pegoraro-debito dei paesi emergenti

IL DEBITO DEI PAESI EMERGENTI
Nicola Pegoraro, Università di Genova
Appunti del corso “Investimenti Finanziari nell’attuale contesto
internazionale”
Anno Accademico 2006-2007
Piccola nota metodologica
L’argomento che ci accingiamo a trattare è complesso ma affascinante per molti motivi.
E’ complesso perché si presta a facili generalizzazioni e a derive ideologiche, pertanto
cercheremo sempre di tenerci coi piedi per terra e faremo sempre riferimento alla realtà
storica e dei nostri giorni, ragionando di cose concrete, senza dare troppi giudizi.
E’ affascinante perché, nei paesi emergenti, le vicende economiche e finanziarie
assumono dimensioni e ritmi inusuali.
Per essere coerente con le premesse, mi è sembrato logico strutturare questo piccolo
corso in tre tappe.
In una prima fase, definiremo cosa si intenda per paese emergente e quale sia la storia
concreta che ha contraddistinto il debito e l’economia dei paesi emergenti negli ultimi
due secoli.
In una seconda tappa, cercheremo di capire gli avvenimenti descritti, andando a
individuare alcune problematiche ricorrenti ed alcune utili categorie del pensiero
economico. In quella sede, analizzeremo le problematiche del contagio, del cosiddetto
“peccato originale” ed altri temi del dibattito in materia.
Nell’ultima frazione del corso, ritorneremo ancora ai casi concreti delineando le vicende
di Argentina ed Ecuador nell’ultimo decennio; a questo scopo utilizzeremo
l’armamentario tecnico appreso e introdurremo alcuni temi di attualità.
Fonti e note bibliografiche
Ho fatto ampio uso dei dati e dei grafici (parzialmente tradotti) riportati da uno studio
molto completo e recente:
Borensztein, Levy Yeyati, Panizza. 2006. Living With Debt. Inter American Development
Bank.
Spesso, nel testo, la fonte è identificata come LWD.
Per il resto, ho utilizzato materiale e dati pubblicati sui siti della Banca dei Regolamenti
Internazionali, del Fondo Monetario Internazionale, sulla piattaforma Bloomberg e
facendo ampio ricorso alla mia memoria e al personale bagaglio di esperienza e di
letture sull’argomento. Non ho preparato una vera e propria bibliografia, in quanto mi
sembrava fuori luogo per degli appunti di corso.
Letture di approfondimento
Per chi volesse approfondire alcune delle tematiche trattate ho preparato una lista di
letture consigliate che sono liberamente disponibili sul web (il link è presente nel
documento pdf):
Storia del debito latino-americano fino alla prima guerra mondiale (in Inglese):
Borensztein, Levy Yeyati, Panizza. 2006. Living with Debt-Capitolo 4. Inter American
Development Bank.
In tema di Brady Bonds (in Inglese): Graicap Fixed Income. 1997. Introduction to Brady
Bonds . Da Bradynet.com
Sul cosiddetto “Effetto Fenice” (in Inglese): Calvo, Izquierdo, Talvi. 2006. Phoenix
miracles in emerging markets. BIS Working Papers 221.
In tema di “peccato originale” e “intolleranza al debito” (in Italiano): Borio, Packer.
2004. Analisi dei nuovi orientamenti in materia di rischio. Rassegna trimestrale BRI,
dicembre 2004
In tema di mercati finanziari domestici (in Italiano): Jeanneau, Tovar. 2006. I mercati
obbligazionari interni in America latina. Rassegna trimestrale BRI, giugno 2006
In tema di riserve monetarie (in Italiano): Mohanty, Turner. 2006. Accumulo di riserve
valutarie nei mercati emergenti. Rassegna trimestrale BRI, settembre 2006
Ringraziamenti
Un grazie di cuore a Giovanni Tortorolo che mi ha assistito nella redazione delle note
del corso e nella preparazione del materiale.
Parte 1: Storia e definizioni
Che cosa è un paese emergente?
Secondo la definizione dell’economista Antoine W. van Agtmael, un paese emergente è
caratterizzato da un reddito medio pro-capite inferiore alla media mondiale, ma superiore ad un
livello minimo. Sotto a tale soglia, si collocano i paesi del cosiddetto quarto mondo (Least
Developed Countries, LDC , in Inglese). Per questi paesi, parlare di sviluppo economico o di
convergenza verso le economie più forti è fuori luogo, dal momento che si trovano spesso
confrontati a carestie o guerre civili.
In altre parole, un paese emergente può essere definito come un paese che è meno prospero della
media mondiale ma che aspira a convergere verso uno status superiore, da paese sviluppato.
PAESI SVILUPPATI
PAESI EMERGENTI
PAESI MENO
SVILUPPATI-QUARTO
MONDO
Non per niente, il termine “emergente” porta con se l’idea di salita e movimento.
Purtroppo è anche possibile il movimento inverso, ossia che un’economia perda lo status di
sviluppata o che un paese emergente arretri fino a collocarsi nel cosiddetto “quarto mondo”.
A mio parere, tuttavia, non basta definire lo status del paese sulla sola base del Reddito medio
pro-capite. Si devono considerare, invece, molteplici aspetti e caratteristiche, partendo dalla
salute dell’economia, proseguendo con la natura del substrato culturale ed istituzionale, per poi
terminare con fattori legati alla natura dell’indebitamento (dimensione, tipologia, efficienza del
mercato in cui i titoli vengono scambiati).
Analizziamo la figura che segue. Vengono riclassificati gli stati sovrani in base al loro livello di
indebitamento ed al loro Rating (strumento che permette di classificare un paese in base alla
propria capacità di far fronte ai debiti assunti). Il Rating è un giudizio sul merito creditizio
stabilito da alcune agenzie indipendenti (Standard & Poor’s, Fitch, Moody’ s, ecc) le quali,
attraverso studi sulla salute dell’economia, sulla gestione del paese, sulle istituzioni, attribuiranno
alti rating, come AAA o AA, a nazioni che siano in grado di onorare i propri debiti senza alcun
problema, fino ad attribuire rating molto bassi (BB, B, C) a paesi con bassa capacità di far fronte
agli impegni.
Alcuni paesi, come l’Italia, il Giappone ed il Belgio non possono essere certo considerati come
paesi emergenti solo perché hanno un elevato indebitamento statale, se rapportato al proprio PIL:
non solo hanno un rating piuttosto elevato, ma hanno anche i propri punti di forza nella libertà
economica e politica, nella diversificazione dell’economia, nel sistema giudiziario, etc. Invece,
può benissimo essere che paesi con limitato debito pubblico possano essere classificati come più
rischiosi (ad esempio Guatemala, Costa Rica, Colombia, Ecuador) e specificamente come
“emergenti”.
La classificazione di emergente può essere attribuita ad un paese che possiede un’economia
sbilanciata (di solito esposta al settore agricolo, alle materie prime e all’industria a basso valore
aggiunto), istituzioni non ancora sviluppate ed una elevata volatilità delle entrate statali (si pensi
ad un paese esportatore di materie prime soggette ad elevate fluttuazioni di prezzo); al contrario
un paese sviluppato è caratterizzato da un’economia diversificata, da entrate statali stabili e da
istituzioni che godono di ampia fiducia interna e internazionale. Da sottolineare anche che lo
status di paese “sviluppato” sia difficile da raggiungere e si consegua solo dopo un lungo periodo
di “rodaggio” e non subito dopo aver conseguito buoni risultati economici e sociali. In un certo
senso, anche la storia e la tradizione di un paese hanno un peso. Questo confermerebbe
l’importanza dei fattori qualitativi e della componente legata alla fiducia che il paese deve
guadagnare nel tempo. Il fatto che paesi con un rating medio/alto (come il Messico, la Cina o
altri) siano comunque considerati “Paesi emergenti”, nonostante la valutazione creditizia sia
buona, conferma l’assunto: non basta conseguire un buon rating nel breve termine, ma serve
anche confermarlo nel tempo, dando prova di affidabilità.
Se si esamina il profilo del debito pubblico dei paesi emergenti, questo è di norma caratterizzato
da una forte prevalenza di creditori esteri rispetto a quelli domestici e dipende fortemente dal
mercato internazionale dei capitali per il suo finanziamento, non potendo contare su un mercato
domestico abbastanza sviluppato.
Perché parliamo in queste lezioni dei paesi emergenti e del loro debito?
Esiste un’intera branca dell’Economia Politica che si occupa delle problematiche legate allo
sviluppo economico di questi paesi e delle misure utili a farli evolvere verso forme economiche
maggiormente equilibrate; la si definisce “Economia dello Sviluppo”. I problemi sollevati vanno
molto al di là dei temi trattati in queste lezioni, ma spero di dare almeno qualche spunto di
discussione in merito.
In secondo luogo, oltre che coinvolgere le vicende di una parte importante della popolazione
mondiale, i paesi emergenti sono di particolare interesse per lo studioso di economia in quanto i
fenomeni macro-economici che si sviluppano al loro interno risultano amplificati e di più ampia
portata rispetto a quelli che coinvolgono paesi più sviluppati ed “equilibrati”. Questo fatto è da
ricondursi alla maggiore instabilità finanziaria ed economica. Parlare di paesi emergenti è anche
parlare di crisi, fallimento e rinascita. Le vicende di un paese emergente passano spesso per
un’insolvenza (“default”). Va detto, ad ogni modo, che il default contraddistingue tutta la storia
economica e tutto il globo, non solo i paesi più arretrati: nel XX secolo, Regno Unito, Francia,
Germania e Italia hanno defaultato almeno una volta. E’ certo, però, che, per un paese
emergente, l’insolvenza è un evento comune e spesso “seriale”.
Un po’ di storia
Da secoli, gli stati sovrani si finanziano attraverso prestiti internazionali, che spesso non vengono
rimborsati. Nel XIV e XV secolo, l’Inghilterra, era considerata un vero e proprio paese
emergente, abitato da gente rude e non molto istruita, bisognoso di capitali per finanziarsi e ricco
di lana da esportare. Durante il regno di Edoardo III (nel 1345), l’Inghilterra dichiarò default e
non vennero onorati i debiti contratti con i banchieri fiorentini, i Bardi ed i Peruzzi. Edoardo III
decise di non rimborsare il debito, non perché le finanze inglesi fossero insufficienti, ma perché
ritenne che il suo regno non avrebbe più avuto bisogno di investitori esteri.
Più avanti nel tempo, la parte del paese insolvente venne interpretata dalla Spagna, la quale, a
partire dalla seconda metà del 1500, si rivelò insolvente per tre volte nei confronti dei banchieri
genovesi e, pochi decenni dopo, ancora per tre volte nei confronti dei banchieri portoghesi.
A parte questi precedenti (si potrebbe anche risalire più indietro nel tempo per incontrare i primi
default), si può fissare nella decade 1820-1830 la nascita del moderno mercato del debito emesso
da paesi emergenti. Infatti, in questi anni, gli stati sudamericani avevano appena ottenuto la
propria indipendenza dall’impero spagnolo ed avevano necessità di grandi finanziamenti per la
costruzione delle infrastrutture; essendosi resi indipendenti, non potevano più attingere risorse
dalla Spagna. Per brevità, si fa riferimento a questi paesi del Centro e Sud America con il termine
“Latam” che impiegheremo spesso di seguito.
Nel 1822, vennero concessi i primi prestiti alla Colombia e, nei mesi immediatamente seguenti, a
molti altri paesi dell’area latino-americana. La maggior parte dei fondi arrivarono dall’
Inghilterra, che, nel 1800, non era certo più un paese emergente, ma dominava l’economia del
pianeta.
Dopo pochi anni, questi stati furono incapaci ad onorare propri impegni, assunti (e concessi)
senza nessuna razionalità e dichiararono i primi default.
Questa prima crisi si caratterizza per essere stata facilitata dalla grande liquidità presente nei paesi
sviluppati e dalla grande leggerezza con la quale vennero prestati i fondi ai nuovi paesi. La
rapidità con la quale si arrivò all’insolvenza ci conferma che, in questa prima ondata di
finanziamenti, non fu minimamente valutato il rischio finanziario. La faciloneria era tale che, in
un caso limite ma di non piccole dimensioni per l’epoca, ad essere finanziato fu uno stato
addirittura inesistente, il fantomatico Regno del POYAIS, attraverso un prestito obbligazionario
collocato in Inghilterra, in Scozia e in Francia, da un truffatore scozzese che aveva combattuto
per l’indipendenza del Venezuela, Gregor MacGregor.
Gli anni 30 del 1800 passarono senza che gli stati che avevano dichiarato Default tra il 1826 ed il
1830 riuscissero a rimborsare i loro debiti. Ad un accordo con i creditori si arrivò in
corrispondenza di una successiva ondata di denaro facile attorno al 1850.
Gli anni intorno al 1850 furono caratterizzati da una grande espansione economica e da un’ampia
ondata di liquidità presente sui mercati finanziari e tutto ciò comportò un nuovo afflusso di
capitali dall’ Europa (Londra, Amsterdam e Parigi in primis) verso il LATAM, ma non solo.
Infatti vennero prestate somme anche in Sud Africa (1850) utilizzate prevalentemente nell’attività
estrattiva di materie prime e, a partire dal 1870, anche in Russia, principalmente per la
costruzione di ferrovie.
La crisi degli anni 70 del 1800 investì tutti i paesi latam, i quali non riuscirono a sopportare il
peso del debito e dovettero così defaultare per la seconda volta nel giro di 50 anni. Negli anni 80,
un ulteriore ciclo economico e finanziario positivo riportò, ancora una volta, capitali freschi nel
continente. La successiva crisi si verificò all’inizio degli anni 90. In particolare in Argentina, a
cavallo del 1890, la crisi colpì fortemente il settore bancario e viene ricordata come la prima crisi
moderna di un paese emergente, poiché si possono ritrovare i tipici ingredienti delle crisi future:
crisi bancaria, svalutazione della divisa, sovra-indebitamento statale e tentativo di aiuto da parte
del governo di un paese potente. In aiuto dell’Argentina, vista la non remota possibilità di un
contagio in tutto il LATAM e, di converso, sulle banche inglesi che avevano prestato grosse
somme nell’area, intervenne la Bank of England costituendo un fondo di emergenza, che doveva
servire a rifinanziare il paese sudamericano ed evitare dissesti nelle banche inglesi. La mossa non
impedì alla banca inglese Barings di dichiarare bancarotta per l’insolvenza dell’acquedotto di
Buenos Aires a cui aveva prestato somme immense. La crisi viene ancora oggi chiamata “Barings
Crash” o “1890 Panic”.
Gli stati che dichiararono default negli anni intorno al 1890 rinegoziarono il loro debito,
posticipando le scadenze ed ottenendo condizioni di remunerazione sostenibili per le loro
economie, non ancora del tutto sviluppate ed autonome.
La figura precedente riassume graficamente i periodi in cui gli stati del LATAM furono in default
fino al 1940. In verde sono indicati gli anni in cui il debito estero non venne rimborsato e nelle
parentesi, accanto al nome del paese, viene indicato in termini percentuali la frazione del periodo
durante il quale ogni stato è rimasto insolvente. Si può ben capire come, in quegli anni, il default
fosse prassi comune.
La figura precedente mostra come le crisi siano numerose ed inter-correlate nell’area LATAM (i
rendimenti del debito dei differenti paesi salgono e scendono negli stessi periodi. Esamineremo
nella seconda lezione il tema del “contagio”, centrale nella ricerca economica che si dedica alle
crisi economiche e finanziarie.
Gli anni che seguirono il primo dopoguerra videro, per molti aspetti, la fine di un’epoca. Furono,
infatti, caratterizzati da un’economia globale ristagnante e dal blocco nella libera circolazione dei
capitali. I paesi europei, con le finanze in rovina a seguito della prima guerra mondiale, non erano
più in grado di finanziare altre economie e avevano difficoltà ad onorare i propri debiti; attuarono,
pertanto, misure di controllo sui flussi monetari internazionali. Tutti questi elementi
comportarono un totale blocco degli investimenti verso i paesi emergenti, i quali, di lì a breve,
avrebbero conosciuto una nuova stagione di default.
In questo periodo, non si deve dimenticare che anche alcuni paesi sviluppati defaultarono: solo
per citarne un paio, Inghilterra e Italia furono insolventi nei confronti degli USA a cui non
rimborsarono i prestiti accesi per far fronte alla guerra.
In seguito alla Rivoluzione di Ottobre del 1917, anche la Russia diventò insolvente verso i suoi
creditori, mentre in Cina, nei primi anni del 1900, si verificarono nuovi casi di default sia sul
debito internazionale che su quello collocato domesticamente.
Questa situazione di stasi nei flussi di capitale verso le periferie del mondo perdurò fino agli 60
del 900.
Dal 1970 ai nostri giorni
Negli anni ’70, la situazione mutò profondamente: la crescita del prezzo delle materie prime, i
molti “petrodollari” in circolazione e la rinascita della piazza finanziaria di Londra determinarono
un nuovo periodo di entusiasmo per i mercati internazionali ed emergenti; parte di queste risorse
vennero investite in LATAM ed anche in altre regioni emergenti, quali il sud est asiatico. In
questa fase, però, vi fu una sostanziale differenza rispetto al secolo precedente: infatti per la
prima volta furono i prestiti bancari, e non più le obbligazioni, gli strumenti utilizzati per
veicolare questi flussi finanziari.
I primi anni ’70 furono caratterizzati da un’economia in sviluppo e dall’elevato prezzo delle
materie prime, linfa vitale per la sopravvivenza degli stati emergenti, spesso esportatori di materie
prime e petrolio; questi fattori generarono nei prestatori di fondi (per la maggior parte banche)
una grande fiducia verso questi paesi. Purtroppo, verso la fine degli anni ’70 la situazione evolse
in modo imprevisto: recessione, calo nei prezzi delle materie prime ed i soliti problemi sociopolitico-economici colpirono tutto il comparto emergente. Si tornò così un’altra volta sull’orlo del
baratro.
Prezzo delle materie prime
1966-2007
Nel 1982 il Messico per primo si dichiarò incapace di onorare il proprio debito e, quasi
immediatamente, gli altri paesi seguirono. Questa situazione sfociò in un nuovo e profondo
periodo di crisi.
A complicare la situazione già critica, fu il fatto che questa volta i maggiori prestatori di capitali
erano banche, principalmente americane, già invischiate in una profonda crisi settoriale per il
cumularsi di fattori sfavorevoli. L’insolvenza degli stati sovrani meno forti poteva dare un colpo
mortale a tutto il settore bancario statunitense. Per questo motivo, gli USA, direttamente
interessati, si organizzarono per cercare di porre rimedio a questa situazione che rischiava di far
collassate l’intero sistema finanziario nazionale. Nella seconda metà degli anni 80, il Segretario
del Tesoro statunitense, James Baker, propose di prestare nuovi fondi ai paesi emergenti per
cercare di alleviare la situazione di difficoltà nella quale si trovavano. Questo piano però non
venne implementato, perché a molti esponenti politici sembrò inutile prestare nuovo denaro senza
un piano più organico, destinato a risolvere, una volta per tutte, le storture delle economie
sudamericane e, in generale, dei paesi emergenti. Così, venne seguita l’idea proposta dal
successore di Baker, Nicholas Brady, il quale nel marzo del 1989 enunciò il suo piano di
ristrutturazione volto a far uscire i paesi dal default e a riformare le loro istituzioni. Le misure di
riforma facevano leva sul concetto di libero mercato e seguivano lo spirito del cosiddetto
“Washington Consensus” enunciato in quegli anni dall’economista americano, John Williamson.
Nella sua versione iniziale, si trattava di un set di 10 regole che miravano a potenziare il libero
mercato attraverso:
- privatizzazioni,
- rimozione delle tariffe doganali e dei controlli sugli investimenti internazionali,
- cambi e tassi di interesse stabiliti dal mercato e non fissi, ma relativamente stabili
- focalizzazione della spesa pubblica su infrastrutture, educazione e sanità
- riforma fiscale e passaggio ad una tassazione progressiva basta su aliquote
marginali
- tutela della proprietà privata.
Il nome di “Washington Consensus” deriva dal fatto che Williamson sosteneva che questo
approccio dovesse essere condiviso, come poi accadde, dal governo americano, dal Fondo
Monetario e dalla Banca Mondiale, tutti basati a Washington.
Si ritenne che l’applicazione di questi principi fosse necessaria per far calare i dissesti finanziari
e stabilizzare le politiche economiche, tentando di trainare questi paesi verso economie
maggiormente orientate in senso liberale. La ricerca di stabilizzazione del cambio comportò in
molti casi la misura, non prevista dal Consensus, della dollarizzazione, ossia la creazione di un
legame molto forte tra valute emergenti ed il dollaro, al fine di evitare fenomeni di iperinflazione;
in termini pratici si adottarono cambi fissi o “peg” (ancoraggi) con limitati scostamenti da una
parità stabilita, dotando le banche centrali di elevati quantitativi di valuta pregiata in modo da
soddisfare la domanda /offerta di valuta.
I prestiti bancari vennero rinegoziati e convertiti in obbligazioni, i cosiddetti “Brady Bond”;
attraverso una complessa operazione di marketing finanziario, i prestiti vennero spesso abbinati a
titoli del tesoro americano, in modo che i nuovi Brady Bonds avessero il solo capitale (rimborsato
alla scadenza, di norma trentennale) garantito da obbligazioni statunitensi, mentre il pagamento
degli interessi fosse a cura del paese emittente.
Nel 1991 il Messico, per primo, aderì al Piano Brady e fu presto seguito da tutti gli altri paesi in
dissesto. I paesi ottennero riduzioni di fatto del debito per importi variabili tra il 25 ed il 33% del
capitale originario, ma dovettero riconoscere gli interessi non pagati e anche una parte di quelli
maturati dopo l’insolvenza. Nei primi anni 90, l’approccio Brady e del Washington Consensus
sembrò ottenere i primi frutti: i paesi emergenti riuscirono a tenere sottocontrollo l’inflazione e la
spesa pubblica, modificando il ruolo dello stato nell’economia ed iniziando a privatizzare alcuni
settori economici, tanto che negli anni 90 le obbligazioni emergenti sono progressivamente
diventate una vera e propria asset class nelle mani dei gestori di tutto il mondo.
Differenziale di rendimento dei Brady Bond
rispetto ai titoli del tesoro USA
1991-2007
Crisi Messico
1994-1995
Crisi del
Brasile 1999
11/9/2001 e crisi
borse
Crisi russa
1998
Crisi Asia
1997
Fonte: Bloomberg/JPMorgan (indice JPMorgan Embi-Brady Bonds)
La figura precedente mostra l’andamento del differenziale di rendimento (in basis points dove
100 b.p. =1%) al quale venivano trattati i Brady Bond rispetto ai titoli governativi statunitensi nel
periodo 1991-2007. Un livello di 1000 sta a significare che, in quel dato momento, il debito in
dollari dei paesi emergenti aveva in media un rendimento superiore a quello di un titolo del tesoro
americano di 10 punti percentuali. Il differenziale di rendimento, oltre che la remunerazione
dell’investitore, rappresenta anche la rischiosità percepita dal mercato per l’investimento in bond
emergenti.
Il grafico mostra dei picchi, in corrispondenza alle maggiori situazioni di crisi del comparto
occorse tra il 1991 ed oggi.
Nel 1995, la crisi scoppiata in Messico (chiamata per questo “Tequila crisis”) fu causata dalla
cattiva gestione del debito statale, oltre che dai soliti problemi bancari e valutari: il paese si trovò
nel 1995 con 30 miliardi di $ di prestiti in scadenza e le casse statali quasi a secco; in questo
frangente intervennero in prima persona gli USA con il contributo del Fondo Monetario
Internazionale e della World Bank: venne costituito un fondo, definito di “stabilizzazione”, dotato
di 52 Miliardi di $, in modo tale che il Messico potesse uscire dalla crisi, a patto che continuasse
a sostenere le manovre precedentemente stabilite dal Washington Consensus. La crisi si risolse
nel giro di due anni.
Nel 1997 fu la volta della crisi asiatica che si concentrò in Tailandia, Malesia e Corea. Questi
paesi avevano legato l’andamento della valuta domestica al dollaro statunitense. Questa misura
però risultò insostenibile per la loro economia, basata principalmente sulle esportazioni, quindi i
governi decisero di svalutare le loro valute; questa manovra comportò un innalzamento della
volatilità dei mercati che determinò un allargamento degli spread dei paesi emergenti e rese così
instabili i cambi che fu necessario, ancora una volta, l’intervento delle istituzioni di Washington.
Nel 1998, si registrò la crisi Russa, caratterizzata da alta inflazione, forte svalutazione del Rublo e
mancanza di istituzioni credibili. Gli elevatissimi ed insostenibili tassi di interesse domestici
portarono lo stato Russo alla cancellazione del proprio debito domestico (GKO, titoli simili ai
nostri bot e caratterizzati da elevatissimi rendimenti). Questo fatto comportò un’altissima
volatilità su tutti i mercati, preoccupati dalla situazione di bancarotta di uno stato dotato di un
arsenale militare inesauribile. Vi furono situazioni di panico sui mercati azionari e obbligazionari
di tutto il mondo; tutta questa volatilità fu aggravata dal coinvolgimento dell’Hedge Fund
statunitense Long Term capital Management (“LTCM”), pesantemente esposto sul mercato Russo
(in dettaglio questo fondo acquistava i “BOT” Russi e vendeva Rubli, a copertura dei rischi, nella
presunzione che una eventuale perdita sui titoli sarebbe stata bilanciata dai guadagni sulla
posizione allo scoperto sui rubli; tuttavia, la copertura non funzionò nel momento del bisogno, in
quanto la controparte che effettuava le coperture in divisa per conto dell’ Hedge Fund fallì e la
copertura svanì nel nulla). Le perdite in Russia non sarebbero state tanto gravi, se il fondo si fosse
limitato ad operare in questo mercato. In verità, il fondo aveva enormi posizioni aperte su molti
mercati del mondo, invariabilmente finalizzate a profittare da una diminuzione del rischio
percepito a livello mondiale. In una situazione di incertezza come quella che si era generata nel
1997 (crisi asiatica) e nel 1998 ( crisi russa), questo tipo di posizione speculativa incominciò a
peggiorare molto velocemente. La situazione precipitò in quanto il fondo operava con un
altissimo grado di leva finanziaria, prendendo a prestito fondi pari a 30 volte l’apporto dei
sottoscrittori. Già a metà settembre 1998 (il default domestico russo data di metà agosto), le
banche statunitensi iniziarono ad avere qualche dubbio sulla capacità di LTCM di far fronte ai
debiti. Quando si seppe che il fondo era così esposto sui mercati di tutto il mondo e che deteneva
130 miliardi di dollari soprattutto di titoli di stato di tutto il globo, il panico si impossessò dei
mercati finanziari (faccio notare che la letteratura economica anglosassone parla spesso di
“panic” per identificare le grandi ondate di ribassi che caratterizzano i mercati finanziari). Se il
fondo fosse fallito ed i titoli da lui posseduti fossero stati svenduti sul mercato, si sarebbero
prodotti risultati devastanti, sia per le banche che non sarebbero rientrate totalmente dei prestiti
concessi, sia per il mercato obbligazionario che avrebbe visto la svendita dei bond, posseduti dal
fondo, concentrata in un brevissimo periodo, con un effetto esplosivo sui prezzi già penalizzati
dall’incertezza del momento. Per questo motivo, il governo USA e la banca Centrale Americana
vennero incontro alle banche ed insieme a loro decisero di diluire le vendite di bond in un lasso di
tempo più lungo, senza creare ulteriori crisi sui mercati finanziari. Nel giro di un anno la crisi
rientrò totalmente.
Il 1999 si ricorda per la crisi Brasiliana, legata principalmente alla svalutazione del Real, la quale
creò grandi ripercussioni nel mondo emergente, anche se di breve durata. Nello stesso 1999, si
verificò il primo default di un paese latino-americano dopo il piano Brady, quello dell’Ecuador.
Quell’anno, anche il Pakistan dovette chiedere di sospendere i pagamenti sui propri debiti
internazionali.
Nel 2001 fu l’Argentina a defaultare, ma questa crisi, per altro temuta per più di 18 mesi prima
che si concretizzasse, non ebbe grosse ripercussioni sugli altri mercati.
La situazione attuale
In tutti gli anni 90 e nel decennio in corso, si è assistito ad una vistosa crescita economica delle
economie emergenti. In particolare, gli stati dell’Asia, capendo di non poter fare troppo
affidamento sui capitali esteri, considerati troppo volatili, sono riusciti a creare mercati finanziari
domestici abbastanza sviluppati da poter sostenere la domanda di fondi pubblici. I paesi latinoamericani hanno visto migliorare la situazione in modo apprezzabile solo a partire dal 2000.
Gli stati emergenti, essendo spesso grossi esportatori di materie prime o di merci, hanno visto
aumentare moltissimo le proprie riserve in divise pregiate (soprattutto il sud est asiatico); queste
ampie riserve sono molto importanti per attrarre investimenti dall’estero, in quanto gli investitori
esteri sono meno esposti a crisi valutarie di vasta portata, in grado di rendere difficile l’uscita
dall’investimento.
RISERVE MONETARIE DELLE BANCHE CENTRALI
(AL NETTO DELL'ORO)
Posizione
Paese
Variazione %
ad 1 anno
Variazione % a
3 anni
Riserve in
milioni di USD
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
Cina Repubblica Popolare
Giappone
Russia
Taiwan
Sud Corea
Totale area euro
India
Singapore
Cina-Hong Kong
Brasile
Malaysia
Algeria
Messico T
Tailandia
Turchia
Libia
Australia
Norvegia
Polonia
Germania
24%
2%
58%
0%
6%
3%
25%
11%
2%
55%
12%
31%
-3%
22%
15%
43%
32%
14%
15%
-9%
159%
20%
266%
27%
50%
-12%
69%
38%
11%
70%
85%
139%
21%
57%
87%
199%
95%
45%
37%
-18%
1.076.135
894.137
300.521
268.052
235.338
203.951
176.549
138.326
134.120
92.324
82.713
81.355
78.051
66.118
64.427
59.713
58.572
55.384
49.887
42.849
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
Francia
Nigeria
Banca Centrale Europea
Indonesia
Regno Unito
USA
Svizzera
Canada
Argentina
Repubblica Ceca
Danimarca
Venezuela
41%
48%
13%
18%
2%
10%
3%
6%
69%
2%
-14%
17%
21%
471%
14%
16%
18%
7%
-25%
-2%
120%
17%
-21%
81%
42.809
42.651
42.625
41.226
41.162
41.005
38.320
36.438
33.122
31.619
29.936
29.628
Riserve in divisa delle banche centrali (in pct sul totale mondiale)
Aprile 2007
Cina Repubblica
P o po lare
23%
Giappo ne
19%
A ltri
24%
Russia
7%
B rasile
2%
Cina-Ho ng Ko ng
3%
Singapo re
3%
Fonte: Fondo Monetario
India
4%
A rea euro
4%
Sud Co rea
5%
Taiwan
6%
I paesi LATAM non sono ancora riusciti a raggiungere i livelli degli stati Asiatici, ma, come
mostrano il grafico sottostante (le partite correnti) e quelli precedenti riguardanti le riserve delle
banche centrali in divisa forte, incominciano a presentare segnali di netto miglioramento. Più in
generale, tutti gli indicatori economici (PIL, inflazione, produttività) segnalano l’ottima salute dei
paesi emergenti.
Parte 2
Alcuni Concetti
Contagio
Peccato Originale
Discontinuità nella crescita del debito pubblico
Default
Miracolo della Fenice
In questa sezione, cercheremo di valutare gli eventi storici analizzati nella prima parte e di
estrapolare dalle vicende alcuni concetti chiave per la comprensione dei fenomeni economici dei
paesi emergenti.
Contagio
Il contagio, nella ricerca macroeconomia e nel suo significato più generale, è la diffusione di una
crisi o di un evento negativo da un mercato ad un altro o da un paese ad un altro, visibile
attraverso il movimento congiunto di variabili finanziarie ed economiche.
La trasmissione della crisi può avvenire per l’effetto di variabili:
-finanziarie (ad esempio, la crisi di una banca finanziatrice può rendere più difficile il credito a
più paesi)
-reali (ad esempio, l’effetto della crisi economica di un paese può seriamente compromettere le
esportazioni di un altro paese e provocare una crisi anche in quello)
-legate alla percezione del rischio senza particolare riferimento alla situazione di un dato mercato
o paese (per qualche motivo gli investitori richiedono una maggiore remunerazione dagli
investimenti senza particolare attenzione alle variabili economiche fondamentali di un paese o di
un comparto).
Per essere utile, la definizione di un concetto deve essere abbastanza circoscritta da non inglobare
troppi fenomeni. La definizione più classica (quella sopra-menzionata) ricomprende, a mio
parere, troppi eventi. Mi sembra più utile, specialmente in una trattazione afferente i paesi
emergenti, focalizzarci sul secondo e terzo significato di contagio, quell’effetto domino che
velocemente spinge alle corde tutti i paesi, perché interviene qualche evento sui mercati finanziari
o, semplicemente, muta la percezione del rischio da parte degli investitori.
In questa accezione, non si tratta di un semplice nesso di causa-effetto o di interdipendenza, ma di
fenomeno generalizzato che influenza più che i reali dati economici, la percezione che gli
investitori hanno del rischio finanziario. Quando questo fenomeno si verifica nei paesi emergenti
si manifesta ancora più celermente rispetto a quanto accade nei paesi sviluppati.
Alcune situazioni che abbiamo esaminato nella prima lezione chiariscono bene i diversi aspetti
del concetto. Abbiamo visto, nella prima lezione, come crisi e insolvenze si verificano spesso in
diversi paesi e quasi contemporaneamente.
Quando i paesi del LATAM ebbero appena guadagnato l’indipendenza, negli anni ’20 del 800,
trovarono banchieri e governi disposti a prestare loro capitali sotto forma di obbligazioni; questi
prestatori di fondi però, sopravalutarono le possibilità che questi paesi potessero onorare il loro
debito e remunerarlo periodicamente attraverso il pagamento delle cedole. Accadde così che,
dopo pochi anni dalla nascita del mercato emergente LATAM (1820 circa), iniziassero le
dichiarazioni di insolvenza (1826-1827).
Nella figura precedente vengono mostrati i default verificatesi in LATAM tra il 1826 e 1827.
Il primo default avvenne nel 1826 in Perù ed a catena defaultarono il Cile ed il Venezuela; nel
1827 fu la volta di Argentina e Messico.
A prima vista, appare singolare che tutti questi paesi si accorgano quasi contemporaneamente
dell’impossibilità di sostenere il proprio debito, anzi ancora più difficile da credere è che tutti
questi paesi simultaneamente presentino delle situazioni politico-economiche talmente gravi dal
dovere dichiarare lo stato di Default.
Quindi, una considerazione plausibile è che questa prima ondata di default si manifestò
sottoforma di contagio, nel quale il default del Perù agì da fattore di innesco. Improvvisamente,
dopo quel default, gli investitori capirono in quali rischi incorressero e chiusero i rubinetti del
credito, svendendo le obbligazioni e facendo impennare i rendimenti (rappresentati sull’asse delle
Y nel grafico precedente); senza nuovo credito disponibile, tutti gli altri paesi divennero
insolventi.
Accade spesso che una crisi interna ad un singolo paese faccia venir meno la fiducia da parte
degli investitori, i quali volendo uscire dall’investimento tenderanno a vendere i propri titoli.
Purtroppo, quando questi fenomeni accadono nei paesi emergenti, moltissimi investitori cercano
di liquidare i propri bond a “rischio” default, mettendo in vendita gigantesche quantità di
obbligazioni senza che nessuno sul mercato sia disposto ad acquistarle; questo fatto provoca un
collasso del prezzo di questi titoli che verranno trattati a prezzi stracciati, facendo schizzare alle
stelle i tassi di rendimento del debito di questi paesi in crisi.
In queste condizioni di mercato (rendimenti altissimi, pochissimi acquirenti di titoli e montagne
di obbligazioni in vendita), il paese vittima dello shock non riesce più ad emettere nuove
obbligazioni per due motivi: da un lato sarebbe “obbligato” a pagare tassi di remunerazione del
debito elevatissimi (condizione insostenibile per un’economia in crisi) e, dall’altro, risulterebbe
difficilissimo, se non impossibile, trovare investitori disposti ad acquistare questi titoli
sopportando un rischio così elevato. Per questo motivo, il nascere di una crisi prosciuga il pozzo
dei finanziamenti. In generale, sia i piccoli che i grandi investitori all’inizio di una crisi tendono a
spostare i loro capitali verso investimenti meno rischiosi (generando la “fuga verso la qualità”, in
inglese o “flight-to-quality”) generando così un effetto domino che porta speso i paesi più deboli
a dichiarare il default.
Nella figura soprastante viene mostrato l’andamento dei differenziali di rendimento tra debito
emergente e debito degli Stati Uniti. I massimi toccati dal grafico rappresentano le fasi acute di
crisi verificatesi nei paesi emergenti, mentre i minimi contraddistinguono i periodi di relativa
tranquillità.
Si può notare come i rendimenti di tutti i paesi emergenti e quelli del LATAM, abbiano un
andamento correlato tra loro, dimostrando in modo molto chiaro come una crisi, per esempio
sviluppatasi in LATAM, possa avere avuto importanti ripercussioni anche su altri stati emergenti
estranei ad essa.
Differenziale di rendimento dei Brady Bond
rispetto ai titoli del tesoro USA
1991-2007
Crisi Messico
1994-1995
Crisi del
Brasile 1999
11/9/2001 e crisi
borse
Crisi russa
1998
Crisi Asia
1997
Fonte: Bloomberg/JPMorgan (indice JPMorgan Embi-Brady Bonds)
Altri casi significativi di contagio sono quelli che si sono verificati negli anni ’90. La “Tequila
Crisis” Messicana del 1995 nacque dalla cattiva strutturazione del debito messicano che portò il
paese a dovere rimborsare in un breve lasso di tempo circa 30 miliardi di $ di prestiti giunti a
scadenza, in una fase economica di piena crisi. I prestatori di fondi preferirono non rifinanziare il
debito messicano, credendo quest’operazione troppo rischiosa e valutando la possibilità non
remota che lo stato centroamericano potesse defaultare da un momento all’altro, nonostante un
nuovo apporto di finanze. Questa fase è rappresentata nella figura precedente dal picco dello
spread in corrispondenza del 1995, in quanto gli investitori vollero vendere i propri bond
emergenti perché ritenuti troppo rischiosi, preferendo svendere a prezzi molto bassi (offrendo,
pertanto, all’acquirente rendimenti altissimi) piuttosto che mantenerli in portafoglio. Una crisi
nata in Messico aveva avuto l’effetto di congelare l’intero comparto emergente.
Perché dopo il raggiungimento del picco, lo spread ritornò in breve tempo a livelli molto più
bassi? Il crollo dei rendimenti è da attribuirsi all’intervento in prima persona degli USA che in
concerto con il Fondo Monetario Internazionale, la World Bank, ed in misura minore la Banca dei
regolamenti internazionali, misero a disposizione del Messico un fondo di circa 52 miliardi di per
permettergli di superare la fase momentanea di crisi; la condizione posta fu che lo stato
centroamericano continuasse ad adoperarsi per sviluppare le riforme economiche previste dal
Washington Consensus. In questo modo la crisi svanì, e nel giro di 2 anni lo spread ritornò su
livelli più bassi rispetto ai quelli pre-“Tequila Crisis”.
Si è visto come, la “Tequila Crisis” fosse un problema strettamente legato alla salute del debito
Messicano e come questa abbia colpito anche il debito di paesi emergenti totalmente estranei a
questi avvenimenti.Il calo di credibilità che colpì il Messico nel 1995 si riflesse
incondizionatamente anche sugli altri paesi in via di sviluppo, causando una corsa incondizionata
alla vendita di tutti i bond emergenti.
Il periodo tra il 1996 e l’inizio del 1997 venne contraddistinto da spread bassi e da abbondante
liquidità sul mercato; in queste condizioni i paesi emergenti riuscirono a finanziarsi
“relativamente” a buon mercato, ma a metà del 1997 si verifico la “Crisi Asiatica” derivante dalle
gravi difficoltà economiche che attanagliavano alcuni paesi del sud est asiatico.
In questo frangente stati come Tailandia, Corea e Malaysia, per evitare il collasso economico
lasciarono fluttuare liberamente sul mercato le loro valute (abbandonando di fatto un regime di
cambi amministrati e controllati), provocando una forte svalutazione delle loro divise. La crisi si
sviluppò esclusivamente in Asia e, sebbene fosse stata molto acuta, non comportò fortissimi
contagi nelle economie degli altri paesi emergenti.
Un discorso totalmente diverso da quelli precedenti è quello che riguarda la crisi Russa del 1998.
Qui non si tratta più tanto di un crisi interna al comparto emergente, quanto di una crisi
finanziaria generalizzata che tocca tutti i mercati finanziari.
Nell’aprile del 1998 lo stato Russo si trovò invischiato in enormi difficoltà politico-economiche
tra le quali: un pesantissimo debito domestico, l’iperinflazione, il Rublo che iniziava a svalutarsi
abbandonando definitivamente il legame con il $ e le istituzioni politiche in difficoltà.
In questo periodo la Russia decise di non onorare più il suo debito domestico, diventato oramai
insostenibile. Moltissimi investitori si ritrovarono in mano carta straccia. Tra questi compariva il
fondo hedge americano LTCM, il quale veniva considerato dagli esperti del tempo uno fondo
finanziario quasi infallibile. (Si pensi che molte Banche Centrali, attirati dalla presenza di premi
Nobel e noti trader, investirono una piccola parte delle proprie risorse in questo fondo).
Il fondo, oltre che operare in Russia, investiva anche in obbligazioni a livello globale (sia stati
sviluppati che emergenti) e basava la propria tattica di investimento sul principio della “Mean
Reversion”, ossia investiva in titoli che erano sottovalutati rispetto alla loro media storica, in vista
di un probabile ritorno di questi sui loro livelli medi, superiori ai prezzi ai quali si era investito.
La crisi Russa minò i principi della “Mean Reversion”; infatti, in questo periodo di crisi, i valori
di parecchie attività finanziarie, invece di ritornare velocemente sui loro livelli medi (come
ipotizzato dai gestori del fondo) proseguirono il loro corso lontano dai loro livelli “ordinari”,
generando enormi perdite per l’hedge fund e costringendolo a liquidare le proprie posizioni in
perdita. Il fondo, ad un certo punto, non riuscì più a sostenere questa situazione. Si scoprì che, a
fronte dei circa 5 miliardi di $ sottoscritti, il fondo muoveva una massa 30 volte maggiore, grazie
alle risorse che riusciva a prendere a prestito dalle banche statunitensi.
La situazione incominciò a diventare preoccupante, quando le banche si accorsero delle difficoltà
incontrate dal fondo e chiesero il rimborso dei prestiti.
Il fondo, in evidente crisi, avrebbe dovuto vendere sul mercato i titoli in portafoglio per far fronte
ai propri debiti; con il conseguente ed ulteriore deprezzamento dei titoli in posizione e il
peggioramento della crisi finanziaria che oramai era in atto. Grazie ad una gestione oculata della
situazione, la Banca centrale americana approvò un piano di crisi che prevedeva di non liquidare
in un’unica soluzione l’intero attivo del fondo, ma di diluire nel tempo le vendite, in modo tale da
non creare panico sul mercato. La situazione si normalizzò nel giro di 1-2 anni.
Nel periodo culminante della crisi vi furono pesanti oscillazioni del valore dei titoli di stato; in
particolare, i titoli di debito dei paesi emergenti venivano trattati ad un livello molto simile a
quelli del debito Russo (al 30%-40% del nominale), senza che la crisi russa, in pratica, avesse
avuto delle ripercussioni oggettive sulla salute dei paesi emergenti; si può dire che il contagio
partito dalla Russia attaccò il debito emergente tramite la crisi di fiducia che aveva colpito il
mercato finanziario. Gli investitori, vista la fibrillazione dei mercati finanziari, decisero di
salvaguardare i loro portafogli mediante la liquidazione delle posizioni più rischiose e
l’investimento in strumenti a rischio nullo (ricordate il fenomeno del “flight-to-quality”?). Il
principale perdente fu il debito emergente.
Un altro esempio di come il contagio possa essere originato da fenomeni relativamente estranei ai
mercati emergenti è quello che ci arriva dall’attentato terroristico dell’11 settembre 2001.
La crisi non partì da un paese emergente, ma da un un aumento della volatilità sui mercati
azionari internazionali conseguente all’attentato.
11/9/2001
Dalla figura soprastante si nota come nel periodo successivo all’ 11 settembre 2001, aumenti in
modo vertiginoso la volatilità implicita delle opzioni su azioni americane. La volatilità esprime
l’opinione sui possibili cambiamenti di prezzo delle azioni in un dato intervallo di tempo. Ad una
volatilità alta, corrisponde una maggiore probabilità di ampie fluttuazioni dei prezzi. In questo
senso,, la volatilità è sinonimo di rischio percepito.
Dopo l’attacco alle Torre Gemelle, i mercati finanziari iniziarono una fase di panico caratterizzata
da enormi ribassi (molti mercati rimasero chiusi per legge alcuni giorni), che amplificarono il
trend negativo già in atto dalla fine del 2000. Il punto fondamentale da sottolineare è come, in
questo periodo, cresca a dismisura la volatilità sui mercati e come il rendimento del debito dei
paesi emergenti segua in modo quasi identico l’andamento della volatilità sul mercato azionario.
Questo andamento simile tra rischiosità percepita sui mercati azionari e spread dei paesi
emergenti è spiegabile col fatto che, in una fase di aumento della percezione del rischio
(volatilità), tutte le attività divengono più rischiose; in modo particolare, i titoli di per sé già
rischiosi (debito emergente) tendono a diventare rischiosissimi, con conseguente rialzo dei
rendimenti. Ma non è solo nel momento della crisi del settembre 2001 che volatilità dei mercati
azionari e rischio paese emergente (espresso come differenziale di rendimento tra bond emergenti
e debito statunitense) si muovono insieme: una decisa correlazione positiva tra le due variabili è
individuabile in tutto il periodo di riferimento, anche senza troppe nozioni di statistica. Shock
improvvisi che facciano rialzare la volatilità dei mercati azionari, di solito, hanno evidenti
conseguenze anche sul debito dei paesi meno sviluppati.
L’immagine soprastante confronta l’andamento tra gli spread del mercato del debito emergente e
del settore High Yield Americano. Il settore High Yield comprende il debito di tutte le società
private statunitensi considerate ad alto rischio (o di bassa qualità).
Entrambi gli spread sono riferiti a stati o a società che non sono considerate tra le più sicure o
capaci a fronteggiare il loro debito; dall’esame del grafico, non è difficile concludere che, che tra
i due settori, esiste una forte correlazione e che entrambi sono fortemente legati all’andamento
della volatilità del mercato azionario.
Original sin-Peccato originale
Il termine, piuttosto evocativo, di “Original Sin” (“Peccato originale”) è stato formulato dalla
letteratura economica intorno alla fine degli anni ’90 e va considerato, a mio parere, nel suo
significato più ampio: a causa dell’assenza di un mercato interno in grado di finanziare i
fabbisogni del paese, unita all’incapacità di questi stati di accendere prestiti nella loro divisa
domestica in misura adeguata, i paesi emergenti sono costretti ad indebitarsi in valuta forte (una
volta sterline o oro, oggi Euro, Dollari statunitensi e Yen). Perché i paesi emergenti non riescono
a finanziarsi nella propria divisa domestica? Proprio come se si trattasse di un peccato originale
(che colpisce non solo il peccatore ma i suoi discendenti), anche i paesi devono espiare colpe
forse non tutte loro: né i residenti, né gli investitori esteri vogliono investire in una divisa nella
quale non hanno nessuna fiducia. Perché non hanno fiducia nella divisa? Perché la fiducia si
costruisce negli anni e proprio di fiducia questi paesi sono privi, a causa di una lunga tradizione di
insolvenze e svalutazioni della divisa.
Si parla di Peccato Originale, perché non si sa a chi attribuire la colpa per queste situazioni di
arretratezza del mercato finanziario e di impossibilità di accendere prestiti in valuta domestica.
La necessità di ricorrere alla divisa estera porta con se il rischio costante di ritrovarsi un debito
rivalutato qualora la divisa nazionale, nella quale sono espresse le ricchezze ed i redditi del paese,
dovesse svalutarsi. Per fare un esempio banale, si consideri un paese che abbia un Prodotto
interno lordo di 1000 espresso in divisa locale e un debito pubblico tutto espresso in dollari di
300. Ad un cambio di 2 unità di divisa locale contro 1 dollaro, il paese ha un rapporto debito/Pil
pari al 60%, un livello medio per un paese emergente. Qualora si arrivasse ad una svalutazione
del divisa fino a 4 unità per un dollaro, il rapporto Debito/PIL diventerebbe del 120%, più
difficilmente sostenibile.
Il problema del peccato originale (anche se forse non lo si definiva così) sembrava senza
soluzione solo 15 anni fa. Tuttavia, oggi, molti paesi emergenti, specialmente quelli Asiatici che
hanno conosciuto una profonda crisi nel 1997, hanno capito quale sia il rischio di prendere a
prestito in valute forti e di dipendere troppo dagli investitori esteri. Hanno fatto del loro meglio
per sviluppare mercati dei capitali locali che potessero soddisfare almeno il fabbisogno statale
denominato in divisa locale, aprendoli anche agli investitori esteri.
Anche molti paesi LATAM, anche se non con gli stessi ritmi dell’Asia, hanno incominciato a
creare un mercato dei capitali domestico o denominato in divida locale.
La figura precedente (ripresa, come la seguente, da Jeanneau, Tovar. 2006. I mercati
obbligazionari interni in America latina. Rassegna trimestrale BRI, giugno 2006) evidenzia come
nel giro di dieci anni gli stati sudamericani siano riusciti a migliorare il livello delle loro
esportazioni (aumenta il rapporto tra Esportazioni misurate e PIL) e a far calare la percentuale di
debito contratto in valuta straniera rispetto al debito totale, principalmente grazie all’incremento
delle emissioni di debito in valuta domestica.
Dal grafico soprastante si intuisce come, dal 1995 al 2005, in LATAM siano cresciute le
emissioni di bond denominati in valuta domestica, destinati per la maggior parte al mercato
interno.
Tra i paesi LATAM, quelli che hanno sviluppato maggiormente il loro mercato domestico
dotandolo di una discreta liquidità sono il Brasile e Messico. Entrambi i paesi hanno un mercato
domestico di grosse dimensioni (del resto si tratta dei due maggiori paesi del Centro e Sud
America), caratterizzato da scambi importanti e con costi di transazione contenuti.
I maggiori problemi che devono affrontare i paesi emergenti nella creazione di un mercato
finanziario domestico sono:
- convincere gli investitori nazionali ed internazionali ad acquistare il debito in divisa
domestica
- riuscire a raggiungere un minimo di massa critica sul mercato dei capitali.
I paesi emergenti, riuscendo a creare un mercato dei capitali domestico, creerebbero le condizioni
ideali per far diminuire la loro dipendenza dagli investitori esteri.
Per la maggior parte, i titoli del debito pubblico denominati in valuta domestica, vengono venduti
sul mercato interno ad investitori domestici ed esteri, mentre solamente una piccola parte viene
offerta sui mercati internazionali.
Ultimamente, si sono viste sui mercati internazionali emissioni denominate in Real, anche da
parte di emittenti non residenti in quei paesi, segno che si stanno creando le basi di un nuovo
comparto di titoli.
Un contributo forte alla creazione di un mercato finanziario domestico è dato dalla nascita dei
Fondi Pensione. Infatti i queste istituzioni sono veri e propri investitori di lungo termine, ossia i
soggetti ideali che sostengono la domanda di debito pubblico in valuta domestica.
Gestione del debito
Nei paesi emergenti spesso si verifica un fenomeno particolare che consiste nella crescita
abbastanza imprevedibile del debito pubblico. Tale aggregato tende a crescere in maniera
rilevante in alcuni periodi storici, specie in momenti di crisi, ma per ragioni diverse da quelle che
tipicamente ci si potrebbe aspettare e che sono comuni quando si analizza la contabilità pubblica
dei paesi più sviluppati.
Il debito pubblico può essere cosi scomposto:
Debito Pubblico t = Debito Pubblico t-1 + Deficit t
Equazione n° 1
Il debito pubblico al termine di un esercizio di bilancio (un anno) è pari a quello esistente alla fine
dell’anno precedente aumentato (o diminuito) del deficit (o dlel’avanzo) registrato in
quell’esercizio.
In alternativa, è possibile calcolare il debito pubblico “inventariando” tutti i debiti facenti capo
all’amministrazione pubblica in un certo momento.
Debito Pubblico t = Σ Debitit
Equazione n° 2
L’equazione 2 arriva sempre ad un risultato diverso dall’equazione 1, per motivi non tanto diversi
da quelli che generano differenze quando si procede a fare l’inventario di un magazzino e si
arriva a risultanze diverse da quelle della contabilità delle vendite e degli acquisiti.
La differenza evidenziata dai i due metodi di misurazione, nel gergo anglosassone, si definisce
“stock-Flow Reconcialiation” o “SF”. Introducendo questa voce:
SF t= Debito Pubblico t-1 + Deficit t - Σ Debiti t
Equazione n°3a
La nostra misura diventa
Debito Pubblico t = Debito Pubblico t-1 + Deficit t + SF t
Equazione n° 3b
Siccome la salute finanziaria di un paese viene di solito meglio descritta, piuttosto che dalla
semplice misura del suo debito pubblico, dal rapporto tra Debito pubblico e Prodotto Interno
Lordo, che permette di avere un’idea sulle proporzioni assunte dal debito, la Stock Flow
Reconciliation viene misurata anche con riferimento al rapporto debito/Pil. In questo caso, SF
identifica ciò che non si spiega tenendo conto solo della variazione del Pil e del deficit annuo.
Di norma, la Stock Flow Reconciliation ammonta ad un valore relativamente piccolo per i paesi
sviluppati, mentre, per quanto riguarda i paesi emergenti, raggiunge soglie significative.
Il grafico soprastante mostra le dimensioni della Stock-Flow Reconciliation in alcune aree
mondiali (misurato in termini percentuali sul PIL), evidenziando un valore medio, in bianco e un
valore medio depurato dai valori più estremi, in verde. Appare subito evidente che il differenziale
tra il calcolo dell’indebitamento nei due metodi precedentemente descritti è molto elevato per i
paesi emergenti (ad esempio nell’area LATAM raggiunge il 7,5%), mentre nelle economie
avanzate questo dato è inferiore al punto percentuale.
Il secondo grafico mostra come differenti componenti economiche influiscano direttamente sulla
crescita del debito nelle differenti regioni mondiali. Le voci riportate sono: l’inflazione, la
crescita del PIL, il disavanzo primario, la spesa per interessi e lo Stock-Flow Reconciliation. Si
nota, anche da questo grafico, che la Stock-Flow Reconciliation è molto bassa per i paesi
sviluppati, mentre per i paesi emergenti, e più in dettaglio per l’area LATAM, supera addirittura
la spesa per interessi (voce di bilancio importante per i paesi in via di sviluppo costretti a pagare
alti tassi di interesse sul debito statale).
Quali possono essere le spiegazioni per una Stock-Flow Reconciliation così alta nei paesi
emergenti? Una semplice spiegazione potrebbe essere che i paesi meno sviluppati tengono una
contabilità nazionale inaffidabile in cui abbondano errori. Questa motivazione può essere
senz’altro accolta, ma sicuramente non è sufficiente a spiegare tutta l’ampiezza della Stock-Flow
Reconciliation.
Si deve quindi ricercare quali grandi fenomeni economici influiscano sulla crescita della StockFlow Reconciliation:
• Effetto cambio:le divise dei paesi emergenti, da un anno all’altro, subiscono pesanti
fluttuazioni; ricordiamo che i paesi emergenti contraggono una grande quantità di debiti in
valuta estera, mentre il PIL viene valorizzato in valuta domestica; dunque, per rapportare il
debito pubblico al PIL si dovrà convertire in valuta domestica il debito pubblico; quindi, se,
durante l’anno, la divisa locale si svaluta, il debito diventa molto superiore rispetto all’anno
precedente (vedi l’esempio già fatto in tema di peccato originale).
• Crisi bancarie e finanziarie: quando accadono questi fenomeni gli stati interessati sono
costretti a sostenere ingenti stanziamenti per tentare il salvataggio delle banche e del sistema
finanziario.
• Riforme pensionistiche: quando nascono i fondi pensione, lo stato o le istituzioni pubbliche
di previdenza devono dotare i fondi pensioni di titoli del debito rappresentativi dei contributi
dei lavoratori che fino a quel momento hanno versato nelle casse statali. Questo fenomeno fa
aumentare a dismisura ed in un brevissimo periodo il debito pubblico, monetizzando però
definitivamente il debito degli enti statali nei confronti dei futuri pensionati, di fatto
trasferendolo ai fondi pensione.
Il default.
Il default è la situazione in cui un debitore viene meno ai suoi obblighi verso i creditori. Si parla
di default tecnico quando la mancanza non coincide con il non pagamento di un debito, ma con la
semplice violazione di un obbligo previsto dai contratti di finanziamento o da accordi. Più spesso,
però, il default coincide con il non pagamento di un debito o con l’annuncio da parte del debitore
che non procederà più ad onorare i debiti in scadenza.
Il default può essere di due nature:
• generalizzato quando si prende la decisione di non pagare più nessun debitore
• selettivo quando si decide di non pagare più solamente una fattispecie di creditori
Un esempio di Selective default fu quello della Russia del 1998, dove si decise di non onorare il
solo debito domestico e di continuare a pagare il debito internazionale in divisa estera.
Perché si arriva al default?
Esistono essenzialmente due motivazioni per il default:
• la prima ragione, che è quella più semplice e logica, è quella per la quale gli stati o le
imprese dichiarano default quando non riescono più a sostenere il peso del proprio debito.
In sostanza, il default arriverebbe quando la situazione finanziaria raggiunge un punto di
non ritorno e sembra ormai inutile operare per evitare l’insolvenza (default per necessità).
• Una seconda spiegazione vede il default come una scelta soggettiva o “Machiavellica”; in
questo caso, il debitore paga i suoi debiti se ha interesse a pagarli, ossia se ottiene più
benefici che danni. Secondo quest’approccio, un insolvenza diventa praticabile quando il
debitore individua altri creditori disposti a prestare, ad esempio.
In definitiva, molti default nella storia si possono definire “Machiavellici” quelli medioevali,
quello truffa dello stato POYAIS, quelli cinesi di fine 800 ed inizio 1900 (in quella fase il
governo cinese raccoglieva denaro tra i suoi cittadini, sapendo già che non avrebbe onorato i
debiti).
Per quanto riguarda il LATAM, invece, la grande maggioranza dei default passati sono basati
esclusivamente su una oggettiva impossibilità a pagare.
Non è detto che i paesi defaultino perché siano pressati da pesanti debiti (rapporto debito / PIL).
Come mostra la figura precedente, si nota che l’Argentina nel 2002 ha defaultato con un debito
pari al 130% del PIL, mentre il Sud Africa nel 1986 e 1990 è stato insolvente con un debito / PIL
al 30%. Quello che possiamo dire, invece, è che, molto spesso il default è associato ad eventi
quali svalutazioni valutarie e crisi bancarie.
Il paese che defaulta subisce conseguenze di diverso genere:
• la reputazione è danneggiata; è un effetto che può avere una durata di lungo termine (vedi
peccato originale)
• l’ esclusione dal mercato internazionale dei capitali
• le misure sanzionatorie e punitive
Per i primi due casi è difficile capire e quantificare per quanto tempo si possa protrarre la
“punizione” per lo stato di insolvenza. Nel 1830 dopo la prima ondata di default che caratterizzò
il Latam, alcuni stati furono estromessi dal mercato dei capitali per decenni, ma, in altri casi, altri
paesi insolventi si presentarono sul mercato dei capitali dopo pochi anni, ottenendo nuovi
finanziamenti.
Per quanto riguarda le misure coercitive, oggi non più d’attualità, va detto che nel 1800 e nella
prima parte del 900 venivano spesso applicate; si ricordi ad esempio, l’intervento delle marine
militari inglesi e tedesche nel 1902 (la cosiddetta “anglo-german blockade”) in Venezuela. In
seguito ad una dichiarazione di default, Germania ed Inghilterra pensarono di tutelare i propri
interessi con il blocco navale del paese, affondarono navi, cannoneggiarono porti e forti e
considerarono di invadere il territorio venezuelano per ottenere riparazioni per le perdite
finanziarie subite. Germania e Impero Britannico rinunciarono ad invadere il paese per il pronto
intervento degli Stati Uniti che vedevano come fumo negli occhi l’espansione europea nel
continente americano, ma ottennero in cambio un trattamento preferenziale per il soddisfacimento
dei propri crediti.
Miracolo della fenice
Con questa espressione, Calvo, Izquierdo, Talvi, (Calvo, Izquierdo, Talvi. 2006. Phoenix miracles
in emerging markets. BIS Working Papers 221) identificano con il termine “Miracolo della
Fenice” il fenomeno per il quale un paese, una volta superato il periodo di crisi che può culminare
o meno nel default, rinasce economicamente, proprio come la mitica fenice rinasceva dalle
proprie ceneri. Questo fenomeno si manifesta materialmente in una repentina crescita del PIL del
paese che segue un periodo di crisi. Nel lavoro, gli autori definiscono come crisi una situazione
in cui per qualche motivo il mercato finanziario si chiude e non permette al governo e agli
operatori economici, di fatto, di reperire risorse finanziarie. Lo studio prende in esame il periodo
1980-2005 e analizza molti dei momenti di turbolenza finanziaria di cui abbiamo discusso nella
prima lezione (dalle insolvenze dell’inizo degli anni 80 alle crisi messicana, asiatica e russa degli
anni 90).
Lo studio individua, in tutte queste crisi (non tutte conclusesi con un default), una fase iniziale in
cui il calo del Pil è in media pari al 10% ed una fase di ripresa che segue la fase più acuta della
crisi che dura in media due o tre anni, durante la quale viene rapidamente recuperato terreno. Il
fatto interessante è che buona parte della performance positiva viene messa a segno quando
ancora il circuito finanziario domestico ed internazionale è ancora chiuso e non in grado si
supportare gli operatori economici.
La figura mostra l’andamento del PIL di Argentina, Ecuador ed Uruguay, in corrispondenza dei
periodi immediatamente precedenti e successivi alle rispettive dichiarazioni di default.
Su tutti e tre i grafici si manifesta una fase di calo del PIL che precede la dichiarazione di default,
la statistica valuta che prima della fase di insolvenza il PIL si contragga mediamente del 10%, in
alcuni isolati casi sono stati toccati livelli superiori al 20%.
Quasi subito dopo la dichiarazione di default, il PIL segue un sentiero crescente, rinascendo dalle
proprie ceneri.
Come può essere spiegato questo fenomeno, considerando che un paese emergente insolvente non
riesce più a finanziarsi all’estero e possiede un’economia in profonda crisi?
Si può tentare di dare una spiegazione osservando il cambiamento di alcune variabili
macroeconomiche, a cavallo di un periodo di default.
La figura misura l’andamento medio del PIL durante le fasi di default (un anno prima e dopo).
Questo grafico descrive mediamente l’andamento del PIL considerando tutti i default registrati
complessivamente negli anni ’80 e ‘90. Si evidenzia una contrazione del PIL nei 12 mesi
precedenti l’insolvenza. Contemporaneamente alla dichiarazione di default e quasi
automaticamente, si arriva ad una svalutazione della valuta domestica; dal punto di vista del
credito si chiudono i rubinetti dei finanziamenti sia internazionali che interni, con conseguente
crisi del sistema bancario causata dalla corsa agli sportelli dei risparmiatori, alla quale gli istituti
bancari non possono far fronte. A peggiorare la situazione delle banche, si somma il fatto che
l’assetto finanziario di queste, rispecchia spesso il peccato originale dello stato. Anche gli
intermediari creditizi prendono a prestito in valuta pregiata e fanno prestiti in valuta domestica;
durante una fase di svalutazione della valuta locale, si verifica una rivalutazione dei debiti ed una
svalutazione del valore gli attivi: questa situazione tende a minare la stabilità delle banche. Anche
se le banche prestassero in divisa pregiata, però, si troverebbero in una situazione di difficoltà, in
quanto il soggetto prenditore di fondi in valuta pregiata si troverebbe in una situazione di
squilibrio, vedendosi il debito rivalutato (ipotizzando sempre una svalutazione della valuta
domestica), in modo da renderebbe insostenibile sia il suo rimborso che la sua remunerazione,
causando insolvenza nei confronti delle banche.
I tre economisti precedentemente ricordati sostengono che in una situazione di estrema difficoltà
come quella del default, non tutti gli operatori economici muoiono. I primi a fallire sono
sicuramente i soggetti più deboli, mentre quelli che sopravvivono riusciranno a trovare nuove
fonti “alternative” di finanziamento (per esempio fondi sommersi non dichiarati allo stato, i soldi
in “nero” o circuiti alternativi come il baratto).
Durante una situazione di shock come quella tipicamente analizzata dagli autori, esplode spesso
il tasso di inflazione, principalmente per il fatto che la svalutazione della valuta interna comporta
prezzi più elevati per le importazioni che vanno ad impattare direttamente sul tasso di inflazione.
Questo causa una erosione dei salari reali, in quanto il salario nominale cresce meno
proporzionalmente rispetto al tasso di inflazione. Si stima che, ad ogni crisi, vi sia una erosione
del salario reale di circa il 10%.
Parte 3: Applicazioni alle recenti
vicende di Argentina e Ecuador
Argentina
L’Argentina negli anni ’90, adottò in modo apparentemente rigoroso i principi fissati dal
Washington Consensus, secondo i quali i paesi emergenti avrebbero dovuto: privatizzare, andare
verso un economia di mercato che tutelasse investitori internazionali e nazionali, investire in
infrastrutture, nella sanità, nell’istruzione e nelle istituzioni, lasciare che i tassi di cambio e di
interesse venissero fissati dal mercato (tassi flessibili).
L’Argentina sembrò decisa a volere applicare molti di questi principi all’economia; si ricordano,
per esempio, le privatizzazioni di alcuni settori in precedenza in mano pubblica, come le acque, la
telefonia e l’energia.
Uno dei punti del Washington Consensus, che non venne spesso applicato in LATAM, fu quello
dei cambi flessibili. Il cambio flessibile avrebbe permesso a questi paesi di mantenere in
equilibrio la propria economia attraverso svalutazioni dei tassi di cambio (ad esempio,
permettendo alle esportazioni di essere competitive). Si temette di più, tuttavia, l’iperinflazione e
l’instabilità tipica di un regime di cambi flessibili. Questi problemi vennero risolti mediante
l’adozione di un “peg” fisso al dollaro, per il quale la divisa nazionale poteva essere (più o meno)
liberamente convertita in dollari. Per questo motivo, la maggior parte dei paesi LATAM adottò
una qualche forma di dollarizzazione, in varie forme, dal cambio semi-flessibile, al peg stretto,
per arrivare alla totale dollarizzazione dell’economia, nella quale la divisa nazionale viene
sacrificata e la divisa estera diventa quella di libero corso nel paese. Tutto questo contribuì ad una
maggiore stabilità del mercato finanziario ( di solito la fiducia degli investitori cresce verso i
paesi con tassi di cambio e di inflazione stabili), ma, in un certo senso, si è trattato di una
scorciatoia troppo semplice verso lo sviluppo economico e la competitività industriale ne è stata
la prima vittima.
L’Argentina, pochi anni dopo la ristrutturazione dei propri debiti (piano Brady), aveva raggiunto
effettivamente un’invidiabile stabilità monetaria (tassi di interesse e di inflazione tra i più bassi
del continente), ma doveva fronteggiare una crescente difficoltà ad esportare i propri prodotti. La
situazione divenne delicata quando, nel 1999, il Brasile decise di svalutare il Real e abbandonare
il regime di cambi controllati allora in vigore . Da quel momento le esportazioni brasiliane
diventavano incredibilmente più competitive dei prodotti argentini e si intensificò il flusso di
investimenti esteri in Brasile (l’Argentina aveva aspirato, per qualche tempo, ad essere oggetto di
investimenti produttivi sul suo territorio, ma doveva scontare un costo della vita e del lavoro
troppo elevato). Gli stessi imprenditori argentini chiusero le fabbriche in Argentina per aprirle in
Brasile (contagio attraverso fattori reali). Iniziò un fase di recessione dell’economia che si cumulò
ad una profonda crisi istituzionale e ad un pesante sovra-indebitamento statale. Nel 2001, si
giunse al default e il debito statale non venne più pagato; la divisa venne svaluta, l’economia
piombò in una forte crisi, collassando definitivamente con il congelamento dei depositi, che
privò l’economia del proprio carburante (le famiglie argentine potevano prelevare solamente
piccolissimi importi mensili per il loro sostentamento). La crisi argentina ebbe una imprevedibile
ricaduta sul vicino Uruguay, che, da sempre, raccoglieva gli ingenti capitali non dichiarati di
imprenditori e famiglie argentini.
Quando in Argentina venne stabilito il congelamento dei depositi, moltissimi argentini si
diressero in Uruguay per ritirare denaro ed il movimento assunse tali proporzioni che le banche
uruguaiane non poterono far fronte alla corsa agli sportelli e dichiararono anch’esse default, come
pure fece il governo (contagio attraverso un fattore finanziario).
L’Argentina si è ripresa abbastanza velocemente dallo stato di grave prostrazione in cui era
caduta dopo il default, a causa di una crescita molto forte delle esportazioni, beneficiate dalla
svalutazione del peso, ormai libero di fluttuare sul mercato e per le risorse pubbliche resesi
disponibili in seguito al non pagamento del debito estero iniziato nel dicembre 2001 e protrattosi
fino al 2005.
L’economia Argentina conosce, ormai da alcuni anni, una fase di forte sviluppo (siamo
attualmente su livelli di crescita del PIL intorno all’8%-9%), avvalorando ulteriormente il
principio della “Miracolo della fenice”.
Interessante, nel caso argentino, il modo in cui si è giunti ala ristrutturazione del debito estero.
Con un atteggiamento molto duro e deciso da parte del governo argentino e senza contrattarlo con
i creditori, è stato portato a termine un piano di ristrutturazione molto penalizzante per i creditori,
che hanno dovuto rinunciare ad oltre il 60% dei propri attivi nominali. Molti investitori (specie gli
italiani) hanno addirittura preferito non aderire alla proposta ( si definiscono “hold-out” i creditori
che non accettano un piano di ristrutturazione e restano in attesa di una nuova offerta), comunque
accettata dalla grande maggioranza degli obbligazionisti. Oltre che per la durezza degli
atteggiamenti del governo verso il capitale internazionale (tra l’altro, agli hold-out continua ad
essere negato qualsiasi diritto), la ristrutturazione si segnala anche per lo spazio accordato ai
cosiddetti “Warrant sul PIL”, assegnati a tutti i creditori aderenti all’offerta.
I warrant (chiamati anche “PIL bonds”) garantiscono ai possessori un flusso di pagamento
variabile per i prossimi 30 anni, solamente negli anni in cui il PIL argentino supera una certa
soglia (il 3% di crescita annua) ed in funzione di tale crescita.
Si tratta di un esempio concreto di titolo partecipativo in grado di rendere più flessibile il profilo
finanziario dei paesi indebitati: negli anni di alta crescita, viene riconosciuto un pagamento, che si
interrompe nelle situazioni meno favorevoli.
Ecuador
L’ Ecuador uscì dal default iniziato negli anni 80 grazie al piano Brady nel 1992, varando un
ambizioso piano di stabilizzazione, nonostante seri problemi di credibilità delle istituzioni.
Nel 1998-1999 arrivò un periodo di crisi a livello bancario, durante il quale quasi tutti gli istituti
divennero insolventi a causa di una corsa agli sportelli. Lo stato ecuadoriano decise di
abbandonare la propria moneta (fino ad allora veniva utilizzato un cambio amministrato che
prevedeva un legame con il dollaro) e di convertirla in dollari al cambio di 25000 Sucre per 1 $,
nonostante gli studiosi ritenessero sufficiente ed equilibrato un livello di cambio di 16000 sucre
per $ (si ebbe quindi un’ipersvalutazione della divisa locale). L’economia fu dollarizzata
completamente: la divisa statunitense ha oggi corso legale nel paese.
Si raggiunsero nel breve periodo tassi di inflazione elevatissimi, con tassi di interesse bassissimi,
rendendo così notevolmente negativo il tasso di interesse reale; per questo motivo la ricchezza
denominata in Sucre perse moltissimo valore, raggiungendo in certi casi cali dell’ 80%.
Dopo la crisi del 1999, è continuata la fase di instabilità politica nel paese. Si ricorda il
susseguirsi di 9 presidenti negli ultimi dieci anni.
Prezzo del Barile di Petrolio/BRENT
1983-2007
In questo decennio, nonostante l’instabilità politica, il prodotto interno lordo ha però aggiunto
insperati livelli. Grazie alle rimesse degli immigrati ed alle esportazioni petrolifere, l’Ecuador è il
quarto esportatore sudamericano, oggi l’economia viaggia a livelli di crescita intorno al 4%. Da
qualche anno a questa parte, il bilancio pubblico si chiude in sostanziale pareggio, con un livello
di debito pubblico abbastanza elevato, intorno al 100% del proprio PIL, ma su livelli controllabili.
Si deve, però, considerare che questa situazione viene influenzata positivamente dalle
esportazioni di petrolio fatturate a prezzi storicamente elevatissimi e dalle consistenti rimesse
degli immigrati. Se il prezzo del petrolio dovesse però scendere, le conseguenze sarebbero
sicuramente molto negative, specialmente se si considera che la solidità del tessuto economico ed
imprenditoriale è quanto meno incerta.
La situazione politica è in continua evoluzione. E’ notizia recente che il referendum popolare
dell’aprile 2007 ha concesso un mandato istituzionale per riscrivere la costituzione, creando per
l’ennesima volta un clima di instabilità politica.
Il nuovo presidente ecuadoriano Correa ha recentemente dichiarato di non volere più dare priorità
al pagamento del debito estero, nonostante le finanze statali lo consentano, destinando le somme
necessarie a vantaggio di altre poste di bilancio (assistenza sanitaria, salario minimo, ecc);
contemporaneamente, l’Ecuador ha preso le distanze dagli Stati Uniti, stringendo alleanze con gli
altri stati sudamericani critici verso gli USA (Venezuela e Argentina),
Il paese ha annunciato che, molto probabilmente, non pagherà più il debito estero e che sarà
necessaria a breve una sua rivisitazione, ritrattando, di fatto, la ristrutturazione fatta nel 1999; si
ritiene che, in quel frangente, venne “concesso” troppo agli investitori internazionali. In questi
termini, si può parlare di un possibile “Default Machiavellico” derivante da una decisione
soggettiva di non pagare e non da un’oggettiva impossibilità di far fronte agli impegni assunti.
Con molte probabilità, visto lo sviluppo dei fatti, ci si può aspettare entro l’anno l’apertura di un
tavolo di ristrutturazione forzosa del debito ecuadoriano.
Piccola morale
Dai recenti fatti argentini ed ecuadoriani, nonché dall’analisi della politica dei paesi
sudamericani, è individuabile un macro-trend che vede progressivamente prevalere forme di
contestazione più o meno aperta all’economia di mercato e, di fatto, al mercato dei capitali. Le
recenti dichiarazioni di Correa in Ecuador, di Chavez in Venezuela, dei governanti boliviani, la
recente decisione di candidare alla presidenza argentina la moglie dell’attuale presidente Kirchner
(che non può più ricandidarsi dopo due mandati in carica) sono il segnale di una tendenza
populista e anticapitalista che sta prendendo corpo in tutta l’area Latam , anche se i due maggiori
paesi, Messico e Brasile, non sembrano contagiati. E’ possibile che si assista presto ad eventi
negativi per i creditori internazionali, in quanto alcuni di questi paesi (Ecuador e Venezuela
grazie al petrolio, Argentina grazie ad una buona salute dell’economia) sono convinti di avere i
mezzi per fare a meno del supporto del mercato internazionale dei capitali e potrebbero tentare la
via del default per scelta. Tuttavia, va notato che l’apparente saluta economica di questi paesi,
specialmente per gli ultimi tre menzionati, deriva da una situazione molto particolare, di cui non è
dato sapere se si protrarrà per molto tempo: il prezzo del petrolio potrebbe scendere ed il boom
argentino potrebbe stemperarsi. Pertanto, la situazione si fa doppiamente rischiosa. Una volta
abbandonata la tutela dei diritti di credito e contrattuali, potrebbe essere difficile per questi paesi
convincere gli investitori esteri (comprese le tanto vituperate istituzioni internazionali) ad
acquistare debito pubblico.
Negli anni ’70, in seguito ad un aumento dei prezzi delle materie prime, tra cui il petrolio, come
mostra molto bene il grafico sotto riportato, i paesi LATAM riuscirono ad ottenere moltissimi
prestiti relativamente a buon mercato, in quanto le finanze di questi paesi, grandi esportatori di
materie prime, erano in piena salute.
Prezzo delle materie prime
1966-2007
Intorno al 1979, i prezzi delle materie prime incominciarono a scendere fino a perdere circa un
terzo del loro valore, creando una profonda crisi all’interno delle finanze dei paesi emergenti.
Questi ultimi compirono il grave errore di considerare i precedenti, altissimi, livelli dei prezzi
delle materie prime come duraturi nel tempo, basando i futuri budget di spesa e di investimento in
funzione di questi anomali prezzi, che garantivano enormi entrate statali sia dal lato tassazione
che dal lato royalties.
Bastò un calo del prezzo delle materie prime durato due anni, per mandare in fumo quanto gli
stati emergenti avevano costruito di buono fino ad allora.
La storia potrebbe ripetersi.