Potere, volto, alterità - Liceo Majorana

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POTERE, VOLTO, ALTERITA’
Da Arendt e Lévinas all’ Antigone di Sofocle.
Lettura della “LETTERA DELLA ARENDT A JASPERS (1951)”
“Che cosa sia veramente oggi il male radicale non lo so, ma mi sembra che in
un certo modo abbia a che fare con i seguenti fenomeni: la riduzione degli
uomini in quanto uomini ad essere assolutamente superflui, il che significa non
già affermare la loro superfluità nel considerarli mezzi da utilizzare, ciò che
lascerebbe intatta la loro natura umana e che offenderebbe solo il loro destino
di uomini, bensì rendere superflua la loro qualità stessa di uomini. Ciò
avviene quando si elimina qualsiasi imprevedibilità che è nel destino e alla
quale corrisponde negli uomini la spontaneità.…Ebbene ho il sospetto che in
tutto questo pasticcio la filosofia non sia innocente e monda di ogni
macchia. Naturalmente non nel senso che Hitler abbia a che fare con
Platone…Direi piuttosto nel senso che questa filosofia occidentale non ha
mai avuto un concetto puro del politico e non poteva averne uno, perché
essa ha necessariamente parlato dell’uomo e ha trattato del dato di fatto
della pluralità degli uomini solo incidentalmente. Ma tutto questo non avrei
dovuto scriverlo, si tratta di idee non ancora maturate. Mi scusi.”
Due mesi dopo in una lettera ad Eric Voegelin non solo il sospetto è ormai
diventato certezza ma la Arendt chiarisce anche in che senso la filosofia
occidentale, la logica sottesa alla filosofia occidentale non è riuscita ad avere
un concetto puro del politico. In che senso, cioè, la filosofia occidentale in
qualche modo è chiamata in causa dalla deriva totalitaria nazista.
La filosofia occidentale si è limitata a parlare dell’Uomo in senso astratto,
considerando l’universale “uomo”, pensandolo solamente, per così dire, in
terza persona. Perché solo in questo modo è possibile sussumerlo, portarlo
all’interno di un sistema, di una totalità, di un orizzonte ideologico, vale a dire
adeguare la realtà all’Idea. In altre parole non è riuscita a cogliere la
singolarità, vale a dire la pluralità e nella pluralità la diversità degli uomini. Più
volte la Arendt chiarisce che “non l’ Uomo ma gli uomini abitano la terra”.
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Perché in fondo non esiste l’Uomo ma esistono gli uomini, nello stesso tempo
singoli e diversi.
E la Arendt spinge la riflessione sulla logica totalitaria sino a questo punto
perché se si potesse, con una frase sola, riassumere in che cosa consista il
funzionamento totalitario si dovrebbe dire che esso manipola la datità – sia
idealmente con la propaganda sia operativamente con i campi di sterminio – a
tal punto da farla scomparire nella sussunzione sotto l’idea che funge da unica
premessa indiscussa
dell’ideologia. …E’ per questo motivo che,
grottescamente, solo nell’inferno di Auschwitz diventa tragicamente vera
quell’ identità di Idea e Realtà, di Essere Pensiero su cui la metafisica da
Platone ad Hegel non ha mai smesso di insistere. E per il totalitarismo l’essere
non si dà mai al plurale, ma viene costruito attraverso l’imposizione unitaria e
ordinante di un principio primo.
Dieci anni dopo, nel 1961, partendo da premesse diverse e certamente in
direzione di prospettive filosofiche diverse tuttavia anche Levinas chiama in
causa la filosofia occidentale, quella che lui definisce la filosofia della totalità
che esplicitamente viene collegata alla guerra e alla violenza cifre del
Novecento.
Levinas si interroga sul pensiero, sulla filosofia dell’Occidente che è una
filosofia di potenza. Essa porta alla legittimazione dello Stato tiranno: una
filosofia del potere, che non mette mai in questione il Medesimo, ovvero il
Soggetto che rimane sempre uguale a se stesso, senza aprirsi all’Altro, e perciò
finisce con l’essere una filosofia dell’ingiustizia.
Levinas paragona la filosofia occidentale, racchiusa nel Soggetto e incapace di
aprirsi radicalmente all’Altro, al viaggio di Ulisse che solo in apparenza
incontra terre e uomini diversi perché alla fine tutto viene ricondotto a sé, nel
suo ritorno in Patria. E al viaggio di Ulisse Levinas contrappone l’andare
radicale di Abramo, chiamato ad uscire, ad andare e non a ritornare.
Ripartire da Auschwitz – con l’obiettivo di non tornarvi mai più – significa
denunciare la violenza di una tradizione filosofica incapace di uscire da sé,
chiusa in un sapere riduttivo e totalizzante.
Il meccanismo dell’occultamento dell’Altro, subdolamente insito nel sistema
educativo occidentale, ha reso possibile l’Olocausto, così come ha potuto
provocare in passato le altre catastrofi della storia.
Il pensiero di Levinas risulta caratterizzato da una programmatica apertura nei
confronti dei problemi dell’alterità e del prossimo. Da ciò la curvatura etica del
suo pensiero che appare sorretto non solo da motivazioni di carattere teoretico
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ma anche dalla tragedia dei campi di concentramento nazisti. Una tragedia che
trova le sue matrici in quel rifiuto dell’Altro che è proprio della cultura
dell’Occidente.
Levinas accusa la filosofia tradizionale di “Imperialismo del Medesimo” e di
“Violenza ontologica” ossia di aver racchiuso il molteplice e il diverso
nell’ambito di una totalità soffocatrice di ogni forma di alterità e trascendenza:
“La filosofia occidentale è stata per lo più un’ontologia, una riduzione
dell’altro al medesimo” Bisogna uscire da questo pensiero totalizzante e
contestare alle radici la filosofia della potenza e l’ontologia della guerra che da
essa scaturiscono. Uscita che per Levinas non avviene a livello teoretico bensì
etico e pratico, ossia tramite quel basilare evento che è l’incontro con l’Altro,
incarnato dal prossimo.
Infatti il rapporto con l’Altro non avviene con una fuga dalla realtà, in una
dimensione meta-fisica perché l’altro si annuncia concretamente nel volto del
prossimo. Il volto interpella, chiama , fa nascere l’Io.
Ed allora possiamo trarre due considerazioni: la prima ribadisce che l’Io può
nascere solo in relazione ad un Tu, in altre parole che il “Tu” è più antico
dell’Io e in secondo luogo che l’Io è innanzitutto chiamato a rispondere, nel
senso etimologico, chiamato ad essere responsabile dinanzi al Tu. E tutto
questo prima dell’apertura dell’Io e della logica con la quale l’Io si apre al
mondo.
Lettura dell’Antigone. (Dialogo Creonte – Antigone) [in allegato]
Soffermiamoci su alcuni passaggi di questo straordinario dialogo tra Creonte e
Antigone
Quello che ci interessa, al di là del conflitto insanabile e dialettico tra ghenos e
polis, tra le leggi non scritte e quelle della polis, è proprio cogliere la logica
che sorregge la visione del mondo dei due personaggi. Il Sovrano di Tebe
quando parla dei due fratelli li de-finisce, e de-finire significa tracciare i
confini, separare, distinguere e per fare ciò deve sussumerli sotto la categoria
ideologica dell’amico\nemico. Ancora una volta ritroviamo quella logica
dell’Idea alla quale la realtà deve sottostare. In altre parole ritroviamo qui
esattamente quel pensiero totalizzante denunciata dalla Arendt e dallo stesso
Levinas, quella incapacità di capire e accettare la singolarità e pluralità degli
uomini. Ciò che in fondo vuole fare Creonte nel suo famoso divieto si dare
sepoltura a Polinice è cancellare anche solo la traccia dell’altro, sottrarsi allo
sguardo di Polinice, lasciando per l’appunto che il suo volto venga distrutto
dagli uccelli rapaci e dai cani.
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Antigone, invece, non può rimanere sorda all’appello del fratello defunto, in
altre parole non può sottrarsi al volto e in questo senso non può non essere
responsabile. L’azione di sepoltura di Antigone è in fondo una risposta ad un
appello. E Antigone nasce proprio in quanto investita da questo appello.
I due personaggi sembrano incarnare due visioni totalizzanti e in quanto tali
contraddittorie. E noi sappiamo che l’essenza del tragico consiste nella
contraddizione. Infatti tragico è il destino di Antigone ma dello stesso Creonte.
E tuttavia non è proprio così perchè quella di Antigone è una dimensione che
precede l’orizzonte di Creonte. Rispondendo e lasciandosi interpellare dal
volto dell’Altro, usando le parole di Levinas, Antigone è interpellata da una
Giustizia che non è quella della Polis ma è quella Necessità, quella Dike che
indica a Parmenide la vie della Verità e dell’Errore, di cui parla Eraclito nei
suoi famosi frammenti, quella Legge alla quale sottostanno Uomini e Dei
perché è la legge della Fùsis alla quale appartiene il ciclo perenne della vita e
della morte di tutti gli enti, anche degli uomini.
Ed è perché situata in questa originaria prospettiva che Antigone può dire che
non c’è Giustizia se noi nell’Ade distinguiamo l’amico dal nemico. Non solo,
ma da questa consapevolezza dell’umana finitezza nasce quella pietas, che
non è altro che la dimensione della responsabilità verso l’altro alla quale ci
aveva richiamato Levinas, che deve permeare la polis ed anche il potere. Deve
in altre parole “farsi potere”.
Da ultimo vorrei fermarmi sulle battute finali di Antigone. E qui mi permetto di
tradurre questo verbo Filèo, che noi troviamo anche nella parola Filosofia, in
altro modo. Io penso che la migliore traduzione di questa parola greca,
Filosofia, l’abbia suggerita Heidegger quando commentando Eraclito parla
dell’Omologhèin, vale a dire dello sintonizzarsi sul Logos. Ma lo stesso
Severino spesso traduce la parola filìa , con “prendersi cura”. Ed allora è
bellissimo questo verso finale che condensa tutta la dimensione di Antigone e
che proviamo a tradurre così: non sono venuta al mondo per odiare ma per
condividere l’amore, cioè per prendermi cura. Dell’Altro, anche del nemico,
perché, nonostante tutto, anche il nemico, in quanto altro, mi riguarda.
Prof. Piergiorgio Scaggiante
Liceo “Majorana-Corner”
Mirano, 20 Novembre 2014.
[allegato]
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Sofocle Antigone, 441-525.
CREONTE Dico a te, sì a te che abbassi il capo: neghi o ammetti di aver compiuto il fatto?
ANTIGONE Sì, sono stata io, non lo nego.
CREONTE Dimmi semplicemente, e senza giri di frase: conoscevi l’editto, che vietava proprio ciò che hai fatto?
ANTIGONE Sì, lo conoscevo. E come potevo ignorarlo? Era pubblico.
CREONTE Eppure hai osato trasgredire questa norma?
ANTIGONE Sì, perché questo editto non Zeus proclamò per me, né Dike, che abita con gli dèi sotterranei. No, essi, non hanno
sancito per gli uomini queste leggi; né avrei attribuito ai tuoi proclami tanta forza che un mortale potesse violare le leggi non scritte,
incrollabili, degli dèi, le quali non da oggi né da ieri, ma da sempre sono in vita, né alcuno sa quando vennero alla luce. Io non
potevo, per paura di un uomo arrogante, attirarmi il castigo degli dèi. Sapevo bene – cosa credi?- che la morte mi attende, anche
senza i tuoi editti. Ma se devo morire prima del tempo, io lo dichiaro un guadagno: chi, come me, vive immerso in tanti dolori, non
ricava forse un guadagno a morire? Affrontare questa fine è quindi per me un dolore da nulla; dolore avrei sofferto invece, se avessi
lasciato insepolto il corpo di un figlio di mia madre; ma di questa mia sorte dolore non ho. E se ti sembra che mi comporto come una
pazza, forse è pazzo chi di pazzia mi accusa.
CREONTE Ricordati però che i temperamenti troppo duri più facilmente si arrendono, proprio come il solidissimo ferro, se viene
troppo indurito dal fuoco, alla fine più agevolmente si spezza e va in frantumi. E un piccolo morso, si sa, doma i cavalli più focosi:
non si può permettere di fare il superbo chi è in mano altrui. Già costei aveva dimostrato la sua arroganza trasgredendo le leggi in
vigore: e non contenta del primo, ecco un altro insulto, dal momento che si vanta e ride del proprio crimine. E certamente ormai io
non sarei più un uomo, ma costei sarebbe l’uomo, se impunemente le arriderà un simile successo. No, sia pure figlia di mia sorella o
ancora più legata nel sangue fra quanti onorano Zeus all’altare della mia casa: né costei né sua sorella sfuggiranno a morte
amarissima; sì, accuso la sorella non meno che costei di aver partecipato al seppellimento del cadavere. Chiamatela. L’ho vista
aggirarsi per la casa, poco fa, fuori di sé, incapace di controllarsi. Sono soliti tradirsi da sé, ancor prima di essere scoperti, quanti
ordiscono nell’ombra trame delittuose. E ancor più detesto chi, sorpreso in flagrante, pretende di abbellire il suo crimine
ANTIGONE E allora cos’altro vuoi più che avermi in tuo possesso e uccidermi?
CREONTE Nient’altro: se ho questo, ho tutto.
ANTIGONE Che aspetti dunque? Non una delle tue parole mi è sopportabile, né mai lo sia: del resto anche le mie parole sono fatte
per dispiacerti. Eppure, come acquistare fama più illustre che dando sepoltura a mio fratello? E tutti costoro mostrerebbero di
apprezzare il mio gesto, se la paura non sbarrasse loro la bocca. Ma fra i suoi molti privilegi il potere possiede anche quello di fare e
dire ciò che vuole
CREONTE Tu sola, fra tutti i Tebani, la pensi così.
ANTIGONE No, la pensano come me, ma frenano la lingua per compiacerti.
CREONTE E tu non ti vergogni a distinguerti da loro?
ANTIGONE Non è una vergogna onorare i consanguinei.
CREONTE E non era tuo fratello colui che cadde sul fronte opposto?
ANTIGONE sì, nato dalla stessa madre e dallo stesso padre.
CREONTE E dunque perché tributi all’altro un empio onore?
ANTIGONE Neppure il morto ti darebbe ragione.
CREONTE Certo, se tu lo consideri alla stessa stregua di quel sacrilego.
ANTIGONE Ma suo fratello è morto, non il suo schiavo!
CREONTE Che assalì questa terra! E lui cadde per difenderla.
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ANTIGONE E tuttavia Ades desidera questi riti.
CREONTE Ma i giusti non devono ottenere gli stessi onori dei criminali.
ANTIGONE Chi può dire se fra i morti questa legge è santa?
CREONTE Il nemico non è mai amico, neppure da morto.
ANTIGONE Io sono fatta per condividere l’amore, non l’odio.
CREONTE E allora, se vuoi amare, scendi sotto terra e ama i morti. Io, finché vivo, non prenderò ordini da una donna.
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