Pedagogia ed economia. Riflessioni preliminari per la costruzione di un terreno di incontro Paolo Federighi Premessa Senza un confronto fondato su un forte pensiero critico pedagogico le scienze dell’educazione divengono attributo di altre scienze. Non è questione di difese di terreni di studio, ma piuttosto del come costruire o restaurare ambiti di ricerca e di conoscenza che si fondano necessariamente anche sulla dimensione pedagogica. Per questo è necessaria una pedagogia che sappia estendere la propria capacità di orientare l’osservazione, l’interpretazione e di assicurare il valore predittivo di conoscenze aventi per oggetto l’insieme dei fenomeni reali rilevanti per la formazione dell’uomo. L’economia è uno di questi terreni. Qui il rapporto con le scienze della formazione ha un duplice rilievo, sia perché la formazione, le acquisizioni che essa assicura hanno la capacità di influire sul funzionamento del sistema economico in quanto fattore aggiunto della produzione, sia perché la formazione stessa costituisce un bene di consumo e un servizio, ovvero una attività economica essa stessa oggetto di studio, rilevante per i benefici che assicura, per le sue esternalità. Parrà paradossale, ma è proprio nel momento in cui l’Economia si propone come “scienza universale” che diviene inevitabile l’incontro con la Pedagogia. Già Alfred Marshall, nel 1890 aveva affermato “Knowledge is our most powerful engine of production” , ma a questo non aveva fatto seguito un impegno significativo nel cercare di collegare lo studio dei processi di produzione della conoscenza e della loro socializzazione. Con l’indirizzo marginalista l’economia non si limita ad occuparsi prevalentemente della produzione e della distribuzione, ma inizia ad approfondire l’analisi del consumo, ovvero del rapporto tra beni prodotti e bisogni cui questi sono destinati. Affrontando il problema dell’utilità dei beni l’economia si trova di fronte alla dimensione soggettiva e individuale, ovvero al peso della domanda di beni e del suo ruolo nella determinazione del valore connesso, appunto, all’utilità marginale di un bene, alla sua capacità di corrispondere ai bisogni del consumatore, alla realizzazione del suo equilibrio. L’economia inizia ad occuparsi di un homo economicus che oltre alla legge del minimo mezzo (rapporto costi-benefici), segue quella dettata dalle proprie emozioni e sentimenti. Sarà con l’affermarsi delle teorie del Capitale Umano e più ancora con le ricerche di economisti come Gary Stanley Becker –premio Nobel per l’economia nel 1992- che in modo più deciso la microeconomia si propone come scienza sociale capace di spiegare e regolare tutti –o quasi- i comportamenti ed i rapporti umani, compresi quelli anche solo indirettamente connessi alle problematiche del mercato. E poi è con James Heckman – anch’esso premio Nobel per l’Economia nel 2000- che si sviluppano metodi econometrici volti a mettere in luce l’importanza dell’eterogeneità degli individui e del carattere dinamico delle decisioni nell’analisi delle scelte in materia di capitale umano. Le condizioni di un più stretto rapporto tra Economia e Pedagogia si verificano allorquando la crescita dell’economia della conoscenza pone al centro delle strategie i processi di “distruzione creativa delle conoscenze” (Schumpeter), che spingono l’economia a tentare di occuparsi non solo del sistema formativo come agente economico, ma del learning come fattore chiave dell’innovazione e quindi della competizione economica, di modelli di learning economy come evoluzione dalla knowledge economy. Da qui i primi tentativi –seppur lacunosi- di costruire modelli di analisi e interpretazione dei processi di produzione/trasferimento e assorbimento delle conoscenze, di costruire modelli di learning regions o di learning organisations. I risultati raggiunti dalla ricerca economica in particolare nel campo dell’economia dell’educazione e dell’economia politica dell’educazione mostrano come la sfida di spiegare e regolare i comportamenti dell’homo economicus nel momento in cui agisce per accrescere le proprie conoscenze, ovvero per formarsi come homo sapiens richiedano l’incontro con la Pedagogia. 1 L’economia politica della formazione Il principale terreno di incontro è costituito dalla disciplina economica che studia i comportamenti dei soggetti finalizzati al soddisfacimento dei bisogni e dei fini di natura educativa, ovvero, in primo luogo, dall’economia politica della formazione. Ma è ovvio che pur delimitando in questo modo i campi di interferenza, il confronto tra discipline non può evitare di prendere in esame gli stessi processi di costruzione di modelli economici ed il loro senso. L’analisi, l’interpretazione, la modellizzazione di nozioni quali la learning economy vanno ben oltre i confini di una concezione riduttiva dell’economia della formazione. L’economia dell’educazione ha le sue radici nelle teorie della crescita economica. Gorge Papadopoulos ne fa risalire le origini alla fine degli anni ’50, prodotto delle attività di ricerca dell’OCDE. E’ in questi anni che appaiono i primi studi di Mincer (1958, 1962), Schultz (1961, 1963) e Becker (1964) in cui si elabora la Teoria del Capitale umano. Ma uno studio più attento della storia della disciplina non dovrebbe trascurare le radici che la legano alle stagioni della pianificazione economica nel primo dopo guerra. Sarà però attorno al 1960 che essa presenterà le sue prime formulazioni in materia di investimenti nel sistema formativo. E’ questo il momento in cui si elaborano teorie economiche che portano a riconoscere le spese per il sistema scolastico non più come semplice finanziamento di un servizio pubblico, ma come spese di investimento e per questo sempre più intimamente connesse alle teorie economiche dello sviluppo e della crescita e, in seguito, come componente essenziale della formazione del “Capitale Umano” e del “Capitale sociale”. Sono degli anni immediatamente successivi i primi studi interamente dedicati all’economia dell’educazione di Vaizey (1961), Salomon (1966), Le Thanh Khoi (1967), Vinokour (1967), Page (1971). Dalla metà degli anni ’90 in poi saranno sia l’ OCDE che la World Bank a sostenere lo sviluppo di un impegno che oggi oramai coinvolge i principali centri di ricerca di economia applicata degli USA, del Canada, della Svezia, della Danimarca, di Israele, dell’Australia, della Francia, della Spagna, etc., ma non ancora i più prestigiosi centri di eccellenza italiani. Questo, come dicevamo, diviene possibile nel quadro di un modello di analisi che tende a spiegare la crescita economica non solo sulla base dei fattori evidenziati dall’economia classica: il capitale (fisico o tecnico) ed il lavoro, ma che cerca di individuare i fattori determinanti del “residuo”, ovvero della parte di crescita non spiegata, a volte assimilata al progresso tecnico e con l’economia dell’educazione attribuita al “capitale umano”, inteso come fattore che può stimolare il progresso tecnico, la produttività e capace di alimentare un processo endogeno di crescita. A partire da questo contesto, l’economia dell’educazione cerca di comprendere due grandi insiemi di fenomeni. Da una parte, a livello microeconomico, essa studia i processi decisionali degli individui concernenti i loro investimenti in formazione e l’insieme dei fattori connessi. D’altra parte, l’attenzione è rivolta anche ad indagare l’impatto di queste scelte sulle tendenze del mercato del lavoro, oltre che sul benessere degli individui e sui benefici sia di ordine monetario che non. Il fatto che l’economia della formazione operi sul rapporto tra teorie del capitale umano e teorie della crescita economica attribuisce ai suoi risultati un particolare rilievo sul terreno della politica economica, ovvero sul complesso degli interventi che lo Stato e gli altri enti pubblici effettuano sul sistema economico per modificarne e coordinarne il funzionamento, allo scopo di potere perseguire quegli obiettivi economico-sociali di interesse generale propri della pubblica amministrazione (Gilibert,16). Il suo sviluppo nel quadro della pedagogia ha la funzione di estendere la conoscenza sulla dimensione economica del “processo dinamico di incontro tra soggetto e società” e della possibilità e conseguenze per il soggetto e per la società de “il prender forma (in sé e per sé) che ogni soggetto elabora in questo processo” (Cambi). A questo può condurre una maggiore conoscenza delle esternalità della formazione, delle sue regole distributive e quindi dell’inverarsi dell’utopia comeniana 2 di democratizzazione degli accessi all’esistente ed alla possibilità di creare quanto ancora non esiste, l’inimmaginabile. Da questo ne potrebbe venire rafforzato il potere orientativo della pedagogia in termini di capacità predittiva. La ricerca del senso L’incontro della Pedagogia con l’ Economia della formazione si svolge sia sul terreno empirico che su quello teorico. Il rapporto si fonda sull’individuazione di un “fenomeno reale”, comune oggetto di studio, anche se considerato da prospettive diverse: la formazione (in sé e per sé nella pedagogia ed in funzione della crescita economica desiderabile nell’economia della formazione). Ma prima ancora che sul terreno empirico, il confronto si deve svolgere sul terreno della costruzione dei modelli economici che osservano, descrivono, analizzano ed interpretano la formazione. Sono le stesse nozioni di base dell’economia della formazione che richiedono una rivisitazione critica in chiave pedagogica. Le nozioni di bisogno, di beni e servizi, di produzione e di consumo, di offerta e domanda e più in generale la nozione di utilità richiedono una riformulazione sul terreno pedagogico o, almeno, una nuova declinazione appropriata alla peculiarità del fenomeno reale formazione, pur sempre letto in chiave economica. Prima ancora che costruire i modelli di economia dell’educazione e di tradurli nel linguaggio della matematica, vi è da comprovare il loro senso realistico, oltre che il grado di desiderabilità del futuro che essi prospettano. A partire, ad esempio, dalla prospettiva del “realismo critico” (Roy Bhaskar 1986), un impegno critico interpretativo dovrà innanzitutto interrogarsi: sull’identificazione del problema cui si vuol dare risposta attraverso il nuovo campo di studio, sulle ragioni che nella rete di pratiche hanno portato ad attribuire rilevanza al problema, sulla considerazione dei termini e dei modi in cui il problema è funzionale al mantenimento o alla trasformazione degli equilibri esistenti, sulla identificazione delle reali possibilità di superare il problema in questione. L’analisi critica –da una prospettiva pedagogica- del senso, delle cause e degli effetti delle nozioni e dei costrutti dell’economia della formazione serve a portare a trasparenza possibili assunti privi di riscontri empirici, ma piuttosto frutto di costrutti sociali, di modi particolari di guardare alla pedagogia. Ciò appare tanto più necessario in quanto l’economia dell’educazione nasce e si sviluppa lontano dalla riflessione pedagogica e quindi più esposta all’assunzione acritica di prospettive pedagogiche particolari. Nello specifico, più che su modelli liberali o neo liberali, ci pare di poter dire che è la prospettiva “comunitaria” che influenza l’approccio all’educazione da parte dell’economia, la sua lettura come fattore aggiunto mirato al prodotto e non alla umanizzazione della società e del lavoro, da utilizzare nei limiti dei benefici che essa può assicurare il passaggio degli elementi di conoscenza necessari o indispensabili per lo sviluppo della produzione. In altri termini, l’approccio riduzionista in questo caso nasce dalla visione della società e del sistema produttivo nei termini di un “superorganismo” per il cui funzionamento è necessaria un dispositivo che assicuri certa riserva di talenti e che preservi e costruisca la “fiducia”, l’adesione ideologica ed emotiva necessaria al suo sviluppo. Oltre ad una filosofia dell’educazione di tipo comunitario, più o meno consapevolmente questo approccio alla economia dell’educazione fa riferimento anche ad una concezione dello Stato e della democrazia assimilabile al modello “etico” dove lo Stato è visto come autocoscienza istituzionalizzata di una comunità etica ai cui servizi è sottoposto ogni individuo e la politica –e quindi anche l’economia politica della formazione- va oltre le funzioni di mediazione tipiche del modello liberale, essa incarna il processo costitutivo della società nel suo insieme. “La politica è concepita come la forma riflessiva di una sostanziale vita etica, mezzo attraverso cui i membri di qualunque comunità isolata divengono consapevoli della loro dipendenza reciproca e, agendo deliberatamente come cittadini, formano e sviluppano le relazioni esistenti in una associazione di consociati liberi ed eguali nel rispetto delle leggi” (Habermas). 3 L’oggetto Il restauro o la costruzione del terreno di confronto tra l’economia della formazione e la pedagogia passa necessariamente per la condivisione dell’oggetto di studio su cui concentrare i focus dei due approcci disciplinari. Quando l’oggetto non è lo stesso il dialogo diviene impossibile ed anche le conoscenze accumulate di utilità relativa. Questo problema ci pare di particolare rilievo dal momento che l’economia ha fondamentalmente identificato la propria nozione di educazione con la scuola o, nei casi più illuminati, con l’educazione formale. E’ a partire da questo concetto e limitatamente a questa definizione che essa ha sviluppato il proprio programma di ricerca e costruito le proprie verità in termini di benefici monetari e non monetari connessi e di utilità. Il focus della pedagogia –dice Cambi- non é l’amministrazione della società nelle sue istituzioni educative e dei soggetti, lo é invece la formazione che pone al centro il processo dinamico di incontro tra soggetto e società e il prender forma (in sé e per sé) che ogni soggetto elabora in questo processo. L’economia dell’educazione non ha assunto lo stesso focus e, nello stesso glossario, l’espressione “learning” è spesso utilizzata come sinonimo di formazione o educazione. Ciò anche se negli anni più recenti è stato sempre più considerato come fattore che aiuta a comprendere e influenza il cambiamento del comportamento umano. Il concetto di formazione quando è entrato a far parte di teorie economiche lo è stato solo nei limiti di una delle caratteristiche del soggetto, uno degli in put. Se per la pedagogia ciò che è essenziale è la qualità del processo dinamico attraverso cui il soggetto prende forma, nell’economia la formazione è trattata più in termini di connessioni tra in put formativi, scelte degli individui e successivi risultati (MacFadden, 1998. p.3) Nel modello pedagogico che ispira l’economia l’individuo economico si forma fondamentalmente in funzione degli obiettivi che intende raggiungere. Lo scopo della formazione è identificato nella massimizzazione o nell’ottimizzazione dei successivi benefici monetari e non. Conseguentemente questo fa da base all’assunto che la formazione debba necessariamente riflettersi nell’azione degli individui, che ad ogni apprendimento corrispondano azioni conseguenti e coerenti. A partire da questa visione semplicistica per non dire erronea i modelli teorici inciampano in anomalie e paradossi dal momento che il “soggetto economico che si forma” non è –come vorrebbero i modelli- una macchina adattiva che utilizza ogni elemento di informazione disponibile nella sua perpetua ricerca di un ottimale pay-off Nell’economia dell’educazione la formazione è vista come un processo di adattamento passivo e privo di resistenze in cui i soggetti quasi per istinto agiscono sui cambiamenti del loro contesto In questa visione adattiva della formazione vi è anche l’assunzione che la formazione sia necessariamente perfetta e completa. Perfetta nel senso che ciò che è appreso è sempre necessariamente conforme al contesto sociale ed economico e completo perché il soggetto presume di essere capace di apprendere ciò che è necessario o ottimale all’interno delle circostanze date. "Generally speaking, standard economics has treated human learning as a black box process of perfect adaptation and has not attempted to explore either the conditions under which this may be justified, or the limits that are implied by the learning assumptions." (Slembeck, 1998. p.5.) Più che concepire la formazione come una funzione attiva o interattiva dell’uomo, la formazione dell’homo economicus appare più come un meccanismo la cui funzione si identifica nella accumulazione passiva di informazioni in un continuo adattamento all’ambiente (Brian Kjær Andreasen,2001).. Un’economia della formazione che non si ponga all’interno del focus pedagogico avrà inevitabilmente dei limiti anche a livello di ricerca empirica poiché stenterà ad identificare il proprio oggetto ed ancor più a costruire le proprie ipotesi di ricerca, a studiare il fenomeno in tutte -o quasi- le sue determinanti ed ancor più a giungere a modellizzazioni. 4 La verifica pedagogica delle teorie L’analisi deve quindi necessariamente estendersi alle teorie con cui l’economia si occupa dell’oggetto comune. La teoria su cui si basa l’economia dell’educazione é costituita dalla Teoria del Capitale Umano, con evoluzioni che portano ad includere tra i suoi sviluppi anche le successive teorizzazioni del Capitale sociale. La teoria del Capitale umano si fonda sui seguenti assunti: gli individui investono in educazione per incrementare le abilità e le capacità produttive personali; gli incrementi di produttività si trasformano in incrementi salariali in ragione del fatto che i fattori produttivi sono retribuiti in funzione della loro produttività marginale. Essa presume che esista una stretta relazione tra educazione, produttività e salario. Questo assunto porta a classificare le spese per l’educazione non più come spese di consumo, ma come investimenti capaci di generare rendite (Blaug,1985). L’accesso alla formazione è pertanto determinato dalla decisione di assumerne i costi (diretti, indiretti e di opportunità) in ragione dei benefici previsti e del rendimento atteso. Lo stock di conoscenze costituito attraverso gli investimenti produce effetti sia sull’individuo che sulla società nel suo insieme. L’educazione è uno dei fattori che assieme ad altri orienta il comportamento economico dell’individuo. Essa a sua volta è in grado di produrre effetti diretti sulle possibilità di costruire risposte ai bisogni individuali, “espande la funzione di possibilità di accumulazione di utilità”: maggiore capacità di produzione e riduzione di costi accompagnata dalla maggiore possibilità di accedere a benefici non monetari, al benessere totale (Becker:1965). Una delle critiche rivolta a questa teoria si incentrava sul fatto che in questa prospettiva “la formazione è vista in modo riduttivo come un fattore di produzione che condiziona la produttività, la capacità di attrarre capitali, la competitività ed il lavoro” (C.Laval e L.Weber). Il problema è altro, senza tornare su quanto già detto rispetto alla definizione del focus della pedagogia, la questione è di dire se stiamo prendendo sul serio teorie assurde, o se queste possano essere rivisitate e riorientate alla luce della critica pedagogica. E’ chiaro che l’approccio della Teoria del Capitale Umano si pone in una prospettiva di “individualismo metodologico” per l’idea che tutti i fenomeni sociali hanno origine nella condotta individuale (Blaug 1976). Si tratta di un modello che suppone individui capace di identificare con chiarezza il rapporto tra fine e mezzi e non influenzata da fattori sociali e da parte del mercato del lavoro una capacità di assorbimento costante e proporzionata al livello di formazione. Inoltre, questa Teoria non considera i benefici di tipo non monetario. .Ma, di nuovo, la vera questione non é solo la critica delle teorie su cui si fonda l’economia della formazione, ma piuttosto di sviluppare programmi di ricerca di lungo periodo che favoriscano sia lo studio della formazione da parte dell’economia, ma anche lo studio dell’economia, o almeno dell’economia della formazione da parte della pedagogia per affinare le ipotesi teoriche e rafforzare la ricerca empirica. Riferimenti bibliografici ABRAMOVITZ, M., (1956), Resources and Output Trends in the United States since 1870, Occasional Paper No. 52. New York: National Bureau of Research. AKERLOF, G.A., AND J.L. YELLEN (eds.), (1986), Efficiency Wage Models of the Labor Market. Cambridge: Cambridge University Press. ALMEIDA DOS REIS, J.G., AND R. BARROS, 1991, Wage Inequality and the Distribution of Education, Journal of Development Economics 36(1):117-43. BECKER, G..S., (1964), Human Capital. New York: Columbia University Press. BLAUG, M. Blaug, M. (1970) An Introduction to the Economics of Education, Penguin Books Ltd. 5 BLAUG, M. (1987) The Economics of Education and the Education of an Economists.New york: University Press BRIAN KJÆR, A. (2001), Perspectives on learning and economy – Reflections on the concept of learning in economic theory. Aalborg University BRUNET, I. (1996). Educación y economía. Barcelona, PPU. COCHRANE, S.H., J. LESLIE, AND D.J. O'HARA, (1980), The Effects of Education on Health, World Bank Staff Working Paper No. 405. Washington, D.C. COLOM, A. J. (1994). Política y planificación educativa. Sevilla, PREU-Spínola. GRADSTEIN, M., JUSTMAN, M,, MEIER, V., (2004) The Political Economy of Education. Implications for Growth and Inequality, Massachusset, MIT LAVAL, C., WEBER, L. (2002) Le nouvel ordre éducatif mondial : OMC, Banque mondiale, OCDE, Commission européenne. Paris, Syllepse LE THANH KHOI, (1967), L’industrie de l’enseignement, Paris, Les Edition de Minuit, MCFADDEN, D. (1998): Rationality for Economists? Journal of Risk and Uncertainty, 19, 73-105. MINCER, J., (1974), Schooling Experience and Earnings. New York: Columbia University Press. O’DONOGHUE, H. (1982). Dimensión económica de la educación. Madrid, Narcea. OLARIAGA, X.A. (1988). Génesis y desarrollo de la Economía de la Educación. Santiago de Compostela, Tórculo Ediciones. OROVAL PLANAS, E. (Ed.). (1996). Economía de la Educación. Ariel, Barcelona. PAGE, A. (1971). L’economie de l’éducation, Paris, PUF. SALOMON, Ph., (1966) Théorie économique et stratègie d’enseignement, Paris, Librairie générale de droit et de jurisprudence SCHULTZ, T.W. (1963).. The Economic Value of Education. New York: Columbia Press. SCHUMPETER J (1942) Capitalism socialism and democracy. Harper & Brothers, New York and London SLEMBECK, T. (1998): A Behavioral Approach to Learning in Economics – Towards an Economic Theory of Contingent Learning. The RePEc database. Version prepared for the European Economic Association Congress, Berlin. PDF: SOLOW, R.M., (1957), Technical Change and the Aggregate Production Function. Review of Economics and Statistics 39(3):312-320. VAIZEY, J. (1958) The costs of education, London: Allen & Unwin VAIZEY, J. (1976). Economía política de la educación. Madrid, Santillana. VAIZEY, J. (1961), The Economics of Education. London: Faber and Faber. VINOKOUR, A., (1967), Economie de l’éducation, Nancy, Science économiques, 6