutto
schiava di un presupposto
che vede l’uomo come attraversato da una capacità
critica (razionale) infinita,
in grado di impadronirsi (teoreticamente e praticamente)
della cultura e della storia. È
l’uomo che tende a dimenticare la propria finitezza e che
identifica la certezza della
coscienza con la verità. In
nome della scoperta della
finitezza del soggetto una
parte del pensiero filosofico
contemporaneo ripropone
una concezione della filosofia che si ponga, quindi, come
ricerca del senso dell’essere,
ma in funzione del recupero
di una dimensione storica,
della considerazione della
stessa storicità della ragione,
del suo legame col mondo
dell’emotività, degli interessi, ecc.
Ma usciamo per un attimo
dalla filosofia per entrare nel
campo di un altro settore delle scienze umane che sembra
interessarci da vicino.
Nel campo occupato da
questa “scienza umana” - la
psicologia - si ripropongono
tutte le considerazioni fatte
finora a proposito delle diverse forme di conoscenza
e la frammentazione dei
discorsi si cristallizza in una
settorializzazione quasi a
compartimenti stagni delle
discipline, o meglio delle
correnti, che ad essa fanno
capo. Mi limito a proporne
una ristrutturazione del campo che, sebbene sommaria,
sia esemplificativa del nostro
discorso.
Distinguerei pertanto il
settore “psicologia” in due
sottoinsiemi, distinti ancora
una volta dallo spartiacque
soggettività/oggettività. Nel
settore degli “oggettivi”
metterei tutte quelle correnti
cui accennavo prima quando denunciavo la nascita
della psicologia in funzione
dell’accoglimento dei residui delle scienze umane
(da cui la costruzione di un
mondo parallelo a quello dei
corpi, retto da principi analoghi a quello di causalità,
di ragione sufficiente…); in
un altro contenitore, questa
volta semivuoto, metterei
invece un settore di ricerca che si è aperto con la
psicanalisi - con la clinica
psicanalitica, più che con la
speculazione psicanalitica
- e che si caratterizza per il
tentativo di includere il soggetto nell’indagine (come
sopra anche qui s’intende: il
soggetto dell’indagine entro
l’indagine stessa, colui che
riflette entro la riflessione,
colui che parla nel suo
detto).
È un contenitore ancora
povero di contenuti, ma,
direi, ricco di potenzialità
di riempimento, visto che
sta agganciando i settori più
disparati e all’avanguardia
del sapere: fra essi le tesi
filosofiche che abbiamo precedentemente indicato, attribuendo loro una pregnanza
particolare e sicuramente
un peso ineludibile in ogni
pratica clinica.
Ad un tale livello il peso
della conoscenza soggettiva,
quindi soprattutto della conoscenza che il soggetto ha
SILVIA FAILLI
psicologa e psicoterapista
(continua a pag. 5)
REZZARA NOTIZIE
Pag. 5
conoscenza ed emotività
LA MEMORIA CUSTODE DELLE COSE
SI EVOLVE NELL’ARCO DELLA VITA
“La memoria è tesoro e
custode di tutte le cose”
(Cicerone, De Orat., 1,18).
Questa frase esprime bene
come in tutti i tempi l’uomo
abbia considerato la memoria
una funzione preziosa che ha
sempre desiderato di sviluppare e ha sempre avuto l’impressione di perdere. “Tutti
si lamentano di aver poca
memoria, nessuno si lamenta
di aver poco giudizio” (La
Rochefaucauld, Massimes,
LXXXIX). La memoria, definibile come conservazione
di un’informazione o di un
comportamento appreso, è
un meccanismo adattativo
indispensabile per la sopravvivenza di tutte le specie
animali. Essa è presente, in
forma elementare, anche in
organismi molto primitivi
quali i molluschi che per la
semplicità della loro organizzazione nervosa hanno offerto
un modello per lo studio
delle sue basi molecolari ed
elettrofisiologiche. I processi
immunitari stessi possono
essere considerati una forma
di memoria cellulare che
permette il mantenimento
dell’identità dell’organismo.
E a questo proposito potremmo ricordare lo scritto
di Hering del 1870 intitolato
Sulla memoria come funzione universale della materia
organica.
Sapere è ricordare
Se ci limitiamo a prendere
in esame quella memoria che
ha sede nel sistema nervoso
centrale e che è il cardine delle
nostre capacità cognitive,
“sapere è ricordare” (Cicerone, De fin., 2,32), possiamo
distinguere numerosi tipi di
memoria: motoria, visiva,
uditiva, olfattiva, semantica,
spaziale.
Il processo di apprendimento e di memorizzazione
passa attraverso diverse fasi
ed è possibile riconoscere
fasi della memoria con durata diversa. L’attenzione è
la condizione senza la quale
il processo di apprendimento
non può iniziare, ed essa
dipende dall’attivazione del
complesso sistema reticolare
ascendente.
La memoria sensoriale di
breve durata, pochi secondi,
raccoglie gli stimoli e li passa
a una memoria primaria di
durata maggiore ma di limitata capacità dove le nuove
informazioni rimpiazzano
quelle precedenti. Queste a
loro volta sono accumulate
in una memoria permanente,
di lunga durata, anni, tutta la
vita, che raccoglie informazioni di ogni tipo. Memoria
è il ricordare un movimento,
per esempio andare in bicicletta o nuotare, memoria è
riconoscere un profumo, un
oggetto, ricordare un volto,
una poesia. Ma la memoria sarebbe inutile se non esistesse
un meccanismo che richiama
le informazioni alla coscienza
e anche a livello inconscio
come nel caso dei movimenti
o del sogno.
La complessità della memoria trova una speculare
conferma nella complessità
della sua patologia, dimostra-
ta dalla sconcertante varietà
e selettività delle amnesie.
Questa sommaria elencazione dei molti aspetti della
memoria, ha il solo scopo
di richiamare l’attenzione
sulla estrema complessità di
questa funzione, la cui sede
nel cervello è difficile da localizzare perché molte aree
sono coinvolte, a seconda
del tipo di informazioni
che sono accumulate. E non
deve sorprendere che le basi
Si ricercano farmaci
per conservarla. Il segreto è esercitarla ed
ancor prima scoprire
le sue diverse forme.
biochimiche e morfologiche
di un processo così articolato e integrato siano ancora
in buona parte ignote. Sotto
quale forma sono accumulate le informazioni?
Numerosi dati sperimentali indicano la possibilità
che esse siano accumulate
sotto forma di proteine
sintetizzate o modificate
dagli impulsi nervosi che
trasmettono l’informazione
da memorizzare. Le nuove
proteine sembrano tradursi
nelle modificazioni della
morfologia dei dendriti e
delle sinapsi descritte da
alcuni autori. Sappiamo di
più sui meccanismi neurochimici che sono alla base
delle prime fasi del processo
di memorizzazione e forse
dei meccanismi di richiamo dell’informazione. E
questo perché numerosi
farmaci interferiscono con
la memoria: tutti i neurodeprimenti perché attenuano i
meccanismi dell’attenzione
coinvolti sia nell’apprendimento che nel richiamo
dell’informazione; le benzodiazepine con un meccanismo forse più complesso;
gli anticolinergici bloccando quei circuiti colinergici
corticali e ippocampali che
sono risultati essenziali per
la memoria di breve durata.
Se è quindi facile inibire
la memoria con i farmaci,
dovrebbe essere possibile
anche aumentare, stimolare,
ripristinare la memoria con
i farmaci.
Uso di farmaci
La domanda di farmaci attivi sulla memoria è sempre esistita, per dimenticare “farmaco infuse… che l’oblio seco
induceva di ogni travaglio e
cura” (Odissea, IV,283-286) e
per ricordare. In passato erano
soprattutto i più giovani che li
richiedevano, per apprendere
più facilmente; basti ricordare
l’uso delle piccole dosi di
anfetamina e quello, senza
sicure basi sperimentali,
della glutamina. Oggi con il
cambiamento della composizione della popolazione, sono
gli anziani che vorrebbero
farmaci per eliminare quella
perdita della memoria che si
riscontra, in maniera più o
meno spiccata, sia nell’animale vecchio che nell’uomo
vecchio. La “dimenticanza
benigna” come essa è chia-
mata per distinguerla da
quella vera e drammatica
perdita della memoria che
caratterizza la demenza senile
di Alzheimer.
Scoprire farmaci attivi sulla
memoria è quindi una delle
sfide della farmacologia per
il prossimo decennio. Alcuni
nuovi farmaci per la memoria
vengono introdotti in terapia
in questi tempi. Solo una estesa sperimentazione clinica ci
dirà se essi sono veramente
utili, confermando i brillanti
risultati ottenuti nella sperimentazione sull’animale, se
ci aiuteranno a comprendere
meglio i meccanismi neurochimici della memoria e a
progettare futuri farmaci più
attivi. Vorremmo farmaci che
ci aiutassero a ricordare ciò
che serve per la nostra vita di
relazione, per il nostro lavoro,
per la nostra vita affettiva.
Non vogliamo ricordare tutte
le piccole cose inutili della
nostra vita quotidiana, i dolori
e le sofferenze del passato.
Ci dobbiamo chiedere se i
meccanismi neurochimici
dei diversi tipi di memoria
sono tanto selettivi da permettere di ottenere farmaci
così specifici.
In attesa di questi farmaci
del futuro, ricordiamoci
tuttavia che “La memoria
diminuisce… se non la tieni
in esercizio” (Cicerone, Cato
major, 6), con le implicazioni
che questa massima ha su
quanto la famiglia e la comunità possono fare per aiutare
la memoria dell’anziano.
GIANCARLO PEPEU
Università di Firenze
CAPACITA` COINVOLGENTE DELLA CONOSCENZA
(continua da pag. 4)
di sé (e degli altri), ricade
come un macigno sul soggetto stesso, poiché ne va della
sua stessa vita, della sua esistenza; la conoscenza dovrà
obbedire a regole diverse da
quelle cui siamo abituati: ad
un principio d’indeterminazione, ad una diversa idea di
verità (che includa l’azione
soggettiva fra i dati della
verifica), addirittura ad un
diverso concetto di tempo.
È la conoscenza propria di
un soggetto storico, finito,
ma non nel senso di perimetrato, ma nel senso della
finitezza dell’orizzonte,
cioè di qualcosa che segna
sì un limite, limite che non
può essere valicato poiché
si sposta con ogni nostro
movimento. I confini di un
tale soggetto si dilatano
giungendo ad includere ciò
che è più specificamente,
singolarmente suo. È ovvio
che anche la questione delle
emozioni a questo livello
cambia statuto.
Emozioni nell’individuo
Per entrare nel vivo della
seconda premessa, potremmo chiederci cosa vuol dire
parlare di emozioni in riferimento ad un soggetto siffatto.
In ambito psicanalitico, a
questo proposito, si è sentita
la necessità di articolare la
terminologia diversificando
ciò che può riguardare il
soggetto-oggetto da ciò che
può interessare il soggetto
singolare di cui si è deciso
di occuparsi. In psicanalisi,
infatti, si preferisce parlare di
affetti, più che di emozioni, e
non si tratta certo di una pura
questione nominalistica.
Vediamo di arrivare a
questo punto da un altro
versante: una distinzione
corrente in certa speculazione psicanalitica è quella
fra corpo ed organismo.
S’intende per organismo un
ente, anche astratto, oggettivabile, una sorta di macchina
(spesso la macchina di cui
si occupa la medicina),
composto di organi, ma non
riducibile alla loro semplice
somma nella misura in cui dà
ad essi una certa forma, un
funzionamento. Quando un
organismo è attribuito ad un
soggetto, ecco che diventa
corpo: a questo livello si
può dire che il soggetto è un
corpo ed anche ha un corpo;
a questo livello il corpo è
“aperto” rispetto ai suoi organi, può essere arricchito di
organi non naturali… e tutti
gli organi stanno all’organismo come gli affetti stanno
al corpo.
Reazioni oggettivabili
“Le emozioni - leggiamo
in M. Binasco - sono reazioni
del tutto oggettivabili, anche
fuori della parola, con strumenti fisici o chimici, azioni
di un organismo a qualcosa
che succede nel suo Umwelt
(e che possono perciò essere
utilizzate anche come segnali del fatto che qualcosa
è successo: vedi macchina
della verità) reazioni anche
visibili, come l’arrossire, il
sudare o altro”. Gli affetti,
diversamente, hanno “qualità singolare”, possono
essere accompagnati da
un’emozione generica che
non necessariamente ci dice
qualcosa circa il soggetto
che la prova, ma nella loro
determinazione sono frutto
dell’intersecarsi di più piani:
quello corporeo, quello linguistico, quello cognitivo…
La percezione di un affetto
(necessaria perché affetto ci
sia) è segno di una passione
nel corpo e pertanto indice
di una vicenda più vasta
di quella dell’organismo,
giungendo ad includere il
soggetto con tutte le sue
determinazioni, pertanto sia
ciò che agisce sul soggetto,
sia i suoi atti di decisione e
responsabilità.
Pag. 6
REZZARA NOTIZIE
ruolo ????????
della menoria
LA MEMORIA: STRUTTURA LA CONOSCENZA
CONFERISCE UNITÀ ALLA VITA UMANA
È più facile ricordare qualcosa che ci colpisce in vario modo, rispetto ad un materiale che ci è indifferente; quindi sono anche le relazioni che intercorrono tra il nuovo stimolo e ciò che già conosciamo, a decidere se attuare il “lavoro”, in senso psichico, necessario a ricordare; non c’è niente infatti di più difficile da ricordare di una
cosa che non ci interessa in qualche modo, in confronto alla apparente facilità di ricordo di eventi o stimoli carichi per il soggetto che li vive, di particolari significati o valori affettivi a tonalità sia piacevole che spiacevole.
Desidero introdurmi all’argomento da trattare con la
considerazione che non esisterebbe vita psichica alcuna
se il passato non esistesse e
in qualche modo non influenzasse gli eventi attuali.
Di fatto se un essere vivente
si comportasse solo in funzione degli stimoli attuali, siano
essi di natura interna o esterna, vivrebbe solo nel presente
e le sue reazioni, di fronte alla
stessa situazione, sarebbero
sempre le stesse rinunciando
a qualunque apprendimento o
evoluzione, vivendo così una
vita puramente meccanica.
Il ricordo del passato, o
meglio, l’apprendimento e
la capacità di utilizzare le
nuove acquisizioni, sono
quindi nel singolo individuo,
come nelle specie viventi, le
basi dell’evoluzione e della
trasformazione.
Le capacità di ricordare, sia
in senso genetico che in senso
quotidiano, sono dovute a
quella funzione estremamente complessa degli esseri
viventi che prende il nome di
“memoria”.
Concetto di memoria
Si fa un gran parlare oggi
di “memoria” riferendosi
a memorie meccaniche o a
quelle dei computer. È infatti
vero che esistono numerosi
componenti di macchine che
hanno la capacità di conservare un qualcosa di molto
simile ad una traccia, come i
nastri magnetici o i dischi dei
computer, ma questi tipi di
memoria sono, in ultima analisi, solo una modificazione
di uno stato della materia che
rimane costante ed è quindi
privo di una dinamica rispetto
al tempo. A queste memorie
manca la peculiarità essenziale della vita psichica che è la
modificazione nel tempo, sia
della traccia, che del comportamento dell’essere vivente,
che continuamente aggiorna
il suo modo di essere ed il suo
stile cognitivo in funzione non
tanto dei puri eventi vissuti,
ma di ciò che di essi è stato
ricordato e trasformato in una
traccia che va ad integrarsi
in un insieme in continua
evoluzione e trasformazione
(ciò che viene ricordato è già
ciò che viene selezionato ed
elaborato sulla base di un precedente patrimonio mnestico
che da quel momento non è più
uguale a come era prima del
nuovo apprendimento e che
adesso avrà una modalità di
reazione agli stimoli e quindi
anche all’apprendimento
diverso).
Questa dinamica del ricordare è l’essenza del trascorrere (nel mutare) del tempo, che
è esso stesso una creazione
dell’essere psichico.
Per intendere quindi questo
particolare modo con cui una
informazione si inserisce e
modifica un qualcosa di esistente parliamo, anche nella
vita biologica, di traccia.
Essa è una variazione in
una struttura plastica che
non è mai uguale a se stessa,
non è quindi il solco di una
registrazione (immutabile
nonostante il trascorrere del
tempo), ma un frammento
sottoposto anch’esso al dinamico mutare della struttura in
cui si inserisce, capace a sua
volta di modificare le funzioni
di questa struttura.
Struttura della memoria
Per quanto riguarda la struttura della memoria, le vecchie
teorie che parlavano di un
magazzino unitario hanno
dovuto cedere il passo ad una
divisione in più strutture, che
rispondevano ai dati sperimentali delle ricerche fatte da
molti autori sulla capacità di
ricordare vari tipi di nozioni.
Seguendo le più recenti
vedute, possiamo rifarci ad
uno dei modelli più accettati e
tentare di spiegare quale oggi
si crede sia la struttura della
memoria, seguendo il destino di un qualsiasi dato che
vogliamo immagazzinare, o
meglio “ricordare”.
Il primo anello di questa
catena è quindi il dato o la
notizia o la sensazione che ci
stimola, e questa può essere di
qualsiasi natura, ad esempio
verbale, come la frase “La
penna è nel calamaio”.
Perché questa frase cominci ad esistere per noi è
necessario udirla, e questo
implica l’entrata in gioco dell’apparato sensoriale
necessario, in questo caso
l’apparato acustico, che trasforma il suono in un codice
di impulsi elettrochimici che
vengono ricevuti ed elaborati
dal cervello.
Bene, è stato dimostrato
che, già a livello del segnale
codificato, esiste una forma
di memoria o “magazzino
dell’informazione sensoriale” che può conservare
come un’eco lo stimolo per
un tempo di 1 o 2 secondi.
L’evento successivo implica il “confronto” tra il nuovo
dato e le nozioni che già esistono nella memoria, questo
implica la “comprensione”
della frase ed è il cosiddetto
“riconoscimento percettivo”.
La motivazione del
“voler ricordare” diventa determinante,
e la sua mancanza
può facilmente confondersi con un reale
deficit della memoria.
È in questa fase che la frase
assume un valore più o meno
grande in base a ciò che riesce
a stimolare in noi (questo
è un dato assai importante
perché vedremo che è più
facile ricordare le cose a cui
attribuiamo un valore, sia esso
gradevole o sgradevole, di ciò
che ci risulta indifferente).
A questo punto l’informazione passa nel primo dei due
principali magazzini della
memoria, precisamente in
quello che si chiama “memoria a breve termine” dove
l’informazione può rimanere
per un breve periodo di tempo, non oltre i 30 secondi,
per poi essere o perduta, o
rielaborata per accedere alla
“memoria a lungo termine”,
la vera e propria “memoria”,
un magazzino di capacità
enorme dove l’informazione può rimanere per tempi
lunghissimi e forse illimitati.
Diverse strutture
di memoria
Abbiamo quindi tre diverse
strutture di memoria che formano il processo mnestico,
il “registro sensoriale”, la
“memoria a breve termine” e
la “memoria a lungo termine”.
Il registro sensoriale. Per
quanto riguarda quello che
abbiamo chiamato “registro
sensoriale”, termine introdotto da Sperling nel 1960,
si può pensare che per ogni
organo di senso, ad esempio
quello uditivo, esista una
memoria ecoica specifica
dell’impulso tradotto in un
segnale che ancora non ha una
sua identità, cioè non è stato
ancora decodificato in qualcosa che sia in relazione con
il patrimonio già esistente.
Questa memoria, estremamente labile, si limita a trattenere per uno o due secondi
lo stimolo ricevuto senza
dargli nessun contenuto (ad
esempio a questo livello una
A maiuscola non è distinta
da una a minuscola, ma si
tratta di due unità percettive
diverse). Se, a questo punto,
interviene un processo di
riconoscimento, lo stimolo
identificativo passa in una
“memoria tampone” che
contiene non più il semplice
stimolo, ma anche la sua
decodificazione, cioè il suo
significato di relazione con il
patrimonio esistente.
A questo punto l’informazione decodificata entra in
quel particolare magazzino
che prende il nome di “memoria a breve termine”.
La memoria a breve termine. La memoria a breve termine, come ho già accennato, è
considerata una struttura non
molto ampia, e di durata breve, sull’ordine dei 30 secondi,
in cui l’informazione lasciata
a sé viene ad essere perduta
e rapidamente sostituita dalle
informazioni che seguono.
La dimostrazione dell’esistenza di questo tipo di
memoria si deve a Peterson
e Peterson, i quali, nel 1956
idearono un esperimento congegnato in modo da misurare
la possibilità di memorizzare
in una persona alla quale fosse
impedita la “ripetizione” del
materiale.
In pratica al soggetto veniva proposta una lista di tre
o quattro consonanti a caso,
esempio DFGR; immediatamente dopo gli veniva richiesto di impegnarsi in un’altra
attività che lo distraesse dal
ripetersi mentalmente questa
serie di consonanti, gli veniva
cioè proposto ad esempio di
contare all’indietro, a tre per
volta, a partire da un numero,
esempio 478, 475, 472, ecc.
fino al momento dell’interruzione.
Dopo un certo numero di
secondi stabilito dallo sperimentatore, al soggetto veniva
richiesto di ripetere la serie
di lettere ascoltate all’inizio.
Esaminando i risultati si
poteva stabilire una caduta
molto rapida del ricordo della
serie; dopo circa 20 secondi,
solo il 10% dei soggetti ricordava correttamente la serie
iniziale di lettere.
Partendo da questo esperimento, e dalla scoperta del
fatto che l’oblio assumeva
caratteristiche del tutto diverse per quanto riguardava
la memoria a breve o a lungo
termine, è stata accettata la teoria dualistica della memoria.
Ciò che differenzia la
memoria a breve termine
dal registro sensoriale di cui
abbiamo parlato prima, è il
fatto che, a questo secondo
livello, l’informazione ha
già assunto un suo specifico significato, e può essere
sottoposta ad un procedimento che prende il nome
di “reiterazione”, una sorta
di ripetizione, che può avvenire anche a livello non
cosciente, e che permette il
suo ingresso nella memoria a
lungo termine. Abbiamo visto che, impedendo con varie
tecniche la “ripetizione” del
materiale arrivato a questo
livello, esso viene perduto.
In base a cosa viene però
presa la decisione di sottoporre un’informazione a
“reiterazione”, cioè a fare
sì che essa entri in un patrimonio pressoché permanete
dell’individuo?
Importanza del voler
ricordare
Questo passaggio comprende attività psichiche
molto complesse, infatti
può essere anzitutto legato
ad una scelta per così dire
“volontaria”, ad uno sforzo di
memorizzazione di un certo
materiale e può essere quindi
fortemente influenzato da
meccanismi diversi da quelli
strettamente meccanici, come
la motivazione e l’attenzione.
Nell’anziano ad esempio
è noto che i ricordi antichi,
i fatti e le esperienze del
passato, vengono conservati e ricordati saldamente,
mentre vi è un declino nel
consolidare e ricordare nuove
esperienze. L’anziano tende
a ricordare per breve tempo
le nuove informazioni ma
sembra incepparsi proprio
PIETRO SARTESCHI
Università di Pisa
(continua a pag. 8)
REZZARA NOTIZIE
Pag. 7
ruolo della
????????
memoria
SI CANCELLANO I RICORDI SGRADITI
MECCANISMO INCONSCIO DI DIFESA
La memoria nei suoi vari aspetti, con le sue
indubbie interrelazioni, è l’elemento essenziale
per la formazione e la strutturazione delle nostre conoscenze, per cui diventa largamente
conseguenziale l’affermazione: memoria è vita!
Per potersi adattare a vivere
adeguatamente in rapporto al
suo ambiente, l’uomo deve
poter immagazzinare una
enorme quantità di nozioni
e stimoli che a loro volta
possono essere estremamente
complessi, considerando che
ad ogni ricordo si legano
sensazioni, colori, odori,
sentimenti ed una enorme
quantità di percezioni che
fanno parte integrante della
struttura del ricordo stesso.
Alcune di queste informazioni sono destinate a durare
ben poco (spesso è inutile
ricordare un numero di telefono dopo averlo composto),
altre invece sono destinate a
rimanere per sempre come
patrimonio e parte integrante
del nostro essere.
Ci si è chiesti quali fossero
le strutture cerebrali implicate
in questo lavoro, e quale fosse
il magazzino della memoria
a lungo termine. Quando si
cerca un corrispettivo anatomico di una funzione psichica
il compito è sempre arduo,
pare comunque che, per
quanto riguarda le funzioni
mnestiche, sia indiscutibile
l’importanza di una parte
molto antica ed interna del
cervello, l’ippocampo.
Una particolare malattia
di questa zona del cervello,
la sindrome di Korsakoff,
nella quale i pazienti, pur ricordando bene, almeno nelle
fasi iniziali, gli avvenimenti
lontani, hanno delle gravi
difficoltà nel memorizzare
dati nuovi, ha, come spesso
capita in medicina, dato
un importante contributo
a questa scoperta. Infatti,
in questa sindrome, è stato
dimostrato un danno proprio
a livello della zona dell’ippocampo.
Anche esperienze di tipo
chirurgico concordano con
l’ipotesi che l’ippocampo
sia un punto essenziale
di passaggio per l’informazione che deve venire
immagazzinata; infatti in
un paziente, nel quale fu
necessario asportare bilateralmente l’ippocampo,
si creò una particolare situazione in cui un ricordo
poteva essere mantenuto
soltanto fino a che su di esso
era concentrata l’attenzione,
ma, appena essa cadeva,
il ricordo scompariva immediatamente, mentre il
patrimonio mnestico preesistente sembrava non venire
particolarmente modificato.
Da quanto esposto si può
concludere che i deficit
mnemonici, conseguenti a
danni dell’ippocampo, sono
più facilmente spiegabili in
termini di mancato trasferimento dell’informazione nel
magazzino della memoria a
lungo termine, piuttosto che
di richiamo dell’informazione del magazzino stesso.
I risultati sperimentali dimostrano infatti che i pazienti
con lesioni dell’ippocampo
non hanno difficoltà a ricordare gli eventi precedenti
le lesioni stesse, e non presentano deficit per quanto
riguarda le capacità tipiche
della memoria immediata.
Il ruolo dell’ippocampo
sembra quindi essere quello
di trasferimento della traccia
dalla memoria immediata a
quella a lungo termine.
Forse è però ancora più
interessante osservare che
l’ippocampo fa parte di un
sistema chiamato “limbico”
(il sistema della vita affettiva), che è uno dei più antichi
del cervello, e che si crede
strettamente in relazione
con le attività emozionali di
maggior rilievo per l’essere
vivente. Questo ci riporta
ad un’indiretta conferma di
quanto dicevamo parlando
delle relazioni tra la capacità
di memorizzare qualcosa, e
l’intensità dell’emozione che
questa cosa stimola.
Per cercare di comprendere
però meglio quale e cosa
possa essere il magazzino
della memoria a lungo termine è necessario parlare
della memoria in termini di
modificazioni di una qualche
parte della materia vivente, in
quanto il ragionamento ci dice
che un qualche mutamento
deve pure essere intervenuto
nel momento in cui una traccia mnestica si è consolidata.
Questo ragionamento ci
porta sul terreno delle basi
biologiche della memoria.
Memoria cellulare
e acidi nucleici
Si è osservato a livello biochimico che la stimolazione
da parte ad esempio di stimoli luminosi, cinetici, termici,
ecc. produce nelle cellule
neuronali una modificazione
e un aumento di formazione
di una particolare sostanza
in esse contenuta, denominata acido ribonucleico
(RNA).
Gli stimoli esterni possono
quindi indurre delle modificazioni che sono, a livello della
percezione, quindi in una
prima fase, di tipo bioelettrico e, successivamente, nella
memoria a lungo termine,
sono probabilmente di tipo
chimico.
Come si può spiegare su
questa base il funzionamento
della memoria?
A fronte dell’apparente
scomparsa di dati e
ricordi, che spesso ci
disturba e ci colpisce
nella vita quotidiana,
le ricerche sull’oblio
ci dicono che esso
non è tanto dovuto
al progressivo attenuarsi di una traccia,
quanto piuttosto alle
modificazioni che essa
subisce per raggiungere una maggiore
stabilità. Infatti le tracce tendono a stabilizzarsi e ad aggregarsi
in complessi organici, eventualmente
perdendo una parte
della loro individualità.
La memoria a breve termine sarebbe legata all’attività bioelettrica in forma di
circuito neuronico chiuso,
una specie di riverbero elettrico, e come tale soggiace
rapidamente all’oblio. Le
informazioni invece che,
attraverso l’RNA sono riuscite ad inscriversi in un
certo numero di proteine
specifiche, possono considerarsi immagazzinate più
stabilmente nella memoria
a lungo termine, capace
di pronto utilizzo nel caso
di ripetersi di stimoli analoghi a quelli che l’hanno
improntata.
Secondo questo approccio,
la scorta di proteine specifiche
presenti nel cervello costituirebbe in pratica la memoria
di ciò che le cellule nervose
hanno percepito.
Questa teoria molecolare
trova il suo fondamento
nella osservazione dell’aumento della sintesi di RNA
e proteine nei neuroni in seguito a stimolazione, e nello
studio delle conseguenze
sulla memorizzazione di
agenti che inibiscono la
sintesi proteica.
Eseguendo infatti esperimenti in animali con farmaci
che interrompono la sintesi
proteica, essi diventano incapaci di ricordare piccoli
comportamenti appresi in
quel momento, mentre non
dimenticano apprendimenti
precedenti. Tutto ciò per ora
ci dimostra che un meccanismo biochimico entra a fare
parte della memoria, anche
se per il momento le nostre
conoscenze anatomiche
sono limitate alla fase di
trasferimento dell’informazione da un magazzino
all’altro della memoria;
mentre la teoria, peraltro
realistica, che la memoria a
lungo termine sia la trascrizione di variazioni chimiche
in un patrimonio proteico
preesistente, resta un’ipotesi
da dimostrare.
Tipi di prestazione mnestica
Lo studio delle tracce mnestiche si evolve attraverso tre
fasi, una prima di fissazione o
apprendimento, una seconda
fase di ritenzione, che non è
direttamente indagabile se
non attraverso la terza fase
che è quella di rievocazione,
che ci permette inoltre di
vedere se e come la traccia
mnestica si è modificata o
integrata nel tempo trascorso
durante la fase di ritenzione.
La rievocazione è dunque il
primo dei metodi per saggiare
la capacità della memoria.
Un esame scolastico, per
esempio, è un test di “rievocazione”, cioè si chiede a una
persona di ripetere fedelmente ciò che ha imparato, dando
risposte corrette.
Il secondo metodo che si
può usare per verificare la
funzione della memoria è il
“riconoscimento”, in cui il
soggetto deve discriminare,
tra vari materiali che gli
vengono presentati, quello
che aveva imparato in precedenza; si tratta di un compito
quindi di identificazione che,
notoriamente, risulta assai più
facile del precedente.
Il terzo metodo, generalmente poco usato a fini pratici, ma con un grande interesse
teorico, è il riapprendimento.
Per indagare questa attività
chiediamo ad un soggetto
di imparare qualcosa, per
esempio un elenco di sillabe
senza senso, poi, trascorso un
periodo di tempo che può variare da alcuni secondi a molti
mesi od anni, gli chiediamo
di “riapprendere” la stessa
lista. Se il tempo richiesto
nell’esecuzione di quest’ultimo compito diminuisce, cioè
se il soggetto “riapprende”
più velocemente, oppure il
numero degli errori nella prova diminuisce, ebbene allora
abbiamo la prova che esiste
una qualche persistenza del
ricordo. Il riapprendimento,
anche se un po’ artificioso,
costituisce uno strumento di
misura molto sensibile, che
di solito segnala l’effetto di
eventi mnestici anche nei
casi in cui gli altri due metodi di misura non mettono in
evidenza alcuna ritenzione.
Nelle prove mnestiche, con
la rievocazione, si ottengono,
inevitabilmente i punteggi
più bassi, mentre il riconoscimento è di solito legato a
quelli più alti.
Questi ultimi valori potrebbero essere ridotti facilmente,
presentando gli elementi che
devono essere riconosciuti in
mezzo ad altri a loro simili:
ad esempio, una sillaba senza
senso può essere riconosciuta
più facilmente se viene presentata tra dei colori che tra
delle sillabe a lei simili. Tuttavia, ciò non significa che la
traccia mnestica sia più forte
quando esaminiamo il ricordo
per mezzo del riconoscimento
o del riapprendimento, significa soltanto che è più facile
scoprirne la persistenza, se
utilizziamo un procedimento
di misura più sensibile.
L’evoluzione
delle tracce e l’oblio
Abbiamo parlato della traccia e dei probabili meccanismi
che sono alla base della sua
ritenzione, tuttavia come
abbiamo visto, non esiste ancora un preciso accordo sulla
natura di questa traccia e sulla
sua collocazione spaziale nel
cervello, anche se sembra indubbia la sua natura biochimica. Il problema, che la pratica
quotidiana della scomparsa col
tempo di molte tracce pone, è
quello del loro “destino”.
È forse utile escludere tutte
le cause di oblio di tipo patologico, per prendere in considerazione ciò che la ricerca
ci suggerisce a proposito di
quella che si può considerare
la “normale” evoluzione delle
tracce mnestiche.
Anche l’oblio potrebbe non
essere che un caso particolare,
il caso estremo di trasformazione di una traccia, che
magari nel modificarsi perde
proprio quelle caratteristiche
che la rendevano rapidamente
PIETRO SARTESCHI
Università di Pisa
(continua a pag. 8)
Pag. 8
REZZARA NOTIZIE
ISTITUTO DI SCIENZE SOCIALI “NICOLÒ REZZARA” VICENZA
44° Convegno sui problemi internazionali
LE DEMOCRAZIE A CONFRONTO
(Recoaro Terme, 9-11 settembre 2011)
venerdì 9 settembre
ore 16.00 introduzione ai lavori (Sua Ecc.za mons. Beniamino Pizziol, Vescovo di Vicenza)
prolusione: La comunione, modello cristiano
di vita sociale (Sua Em.za card.
Martins Josè Saraiva, Prefetto
emerito della Congregazione
delle Cause dei Santi)
intervento: Valori costitutivi della democrazia
(prof. Giorgio Campanini, Università di Parma)
LA MEMORIA: STRUTTURA LA CONOSCENZA
(continua da pag. 6)
a livello della codifica, cioè
dell’ingresso nel magazzino
a lungo termine.
Si è tentato di dare molte
risposte al perché di questo
fatto, anche a livello biologico, tuttavia non si può
tralasciare il fatto che spesso
una persone anziana non è
realmente “motivata” a ricordare dati e informazioni in
quanto queste possono essere
sovrabbondanti e irrilevanti
ai suoi fini.
Si ricordi anche come
molti prodotti farmaceutici
indicati nei disturbi della
memoria, agiscano, nella
migliore delle ipotesi, sulle
capacità attentive; e come
gli stati ansiosi, interferendo con queste ultime, e
quelli depressivi, riducendo
le motivazioni, possono tradursi in una ridotta capacità
a ricordare e ad apprendere. A questo proposito
è opportuno far presente
come un certo livello di
ansia sia indispensabile e
favorisca l’apprendimento;
se però essa supera una determinata misura ottimale,
interferisce negativamente,
riducendo l’apprendimento
stesso.
Ancora per quanto riguarda
l’apprendimento, alcuni risultati indicano che vi sarebbe,
nell’anziano, un certo rallentamento nell’acquisizione di
nuove informazioni, mentre
altri dati indicano che nell’età
avanzata si utilizzano tempi e
strategie diverse nell’imparare, e, che per alcuni compiti
nuovi, giovani ed anziani
possono equivalersi.
Questo tipo di lavoro, a
differenza del primo, sembra
svolgersi indipendentemente
dalla nostra volontà, e ci
sorprende, in quanto talora ricordiamo dei fatti o delle cose
a cui ci sembra di non avere
prestato la minima attenzione,
ma forse un esame più attento
ci farebbe trovare significati
o associazioni che hanno
stimolato un meccanismo
inconscio di rielaborazione
di quel materiale.
SI CANCELLANO I RICORDI SGRADITI
sabato 10 settembre
ore 9.00 lezione:
Modelli di democrazie europee
e democrazia degli Stati Uniti
a confronto (prof. Paolo Feltrin,
Università di Trieste)
ore 11.00 lezione:
Potere e società civile nei Paesi
arabi (prof. Massimo Campanini,
Università di Napoli)
ore 15.30 relazione integrata:
Forme diverse di democrazia
1. Democrazia e governabilità (prof. Damiano Palano,
Università Cattolica di Milano)
2. Democrazia e relazioni internazionali (prof. Carla
Meneguzzi, Università di Padova)
3. Controlli istituzionali della democrazia (prof. Lorenza Carlassare, Università di Padova)
4. Consenso e mass media (dott. Marco Tarquinio,
Direttore “Avvenire” di Milano)
5. Partecipazione e democrazia (prof. Franco Riva,
Università Cattolica di Milano)
domenica 11 settembre
ore 9.00 intervento: Democrazia e società civile:
sussidiarietà (prof. Gian Candido De Martin, LUISS di Roma)
intervento: Democrazia, valori, sicurezza
(prof. Filippo Pizzolato, Università “Bicocca” di Milano)
intervento: Democrazie occidentali ed
Unione europea (dott. Antonio
Preto, Capo di Gabinetto del Vice
Presidente della Commissione
europea)
ore 12.30 conclusione dei lavori
QUOTA D’ABBONAMENTO
La quota di abbonamento per il 2011, da versare sul
c.c.p. 10256360 intestato a Istituto “Nicolò Rezzara”,
contrà delle grazie 14, 36100 Vicenza è di € 25,00. A
quanti invieranno una cifra significativa sarà inviata
al più presto una pubblicazione delle nostre edizioni.
(continua da pag. 7)
rintracciabile.
Ciò non significa, però, che
una traccia non possa effettivamente sparire, disgregarsi;
anche se non possiamo avere
una prova certa di ciò (sappiamo solo che quella traccia non
è più tale, ma non possiamo
dire se essa si è trasformata
o sparita), è plausibile che
le tracce meno organizzate,
meno articolate, caotiche,
si disgreghino rapidamente.
La rimozione
Un particolare argomento
che non si può trascurare parlando della memoria è quello
della “rimozione”.
Il termine, introdotto da
Freud, si riferisce ai non
infrequenti eventi o vissuti
che assumono per la nostra
coscienza un contenuto affettivo molto particolare a
tonalità generalmente sgradevole, e che, in funzione
di meccanismi psicologici
ancora non chiariti, divengono del tutto inaccessibili alla
coscienza, pur rimanendo a
livello inconscio attivi nel
determinare delle reazioni o
dei comportamenti che spesso
non riusciamo a comprendere.
Modelli della memoria
Lo studio della memoria ha
portato nel tempo a concepire
la memoria attraverso dei
modelli teorici; il più antico
di questi è il modello associativo, che ci presenta la memoria come un insieme che
si organizza per somiglianza,
contrasto e contiguità; sarebbe la forza dell’associazione
a fare sì che un ricordo sia
mantenuto più o meno bene;
in pratica una parola o un
evento sarebbero più o meno
facilmente ricordabili in funzione di quanto si integrano o
si collegano ad un “reticolo”
di tracce già presenti.
In questo schema teorico
pertanto, la memoria è vista
come un immenso reticolo
associativo che consta di unità
verbali e di relazioni.
Questo modello, come
anche altri, tende a porre
l’accento sul dato, sulle cose
od oggetti, che il soggetto
deve immagazzinare o ricordare; altri modelli invece,
partendo da esperimenti di
rievocazione di avvenimenti
realmente vissuti, hanno
accertato che i soggetti non
ricordano passivamente ciò
che vedono o sentono, ma
scelgono e interpretano a seconda di quelli che sono i loro
atteggiamenti nel momento
in cui l’evocazione ha luogo.
Il ricordo è quindi spesso
una costruzione attiva basata
su schemi che si evolvono.
Questi modelli si propongono di considerare l’uomo
come oggetto psicologico
che opera sull’informazione proveniente dal mondo
esterno, codificandola e
decodificandola.
È quindi sulla base di questi
schemi che si ricorda l’esperienza passata che viene per
così dire filtrata due volte, una
attraverso l’atteggiamento, o
il “colore” emotivo con cui
essa è stata vissuta la prima
volta, la seconda attraverso il
momento della ricostruzione.
Questo modello, che vede
la memoria non come una
funzione isolata, ma come
un processo di rielaborazione
che coinvolge l’intera personalità, potrebbe far pensare
ad una memoria che non
sia realmente “fedele”, ma
in realtà, sarebbe il risultato
di un lavoro di investimenti
emozionali, cioè di una interazione tra le informazioni
provenienti dall’esterno e le
conoscenze del soggetto.
Questa è anche una via
attraverso la quale si può,
in parte, capire perché certe
esperienze o sensazioni sembrano mutare nel ricordo e nel
trascorrere del tempo; non
tanto per un deterioramento
della memoria o per una
perdita delle tracce, quanto
perché il loro valore muta con
il mutare della persona, delle
sue spinte, dei suoi bisogni,
del suo essere nel mondo.
In quanto unità dinamica
l’uomo è in uno stato di
costante cambiamento; in
termini psicologici la sua
“motivazione”, cioè la spinta
conscia o inconscia ad agire,
si trasforma continuamente,
e gli atti di rievocazione e di
riconoscimento fanno parte
di una situazione dinamica e
complessa.
Abbiamo cercato di vedere
la funzione della memoria
da vari punti di vista: quello strutturale che, ancora
limitato dalle nostre scarse
conoscenze, ci ha però indicato l’importanza di alcune
regioni del cervello e della
loro integrità per il corretto
funzionamento della complessa funzione del ricordare;
quello sperimentale, il quale
ci ha fornito dei dati che ci
hanno portato a modificare
profondamente le antiche
visioni della memoria come
struttura unitaria, quasi un
“serbatoio” di informazioni,
per indicarci una molteplicità
di funzioni che si integrano a
formare un complesso sistema articolato in più strutture
funzionali; quello biologico,
su cui si centrano la maggior
parte delle attuali ricerche farmacologiche di sostanze che
siano in grado di migliorare e
di mantenere più a lungo nel
tempo la stabilità delle tracce
mnestiche; ma soprattutto
abbiamo visto quale importanza possa avere, anche
nella funzione del ricordo,
la psiche nel suo complesso,
che si rivela capace in un certo
senso di “scegliere” e di selezionare, talvolta già nella fase
dell’apprendimento, ciò che
deve entrare a fare parte del
nostro patrimonio psichico e
quanta importanza in questo
abbia la sfera dell’affettività
e delle motivazioni, e quale
sia il ruolo dell’attenzione e
della concentrazione, ed in un
certo senso del “desiderio” di
imparare o ricordare.