NOVITÀ DALLA RICERCA Dal laboratorio al letto del malato In questo articolo: ricerca traslazionale carcinoma del cavo orale p53 La mutazione che svela se la cura funzionerà a dovere Una proteina molto nota per le sue proprietà di protezione della cellula diventa un indicatore prezioso per scegliere la terapia giusta in un tumore, quello della bocca, in cui la chirurgia resta il trattamento più efficace. Un bell’esempio di rapido passaggio dal laboratorio alla clinica a cura di DANIELA OVADIA siste una proteina, chiamata p53, prodotta da un gene che porta lo stesso nome e che, da oltre trent’anni, è al centro dell'attenzione della ricerca oncologica. Ora un gruppo di ricercatori dell’Istituto nazionale tumori di Milano, guidato da Lisa Licitra e finanziato interamente da AIRC, ha scoperto anche come sfruttarla per identificare i pazienti che risponderanno alle cure farmacologiche nei tumori della bocca. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Journal of Clinical Oncology. E Prima della chirurgia “È noto che il gene p53, che produce la relativa proteina, è un oncosoppressore, ovvero è capace di bloccare la deriva di una cellula verso la trasformazione tumorale” spiega Lisa Licitra. “Per questo ci è venuta l’idea di studiarne la struttura in alcuni pazienti colpiti da un carcinoma a cellule squamose della bocca. In sostanza volevamo capire se il tipo di mutazione che subisce p53 nelle diverse forme tumorali è in qualche modo in relazione con la risposta del paziente alla chemioterapia”. 16 | FONDAMENTALE | GIUGNO 2010 Poiché la terapia chirurgica rimane la principale cura in questo tipo di malattia, oggi gli oncologi tendono a utilizzare la chemioterapia neoadiuvante, cioè quella somministrata prima di andare in sala operatoria, al fine di ridurre le dimensioni della massa tumorale e limitare i danni ai tessuti. È evidente quanto questa procedura possa fare la differenza nel caso di un tumore che colpisce il cavo orale e richiede quindi interventi anche demolitivi sulla faccia e sulle strutture della bocca. “Non capivamo perché alcuni pazienti rispondevano bene alla chemioterapia mentre altri, invece, rispondevano poco o per nulla” continua Licitra. In particolare, l’attenzione dei ricercatori milanesi si è concentrata sul carcinoma a cellule squamose e sulle caratteristiche di p53 nelle sue cellule. “In quasi la metà dei casi, p53 risulta mutata. Non tutte le mutazioni, però, sono uguali: alcune rendono p53 completamente inattiva, altre invece permettono alla proteina di mantenere, anche se in forma ridotta, una certa attività” Scoperta spiega Licitra. “E se la mutazione è del primo tipo (cioè se p53 non funziona più) la terapia neoadiuvante ha davvero poche possibilità di successo”. Non ci si ferma qui Alla luce di questi risultati, utilizzare p53 per predire la risposta del tumore al farmaco potrebbe aiutare i medici a scegliere la terapia più adatta evitando di sottoporre il malato a trattamenti inutili. I ricercatori che tentano di portare le conquiste del laboratorio al letto del paziente, nell’ottica di una terapia personalizzata del tumore, hanno comunque ben chiaro che basarsi solo sulle mutazioni di p53 non è sufficiente. La proteina collabora infatti con un numero molto elevato di altre molecole che in alcuni casi riescono a sostituirsi a lei almeno in parte e a portare a termine i compiti che p53 non riesce più a svolgere a causa di una mutazione. Ora è chiaro perché alcuni rispondono alle cure e altri no “” L’IDENTIKIT DI p53 di base subito utile L’obiettivo finale è quindi conoscere meglio la fitta rete di relazioni di p53 e gli effetti di queste collaborazioni molecolari sulla risposta alla terapia, per scegliere i farmaci giusti in grado di ridurre la necessità di intervenire in maniera molto demolitiva. Alla ricerca dei complici Se c’è chi ha già trovato applicazioni concrete alle sue scoperte su p53, c’è chi invece ha aggiunto un tassello importante proprio alla conoscenza della “rete di complici” di questa proteina. È il caso di Giannino Del Sal, responsabile dell’Unità di oncologia molecolare dell’LNCIB e docente di biologia cellulare presso l’Università degli studi di Trieste, che insieme al collega olandese Reuven Agami ha scoperto un’altra proteina, Brd7, che lavora in stretta collaborazione con p53. Le due proteine sono partner nell’attivare i programmi genetici che bloccano la proliferazione delle cellule evitando che queste si moltiplichino senza freno e diano origine al tumore. Grazie a Brd7, p53 diventa più potente nella sua azione di “guardiano del genoma” e può lavorare al meglio per proteggere la cellula. La scoperta, ottenuta anche grazie a finanziamenti di AIRC, è stata pubblicata su Nature Cell Biology. “Non conosciamo ancora tutti i partner che collaborano con p53” afferma Del Sal. “Per questo motivo la nostra scoperta aggiunge una tessera al complesso mosaico rappresentato dai circuiti di molecole che stanno attorno a questo fattore”. Tra l’altro gli autori dello studio hanno osservato che, nel tumore del seno in cui p53 è normale, spesso l’altra proteina manca o è presente a livelli molto bassi: una conferma del suo ruolo nella genesi della malattia. Conclude Del Sal: “In futuro potremo agire su due fronti per ottenere risultati simili: con farmaci che riattivano Brd7 oppure con altri che potenziano p53. E si sa che avere più frecce al proprio arco è sempre un vantaggio”. La proteina oggi nota col nome di p53 è stata identificata nel 1979 da Arnold Levine dell’Università di Princeton, David Lane dell’Imperial College di Londra e Lloyd Old dello Sloan-Kettering Memorial Hospital di New York. Il gene che la produce (chiamato anch’esso p53 oppure TP53) è stato invece clonato per la prima volta nel 1983 da un biologo israeliano, Moshe Oren, in forze all’Istituto Weizmann di Rehovot. Solo nel 1989, però, grazie ai lavori di Bert Vogelstein della Johns Hopkins School of Medicine, si è capito appieno il suo ruolo nei tumori. Infatti p53 interviene in molti meccanismi antitumorali: se il DNA viene danneggiato, attiva i meccanismi di riparazione; è in grado di fermare il ciclo di duplicazione di una cellula fino a quando non vengono riparati eventuali errori nel materiale genetico e, infine, può indurre l’apoptosi (il suicidio programmato) nelle cellule che non sono riparabili. È quindi un alleato prezioso nei meccanismi di difesa anticancro, poiché elimina i tumori nascenti, prima che facciano danni. Il suo ruolo è tanto importante che, nel 1993, la rivista Science l’ha eletta “molecola dell’anno”.