I conti dell’autunno maghrebino
SOMMARIO
I CONTI DELL’AUTUNNO MAGHREBINO
Introduzione
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Maghreb: un inverno gelido?………………………………..…………………….……… 4
L’auspicabile
fioritura
della
Tunisia
........................................................................
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La “tigre” marocchina....................................................................................................... 7
Un’Algeria ad alto valore energetico ….......................................................................... 8
Il caos libico ………………………….………………………………………………………..…. 10
L’ambizioso Egitto ……………………….……………………………………………...…….... 12
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Introduzione
In un mondo sempre più interconnesso e interdipendente, la crisi di un paese può avere
conseguenze a volte incalcolabili e, soprattutto, incontrollabili. Se poi, quel dato paese si
trova a cavallo tra tre continenti - Europa, Asia e Africa, l’area più ricca al mondo in termini
di materie prime e risorse energetiche -, allora la storia si fa ancora più complicata.
Questo paese si chiama Tunisia, il detonatore che ha fatto esplodere l’intera regione Mena
(Medioriente-Nordafrica). E se è vero che la primavera del 2011 ha portato con sé
sconvolgimenti epocali per tutta l’area, tuttavia l’autunno si preannuncia tutt’altro che
trionfale, almeno dal punto di vista economico.
Il primo passo per evitare che l’autunno arabo diventi un gelido inverno è la risoluzione del
conflitto libico: qualora le ostilità cessassero, sarebbe possibile effettuare una stima dei
danni e programmare quei piani di ricostruzione e ristrutturazione, non solo economica,
necessari a tutti i paesi della regione. Tuttavia un tale balzo sarà possibile soltanto a una
condizione: che venga ristabilito un ordine politico, affrontati i problemi sociali e garantito il
libero accesso alle risorse a tutta la popolazione.
Se i paesi della regione riusciranno in una tale impresa, allora sarà possibile lavorare alla
creazione di una grande area di interscambio economico e commerciale, ricca di risorse e
capitale umano, posizionata nello snodo più importante che collega Europa, Asia e Africa.
Quel giorno si potrà davvero parlare di “Primavera araba”.
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Maghreb: Un inverno gelido?
Volendo individuare delle linee di riferimento sull’economia della regione nordafricana, si
può affermare che alla fine del 2010 i paesi della sponda sud del Mediterraneo stavano
vivendo un momento di ripresa, dopo i contraccolpi della grande crisi finanziaria ed
economica del 2008 che aveva investito anche i mercati locali. La rinnovata tendenza
all’aumento delle quotazioni internazionali del petrolio aveva donato nuova linfa alle
economie dei paesi produttori (Algeria e Libia), così come gli effetti delle politiche fiscali
espansive si erano riverberati anche sul resto dell’area. Ciononostante la crescita
dell’Africa Settentrionale si è dovuta scontrare con la zoppicante ripresa della domanda da
parte dei principali partner commerciali, in primis i paesi dell’Unione europea, che per tutti
gli Stati dell’area rappresentano ancora l’interlocutore economico principale (più della metà
degli interscambi maghrebini avviene con l’UE).
A questa situazione, si aggiunge alla fine del 2010 un innalzamento smisurato dei prezzi
dei principali generi alimentari e prodotti agricoli, già denunciato dal Food Outlook diffuso
dalla FAO (Food and Agriculture Organization of the United Nations) nel novembre di
quell’anno. Come ha sottolineato Omar Bessaoud, economista all’Istituto Agronomico
Mediterraneo di Montpellier, in paesi come l’Egitto, dove il 55% del reddito procapite è
utilizzato per l’acquisto del cibo, un aumento dei prezzi dei generi alimentari ha un effetto
molto più pesante che sulle tasche dei cittadini francesi che spendono in media solo il 2%
del proprio reddito.
Gli alti tassi di disoccupazione, soprattutto giovanile, e la presenza di sistemi politici più o
meno corrotti e sclerotizzati hanno fatto il resto.
A questo punto, passata l’euforia della rivolta, cosa ne sarà dei paesi coinvolti e dei loro
vicini?
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L’auspicabile fioritura della Tunisia
Testa di ponte africana nel mezzo del Mediterraneo (dalle sue coste, all’altezza di Kelibia,
si vede ad occhio nudo la Sicilia), la Tunisia è il paese pioniere delle rivolte e l’ispiratore
delle manifestazioni popolari che hanno investito l’intera area araba.
Nel 2010 l’economia tunisina era stata piuttosto performante: dopo gli assestamenti postcrisi globale, i segnali di crescita non hanno tardato a farsi sentire. Secondo i dati
dell’Istituto nazionale di statistica tunisino, il PIL del paese cresceva nel 2009 del 3,1% e
nel 2010 del 3,8%, spinto dalla crescita dei settori commerciali manifatturiero e non
manifatturiero, nonché da un terziario in espansione, che avevano sostenuto la decrescita
del settore agricolo.
Insomma, tutto sembrava preannunciare un salto in avanti dell’economia tunisina, pronta a
passare dalla produzione di olio all’industria hi-tech e ai servizi. Nel corso dello scorso
anno, il dinaro tunisino era rimasto stabile rispetto all’euro e la borsa locale aveva chiuso
in positivo, malgrado il +19,1% registrato fosse un magro risultato se confrontato con il
48,4% del 2009. Restavano però delle forti incognite sul paese. Innanzitutto, l’alto tasso di
disoccupazione, che nel 2010 toccava circa il 13% della popolazione, con picchi di oltre il
20% per i giovani tra i 15 e i 29 anni; ma anche l’inflazione e l’alto tasso di crescita del
costo della vita, salita di oltre un punto percentuale (dal 3,5 al 4,6%) in un anno. Infine, la
percezione da parte della popolazione di un livello di corruzione politica divenuto
inaccettabile, con gli esiti che tutto il mondo ha potuto vedere.
Sono queste le sfide che attendono la Tunisia post-Ben Ali. Pertanto, il governo che verrà
dovrà riuscire a perseguire i trend positivi dell’economia tunisina, avendo
contemporaneamente cura di introdurre degli ammortizzatori sociali, e di lanciare un piano
serio di abbattimento della disoccupazione, unico rimedio per allentare le tensioni sociali.
Nel frattempo, com’era prevedibile, il 2011 si è aperto in negativo. Il turismo, uno dei
settori trainanti del PIL del paese, è in forte crisi: secondo il locale Ufficio Nazionale del
Turismo, nel 2011 si sono già persi 3000 posti di lavoro. D’altra parte la crisi della Libia,
uno dei principali partner commerciali del paese, continua a danneggiare l’economia
nazionale, con la conseguenza che secondo le proiezioni dell’African Development Bank
(AfDB), alla fine di quest’anno la crescita del PIL tunisino è destinata a scendere fino a
+1,1% e il debito estero a passare dal 4,7% (del PIL del 2010) al 7,6% del 2011.
Tuttavia ci sono comunque dei segnali che invitano a un cauto ottimismo. Innanzitutto, nei
primi cinque mesi del 2011 le esportazioni tunisine hanno subito un aumento: i dati
dell’Istituto Nazionale di Statistica tunisino certificano che il volume dei beni esportati fino a
maggio ha raggiunto quota 10,6 miliardi di dinari (circa 5 miliardi e mezzo di euro) contro i
9,3 (4,8 miliardi di euro) dello stesso periodo dello scorso anno.
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Inoltre, l’afflusso di Investimenti diretti esteri (IDE) verso la Tunisia sembra si sia tutt’altro
che arrestato: secondo i dati della Foreign Investments Promotion Agency (stante che nei
primi due mesi del 2011 è diminuito del 25% rispetto all’anno precedente) il trend è
notevolmente migliorato, limitando il calo complessivo al 17% (giugno 2011).
Se il nuovo governo tunisino risulterà maggiormente attento alle istanze della popolazione
e capace al contempo di ravvivare lo scambio commerciale con l’estero, rivitalizzando
anche il turismo e gli investimenti esteri nel paese, l’economia nazionale potrebbe
riprendere vigore e la crescita del PIL attestarsi sul 4,2%, già nel 2012, come stima
l’African Development Bank.
Probabilmente, una carta vincente per la Tunisia potrebbe essere quella dell’apertura di
nuovi canali commerciali: secondo i dati dell’OMC (Organizzazione Mondiale del
Commercio), il paese è ancora eccessivamente dipendente dall’UE dei 27 per le proprie
esportazioni (nel 2010 il 73,8% delle esportazioni) e le importazioni (il 62,5%), e conta tra i
suoi maggiori partner i suoi vicini, ovvero la Libia, l’Algeria e il Marocco. Nel contempo,
una sempre più sviluppata politica di interscambio e di collaborazione potrebbe favorire il
raggiungimento di una maggiore autonomia commerciale regionale. A questo fine, però, è
fondamentale che tutta l’area trovi la stabilità che in questo 2011 sembra mancare
totalmente.
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La “tigre” marocchina
Economia tradizionalmente legata al settore primario, che occupa secondo i dati CIA
World Factobook più del 44% della popolazione, nel 2010 il Marocco ha visto una
diminuzione del prodotto agricolo a vantaggio di un aumento dell’incisività sulla
composizione del PIL di secondario e terziario di nuova generazione ad alto valore
aggiunto (+5% nel 2010, secondo l’ICE), segno che gli sforzi compiuti dal governo negli
ultimi anni stanno dando risultati. In questo tentativo di sganciamento dal settore primario
in direzione di una maggiore industrializzazione (notevoli i settori minerario e di produzione
di energia elettrica) e, soprattutto, terziarizzazione (turismo, telecomunicazioni e trasporti),
il Marocco ricorda la Tunisia del 2010. Con un Ben Ali in meno.
Se l’anno scorso il PIL è aumentato del 3,3% (dati ICE), nel 2011 la AfDB prevede che
continuerà a crescere, attestandosi su +4,6%. L’interscambio commerciale del 2011 dà
segnali positivi: nei primi sei mesi dell’anno i dati presentati dall’Office des Changes,
l’agenzia marocchina di monitoraggio del tasso di cambio, registrano un aumento delle
esportazioni marocchine del 19,8% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente,
soprattutto grazie all’importante apporto dato dalla vendita di fosfati.
Restano tuttavia alcuni problemi di carattere sociale di cui il paese dovrà occuparsi man
mano che procede lo sviluppo economico. Problemi sociali che, come insegna la Tunisia,
non possono più essere trascurati dai governi dell’area. Innanzitutto il tasso di
disoccupazione, che si attesta attorno al 10% nel 2010. In secondo luogo, un’alta
percentuale di popolazione che vive al di sotto della soglia di povertà (19% secondo l’ICE),
così come l’inefficienza del servizio sanitario pubblico, soprattutto nelle zone rurali e il
difficile accesso all’acqua potabile in estese aree del paese. Infine, un tasso di
analfabetismo tra i più alti del mondo arabo, che secondo i dati ICE raggiunge il 38,75%,
una percentuale pesante per una popolazione che supera i trenta milioni di abitanti e che
probabilmente “spiega” lo scarso seguito che hanno avuto le recenti iniziative di protesta
popolare contro Re Mohammed VI.
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Un’Algeria ad alto valore energetico
L’Algeria, che come il Marocco non è stata travolta dalla piena delle rivolte che hanno
portato alla caduta di Hosni Mubarak in Egitto e di Ben Ali in Tunisia, ha un’economia
profondamente legata alle esportazioni di idrocarburi e minerali, che rappresentano,
secondo i dati OMC, il 98% delle sue esportazioni. L’Algeria è membro della sempre più
importante “cricca del petrolio”, l’OPEC (Organization of the Petroleum Exporting
Countries), e detiene la terza maggiore riserva di greggio in Africa (nel 2010 ammontava a
12,2 miliardi di barili, dati OPEC), oltre ad ingenti riserve di gas, che secondo il ministro
dell’Energia algerino arrivano a circa 150 miliardi di metri cubi, posizionando il paese al
decimo posto al mondo.
Nel 2010, malgrado la forte contrazione a livello globale del mercato dell’energia, l’Algeria
ha saputo reagire bene alla crisi, anche grazie ad un’accorta politica di bilancio e fiscale, e
il PIL del paese è cresciuto del 4,1% (dati FMI). Questo ha permesso al governo di
lanciare un vasto programma quinquennale 2010-2014 di investimenti pubblici, per un
ammontare di 286 miliardi di dollari, mirato allo sviluppo delle infrastrutture del paese. Si
tratta quindi di una economia export-led i cui proventi vengono utilizzati per la costituzione
di imponenti opere pubbliche. Sotto questo punto di vista, l’Algeria beneficia delle proprie
risorse naturali, ma resta carente nell’espansione degli altri settori e nello sviluppo di una
industria privata.
L’Algeria, così come tutti gli altri paesi dell’area, deve però risolvere i già citati problemi
sociali che hanno alimentato le manifestazioni popolari di questi mesi, partendo dall’alto
tasso di disoccupazione (il 10%, secondo il locale Office National des Statistiques), e
soprattutto dal forte divario economico nella popolazione, con ampie fasce che non
partecipano alla crescita e allo sviluppo del paese: questo ha fatto sì che l’aumento dei
prezzi dei generi alimentari (olio, zucchero, farina), stimato attorno al 20%, abbia
scatenato proteste da parte della popolazione in diverse città. Sebbene queste siano state
sedate da un piano del governo di tagli alle imposte sui prodotti colpiti dal rincaro, il
presidente Abdelaziz Bouteflika è tutt’altro che al sicuro da ulteriori sviluppi di una simile
rivolta: per questo motivo il governo algerino si è affrettato ad approvare, a maggio di
quest’anno, una legge che prevede un aumento del 25% delle spese per il budget del
2011, andando a favorire così la stabilità dei prezzi dei generi alimentari di prima necessità
e l’aumento degli stipendi dei funzionari pubblici. Oltre a questa misura, l’Ufficio doganale
algerino segnala anche un aumento ingente delle importazioni di generi alimentari nel
corso dell’anno, cresciute nei primi sei mesi del 2011 del 59% rispetto al 2010.
Tali investimenti sono stati resi possibili dall’aumento dei prezzi di gas e petrolio, dinamica
certamente favorita dalla crisi della vicina Libia. Ciononostante sono molti gli analisti che
hanno già messo in guardia il governo algerino: la volatilità del prezzo del petrolio non
garantisce una costanza nelle entrate sul lungo periodo e potrebbe causare un aumento
del tasso di inflazione, che porterebbe con sé una nuova ondata di proteste.
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Sembra quindi evidente che in Algeria, così come in Marocco, i problemi sociali che hanno
spinto la popolazione a protestare sono stati momentaneamente “tamponati”, piuttosto che
risolti. Un delicato gioco di equilibrio attende quindi il governo algerino per l’inverno 2011 e
per vincerlo questa volta non basterà il petrolio.
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Il caos libico
Primo paese africano per riserve di petrolio (47 miliardi di barili nel 2010, secondo i dati
OPEC), fino allo scorso anno la Libia aveva una struttura economica per certi versi simile
a quella algerina. Una tradizionale economia export-led a conduzione statale quasi
interamente dipendente da petrolio e gas naturale, che contribuivano a generare secondo i dati CIA World Factbook - il 95% dei guadagni legati alle esportazioni, il 25% del
PIL e l’80% delle entrate statali. Tuttavia, negli ultimi anni si è assistito all’introduzione di
misure per lo sviluppo di settori non oil e per l’espansione di iniziative imprenditoriali
private. A partire dal 2006, anno in cui la Libia è stata rimossa dalla terribile lista dei
cosiddetti “Stati canaglia”, tutte le sanzioni economiche internazionali che gravavano sul
paese sono state abolite.
Una volta dalla parte dei “buoni” (o perlomeno dei non troppo cattivi), il paese ha iniziato
ad attrarre investimenti esteri, soprattutto nel settore energetico, e a porre le basi per una
transizione, seppur lenta, da un sistema economico a controllo statale ad una economia di
mercato. Sebbene il settore non oil avesse visto una sensibile espansione negli ultimi anni
(+8% nel 2008 secondo l’ICE), l’economia libica continua a dipendere essenzialmente
dalla produzione e dall’esportazione di petrolio e gas. Questa dipendenza quasi totale ha
garantito certamente buone entrate al paese, ma ha pure sottoposto la Libia a risultati
altalenanti di anno in anno, a seconda della fluttuazione dei prezzi del petrolio. Per cui,
osservando i dati della African Development Bank, si nota come il tasso di crescita del PIL
della Libia sia passato dal 9,9% del 2005 al 6% del 2007, fino a toccare quota -1,6% nel
2009, durante il post-crisi globale, per risollevarsi poi al 7,4% nel 2010. Un andamento
certamente instabile, che non ha permesso al governo di perseguire con costanza e
regolarità i piani di sviluppo economico ed infrastrutturale necessari allo sviluppo del
paese.
Probabilmente il 2011 sarà ricordato come l’anno zero della Libia: gli sconvolgimenti degli
ultimi mesi hanno letteralmente azzerato gli sviluppi compiuti dal paese in questi anni.
Attualmente la produzione di petrolio è quasi del tutto ferma e l’economia del paese
paralizzata: la AfDB prevede che il tasso di variazione del PIL libico segnerà un -19% per
tutto il 2011, pur avvertendo che, nel caso in cui dovessero cessare le ostilità all’interno
del paese, nel 2012 potrebbe recuperare un +16%. Le sanzioni economiche imposte dagli
Stati Uniti e dall’Unione Europea (quest’ultima principale partner commerciale del paese)
hanno decretato il congelamento di beni e asset libici per un totale di circa 120 miliardi di
dollari, secondo le stime del ministro della Finanza libico, Abdulhafli Zlitni, e stanno
minando la già difficile capacità di sopravvivenza del sistema paese. A ciò si aggiunge la
difficoltà di approvvigionamento di cibo: infatti, già in condizioni normali, le caratteristiche
climatiche e del suolo libico rendono scarsa la produzione agricola e obbligano il paese ad
importare il 75% del fabbisogno nazionale.
Lo stato di guerra ha causato la sospensione di gran parte della produzione e il blocco
quasi totale dei flussi commerciali. Di conseguenza, il prezzo del cibo continua a crescere
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in maniera vertiginosa, man mano che vengono svuotati i depositi di generi alimentari. Il
valore del dinaro libico è al collasso, a causa della forte penuria di valuta in seguito alle
sanzioni finanziarie imposte nelle ultime settimane da diversi paesi. Secondo alcuni
analisti, se le ostilità non dovessero cessare ci sarebbe il serio rischio di dover affrontare
una grande crisi umanitaria. Contro un’emergenza di queste proporzioni a poco
potrebbero servire le 144 tonnellate di riserve auree, che a detta di molti si troverebbero
ancora all’interno del paese.
Il ruolo della Libia come porta d’ingresso sul Mediterraneo verso l’Africa ha fatto sì che la
sua crisi abbia generato a sua volta altre crisi, partendo dalla situazione di emergenza che
si è creata alle frontiere con i paesi vicini (tra cui si annoverano Tunisia ed Egitto, due
paesi che nel 2011 hanno dovuto affrontare notevoli difficoltà), fino alla perdita di rimesse
per le famiglie di milioni di migranti africani che lavoravano in Libia. Secondo un recente
studio del CARIM (Consortium for Applied Research on International Migration),
cofinanziato dall’UE, dei circa 2,5 milioni di migranti presenti in Libia, ben 530.000
avrebbero lasciato il paese tra marzo e maggio del 2011. La maggior parte di loro proviene
dall’Africa settentrionale (solo gli egiziani sarebbero circa un milione) e sub-sahariana, ma
esistono ampie comunità di asiatici, provenienti perlopiù da Pakistan, Bangladesh,
Filippine e Vietnam.
L’impatto della crisi libica sembra inoltre aver particolarmente colpito anche la Tunisia.
Secondo un recente rapporto della AfDB le economie dei due paesi si starebbero
influenzando negativamente a vicenda. La Libia è il maggior partner commerciale della
Tunisia in Africa (per un flusso totale di 1,390 miliardi di dollari nel 2009, secondo i dati UN
Comtrade, 2010) ed esistono più di quaranta aziende tunisine che operano in Libia su
settori diversi, dalle costruzioni all’industria alimentare, e più di 1300 imprese che
esportano in Libia. Secondo il ministero del Commercio tunisino nei primi due mesi del
2011 le esportazioni in Libia sono scese del 22,5%, mentre la Camera di commercio libicotunisina segnala che prima del conflitto circa 1,5 milioni di tunisini si recavano in Libia ogni
anno per turismo o acquisti, garantendo al mercato libico ottime entrate. Nel paese dei
gelsomini il ministero del Lavoro prevede che nel 2011 il numero di disoccupati passerà da
520 mila a 700 mila, raggiungendo un picco del 19% della popolazione, dato dovuto anche
alle migliaia di lavoratori tunisini scappati dalla Libia. Secondo l’Organizzazione mondiale
per la migrazione (IOM), circa 41 mila tunisini sarebbero stati rimpatriati in seguito alla
crisi, riducendo così il flusso di rimesse che nel 2009 aveva raggiunto, secondo il ministero
degli Affari Sociali tunisino, i 50 miliardi di dollari.
La Libia è inoltre il quarto maggiore investitore straniero presente in Tunisia, con 30
imprese che offrono più di 3 mila posti di lavoro: ad oggi le sorti di queste attività sono
incerte.
Il collasso della Libia ha danneggiato molti paesi africani, ma anche le economie del
Vecchio Continente: qualora tutta la regione nordafricana dovesse collassare, anche
l’intera Unione Europea ne sentirà gli effetti.
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L’ambizioso Egitto
L’Egitto del 2010 era un paese emergente. L’impatto della crisi globale del 2008 era stato
attutito bene, con una buona crescita del PIL che, sebbene non raggiungesse il +7% del
2007/2008, tuttavia sia attestava nel 2009 e nel 2010 su un dignitosissimo +5% (dati ICE).
Nel 2010 il carro della crescita economica era stato trainato dal settore manifatturiero, che
contribuiva per un punto percentuale sul totale. Al contrario di altri paesi dell’area, la cui
economia rimane basata sull’agricoltura o comunque su un solo settore trainante, la
composizione dell’economia egiziana dava maggior peso al terziario (48,5% del PIL),
seguito da industria (37,5%) e agricoltura (14%). Secondo i dati della AfDB, gli effetti della
crisi globale avevano colpito i conti esteri anche nel 2010, con un sensibile calo delle
entrate dai passaggi delle navi attraverso il canale di Suez (-13,5% rispetto agli anni precrisi), così come degli IDE in entrata (-16,7% rispetto al 2008/2009), a cui va aggiunta una
forte riduzione nell'interscambio di idrocarburi.
L’inflazione schizzata a percentuali folli nel 2008 (+18,7%, con picchi del +24% di agosto,
dati ICE) era in gran parte dovuta all’aumento dei prezzi dei generi alimentari, saliti del
31% durante l’estate del 2008, fortemente influenzati dall'andamento dei prezzi
internazionali. Già tra il 2007 e il 2008 la città del Cairo era stata teatro di importanti
manifestazioni contro il carovita: gran parte della popolazione non era più in grado di
comperare il pane. Per attutire i contraccolpi della crisi, il governo aveva iniettato 16
miliardi di ghinee egiziane (circa 1,8 miliardi di euro) in due pacchetti di stimolo fiscale per
favorire l’investimento pubblico, mentre le autorità avevano tagliato le tariffe per
promuovere il commercio internazionale, bloccando le esportazione di riso fino all’ottobre
2011, in modo da assicurare un’adeguata fornitura al mercato domestico.
Evidentemente tali misure non si sono rivelate abbastanza adeguate in un Egitto dominato
da un personaggio come Hosni Mubarak, il “Grande Faraone”, per l’età raggiunta e per la
sclerotizzazione del sistema da lui imposto. Un Egitto che registra ancora un tasso di
povertà in continua crescita dal 2000 e dove 16,6 milioni di cittadini non hanno abbastanza
denaro per acquistare cibo e altri beni di prima necessità (dati AfDB). Un Egitto che ha una
disoccupazione che oscilla tra l’8% e il 9% e in cui il 37% della forza lavoro è impiegata nel
settore informale.
L’evolversi della crisi politica e sociale ha portato, nel 2011, alla temporanea interruzione
dell’attività economica, a una produzione inferiore alla capacità del paese e alla chiusura
per ben 55 giorni della borsa locale. La Banca Mondiale ha calcolato che dall’inizio di
gennaio 2011 le perdite per l’economia egiziana ammontano già a 113 miliardi di ghinee,
circa 13 miliardi di euro. Nei prossimi mesi l’economia egiziana dovrà affrontare le
incertezze causate dalla crisi, dalla diminuzione dell’afflusso di IDE alla crisi del settore
turistico e alla riduzione dei proventi dei passaggi attraverso il Canale di Suez. Secondo le
proiezioni della AfDB, nel 2011 la crescita del PIL del paese si avvicinerà a quella
europea, dal 5% del 2010 all’1,6% di quest’anno.
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Il governo ad interim sta tentando di ammorbidire il malcontento popolare offrendo sussidi
alimentari, incentivi e promozioni ai funzionari statali. Inoltre ha già speso 100 milioni di
ghinee per affrontare i problemi di impiego della forza lavoro di ritorno dagli altri paesi
arabi colpiti dalle rivolte, soprattutto dalla Libia. Sfortunatamente, la manovra ricorda lo
zucchero messo attorno ai bordi del bicchiere che contiene la medicina amara e che verrà
assaporata degli egiziani solo nel medio e lungo termine, quando si coglieranno appieno i
frutti di una tale situazione della bilancia fiscale. Il deficit pubblico è destinato a salire fino
al 10% (secondo la AfDB) a causa delle spese sostenute attualmente dal governo; il tasso
di inflazione schizzerà fino al 13% a causa della carenza temporanea di scorte alimentari
dovuta alle proteste, allo stallo dell’attività economica e all’aumento globale dei prezzi del
cibo.
La difficile situazione attuale di Europa e Stati Uniti inibisce ulteriormente le esportazioni
egiziane: il paese esportava verso i due mercati circa il 40% dei suoi beni. Scarsissimo
resta l’interscambio commerciale egiziano con i vicini arabi: soltanto con l’Arabia Saudita
esistono consistenti rapporti commerciali (circa il 5% delle esportazioni egiziane), mentre è
quasi assente con gli altri paesi dell’Africa settentrionale. Questo è il risultato
dell’eccessivo orientamento del governo Mubarak verso i protettori d’oltreoceano, a
discapito di una politica maggiormente attenta alle opportunità offerte dalla regione araba.
Anche per l’Egitto, come per altri paesi dell’area, un buon punto di partenza per la ripresa
potrebbe consistere nel progressivo alleggerimento della dipendenza da UE e Stati Uniti
(pur mantenendo con questi due mercati un importante livello di interscambio, sebbene
non esclusivo) attraverso un maggior orientamento dei flussi commerciali innanzitutto
verso i paesi arabi vicini e in seconda battuta verso i mercati asiatici emergenti. La
posizione geografica, con l’accesso per buona parte della costa al mar Rosso e il controllo
del Canale di Suez, renderebbe l’Egitto un paese strategicamente unico per quanto
riguarda la navigazione commerciale.
Ma soprattutto l’Egitto è chiamato a recuperare al più presto il ruolo di paese guida del
mondo arabo, dopo essere stato spodestato negli ultimi anni da un’Arabia Saudita gonfia
di petrodollari e forte dell’appoggio a stelle e strisce. Qualora l’Egitto recuperasse la
propria posizione di leadership all’interno della Lega Araba e del mondo arabo, la sua
posizione, la sua storia e le sue risorse umane e materiali potrebbero lanciare il paese
verso una crescita importante, capace di trainare anche i vicini.
Un primo passo in questo senso sembra essere la decisione da parte del ministro
dell’Economia Samir Radwan di rinunciare agli aiuti del Fondo Monetario Internazionale e
della Banca Mondiale, ma di puntare piuttosto verso una gestione autonoma dell’economia
del paese, libera dal sistema degli “aiuti vincolati”. È stato proposto quindi un nuovo
modello di sviluppo economico, che punta sulla crescita di industria e agricoltura
attraverso il sostegno alle piccole e medie imprese, piuttosto che sull’immissione di denaro
proveniente dall’estero e vincolato a tassi di interesse e a monitoraggi esterni. Un tale
esperimento si ispirerebbe a un modello che ha già avuto esiti positivi in Turchia e in
Malesia. Tuttavia il grande balzo sarà possibile soltanto a una condizione: che venga
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ristabilito un ordine politico e garantito accesso alle risorse a tutte le classi e le aree del
paese.
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Dossier Osservatorioiraq
I CONTI DELL’AUTUNNO MAGHREBINO
Realizzato da Giovanni Andriolo
Pubblicato a settembre 2011
Foto di copertina by Bruckerrlb on Flickr
Osservatorioiraq
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