Antigone Un banchetto funebre che è anche un banchetto di nozze. O meglio un banchetto di nozze che prende “vita” nel regno di Ade, della Morte. Questa la cornice nella quale prende le mosse Lo specchio di Antigone di Giovanni Greco. Lo spettacolo nasce a coronamento di un lungo laboratorio che ha visto collaborare filologi e teatranti, a vari livelli, svoltosi presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università la Sapienza di Roma, promosso dalla cattedra di Storia del teatro greco e latino, nella persona di Anna Maria Belardinelli. Così è stata approntata una nuova traduzione dell’Antigone di Sofocle, pensata espressamente per la messa in scena, che privilegia gli aspetti ritmici e sonori del testo originale oltre che un’interpretazione inedita del testo. L’idea di fondo di tutto il lavoro è stata quella di intendere Antigone come tragedia dell’identità e non come conflitto irriducibile tra leggi scritte e non scritte, tra ragione di stato e vincolo di sangue, tra destino ineluttabile e libero arbitrio dell’eroe. Antigone come tragedia del fratricidio, del suicidio o dei suicidi (di Antigone stessa, di Emone, figlio di Creonte, promesso sposo di Antigone, di Euridice, sua madre), degli omicidi mancati o realizzati che seguono all’incesto originario di Edipo e Giocasta, ci parla ancora oggi di identità incompiute o doppie, di figli-fratelli, di madrinonne, di padri-fratelli, di qualcuno che non può essere solo se stesso perché condannato a essere sempre almeno duplice, se non molteplice nel rapporto con il mondo. La rivolta di Antigone al decreto di Creonte che vuole impedirle di seppellire Polinice, il fratello “traditore” che è venuto in armi contro Tebe ed è morto nel duello finale con Eteocle, suo fratello gemello, al quale si tributano tutti gli onori funebri, in quanto “legittimo” erede al trono dopo la fine di Edipo, non è rivolta femminista, non è disobbedienza civile, non è il trionfo dell’anarchia contro l’oppressione e la tirannide. O almeno non è solo questo. Il vero conflitto, profondo, è quello che la stirpe di Edipo vive con la propria eccezionalità, la propria inadeguatezza di fronte alla normalità. Con la propria condanna a essere un conflitto in sé e per sé, divisi e incompiuti in sé prima che conflittuali con la realtà e con gli altri, si chiami questa Creonte o anziani della città. Così la messa in scena parte dalla fine, dalla catastrofe, dalla celebrazione paradossale, più volte annunciata, del matrimonio di Antigone con la Morte, dal ricongiungimento della famiglia di Edipo in un oscuro. Al di là e dalla riconsiderazione a posteriori di tutta la vicenda inscenata e in buona parte inventata da Sofocle, come il compimento inevitabile di una ricerca che ritrova il suo senso solo nella foga dell’annientamento. La sepoltura di Polinice fa di Antigone una madre e una sposa morta e/o mancata, ma una sposa e una madre. Il mondo che sopravvive, quello di Creonte (e di Ismene), è il mondo di una truce normalità riconquistata, di una cupa pace che si fa sul capro espiatorio, il mondo del potere che si nutre del sangue dei giovani, delle donne, dei deboli, talora suo malgrado. Il nostro mondo.