IL DEBITO DEI PAESI EMERGENTI Nicola Pegoraro, Università di Genova Appunti del corso “Investimenti Finanziari nell’attuale contesto internazionale” Anno Accademico 2006-2007 Piccola nota metodologica L’argomento che ci accingiamo a trattare è complesso ma affascinante per molti motivi. E’ complesso perché si presta a facili generalizzazioni e a derive ideologiche, pertanto cercheremo sempre di tenerci coi piedi per terra e faremo sempre riferimento alla realtà storica e dei nostri giorni, ragionando di cose concrete, senza dare troppi giudizi. E’ affascinante perché, nei paesi emergenti, le vicende economiche e finanziarie assumono dimensioni e ritmi inusuali. Per essere coerente con le premesse, mi è sembrato logico strutturare questo piccolo corso in tre tappe. In una prima fase, definiremo cosa si intenda per paese emergente e quale sia la storia concreta che ha contraddistinto il debito e l’economia dei paesi emergenti negli ultimi due secoli. In una seconda tappa, cercheremo di capire gli avvenimenti descritti, andando a individuare alcune problematiche ricorrenti ed alcune utili categorie del pensiero economico. In quella sede, analizzeremo le problematiche del contagio, del cosiddetto “peccato originale” ed altri temi del dibattito in materia. Nell’ultima frazione del corso, ritorneremo ancora ai casi concreti delineando le vicende di Argentina ed Ecuador nell’ultimo decennio; a questo scopo utilizzeremo l’armamentario tecnico appreso e introdurremo alcuni temi di attualità. Fonti e note bibliografiche Ho fatto ampio uso dei dati e dei grafici (parzialmente tradotti) riportati da uno studio molto completo e recente: Borensztein, Levy Yeyati, Panizza. 2006. Living With Debt. Inter American Development Bank. Spesso, nel testo, la fonte è identificata come LWD. Per il resto, ho utilizzato materiale e dati pubblicati sui siti della Banca dei Regolamenti Internazionali, del Fondo Monetario Internazionale, sulla piattaforma Bloomberg e facendo ampio ricorso alla mia memoria e al personale bagaglio di esperienza e di letture sull’argomento. Non ho preparato una vera e propria bibliografia, in quanto mi sembrava fuori luogo per degli appunti di corso. Letture di approfondimento Per chi volesse approfondire alcune delle tematiche trattate ho preparato una lista di letture consigliate che sono liberamente disponibili sul web (il link è presente nel documento pdf): Storia del debito latino-americano fino alla prima guerra mondiale (in Inglese): Borensztein, Levy Yeyati, Panizza. 2006. Living with Debt-Capitolo 4. Inter American Development Bank. In tema di Brady Bonds (in Inglese): Graicap Fixed Income. 1997. Introduction to Brady Bonds . Da Bradynet.com Sul cosiddetto “Effetto Fenice” (in Inglese): Calvo, Izquierdo, Talvi. 2006. Phoenix miracles in emerging markets. BIS Working Papers 221. In tema di “peccato originale” e “intolleranza al debito” (in Italiano): Borio, Packer. 2004. Analisi dei nuovi orientamenti in materia di rischio. Rassegna trimestrale BRI, dicembre 2004 In tema di mercati finanziari domestici (in Italiano): Jeanneau, Tovar. 2006. I mercati obbligazionari interni in America latina. Rassegna trimestrale BRI, giugno 2006 In tema di riserve monetarie (in Italiano): Mohanty, Turner. 2006. Accumulo di riserve valutarie nei mercati emergenti. Rassegna trimestrale BRI, settembre 2006 Ringraziamenti Un grazie di cuore a Giovanni Tortorolo che mi ha assistito nella redazione delle note del corso e nella preparazione del materiale. Parte 1: Storia e definizioni Che cosa è un paese emergente? Secondo la definizione dell’economista Antoine W. van Agtmael, un paese emergente è caratterizzato da un reddito medio pro-capite inferiore alla media mondiale, ma superiore ad un livello minimo. Sotto a tale soglia, si collocano i paesi del cosiddetto quarto mondo (Least Developed Countries, LDC , in Inglese). Per questi paesi, parlare di sviluppo economico o di convergenza verso le economie più forti è fuori luogo, dal momento che si trovano spesso confrontati a carestie o guerre civili. In altre parole, un paese emergente può essere definito come un paese che è meno prospero della media mondiale ma che aspira a convergere verso uno status superiore, da paese sviluppato. PAESI SVILUPPATI PAESI EMERGENTI PAESI MENO SVILUPPATI-QUARTO MONDO Non per niente, il termine “emergente” porta con se l’idea di salita e movimento. Purtroppo è anche possibile il movimento inverso, ossia che un’economia perda lo status di sviluppata o che un paese emergente arretri fino a collocarsi nel cosiddetto “quarto mondo”. A mio parere, tuttavia, non basta definire lo status del paese sulla sola base del Reddito medio pro-capite. Si devono considerare, invece, molteplici aspetti e caratteristiche, partendo dalla salute dell’economia, proseguendo con la natura del substrato culturale ed istituzionale, per poi terminare con fattori legati alla natura dell’indebitamento (dimensione, tipologia, efficienza del mercato in cui i titoli vengono scambiati). Analizziamo la figura che segue. Vengono riclassificati gli stati sovrani in base al loro livello di indebitamento ed al loro Rating (strumento che permette di classificare un paese in base alla propria capacità di far fronte ai debiti assunti). Il Rating è un giudizio sul merito creditizio stabilito da alcune agenzie indipendenti (Standard & Poor’s, Fitch, Moody’ s, ecc) le quali, attraverso studi sulla salute dell’economia, sulla gestione del paese, sulle istituzioni, attribuiranno alti rating, come AAA o AA, a nazioni che siano in grado di onorare i propri debiti senza alcun problema, fino ad attribuire rating molto bassi (BB, B, C) a paesi con bassa capacità di far fronte agli impegni. Alcuni paesi, come l’Italia, il Giappone ed il Belgio non possono essere certo considerati come paesi emergenti solo perché hanno un elevato indebitamento statale, se rapportato al proprio PIL: non solo hanno un rating piuttosto elevato, ma hanno anche i propri punti di forza nella libertà economica e politica, nella diversificazione dell’economia, nel sistema giudiziario, etc. Invece, può benissimo essere che paesi con limitato debito pubblico possano essere classificati come più rischiosi (ad esempio Guatemala, Costa Rica, Colombia, Ecuador) e specificamente come “emergenti”. La classificazione di emergente può essere attribuita ad un paese che possiede un’economia sbilanciata (di solito esposta al settore agricolo, alle materie prime e all’industria a basso valore aggiunto), istituzioni non ancora sviluppate ed una elevata volatilità delle entrate statali (si pensi ad un paese esportatore di materie prime soggette ad elevate fluttuazioni di prezzo); al contrario un paese sviluppato è caratterizzato da un’economia diversificata, da entrate statali stabili e da istituzioni che godono di ampia fiducia interna e internazionale. Da sottolineare anche che lo status di paese “sviluppato” sia difficile da raggiungere e si consegua solo dopo un lungo periodo di “rodaggio” e non subito dopo aver conseguito buoni risultati economici e sociali. In un certo senso, anche la storia e la tradizione di un paese hanno un peso. Questo confermerebbe l’importanza dei fattori qualitativi e della componente legata alla fiducia che il paese deve guadagnare nel tempo. Il fatto che paesi con un rating medio/alto (come il Messico, la Cina o altri) siano comunque considerati “Paesi emergenti”, nonostante la valutazione creditizia sia buona, conferma l’assunto: non basta conseguire un buon rating nel breve termine, ma serve anche confermarlo nel tempo, dando prova di affidabilità. Se si esamina il profilo del debito pubblico dei paesi emergenti, questo è di norma caratterizzato da una forte prevalenza di creditori esteri rispetto a quelli domestici e dipende fortemente dal mercato internazionale dei capitali per il suo finanziamento, non potendo contare su un mercato domestico abbastanza sviluppato. Perché parliamo in queste lezioni dei paesi emergenti e del loro debito? Esiste un’intera branca dell’Economia Politica che si occupa delle problematiche legate allo sviluppo economico di questi paesi e delle misure utili a farli evolvere verso forme economiche maggiormente equilibrate; la si definisce “Economia dello Sviluppo”. I problemi sollevati vanno molto al di là dei temi trattati in queste lezioni, ma spero di dare almeno qualche spunto di discussione in merito. In secondo luogo, oltre che coinvolgere le vicende di una parte importante della popolazione mondiale, i paesi emergenti sono di particolare interesse per lo studioso di economia in quanto i fenomeni macro-economici che si sviluppano al loro interno risultano amplificati e di più ampia portata rispetto a quelli che coinvolgono paesi più sviluppati ed “equilibrati”. Questo fatto è da ricondursi alla maggiore instabilità finanziaria ed economica. Parlare di paesi emergenti è anche parlare di crisi, fallimento e rinascita. Le vicende di un paese emergente passano spesso per un’insolvenza (“default”). Va detto, ad ogni modo, che il default contraddistingue tutta la storia economica e tutto il globo, non solo i paesi più arretrati: nel XX secolo, Regno Unito, Francia, Germania e Italia hanno defaultato almeno una volta. E’ certo, però, che, per un paese emergente, l’insolvenza è un evento comune e spesso “seriale”. Un po’ di storia Da secoli, gli stati sovrani si finanziano attraverso prestiti internazionali, che spesso non vengono rimborsati. Nel XIV e XV secolo, l’Inghilterra, era considerata un vero e proprio paese emergente, abitato da gente rude e non molto istruita, bisognoso di capitali per finanziarsi e ricco di lana da esportare. Durante il regno di Edoardo III (nel 1345), l’Inghilterra dichiarò default e non vennero onorati i debiti contratti con i banchieri fiorentini, i Bardi ed i Peruzzi. Edoardo III decise di non rimborsare il debito, non perché le finanze inglesi fossero insufficienti, ma perché ritenne che il suo regno non avrebbe più avuto bisogno di investitori esteri. Più avanti nel tempo, la parte del paese insolvente venne interpretata dalla Spagna, la quale, a partire dalla seconda metà del 1500, si rivelò insolvente per tre volte nei confronti dei banchieri genovesi e, pochi decenni dopo, ancora per tre volte nei confronti dei banchieri portoghesi. A parte questi precedenti (si potrebbe anche risalire più indietro nel tempo per incontrare i primi default), si può fissare nella decade 1820-1830 la nascita del moderno mercato del debito emesso da paesi emergenti. Infatti, in questi anni, gli stati sudamericani avevano appena ottenuto la propria indipendenza dall’impero spagnolo ed avevano necessità di grandi finanziamenti per la costruzione delle infrastrutture; essendosi resi indipendenti, non potevano più attingere risorse dalla Spagna. Per brevità, si fa riferimento a questi paesi del Centro e Sud America con il termine “Latam” che impiegheremo spesso di seguito. Nel 1822, vennero concessi i primi prestiti alla Colombia e, nei mesi immediatamente seguenti, a molti altri paesi dell’area latino-americana. La maggior parte dei fondi arrivarono dall’ Inghilterra, che, nel 1800, non era certo più un paese emergente, ma dominava l’economia del pianeta. Dopo pochi anni, questi stati furono incapaci ad onorare propri impegni, assunti (e concessi) senza nessuna razionalità e dichiararono i primi default. Questa prima crisi si caratterizza per essere stata facilitata dalla grande liquidità presente nei paesi sviluppati e dalla grande leggerezza con la quale vennero prestati i fondi ai nuovi paesi. La rapidità con la quale si arrivò all’insolvenza ci conferma che, in questa prima ondata di finanziamenti, non fu minimamente valutato il rischio finanziario. La faciloneria era tale che, in un caso limite ma di non piccole dimensioni per l’epoca, ad essere finanziato fu uno stato addirittura inesistente, il fantomatico Regno del POYAIS, attraverso un prestito obbligazionario collocato in Inghilterra, in Scozia e in Francia, da un truffatore scozzese che aveva combattuto per l’indipendenza del Venezuela, Gregor MacGregor. Gli anni 30 del 1800 passarono senza che gli stati che avevano dichiarato Default tra il 1826 ed il 1830 riuscissero a rimborsare i loro debiti. Ad un accordo con i creditori si arrivò in corrispondenza di una successiva ondata di denaro facile attorno al 1850. Gli anni intorno al 1850 furono caratterizzati da una grande espansione economica e da un’ampia ondata di liquidità presente sui mercati finanziari e tutto ciò comportò un nuovo afflusso di capitali dall’ Europa (Londra, Amsterdam e Parigi in primis) verso il LATAM, ma non solo. Infatti vennero prestate somme anche in Sud Africa (1850) utilizzate prevalentemente nell’attività estrattiva di materie prime e, a partire dal 1870, anche in Russia, principalmente per la costruzione di ferrovie. La crisi degli anni 70 del 1800 investì tutti i paesi latam, i quali non riuscirono a sopportare il peso del debito e dovettero così defaultare per la seconda volta nel giro di 50 anni. Negli anni 80, un ulteriore ciclo economico e finanziario positivo riportò, ancora una volta, capitali freschi nel continente. La successiva crisi si verificò all’inizio degli anni 90. In particolare in Argentina, a cavallo del 1890, la crisi colpì fortemente il settore bancario e viene ricordata come la prima crisi moderna di un paese emergente, poiché si possono ritrovare i tipici ingredienti delle crisi future: crisi bancaria, svalutazione della divisa, sovra-indebitamento statale e tentativo di aiuto da parte del governo di un paese potente. In aiuto dell’Argentina, vista la non remota possibilità di un contagio in tutto il LATAM e, di converso, sulle banche inglesi che avevano prestato grosse somme nell’area, intervenne la Bank of England costituendo un fondo di emergenza, che doveva servire a rifinanziare il paese sudamericano ed evitare dissesti nelle banche inglesi. La mossa non impedì alla banca inglese Barings di dichiarare bancarotta per l’insolvenza dell’acquedotto di Buenos Aires a cui aveva prestato somme immense. La crisi viene ancora oggi chiamata “Barings Crash” o “1890 Panic”. Gli stati che dichiararono default negli anni intorno al 1890 rinegoziarono il loro debito, posticipando le scadenze ed ottenendo condizioni di remunerazione sostenibili per le loro economie, non ancora del tutto sviluppate ed autonome. La figura precedente riassume graficamente i periodi in cui gli stati del LATAM furono in default fino al 1940. In verde sono indicati gli anni in cui il debito estero non venne rimborsato e nelle parentesi, accanto al nome del paese, viene indicato in termini percentuali la frazione del periodo durante il quale ogni stato è rimasto insolvente. Si può ben capire come, in quegli anni, il default fosse prassi comune. La figura precedente mostra come le crisi siano numerose ed inter-correlate nell’area LATAM (i rendimenti del debito dei differenti paesi salgono e scendono negli stessi periodi. Esamineremo nella seconda lezione il tema del “contagio”, centrale nella ricerca economica che si dedica alle crisi economiche e finanziarie. Gli anni che seguirono il primo dopoguerra videro, per molti aspetti, la fine di un’epoca. Furono, infatti, caratterizzati da un’economia globale ristagnante e dal blocco nella libera circolazione dei capitali. I paesi europei, con le finanze in rovina a seguito della prima guerra mondiale, non erano più in grado di finanziare altre economie e avevano difficoltà ad onorare i propri debiti; attuarono, pertanto, misure di controllo sui flussi monetari internazionali. Tutti questi elementi comportarono un totale blocco degli investimenti verso i paesi emergenti, i quali, di lì a breve, avrebbero conosciuto una nuova stagione di default. In questo periodo, non si deve dimenticare che anche alcuni paesi sviluppati defaultarono: solo per citarne un paio, Inghilterra e Italia furono insolventi nei confronti degli USA a cui non rimborsarono i prestiti accesi per far fronte alla guerra. In seguito alla Rivoluzione di Ottobre del 1917, anche la Russia diventò insolvente verso i suoi creditori, mentre in Cina, nei primi anni del 1900, si verificarono nuovi casi di default sia sul debito internazionale che su quello collocato domesticamente. Questa situazione di stasi nei flussi di capitale verso le periferie del mondo perdurò fino agli 60 del 900. Dal 1970 ai nostri giorni Negli anni ’70, la situazione mutò profondamente: la crescita del prezzo delle materie prime, i molti “petrodollari” in circolazione e la rinascita della piazza finanziaria di Londra determinarono un nuovo periodo di entusiasmo per i mercati internazionali ed emergenti; parte di queste risorse vennero investite in LATAM ed anche in altre regioni emergenti, quali il sud est asiatico. In questa fase, però, vi fu una sostanziale differenza rispetto al secolo precedente: infatti per la prima volta furono i prestiti bancari, e non più le obbligazioni, gli strumenti utilizzati per veicolare questi flussi finanziari. I primi anni ’70 furono caratterizzati da un’economia in sviluppo e dall’elevato prezzo delle materie prime, linfa vitale per la sopravvivenza degli stati emergenti, spesso esportatori di materie prime e petrolio; questi fattori generarono nei prestatori di fondi (per la maggior parte banche) una grande fiducia verso questi paesi. Purtroppo, verso la fine degli anni ’70 la situazione evolse in modo imprevisto: recessione, calo nei prezzi delle materie prime ed i soliti problemi sociopolitico-economici colpirono tutto il comparto emergente. Si tornò così un’altra volta sull’orlo del baratro. Prezzo delle materie prime 1966-2007 Nel 1982 il Messico per primo si dichiarò incapace di onorare il proprio debito e, quasi immediatamente, gli altri paesi seguirono. Questa situazione sfociò in un nuovo e profondo periodo di crisi. A complicare la situazione già critica, fu il fatto che questa volta i maggiori prestatori di capitali erano banche, principalmente americane, già invischiate in una profonda crisi settoriale per il cumularsi di fattori sfavorevoli. L’insolvenza degli stati sovrani meno forti poteva dare un colpo mortale a tutto il settore bancario statunitense. Per questo motivo, gli USA, direttamente interessati, si organizzarono per cercare di porre rimedio a questa situazione che rischiava di far collassate l’intero sistema finanziario nazionale. Nella seconda metà degli anni 80, il Segretario del Tesoro statunitense, James Baker, propose di prestare nuovi fondi ai paesi emergenti per cercare di alleviare la situazione di difficoltà nella quale si trovavano. Questo piano però non venne implementato, perché a molti esponenti politici sembrò inutile prestare nuovo denaro senza un piano più organico, destinato a risolvere, una volta per tutte, le storture delle economie sudamericane e, in generale, dei paesi emergenti. Così, venne seguita l’idea proposta dal successore di Baker, Nicholas Brady, il quale nel marzo del 1989 enunciò il suo piano di ristrutturazione volto a far uscire i paesi dal default e a riformare le loro istituzioni. Le misure di riforma facevano leva sul concetto di libero mercato e seguivano lo spirito del cosiddetto “Washington Consensus” enunciato in quegli anni dall’economista americano, John Williamson. Nella sua versione iniziale, si trattava di un set di 10 regole che miravano a potenziare il libero mercato attraverso: - privatizzazioni, - rimozione delle tariffe doganali e dei controlli sugli investimenti internazionali, - cambi e tassi di interesse stabiliti dal mercato e non fissi, ma relativamente stabili - focalizzazione della spesa pubblica su infrastrutture, educazione e sanità - riforma fiscale e passaggio ad una tassazione progressiva basta su aliquote marginali - tutela della proprietà privata. Il nome di “Washington Consensus” deriva dal fatto che Williamson sosteneva che questo approccio dovesse essere condiviso, come poi accadde, dal governo americano, dal Fondo Monetario e dalla Banca Mondiale, tutti basati a Washington. Si ritenne che l’applicazione di questi principi fosse necessaria per far calare i dissesti finanziari e stabilizzare le politiche economiche, tentando di trainare questi paesi verso economie maggiormente orientate in senso liberale. La ricerca di stabilizzazione del cambio comportò in molti casi la misura, non prevista dal Consensus, della dollarizzazione, ossia la creazione di un legame molto forte tra valute emergenti ed il dollaro, al fine di evitare fenomeni di iperinflazione; in termini pratici si adottarono cambi fissi o “peg” (ancoraggi) con limitati scostamenti da una parità stabilita, dotando le banche centrali di elevati quantitativi di valuta pregiata in modo da soddisfare la domanda /offerta di valuta. I prestiti bancari vennero rinegoziati e convertiti in obbligazioni, i cosiddetti “Brady Bond”; attraverso una complessa operazione di marketing finanziario, i prestiti vennero spesso abbinati a titoli del tesoro americano, in modo che i nuovi Brady Bonds avessero il solo capitale (rimborsato alla scadenza, di norma trentennale) garantito da obbligazioni statunitensi, mentre il pagamento degli interessi fosse a cura del paese emittente. Nel 1991 il Messico, per primo, aderì al Piano Brady e fu presto seguito da tutti gli altri paesi in dissesto. I paesi ottennero riduzioni di fatto del debito per importi variabili tra il 25 ed il 33% del capitale originario, ma dovettero riconoscere gli interessi non pagati e anche una parte di quelli maturati dopo l’insolvenza. Nei primi anni 90, l’approccio Brady e del Washington Consensus sembrò ottenere i primi frutti: i paesi emergenti riuscirono a tenere sottocontrollo l’inflazione e la spesa pubblica, modificando il ruolo dello stato nell’economia ed iniziando a privatizzare alcuni settori economici, tanto che negli anni 90 le obbligazioni emergenti sono progressivamente diventate una vera e propria asset class nelle mani dei gestori di tutto il mondo. Differenziale di rendimento dei Brady Bond rispetto ai titoli del tesoro USA 1991-2007 Crisi Messico 1994-1995 Crisi del Brasile 1999 11/9/2001 e crisi borse Crisi russa 1998 Crisi Asia 1997 Fonte: Bloomberg/JPMorgan (indice JPMorgan Embi-Brady Bonds) La figura precedente mostra l’andamento del differenziale di rendimento (in basis points dove 100 b.p. =1%) al quale venivano trattati i Brady Bond rispetto ai titoli governativi statunitensi nel periodo 1991-2007. Un livello di 1000 sta a significare che, in quel dato momento, il debito in dollari dei paesi emergenti aveva in media un rendimento superiore a quello di un titolo del tesoro americano di 10 punti percentuali. Il differenziale di rendimento, oltre che la remunerazione dell’investitore, rappresenta anche la rischiosità percepita dal mercato per l’investimento in bond emergenti. Il grafico mostra dei picchi, in corrispondenza alle maggiori situazioni di crisi del comparto occorse tra il 1991 ed oggi. Nel 1995, la crisi scoppiata in Messico (chiamata per questo “Tequila crisis”) fu causata dalla cattiva gestione del debito statale, oltre che dai soliti problemi bancari e valutari: il paese si trovò nel 1995 con 30 miliardi di $ di prestiti in scadenza e le casse statali quasi a secco; in questo frangente intervennero in prima persona gli USA con il contributo del Fondo Monetario Internazionale e della World Bank: venne costituito un fondo, definito di “stabilizzazione”, dotato di 52 Miliardi di $, in modo tale che il Messico potesse uscire dalla crisi, a patto che continuasse a sostenere le manovre precedentemente stabilite dal Washington Consensus. La crisi si risolse nel giro di due anni. Nel 1997 fu la volta della crisi asiatica che si concentrò in Tailandia, Malesia e Corea. Questi paesi avevano legato l’andamento della valuta domestica al dollaro statunitense. Questa misura però risultò insostenibile per la loro economia, basata principalmente sulle esportazioni, quindi i governi decisero di svalutare le loro valute; questa manovra comportò un innalzamento della volatilità dei mercati che determinò un allargamento degli spread dei paesi emergenti e rese così instabili i cambi che fu necessario, ancora una volta, l’intervento delle istituzioni di Washington. Nel 1998, si registrò la crisi Russa, caratterizzata da alta inflazione, forte svalutazione del Rublo e mancanza di istituzioni credibili. Gli elevatissimi ed insostenibili tassi di interesse domestici portarono lo stato Russo alla cancellazione del proprio debito domestico (GKO, titoli simili ai nostri bot e caratterizzati da elevatissimi rendimenti). Questo fatto comportò un’altissima volatilità su tutti i mercati, preoccupati dalla situazione di bancarotta di uno stato dotato di un arsenale militare inesauribile. Vi furono situazioni di panico sui mercati azionari e obbligazionari di tutto il mondo; tutta questa volatilità fu aggravata dal coinvolgimento dell’Hedge Fund statunitense Long Term capital Management (“LTCM”), pesantemente esposto sul mercato Russo (in dettaglio questo fondo acquistava i “BOT” Russi e vendeva Rubli, a copertura dei rischi, nella presunzione che una eventuale perdita sui titoli sarebbe stata bilanciata dai guadagni sulla posizione allo scoperto sui rubli; tuttavia, la copertura non funzionò nel momento del bisogno, in quanto la controparte che effettuava le coperture in divisa per conto dell’ Hedge Fund fallì e la copertura svanì nel nulla). Le perdite in Russia non sarebbero state tanto gravi, se il fondo si fosse limitato ad operare in questo mercato. In verità, il fondo aveva enormi posizioni aperte su molti mercati del mondo, invariabilmente finalizzate a profittare da una diminuzione del rischio percepito a livello mondiale. In una situazione di incertezza come quella che si era generata nel 1997 (crisi asiatica) e nel 1998 ( crisi russa), questo tipo di posizione speculativa incominciò a peggiorare molto velocemente. La situazione precipitò in quanto il fondo operava con un altissimo grado di leva finanziaria, prendendo a prestito fondi pari a 30 volte l’apporto dei sottoscrittori. Già a metà settembre 1998 (il default domestico russo data di metà agosto), le banche statunitensi iniziarono ad avere qualche dubbio sulla capacità di LTCM di far fronte ai debiti. Quando si seppe che il fondo era così esposto sui mercati di tutto il mondo e che deteneva 130 miliardi di dollari soprattutto di titoli di stato di tutto il globo, il panico si impossessò dei mercati finanziari (faccio notare che la letteratura economica anglosassone parla spesso di “panic” per identificare le grandi ondate di ribassi che caratterizzano i mercati finanziari). Se il fondo fosse fallito ed i titoli da lui posseduti fossero stati svenduti sul mercato, si sarebbero prodotti risultati devastanti, sia per le banche che non sarebbero rientrate totalmente dei prestiti concessi, sia per il mercato obbligazionario che avrebbe visto la svendita dei bond, posseduti dal fondo, concentrata in un brevissimo periodo, con un effetto esplosivo sui prezzi già penalizzati dall’incertezza del momento. Per questo motivo, il governo USA e la banca Centrale Americana vennero incontro alle banche ed insieme a loro decisero di diluire le vendite di bond in un lasso di tempo più lungo, senza creare ulteriori crisi sui mercati finanziari. Nel giro di un anno la crisi rientrò totalmente. Il 1999 si ricorda per la crisi Brasiliana, legata principalmente alla svalutazione del Real, la quale creò grandi ripercussioni nel mondo emergente, anche se di breve durata. Nello stesso 1999, si verificò il primo default di un paese latino-americano dopo il piano Brady, quello dell’Ecuador. Quell’anno, anche il Pakistan dovette chiedere di sospendere i pagamenti sui propri debiti internazionali. Nel 2001 fu l’Argentina a defaultare, ma questa crisi, per altro temuta per più di 18 mesi prima che si concretizzasse, non ebbe grosse ripercussioni sugli altri mercati. La situazione attuale In tutti gli anni 90 e nel decennio in corso, si è assistito ad una vistosa crescita economica delle economie emergenti. In particolare, gli stati dell’Asia, capendo di non poter fare troppo affidamento sui capitali esteri, considerati troppo volatili, sono riusciti a creare mercati finanziari domestici abbastanza sviluppati da poter sostenere la domanda di fondi pubblici. I paesi latinoamericani hanno visto migliorare la situazione in modo apprezzabile solo a partire dal 2000. Gli stati emergenti, essendo spesso grossi esportatori di materie prime o di merci, hanno visto aumentare moltissimo le proprie riserve in divise pregiate (soprattutto il sud est asiatico); queste ampie riserve sono molto importanti per attrarre investimenti dall’estero, in quanto gli investitori esteri sono meno esposti a crisi valutarie di vasta portata, in grado di rendere difficile l’uscita dall’investimento. RISERVE MONETARIE DELLE BANCHE CENTRALI (AL NETTO DELL'ORO) Posizione Paese Variazione % ad 1 anno Variazione % a 3 anni Riserve in milioni di USD 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 Cina Repubblica Popolare Giappone Russia Taiwan Sud Corea Totale area euro India Singapore Cina-Hong Kong Brasile Malaysia Algeria Messico T Tailandia Turchia Libia Australia Norvegia Polonia Germania 24% 2% 58% 0% 6% 3% 25% 11% 2% 55% 12% 31% -3% 22% 15% 43% 32% 14% 15% -9% 159% 20% 266% 27% 50% -12% 69% 38% 11% 70% 85% 139% 21% 57% 87% 199% 95% 45% 37% -18% 1.076.135 894.137 300.521 268.052 235.338 203.951 176.549 138.326 134.120 92.324 82.713 81.355 78.051 66.118 64.427 59.713 58.572 55.384 49.887 42.849 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 Francia Nigeria Banca Centrale Europea Indonesia Regno Unito USA Svizzera Canada Argentina Repubblica Ceca Danimarca Venezuela 41% 48% 13% 18% 2% 10% 3% 6% 69% 2% -14% 17% 21% 471% 14% 16% 18% 7% -25% -2% 120% 17% -21% 81% 42.809 42.651 42.625 41.226 41.162 41.005 38.320 36.438 33.122 31.619 29.936 29.628 Riserve in divisa delle banche centrali (in pct sul totale mondiale) Aprile 2007 Cina Repubblica P o po lare 23% Giappo ne 19% A ltri 24% Russia 7% B rasile 2% Cina-Ho ng Ko ng 3% Singapo re 3% Fonte: Fondo Monetario India 4% A rea euro 4% Sud Co rea 5% Taiwan 6% I paesi LATAM non sono ancora riusciti a raggiungere i livelli degli stati Asiatici, ma, come mostrano il grafico sottostante (le partite correnti) e quelli precedenti riguardanti le riserve delle banche centrali in divisa forte, incominciano a presentare segnali di netto miglioramento. Più in generale, tutti gli indicatori economici (PIL, inflazione, produttività) segnalano l’ottima salute dei paesi emergenti. Parte 2 Alcuni Concetti Contagio Peccato Originale Discontinuità nella crescita del debito pubblico Default Miracolo della Fenice In questa sezione, cercheremo di valutare gli eventi storici analizzati nella prima parte e di estrapolare dalle vicende alcuni concetti chiave per la comprensione dei fenomeni economici dei paesi emergenti. Contagio Il contagio, nella ricerca macroeconomia e nel suo significato più generale, è la diffusione di una crisi o di un evento negativo da un mercato ad un altro o da un paese ad un altro, visibile attraverso il movimento congiunto di variabili finanziarie ed economiche. La trasmissione della crisi può avvenire per l’effetto di variabili: -finanziarie (ad esempio, la crisi di una banca finanziatrice può rendere più difficile il credito a più paesi) -reali (ad esempio, l’effetto della crisi economica di un paese può seriamente compromettere le esportazioni di un altro paese e provocare una crisi anche in quello) -legate alla percezione del rischio senza particolare riferimento alla situazione di un dato mercato o paese (per qualche motivo gli investitori richiedono una maggiore remunerazione dagli investimenti senza particolare attenzione alle variabili economiche fondamentali di un paese o di un comparto). Per essere utile, la definizione di un concetto deve essere abbastanza circoscritta da non inglobare troppi fenomeni. La definizione più classica (quella sopra-menzionata) ricomprende, a mio parere, troppi eventi. Mi sembra più utile, specialmente in una trattazione afferente i paesi emergenti, focalizzarci sul secondo e terzo significato di contagio, quell’effetto domino che velocemente spinge alle corde tutti i paesi, perché interviene qualche evento sui mercati finanziari o, semplicemente, muta la percezione del rischio da parte degli investitori. In questa accezione, non si tratta di un semplice nesso di causa-effetto o di interdipendenza, ma di fenomeno generalizzato che influenza più che i reali dati economici, la percezione che gli investitori hanno del rischio finanziario. Quando questo fenomeno si verifica nei paesi emergenti si manifesta ancora più celermente rispetto a quanto accade nei paesi sviluppati. Alcune situazioni che abbiamo esaminato nella prima lezione chiariscono bene i diversi aspetti del concetto. Abbiamo visto, nella prima lezione, come crisi e insolvenze si verificano spesso in diversi paesi e quasi contemporaneamente. Quando i paesi del LATAM ebbero appena guadagnato l’indipendenza, negli anni ’20 del 800, trovarono banchieri e governi disposti a prestare loro capitali sotto forma di obbligazioni; questi prestatori di fondi però, sopravalutarono le possibilità che questi paesi potessero onorare il loro debito e remunerarlo periodicamente attraverso il pagamento delle cedole. Accadde così che, dopo pochi anni dalla nascita del mercato emergente LATAM (1820 circa), iniziassero le dichiarazioni di insolvenza (1826-1827). Nella figura precedente vengono mostrati i default verificatesi in LATAM tra il 1826 e 1827. Il primo default avvenne nel 1826 in Perù ed a catena defaultarono il Cile ed il Venezuela; nel 1827 fu la volta di Argentina e Messico. A prima vista, appare singolare che tutti questi paesi si accorgano quasi contemporaneamente dell’impossibilità di sostenere il proprio debito, anzi ancora più difficile da credere è che tutti questi paesi simultaneamente presentino delle situazioni politico-economiche talmente gravi dal dovere dichiarare lo stato di Default. Quindi, una considerazione plausibile è che questa prima ondata di default si manifestò sottoforma di contagio, nel quale il default del Perù agì da fattore di innesco. Improvvisamente, dopo quel default, gli investitori capirono in quali rischi incorressero e chiusero i rubinetti del credito, svendendo le obbligazioni e facendo impennare i rendimenti (rappresentati sull’asse delle Y nel grafico precedente); senza nuovo credito disponibile, tutti gli altri paesi divennero insolventi. Accade spesso che una crisi interna ad un singolo paese faccia venir meno la fiducia da parte degli investitori, i quali volendo uscire dall’investimento tenderanno a vendere i propri titoli. Purtroppo, quando questi fenomeni accadono nei paesi emergenti, moltissimi investitori cercano di liquidare i propri bond a “rischio” default, mettendo in vendita gigantesche quantità di obbligazioni senza che nessuno sul mercato sia disposto ad acquistarle; questo fatto provoca un collasso del prezzo di questi titoli che verranno trattati a prezzi stracciati, facendo schizzare alle stelle i tassi di rendimento del debito di questi paesi in crisi. In queste condizioni di mercato (rendimenti altissimi, pochissimi acquirenti di titoli e montagne di obbligazioni in vendita), il paese vittima dello shock non riesce più ad emettere nuove obbligazioni per due motivi: da un lato sarebbe “obbligato” a pagare tassi di remunerazione del debito elevatissimi (condizione insostenibile per un’economia in crisi) e, dall’altro, risulterebbe difficilissimo, se non impossibile, trovare investitori disposti ad acquistare questi titoli sopportando un rischio così elevato. Per questo motivo, il nascere di una crisi prosciuga il pozzo dei finanziamenti. In generale, sia i piccoli che i grandi investitori all’inizio di una crisi tendono a spostare i loro capitali verso investimenti meno rischiosi (generando la “fuga verso la qualità”, in inglese o “flight-to-quality”) generando così un effetto domino che porta speso i paesi più deboli a dichiarare il default. Nella figura soprastante viene mostrato l’andamento dei differenziali di rendimento tra debito emergente e debito degli Stati Uniti. I massimi toccati dal grafico rappresentano le fasi acute di crisi verificatesi nei paesi emergenti, mentre i minimi contraddistinguono i periodi di relativa tranquillità. Si può notare come i rendimenti di tutti i paesi emergenti e quelli del LATAM, abbiano un andamento correlato tra loro, dimostrando in modo molto chiaro come una crisi, per esempio sviluppatasi in LATAM, possa avere avuto importanti ripercussioni anche su altri stati emergenti estranei ad essa. Differenziale di rendimento dei Brady Bond rispetto ai titoli del tesoro USA 1991-2007 Crisi Messico 1994-1995 Crisi del Brasile 1999 11/9/2001 e crisi borse Crisi russa 1998 Crisi Asia 1997 Fonte: Bloomberg/JPMorgan (indice JPMorgan Embi-Brady Bonds) Altri casi significativi di contagio sono quelli che si sono verificati negli anni ’90. La “Tequila Crisis” Messicana del 1995 nacque dalla cattiva strutturazione del debito messicano che portò il paese a dovere rimborsare in un breve lasso di tempo circa 30 miliardi di $ di prestiti giunti a scadenza, in una fase economica di piena crisi. I prestatori di fondi preferirono non rifinanziare il debito messicano, credendo quest’operazione troppo rischiosa e valutando la possibilità non remota che lo stato centroamericano potesse defaultare da un momento all’altro, nonostante un nuovo apporto di finanze. Questa fase è rappresentata nella figura precedente dal picco dello spread in corrispondenza del 1995, in quanto gli investitori vollero vendere i propri bond emergenti perché ritenuti troppo rischiosi, preferendo svendere a prezzi molto bassi (offrendo, pertanto, all’acquirente rendimenti altissimi) piuttosto che mantenerli in portafoglio. Una crisi nata in Messico aveva avuto l’effetto di congelare l’intero comparto emergente. Perché dopo il raggiungimento del picco, lo spread ritornò in breve tempo a livelli molto più bassi? Il crollo dei rendimenti è da attribuirsi all’intervento in prima persona degli USA che in concerto con il Fondo Monetario Internazionale, la World Bank, ed in misura minore la Banca dei regolamenti internazionali, misero a disposizione del Messico un fondo di circa 52 miliardi di per permettergli di superare la fase momentanea di crisi; la condizione posta fu che lo stato centroamericano continuasse ad adoperarsi per sviluppare le riforme economiche previste dal Washington Consensus. In questo modo la crisi svanì, e nel giro di 2 anni lo spread ritornò su livelli più bassi rispetto ai quelli pre-“Tequila Crisis”. Si è visto come, la “Tequila Crisis” fosse un problema strettamente legato alla salute del debito Messicano e come questa abbia colpito anche il debito di paesi emergenti totalmente estranei a questi avvenimenti.Il calo di credibilità che colpì il Messico nel 1995 si riflesse incondizionatamente anche sugli altri paesi in via di sviluppo, causando una corsa incondizionata alla vendita di tutti i bond emergenti. Il periodo tra il 1996 e l’inizio del 1997 venne contraddistinto da spread bassi e da abbondante liquidità sul mercato; in queste condizioni i paesi emergenti riuscirono a finanziarsi “relativamente” a buon mercato, ma a metà del 1997 si verifico la “Crisi Asiatica” derivante dalle gravi difficoltà economiche che attanagliavano alcuni paesi del sud est asiatico. In questo frangente stati come Tailandia, Corea e Malaysia, per evitare il collasso economico lasciarono fluttuare liberamente sul mercato le loro valute (abbandonando di fatto un regime di cambi amministrati e controllati), provocando una forte svalutazione delle loro divise. La crisi si sviluppò esclusivamente in Asia e, sebbene fosse stata molto acuta, non comportò fortissimi contagi nelle economie degli altri paesi emergenti. Un discorso totalmente diverso da quelli precedenti è quello che riguarda la crisi Russa del 1998. Qui non si tratta più tanto di un crisi interna al comparto emergente, quanto di una crisi finanziaria generalizzata che tocca tutti i mercati finanziari. Nell’aprile del 1998 lo stato Russo si trovò invischiato in enormi difficoltà politico-economiche tra le quali: un pesantissimo debito domestico, l’iperinflazione, il Rublo che iniziava a svalutarsi abbandonando definitivamente il legame con il $ e le istituzioni politiche in difficoltà. In questo periodo la Russia decise di non onorare più il suo debito domestico, diventato oramai insostenibile. Moltissimi investitori si ritrovarono in mano carta straccia. Tra questi compariva il fondo hedge americano LTCM, il quale veniva considerato dagli esperti del tempo uno fondo finanziario quasi infallibile. (Si pensi che molte Banche Centrali, attirati dalla presenza di premi Nobel e noti trader, investirono una piccola parte delle proprie risorse in questo fondo). Il fondo, oltre che operare in Russia, investiva anche in obbligazioni a livello globale (sia stati sviluppati che emergenti) e basava la propria tattica di investimento sul principio della “Mean Reversion”, ossia investiva in titoli che erano sottovalutati rispetto alla loro media storica, in vista di un probabile ritorno di questi sui loro livelli medi, superiori ai prezzi ai quali si era investito. La crisi Russa minò i principi della “Mean Reversion”; infatti, in questo periodo di crisi, i valori di parecchie attività finanziarie, invece di ritornare velocemente sui loro livelli medi (come ipotizzato dai gestori del fondo) proseguirono il loro corso lontano dai loro livelli “ordinari”, generando enormi perdite per l’hedge fund e costringendolo a liquidare le proprie posizioni in perdita. Il fondo, ad un certo punto, non riuscì più a sostenere questa situazione. Si scoprì che, a fronte dei circa 5 miliardi di $ sottoscritti, il fondo muoveva una massa 30 volte maggiore, grazie alle risorse che riusciva a prendere a prestito dalle banche statunitensi. La situazione incominciò a diventare preoccupante, quando le banche si accorsero delle difficoltà incontrate dal fondo e chiesero il rimborso dei prestiti. Il fondo, in evidente crisi, avrebbe dovuto vendere sul mercato i titoli in portafoglio per far fronte ai propri debiti; con il conseguente ed ulteriore deprezzamento dei titoli in posizione e il peggioramento della crisi finanziaria che oramai era in atto. Grazie ad una gestione oculata della situazione, la Banca centrale americana approvò un piano di crisi che prevedeva di non liquidare in un’unica soluzione l’intero attivo del fondo, ma di diluire nel tempo le vendite, in modo tale da non creare panico sul mercato. La situazione si normalizzò nel giro di 1-2 anni. Nel periodo culminante della crisi vi furono pesanti oscillazioni del valore dei titoli di stato; in particolare, i titoli di debito dei paesi emergenti venivano trattati ad un livello molto simile a quelli del debito Russo (al 30%-40% del nominale), senza che la crisi russa, in pratica, avesse avuto delle ripercussioni oggettive sulla salute dei paesi emergenti; si può dire che il contagio partito dalla Russia attaccò il debito emergente tramite la crisi di fiducia che aveva colpito il mercato finanziario. Gli investitori, vista la fibrillazione dei mercati finanziari, decisero di salvaguardare i loro portafogli mediante la liquidazione delle posizioni più rischiose e l’investimento in strumenti a rischio nullo (ricordate il fenomeno del “flight-to-quality”?). Il principale perdente fu il debito emergente. Un altro esempio di come il contagio possa essere originato da fenomeni relativamente estranei ai mercati emergenti è quello che ci arriva dall’attentato terroristico dell’11 settembre 2001. La crisi non partì da un paese emergente, ma da un un aumento della volatilità sui mercati azionari internazionali conseguente all’attentato. 11/9/2001 Dalla figura soprastante si nota come nel periodo successivo all’ 11 settembre 2001, aumenti in modo vertiginoso la volatilità implicita delle opzioni su azioni americane. La volatilità esprime l’opinione sui possibili cambiamenti di prezzo delle azioni in un dato intervallo di tempo. Ad una volatilità alta, corrisponde una maggiore probabilità di ampie fluttuazioni dei prezzi. In questo senso,, la volatilità è sinonimo di rischio percepito. Dopo l’attacco alle Torre Gemelle, i mercati finanziari iniziarono una fase di panico caratterizzata da enormi ribassi (molti mercati rimasero chiusi per legge alcuni giorni), che amplificarono il trend negativo già in atto dalla fine del 2000. Il punto fondamentale da sottolineare è come, in questo periodo, cresca a dismisura la volatilità sui mercati e come il rendimento del debito dei paesi emergenti segua in modo quasi identico l’andamento della volatilità sul mercato azionario. Questo andamento simile tra rischiosità percepita sui mercati azionari e spread dei paesi emergenti è spiegabile col fatto che, in una fase di aumento della percezione del rischio (volatilità), tutte le attività divengono più rischiose; in modo particolare, i titoli di per sé già rischiosi (debito emergente) tendono a diventare rischiosissimi, con conseguente rialzo dei rendimenti. Ma non è solo nel momento della crisi del settembre 2001 che volatilità dei mercati azionari e rischio paese emergente (espresso come differenziale di rendimento tra bond emergenti e debito statunitense) si muovono insieme: una decisa correlazione positiva tra le due variabili è individuabile in tutto il periodo di riferimento, anche senza troppe nozioni di statistica. Shock improvvisi che facciano rialzare la volatilità dei mercati azionari, di solito, hanno evidenti conseguenze anche sul debito dei paesi meno sviluppati. L’immagine soprastante confronta l’andamento tra gli spread del mercato del debito emergente e del settore High Yield Americano. Il settore High Yield comprende il debito di tutte le società private statunitensi considerate ad alto rischio (o di bassa qualità). Entrambi gli spread sono riferiti a stati o a società che non sono considerate tra le più sicure o capaci a fronteggiare il loro debito; dall’esame del grafico, non è difficile concludere che, che tra i due settori, esiste una forte correlazione e che entrambi sono fortemente legati all’andamento della volatilità del mercato azionario. Original sin-Peccato originale Il termine, piuttosto evocativo, di “Original Sin” (“Peccato originale”) è stato formulato dalla letteratura economica intorno alla fine degli anni ’90 e va considerato, a mio parere, nel suo significato più ampio: a causa dell’assenza di un mercato interno in grado di finanziare i fabbisogni del paese, unita all’incapacità di questi stati di accendere prestiti nella loro divisa domestica in misura adeguata, i paesi emergenti sono costretti ad indebitarsi in valuta forte (una volta sterline o oro, oggi Euro, Dollari statunitensi e Yen). Perché i paesi emergenti non riescono a finanziarsi nella propria divisa domestica? Proprio come se si trattasse di un peccato originale (che colpisce non solo il peccatore ma i suoi discendenti), anche i paesi devono espiare colpe forse non tutte loro: né i residenti, né gli investitori esteri vogliono investire in una divisa nella quale non hanno nessuna fiducia. Perché non hanno fiducia nella divisa? Perché la fiducia si costruisce negli anni e proprio di fiducia questi paesi sono privi, a causa di una lunga tradizione di insolvenze e svalutazioni della divisa. Si parla di Peccato Originale, perché non si sa a chi attribuire la colpa per queste situazioni di arretratezza del mercato finanziario e di impossibilità di accendere prestiti in valuta domestica. La necessità di ricorrere alla divisa estera porta con se il rischio costante di ritrovarsi un debito rivalutato qualora la divisa nazionale, nella quale sono espresse le ricchezze ed i redditi del paese, dovesse svalutarsi. Per fare un esempio banale, si consideri un paese che abbia un Prodotto interno lordo di 1000 espresso in divisa locale e un debito pubblico tutto espresso in dollari di 300. Ad un cambio di 2 unità di divisa locale contro 1 dollaro, il paese ha un rapporto debito/Pil pari al 60%, un livello medio per un paese emergente. Qualora si arrivasse ad una svalutazione del divisa fino a 4 unità per un dollaro, il rapporto Debito/PIL diventerebbe del 120%, più difficilmente sostenibile. Il problema del peccato originale (anche se forse non lo si definiva così) sembrava senza soluzione solo 15 anni fa. Tuttavia, oggi, molti paesi emergenti, specialmente quelli Asiatici che hanno conosciuto una profonda crisi nel 1997, hanno capito quale sia il rischio di prendere a prestito in valute forti e di dipendere troppo dagli investitori esteri. Hanno fatto del loro meglio per sviluppare mercati dei capitali locali che potessero soddisfare almeno il fabbisogno statale denominato in divisa locale, aprendoli anche agli investitori esteri. Anche molti paesi LATAM, anche se non con gli stessi ritmi dell’Asia, hanno incominciato a creare un mercato dei capitali domestico o denominato in divida locale. La figura precedente (ripresa, come la seguente, da Jeanneau, Tovar. 2006. I mercati obbligazionari interni in America latina. Rassegna trimestrale BRI, giugno 2006) evidenzia come nel giro di dieci anni gli stati sudamericani siano riusciti a migliorare il livello delle loro esportazioni (aumenta il rapporto tra Esportazioni misurate e PIL) e a far calare la percentuale di debito contratto in valuta straniera rispetto al debito totale, principalmente grazie all’incremento delle emissioni di debito in valuta domestica. Dal grafico soprastante si intuisce come, dal 1995 al 2005, in LATAM siano cresciute le emissioni di bond denominati in valuta domestica, destinati per la maggior parte al mercato interno. Tra i paesi LATAM, quelli che hanno sviluppato maggiormente il loro mercato domestico dotandolo di una discreta liquidità sono il Brasile e Messico. Entrambi i paesi hanno un mercato domestico di grosse dimensioni (del resto si tratta dei due maggiori paesi del Centro e Sud America), caratterizzato da scambi importanti e con costi di transazione contenuti. I maggiori problemi che devono affrontare i paesi emergenti nella creazione di un mercato finanziario domestico sono: - convincere gli investitori nazionali ed internazionali ad acquistare il debito in divisa domestica - riuscire a raggiungere un minimo di massa critica sul mercato dei capitali. I paesi emergenti, riuscendo a creare un mercato dei capitali domestico, creerebbero le condizioni ideali per far diminuire la loro dipendenza dagli investitori esteri. Per la maggior parte, i titoli del debito pubblico denominati in valuta domestica, vengono venduti sul mercato interno ad investitori domestici ed esteri, mentre solamente una piccola parte viene offerta sui mercati internazionali. Ultimamente, si sono viste sui mercati internazionali emissioni denominate in Real, anche da parte di emittenti non residenti in quei paesi, segno che si stanno creando le basi di un nuovo comparto di titoli. Un contributo forte alla creazione di un mercato finanziario domestico è dato dalla nascita dei Fondi Pensione. Infatti i queste istituzioni sono veri e propri investitori di lungo termine, ossia i soggetti ideali che sostengono la domanda di debito pubblico in valuta domestica. Gestione del debito Nei paesi emergenti spesso si verifica un fenomeno particolare che consiste nella crescita abbastanza imprevedibile del debito pubblico. Tale aggregato tende a crescere in maniera rilevante in alcuni periodi storici, specie in momenti di crisi, ma per ragioni diverse da quelle che tipicamente ci si potrebbe aspettare e che sono comuni quando si analizza la contabilità pubblica dei paesi più sviluppati. Il debito pubblico può essere cosi scomposto: Debito Pubblico t = Debito Pubblico t-1 + Deficit t Equazione n° 1 Il debito pubblico al termine di un esercizio di bilancio (un anno) è pari a quello esistente alla fine dell’anno precedente aumentato (o diminuito) del deficit (o dlel’avanzo) registrato in quell’esercizio. In alternativa, è possibile calcolare il debito pubblico “inventariando” tutti i debiti facenti capo all’amministrazione pubblica in un certo momento. Debito Pubblico t = Σ Debitit Equazione n° 2 L’equazione 2 arriva sempre ad un risultato diverso dall’equazione 1, per motivi non tanto diversi da quelli che generano differenze quando si procede a fare l’inventario di un magazzino e si arriva a risultanze diverse da quelle della contabilità delle vendite e degli acquisiti. La differenza evidenziata dai i due metodi di misurazione, nel gergo anglosassone, si definisce “stock-Flow Reconcialiation” o “SF”. Introducendo questa voce: SF t= Debito Pubblico t-1 + Deficit t - Σ Debiti t Equazione n°3a La nostra misura diventa Debito Pubblico t = Debito Pubblico t-1 + Deficit t + SF t Equazione n° 3b Siccome la salute finanziaria di un paese viene di solito meglio descritta, piuttosto che dalla semplice misura del suo debito pubblico, dal rapporto tra Debito pubblico e Prodotto Interno Lordo, che permette di avere un’idea sulle proporzioni assunte dal debito, la Stock Flow Reconciliation viene misurata anche con riferimento al rapporto debito/Pil. In questo caso, SF identifica ciò che non si spiega tenendo conto solo della variazione del Pil e del deficit annuo. Di norma, la Stock Flow Reconciliation ammonta ad un valore relativamente piccolo per i paesi sviluppati, mentre, per quanto riguarda i paesi emergenti, raggiunge soglie significative. Il grafico soprastante mostra le dimensioni della Stock-Flow Reconciliation in alcune aree mondiali (misurato in termini percentuali sul PIL), evidenziando un valore medio, in bianco e un valore medio depurato dai valori più estremi, in verde. Appare subito evidente che il differenziale tra il calcolo dell’indebitamento nei due metodi precedentemente descritti è molto elevato per i paesi emergenti (ad esempio nell’area LATAM raggiunge il 7,5%), mentre nelle economie avanzate questo dato è inferiore al punto percentuale. Il secondo grafico mostra come differenti componenti economiche influiscano direttamente sulla crescita del debito nelle differenti regioni mondiali. Le voci riportate sono: l’inflazione, la crescita del PIL, il disavanzo primario, la spesa per interessi e lo Stock-Flow Reconciliation. Si nota, anche da questo grafico, che la Stock-Flow Reconciliation è molto bassa per i paesi sviluppati, mentre per i paesi emergenti, e più in dettaglio per l’area LATAM, supera addirittura la spesa per interessi (voce di bilancio importante per i paesi in via di sviluppo costretti a pagare alti tassi di interesse sul debito statale). Quali possono essere le spiegazioni per una Stock-Flow Reconciliation così alta nei paesi emergenti? Una semplice spiegazione potrebbe essere che i paesi meno sviluppati tengono una contabilità nazionale inaffidabile in cui abbondano errori. Questa motivazione può essere senz’altro accolta, ma sicuramente non è sufficiente a spiegare tutta l’ampiezza della Stock-Flow Reconciliation. Si deve quindi ricercare quali grandi fenomeni economici influiscano sulla crescita della StockFlow Reconciliation: • Effetto cambio:le divise dei paesi emergenti, da un anno all’altro, subiscono pesanti fluttuazioni; ricordiamo che i paesi emergenti contraggono una grande quantità di debiti in valuta estera, mentre il PIL viene valorizzato in valuta domestica; dunque, per rapportare il debito pubblico al PIL si dovrà convertire in valuta domestica il debito pubblico; quindi, se, durante l’anno, la divisa locale si svaluta, il debito diventa molto superiore rispetto all’anno precedente (vedi l’esempio già fatto in tema di peccato originale). • Crisi bancarie e finanziarie: quando accadono questi fenomeni gli stati interessati sono costretti a sostenere ingenti stanziamenti per tentare il salvataggio delle banche e del sistema finanziario. • Riforme pensionistiche: quando nascono i fondi pensione, lo stato o le istituzioni pubbliche di previdenza devono dotare i fondi pensioni di titoli del debito rappresentativi dei contributi dei lavoratori che fino a quel momento hanno versato nelle casse statali. Questo fenomeno fa aumentare a dismisura ed in un brevissimo periodo il debito pubblico, monetizzando però definitivamente il debito degli enti statali nei confronti dei futuri pensionati, di fatto trasferendolo ai fondi pensione. Il default. Il default è la situazione in cui un debitore viene meno ai suoi obblighi verso i creditori. Si parla di default tecnico quando la mancanza non coincide con il non pagamento di un debito, ma con la semplice violazione di un obbligo previsto dai contratti di finanziamento o da accordi. Più spesso, però, il default coincide con il non pagamento di un debito o con l’annuncio da parte del debitore che non procederà più ad onorare i debiti in scadenza. Il default può essere di due nature: • generalizzato quando si prende la decisione di non pagare più nessun debitore • selettivo quando si decide di non pagare più solamente una fattispecie di creditori Un esempio di Selective default fu quello della Russia del 1998, dove si decise di non onorare il solo debito domestico e di continuare a pagare il debito internazionale in divisa estera. Perché si arriva al default? Esistono essenzialmente due motivazioni per il default: • la prima ragione, che è quella più semplice e logica, è quella per la quale gli stati o le imprese dichiarano default quando non riescono più a sostenere il peso del proprio debito. In sostanza, il default arriverebbe quando la situazione finanziaria raggiunge un punto di non ritorno e sembra ormai inutile operare per evitare l’insolvenza (default per necessità). • Una seconda spiegazione vede il default come una scelta soggettiva o “Machiavellica”; in questo caso, il debitore paga i suoi debiti se ha interesse a pagarli, ossia se ottiene più benefici che danni. Secondo quest’approccio, un insolvenza diventa praticabile quando il debitore individua altri creditori disposti a prestare, ad esempio. In definitiva, molti default nella storia si possono definire “Machiavellici” quelli medioevali, quello truffa dello stato POYAIS, quelli cinesi di fine 800 ed inizio 1900 (in quella fase il governo cinese raccoglieva denaro tra i suoi cittadini, sapendo già che non avrebbe onorato i debiti). Per quanto riguarda il LATAM, invece, la grande maggioranza dei default passati sono basati esclusivamente su una oggettiva impossibilità a pagare. Non è detto che i paesi defaultino perché siano pressati da pesanti debiti (rapporto debito / PIL). Come mostra la figura precedente, si nota che l’Argentina nel 2002 ha defaultato con un debito pari al 130% del PIL, mentre il Sud Africa nel 1986 e 1990 è stato insolvente con un debito / PIL al 30%. Quello che possiamo dire, invece, è che, molto spesso il default è associato ad eventi quali svalutazioni valutarie e crisi bancarie. Il paese che defaulta subisce conseguenze di diverso genere: • la reputazione è danneggiata; è un effetto che può avere una durata di lungo termine (vedi peccato originale) • l’ esclusione dal mercato internazionale dei capitali • le misure sanzionatorie e punitive Per i primi due casi è difficile capire e quantificare per quanto tempo si possa protrarre la “punizione” per lo stato di insolvenza. Nel 1830 dopo la prima ondata di default che caratterizzò il Latam, alcuni stati furono estromessi dal mercato dei capitali per decenni, ma, in altri casi, altri paesi insolventi si presentarono sul mercato dei capitali dopo pochi anni, ottenendo nuovi finanziamenti. Per quanto riguarda le misure coercitive, oggi non più d’attualità, va detto che nel 1800 e nella prima parte del 900 venivano spesso applicate; si ricordi ad esempio, l’intervento delle marine militari inglesi e tedesche nel 1902 (la cosiddetta “anglo-german blockade”) in Venezuela. In seguito ad una dichiarazione di default, Germania ed Inghilterra pensarono di tutelare i propri interessi con il blocco navale del paese, affondarono navi, cannoneggiarono porti e forti e considerarono di invadere il territorio venezuelano per ottenere riparazioni per le perdite finanziarie subite. Germania e Impero Britannico rinunciarono ad invadere il paese per il pronto intervento degli Stati Uniti che vedevano come fumo negli occhi l’espansione europea nel continente americano, ma ottennero in cambio un trattamento preferenziale per il soddisfacimento dei propri crediti. Miracolo della fenice Con questa espressione, Calvo, Izquierdo, Talvi, (Calvo, Izquierdo, Talvi. 2006. Phoenix miracles in emerging markets. BIS Working Papers 221) identificano con il termine “Miracolo della Fenice” il fenomeno per il quale un paese, una volta superato il periodo di crisi che può culminare o meno nel default, rinasce economicamente, proprio come la mitica fenice rinasceva dalle proprie ceneri. Questo fenomeno si manifesta materialmente in una repentina crescita del PIL del paese che segue un periodo di crisi. Nel lavoro, gli autori definiscono come crisi una situazione in cui per qualche motivo il mercato finanziario si chiude e non permette al governo e agli operatori economici, di fatto, di reperire risorse finanziarie. Lo studio prende in esame il periodo 1980-2005 e analizza molti dei momenti di turbolenza finanziaria di cui abbiamo discusso nella prima lezione (dalle insolvenze dell’inizo degli anni 80 alle crisi messicana, asiatica e russa degli anni 90). Lo studio individua, in tutte queste crisi (non tutte conclusesi con un default), una fase iniziale in cui il calo del Pil è in media pari al 10% ed una fase di ripresa che segue la fase più acuta della crisi che dura in media due o tre anni, durante la quale viene rapidamente recuperato terreno. Il fatto interessante è che buona parte della performance positiva viene messa a segno quando ancora il circuito finanziario domestico ed internazionale è ancora chiuso e non in grado si supportare gli operatori economici. La figura mostra l’andamento del PIL di Argentina, Ecuador ed Uruguay, in corrispondenza dei periodi immediatamente precedenti e successivi alle rispettive dichiarazioni di default. Su tutti e tre i grafici si manifesta una fase di calo del PIL che precede la dichiarazione di default, la statistica valuta che prima della fase di insolvenza il PIL si contragga mediamente del 10%, in alcuni isolati casi sono stati toccati livelli superiori al 20%. Quasi subito dopo la dichiarazione di default, il PIL segue un sentiero crescente, rinascendo dalle proprie ceneri. Come può essere spiegato questo fenomeno, considerando che un paese emergente insolvente non riesce più a finanziarsi all’estero e possiede un’economia in profonda crisi? Si può tentare di dare una spiegazione osservando il cambiamento di alcune variabili macroeconomiche, a cavallo di un periodo di default. La figura misura l’andamento medio del PIL durante le fasi di default (un anno prima e dopo). Questo grafico descrive mediamente l’andamento del PIL considerando tutti i default registrati complessivamente negli anni ’80 e ‘90. Si evidenzia una contrazione del PIL nei 12 mesi precedenti l’insolvenza. Contemporaneamente alla dichiarazione di default e quasi automaticamente, si arriva ad una svalutazione della valuta domestica; dal punto di vista del credito si chiudono i rubinetti dei finanziamenti sia internazionali che interni, con conseguente crisi del sistema bancario causata dalla corsa agli sportelli dei risparmiatori, alla quale gli istituti bancari non possono far fronte. A peggiorare la situazione delle banche, si somma il fatto che l’assetto finanziario di queste, rispecchia spesso il peccato originale dello stato. Anche gli intermediari creditizi prendono a prestito in valuta pregiata e fanno prestiti in valuta domestica; durante una fase di svalutazione della valuta locale, si verifica una rivalutazione dei debiti ed una svalutazione del valore gli attivi: questa situazione tende a minare la stabilità delle banche. Anche se le banche prestassero in divisa pregiata, però, si troverebbero in una situazione di difficoltà, in quanto il soggetto prenditore di fondi in valuta pregiata si troverebbe in una situazione di squilibrio, vedendosi il debito rivalutato (ipotizzando sempre una svalutazione della valuta domestica), in modo da renderebbe insostenibile sia il suo rimborso che la sua remunerazione, causando insolvenza nei confronti delle banche. I tre economisti precedentemente ricordati sostengono che in una situazione di estrema difficoltà come quella del default, non tutti gli operatori economici muoiono. I primi a fallire sono sicuramente i soggetti più deboli, mentre quelli che sopravvivono riusciranno a trovare nuove fonti “alternative” di finanziamento (per esempio fondi sommersi non dichiarati allo stato, i soldi in “nero” o circuiti alternativi come il baratto). Durante una situazione di shock come quella tipicamente analizzata dagli autori, esplode spesso il tasso di inflazione, principalmente per il fatto che la svalutazione della valuta interna comporta prezzi più elevati per le importazioni che vanno ad impattare direttamente sul tasso di inflazione. Questo causa una erosione dei salari reali, in quanto il salario nominale cresce meno proporzionalmente rispetto al tasso di inflazione. Si stima che, ad ogni crisi, vi sia una erosione del salario reale di circa il 10%. Parte 3: Applicazioni alle recenti vicende di Argentina e Ecuador Argentina L’Argentina negli anni ’90, adottò in modo apparentemente rigoroso i principi fissati dal Washington Consensus, secondo i quali i paesi emergenti avrebbero dovuto: privatizzare, andare verso un economia di mercato che tutelasse investitori internazionali e nazionali, investire in infrastrutture, nella sanità, nell’istruzione e nelle istituzioni, lasciare che i tassi di cambio e di interesse venissero fissati dal mercato (tassi flessibili). L’Argentina sembrò decisa a volere applicare molti di questi principi all’economia; si ricordano, per esempio, le privatizzazioni di alcuni settori in precedenza in mano pubblica, come le acque, la telefonia e l’energia. Uno dei punti del Washington Consensus, che non venne spesso applicato in LATAM, fu quello dei cambi flessibili. Il cambio flessibile avrebbe permesso a questi paesi di mantenere in equilibrio la propria economia attraverso svalutazioni dei tassi di cambio (ad esempio, permettendo alle esportazioni di essere competitive). Si temette di più, tuttavia, l’iperinflazione e l’instabilità tipica di un regime di cambi flessibili. Questi problemi vennero risolti mediante l’adozione di un “peg” fisso al dollaro, per il quale la divisa nazionale poteva essere (più o meno) liberamente convertita in dollari. Per questo motivo, la maggior parte dei paesi LATAM adottò una qualche forma di dollarizzazione, in varie forme, dal cambio semi-flessibile, al peg stretto, per arrivare alla totale dollarizzazione dell’economia, nella quale la divisa nazionale viene sacrificata e la divisa estera diventa quella di libero corso nel paese. Tutto questo contribuì ad una maggiore stabilità del mercato finanziario ( di solito la fiducia degli investitori cresce verso i paesi con tassi di cambio e di inflazione stabili), ma, in un certo senso, si è trattato di una scorciatoia troppo semplice verso lo sviluppo economico e la competitività industriale ne è stata la prima vittima. L’Argentina, pochi anni dopo la ristrutturazione dei propri debiti (piano Brady), aveva raggiunto effettivamente un’invidiabile stabilità monetaria (tassi di interesse e di inflazione tra i più bassi del continente), ma doveva fronteggiare una crescente difficoltà ad esportare i propri prodotti. La situazione divenne delicata quando, nel 1999, il Brasile decise di svalutare il Real e abbandonare il regime di cambi controllati allora in vigore . Da quel momento le esportazioni brasiliane diventavano incredibilmente più competitive dei prodotti argentini e si intensificò il flusso di investimenti esteri in Brasile (l’Argentina aveva aspirato, per qualche tempo, ad essere oggetto di investimenti produttivi sul suo territorio, ma doveva scontare un costo della vita e del lavoro troppo elevato). Gli stessi imprenditori argentini chiusero le fabbriche in Argentina per aprirle in Brasile (contagio attraverso fattori reali). Iniziò un fase di recessione dell’economia che si cumulò ad una profonda crisi istituzionale e ad un pesante sovra-indebitamento statale. Nel 2001, si giunse al default e il debito statale non venne più pagato; la divisa venne svaluta, l’economia piombò in una forte crisi, collassando definitivamente con il congelamento dei depositi, che privò l’economia del proprio carburante (le famiglie argentine potevano prelevare solamente piccolissimi importi mensili per il loro sostentamento). La crisi argentina ebbe una imprevedibile ricaduta sul vicino Uruguay, che, da sempre, raccoglieva gli ingenti capitali non dichiarati di imprenditori e famiglie argentini. Quando in Argentina venne stabilito il congelamento dei depositi, moltissimi argentini si diressero in Uruguay per ritirare denaro ed il movimento assunse tali proporzioni che le banche uruguaiane non poterono far fronte alla corsa agli sportelli e dichiararono anch’esse default, come pure fece il governo (contagio attraverso un fattore finanziario). L’Argentina si è ripresa abbastanza velocemente dallo stato di grave prostrazione in cui era caduta dopo il default, a causa di una crescita molto forte delle esportazioni, beneficiate dalla svalutazione del peso, ormai libero di fluttuare sul mercato e per le risorse pubbliche resesi disponibili in seguito al non pagamento del debito estero iniziato nel dicembre 2001 e protrattosi fino al 2005. L’economia Argentina conosce, ormai da alcuni anni, una fase di forte sviluppo (siamo attualmente su livelli di crescita del PIL intorno all’8%-9%), avvalorando ulteriormente il principio della “Miracolo della fenice”. Interessante, nel caso argentino, il modo in cui si è giunti ala ristrutturazione del debito estero. Con un atteggiamento molto duro e deciso da parte del governo argentino e senza contrattarlo con i creditori, è stato portato a termine un piano di ristrutturazione molto penalizzante per i creditori, che hanno dovuto rinunciare ad oltre il 60% dei propri attivi nominali. Molti investitori (specie gli italiani) hanno addirittura preferito non aderire alla proposta ( si definiscono “hold-out” i creditori che non accettano un piano di ristrutturazione e restano in attesa di una nuova offerta), comunque accettata dalla grande maggioranza degli obbligazionisti. Oltre che per la durezza degli atteggiamenti del governo verso il capitale internazionale (tra l’altro, agli hold-out continua ad essere negato qualsiasi diritto), la ristrutturazione si segnala anche per lo spazio accordato ai cosiddetti “Warrant sul PIL”, assegnati a tutti i creditori aderenti all’offerta. I warrant (chiamati anche “PIL bonds”) garantiscono ai possessori un flusso di pagamento variabile per i prossimi 30 anni, solamente negli anni in cui il PIL argentino supera una certa soglia (il 3% di crescita annua) ed in funzione di tale crescita. Si tratta di un esempio concreto di titolo partecipativo in grado di rendere più flessibile il profilo finanziario dei paesi indebitati: negli anni di alta crescita, viene riconosciuto un pagamento, che si interrompe nelle situazioni meno favorevoli. Ecuador L’ Ecuador uscì dal default iniziato negli anni 80 grazie al piano Brady nel 1992, varando un ambizioso piano di stabilizzazione, nonostante seri problemi di credibilità delle istituzioni. Nel 1998-1999 arrivò un periodo di crisi a livello bancario, durante il quale quasi tutti gli istituti divennero insolventi a causa di una corsa agli sportelli. Lo stato ecuadoriano decise di abbandonare la propria moneta (fino ad allora veniva utilizzato un cambio amministrato che prevedeva un legame con il dollaro) e di convertirla in dollari al cambio di 25000 Sucre per 1 $, nonostante gli studiosi ritenessero sufficiente ed equilibrato un livello di cambio di 16000 sucre per $ (si ebbe quindi un’ipersvalutazione della divisa locale). L’economia fu dollarizzata completamente: la divisa statunitense ha oggi corso legale nel paese. Si raggiunsero nel breve periodo tassi di inflazione elevatissimi, con tassi di interesse bassissimi, rendendo così notevolmente negativo il tasso di interesse reale; per questo motivo la ricchezza denominata in Sucre perse moltissimo valore, raggiungendo in certi casi cali dell’ 80%. Dopo la crisi del 1999, è continuata la fase di instabilità politica nel paese. Si ricorda il susseguirsi di 9 presidenti negli ultimi dieci anni. Prezzo del Barile di Petrolio/BRENT 1983-2007 In questo decennio, nonostante l’instabilità politica, il prodotto interno lordo ha però aggiunto insperati livelli. Grazie alle rimesse degli immigrati ed alle esportazioni petrolifere, l’Ecuador è il quarto esportatore sudamericano, oggi l’economia viaggia a livelli di crescita intorno al 4%. Da qualche anno a questa parte, il bilancio pubblico si chiude in sostanziale pareggio, con un livello di debito pubblico abbastanza elevato, intorno al 100% del proprio PIL, ma su livelli controllabili. Si deve, però, considerare che questa situazione viene influenzata positivamente dalle esportazioni di petrolio fatturate a prezzi storicamente elevatissimi e dalle consistenti rimesse degli immigrati. Se il prezzo del petrolio dovesse però scendere, le conseguenze sarebbero sicuramente molto negative, specialmente se si considera che la solidità del tessuto economico ed imprenditoriale è quanto meno incerta. La situazione politica è in continua evoluzione. E’ notizia recente che il referendum popolare dell’aprile 2007 ha concesso un mandato istituzionale per riscrivere la costituzione, creando per l’ennesima volta un clima di instabilità politica. Il nuovo presidente ecuadoriano Correa ha recentemente dichiarato di non volere più dare priorità al pagamento del debito estero, nonostante le finanze statali lo consentano, destinando le somme necessarie a vantaggio di altre poste di bilancio (assistenza sanitaria, salario minimo, ecc); contemporaneamente, l’Ecuador ha preso le distanze dagli Stati Uniti, stringendo alleanze con gli altri stati sudamericani critici verso gli USA (Venezuela e Argentina), Il paese ha annunciato che, molto probabilmente, non pagherà più il debito estero e che sarà necessaria a breve una sua rivisitazione, ritrattando, di fatto, la ristrutturazione fatta nel 1999; si ritiene che, in quel frangente, venne “concesso” troppo agli investitori internazionali. In questi termini, si può parlare di un possibile “Default Machiavellico” derivante da una decisione soggettiva di non pagare e non da un’oggettiva impossibilità di far fronte agli impegni assunti. Con molte probabilità, visto lo sviluppo dei fatti, ci si può aspettare entro l’anno l’apertura di un tavolo di ristrutturazione forzosa del debito ecuadoriano. Piccola morale Dai recenti fatti argentini ed ecuadoriani, nonché dall’analisi della politica dei paesi sudamericani, è individuabile un macro-trend che vede progressivamente prevalere forme di contestazione più o meno aperta all’economia di mercato e, di fatto, al mercato dei capitali. Le recenti dichiarazioni di Correa in Ecuador, di Chavez in Venezuela, dei governanti boliviani, la recente decisione di candidare alla presidenza argentina la moglie dell’attuale presidente Kirchner (che non può più ricandidarsi dopo due mandati in carica) sono il segnale di una tendenza populista e anticapitalista che sta prendendo corpo in tutta l’area Latam , anche se i due maggiori paesi, Messico e Brasile, non sembrano contagiati. E’ possibile che si assista presto ad eventi negativi per i creditori internazionali, in quanto alcuni di questi paesi (Ecuador e Venezuela grazie al petrolio, Argentina grazie ad una buona salute dell’economia) sono convinti di avere i mezzi per fare a meno del supporto del mercato internazionale dei capitali e potrebbero tentare la via del default per scelta. Tuttavia, va notato che l’apparente saluta economica di questi paesi, specialmente per gli ultimi tre menzionati, deriva da una situazione molto particolare, di cui non è dato sapere se si protrarrà per molto tempo: il prezzo del petrolio potrebbe scendere ed il boom argentino potrebbe stemperarsi. Pertanto, la situazione si fa doppiamente rischiosa. Una volta abbandonata la tutela dei diritti di credito e contrattuali, potrebbe essere difficile per questi paesi convincere gli investitori esteri (comprese le tanto vituperate istituzioni internazionali) ad acquistare debito pubblico. Negli anni ’70, in seguito ad un aumento dei prezzi delle materie prime, tra cui il petrolio, come mostra molto bene il grafico sotto riportato, i paesi LATAM riuscirono ad ottenere moltissimi prestiti relativamente a buon mercato, in quanto le finanze di questi paesi, grandi esportatori di materie prime, erano in piena salute. Prezzo delle materie prime 1966-2007 Intorno al 1979, i prezzi delle materie prime incominciarono a scendere fino a perdere circa un terzo del loro valore, creando una profonda crisi all’interno delle finanze dei paesi emergenti. Questi ultimi compirono il grave errore di considerare i precedenti, altissimi, livelli dei prezzi delle materie prime come duraturi nel tempo, basando i futuri budget di spesa e di investimento in funzione di questi anomali prezzi, che garantivano enormi entrate statali sia dal lato tassazione che dal lato royalties. Bastò un calo del prezzo delle materie prime durato due anni, per mandare in fumo quanto gli stati emergenti avevano costruito di buono fino ad allora. La storia potrebbe ripetersi.