Agosto 2007 Agosto 27 RUVIDO, SPINOSO, FORTE, AUSTERO: IL CARDO LA BOTTEGA DELLO SPEZIALE Roberto Salvioni _____________________________ Il mondo vegetale non finisce mai di stupirci se ci facciamo prendere dalla meravigliosa varietà delle specie e cominciamo ad osservarne le caratteristiche, le differenze, i comportamenti. Passeggiare nelle nostre campagne in questo mese, nel pieno dell'estate, ci permette di constatare che siamo in pieno periodo di fruttificazione: molte piante hanno esaurito il loro ciclo, si stanno seccando dopo essersi riprodotte ed aver fatto frutti e semi (pensiamo a tante graminacee già trebbiate e raccolte nei granai), altre si preparano a dare il meglio di sé in autunno. Mi piace parlare questo mese di quattro specie simili da tutti conosciute, i cardi: tre appartenenti alle composite, cioè il cardo mariano, il più importante in medicina, il cardo santo e la carlina; poi il cardo dei lanaioli delle dipsacacee. Il nome cardo è attribuito comunemente a tutte le piante che pungono: e questo lo constatiamo ogni volta che le avviciniamo, ma dobbiamo riconoscere che sono piante bellissime. Nella Bibbia le piante spinose menzionate sono una ventina, ma almeno due sembrano indicare due specie di cardi. Per il fatto di possedere spine vengono associate a concetti metaforicamente negativi come l'ostilità del suolo e la fatica dell'uomo. Designano inoltre una piccolezza insignificante: tutte le ragazze sono cardi paragonate alla bellezza della sposa; talvolta il cardo è messo in opposizione alla bellezza e alla maestosità del cedro del Libano. Quanto al Nuovo Testamento, che, per indicare il cardo, usa il termine tribolos, insegna che, come i fichi non possono cogliersi dai cardi, così le buone opere non si possono sperare dai falsi profeti (Mt. 7,16). Nella lettera agli Ebrei, la terra incolta che produce solo cardi è soggetta a maledizione e castigo (Ebr. 6,8). Il cardo mariano (Silybum marianum Gaertn.) come gli altri è diffuso nei terreni incolti, ai bordi delle strade, dei corsi d'acqua, dei boschi. È una pianta robusta, alta fino a un metro e mezzo, con capolini color porpora, ben protetti dalle brattee i n f o l i n e : cardo mariano dell'involucro, che sono ricurve e acutamente spinose alle estremità; le foglie sono grandi con denti che terminano in una spina gialla, vicino alle nervature presentano delle macchie bianche che, secondo la leggenda, sono gocce di latte cadute dal seno della Madonna quando fuggiva per sottrarre Gesù alla persecuzione di Erode: da qui l'origine del nome “mariano”. Fin dai tempi antichi è noto per uso alimentare: le foglie giovani si fanno in insalata, le radici e i capolini si cuociono in acqua con altri ortaggi; agli uccelli (cardellini) piacciono molto i suoi frutti, chiamati acheni, simili a piccoli semi. E proprio in questi è contenuta la sostanza più importante, la silimarina. Oggi è usata in varie forme di danno epatico di origine tossi-metabolica (ad es. da alcool, da sostanze tossiche industriali ecc.), nelle alterazioni funzionali del fegato durante e dopo epatiti, nelle epatopatie degenerative croniche (come ad esempio cirrosi e steatosi epatica), nelle epatopatie latenti. La silimarina agisce da antagonista nei confronti di numerosi agenti tossici. Particolare è la sua azione contro i velenosi alcaloidi della Amanita falloide, fungo presente anche nei nostri boschi: la silimarina modifica la struttura della membrana esterna della cellula epatica in modo da impedirne la penetrazione da parte delle tossine, e stimola anche la capacità di rigenerazione del fegato con la produzione di nuove cellule. Alla tisana con i frutti triturati oggi si preferisce l'uso di preparati standardizzati in silimarina, presenti nella produzione industriale farmaceutica. Efficace è anche l'impiego della Tintura Madre: 30 gocce, in acqua, tre volte al giorno. Il cardo santo (Cnicus benedictus L.), diffuso fino a 1000 metri di altezza nelle regioni tirreniche è più piccolo del mariano, ha fusto eretto (10-60 cm ) villoso, lunghe foglie color verde pallido, pennatifide, fiori gialli in capolini vellutati, quasi lanosi, con brattee esterne fogliate ed interne lanceolate, gialle con spine pennate, frutto bruno sormontato da un corto piumetto. Un tempo era considerato un tesoro per i poveri e apprezzato come la panacea di ogni male. L'agronomo francese Olivier de Serres, XVI secolo, ebbe a scrivere che i semi, nel vino bianco, w w w . m u s e o d e l b r u n e l l o . i t Agosto 28 Agosto 2007 cardo santo i n f o l i n e : w w w . m u s e o d e l b r u n e l l o . i t cardo dei lanaioli Agosto 2007 Pagina 29 hanno la proprietà di aiutare la memoria. Anche Shakespeare lo apprezzava come calmante dei cuori ansiosi. In realtà è un eccellente febbrifugo mentre, per uso esterno, un efficace antisettico. La carlina (Carlina acaulis L.), da noi chiamata ironicamente “socera”, ha la caratteristica di essere priva di fusto, o di averlo allo stato embrionale, per cui la pianta rimane aderente al suolo. È pianta perenne: praticamente un grosso e bellissimo capolino da 6 a 12 cm di diametro, con brattee argentee ad aureola, foglie a raggiera, molto spinose (da cui l'ironico nomignolo), radice corta tozza e spesso a spirale. Una volta, nella medicina popolare, gli estratti in aceto della droga, la radice, venivano impiegati esternamente per curare varie forme di infezioni cutanee; oggi non è più usata. Mi piace però riportare un impiego della carlina molto curioso: il fiore può considerarsi un piccolo igrometro naturale tanto è vero che nei casolari di campagna del nord Europa vengono esposti, a mazzi, all'esterno. Quando il tempo è bello e secco le brattee sono ben aperte e distese, in previsione di pioggia o di temporali le brattee si inclinano verso l'interno ricoprendo il capolino. Intrigante per noi montalcinesi è l'origine del nome di questa pianta. Secondo la leggenda, il suo uso sarebbe stato provvidenziale contro la peste per le armate di Carlo Magno (da qui “carlina”), come è riportato anche nel Mattioli e nel Lemery; la leggenda dice anche che la parte più antica di S. Antimo, la cripta del IX secolo, fu voluta proprio da Carlo Magno in ringraziamento per la guarigione delle truppe ammorbate. L'ultima pianta di cui parliamo è il cardo dei lanaioli (Dipsacus fullonum L.). In campagna lo troviamo lungo i fossi, nei terreni incolti e argillosi, tra i ruderi, fino a 800 metri di altezza. È una pianta molto bella che può raggiungere i due metri; il fusto è robusto, ramificato, munito ovunque di corti aculei, e le vette terminano con teste irsute ovoidali, con involucro di lunghe foglioline, foglie intere opposte, nervature spinose e lamine saldate alla base che formano una caratteristica conca per raccogliere la pioggia e la rugiada. Il nome scientifico deriva, nella prima parte, dal greco dipsan akomai, lenisco la sete (per la ragione appena detta) e dal latino fullones, 'lanaioli', CARDI, CARDELLINI e CÀRDINI carlina appunto. E proprio per l'arte della lana è stato molto importante. I ricettacoli ovoidali secchi dei capolini erano impiegati per cardare (da cardo), cioè eliminare la borra superficiale dei tessuti di lana. Si adoperavano manualmente e solo in un secondo tempo furono applicati alle macchine; per questa ragione il cardo dei lanaioli era un tempo coltivato su larga scala. Ho una conoscenza diretta del vicino Casentino ed uno dei suoi prodotti caratteristici è il tessuto di lana che ne prende il nome, da sempre rifinito, pettinato, cardato appunto, con i capolini essiccati di questo cardo. La varietà coltivata (D. sativus, dai capolini, o garzi, più uniformi e compatti) viene seminata in pieno campo a febbraio-marzo; la raccolta dei garzi viene fatta a mano fra luglio e agosto dell'anno successivo, quando sono ben secchi. I garzi vengono ancora oggi usati per garzare (rendere pelosi) i tessuti, cioè per raffinare i panni rendendoli così più morbidi e lucenti. Il cardo vegetale, a differenza di quelli artificiali di acciaio e plastica, presentando le spine anche sulle pagine delle brattee dell'infruttescenza e non solo sulla parte apicale, permette di ottenere una lavorazione più fine che viene eseguita nella produzione di tessuti pregiati e nel tradizionale panno Casentino sul quale viene usato per ottenere il tipico “ricciolo”. Un'ultima breve notizia su un'altra di queste bellissime piante spinose, per ricordarne l'uso nell'antica arte di fabbricazione del formaggio. Questa importantissima funzione alimentare (permette di mantenere a lungo le proprietà nutritive del latte) è stata possibile grazie alla “presura” o “presame” ottenuto dal fiore del cardo i n f o l i n e : selvatico, detto anche sgalera. Ne occorreva mezzo scrupolo per dieci libbre di latte, come riferisce Giovanni Targioni Tozzetti, uno dei fondatori dell'Accademia dei Georgofili di Firenze, nei suoi “Ragionamenti sull'Agricoltura Toscana” (Lucca 1759), un piacevole e dotto saggio su quest'argomento. Occorre qui una breve nota. Non è mai facile verificare le equivalenze fra unità di misura prima dell'introduzione del sistema metrico decimale all'inizio del XIX secolo. La libbra toscana in quell'epoca dovrebbe corrispondere a 339,5 grammi: la libbra si divideva in 12 once, ed ogni oncia in 20 scrupoli, o scropoli, unità di misura usata soprattutto in farmacia pari dunque a 1,41 grammi. L'uso della presura per accagliare il latte per farne formaggio è da qualche tempo in disuso, sostituita da enzimi di origine animale più efficaci e standardizzabili, ma non può sfuggire l'importanza che ha avuto nella storia stessa dell'uomo e della sua alimentazione. Dopo questa panoramica, necessariamente breve, spero che osserveremo queste piante con maggiore simpatia, superando il disagio delle spine per coglierne la bellezza, severa e dolce al contempo. Per chiudere, un noto riferimento letterario di un autore… in tema: … Ma un asin bigio, rosicchiando un cardo] rosso e turchino, non si scomodò: tutto quel chiasso ei non degnò d'un guardo] e a brucar serio e lento seguitò. (G. Carducci, Davanti a San Guido) È la volta del cardo, di questa pianta da cui la fantasia popolare trae un cardare che è 'strigliare' o 'pettinare': «Ora ti cardo io!». Va da sé che l'immaginosa metafora trae origine dal gesto, che è il medesimo sia che si cardi la lana, si strigli un cavallo o si pettini, più o meno ironicamente, qualcuno. L'analogia del gesto presuppone, poi, quella degli oggetti, che siano, dunque, lana, crini o capelli; o, se proprio vogliamo spingerci fino in fondo, pecore, cavalli e uomini. E non sarà troppo difficile trovare nella tradizionale saggezza popolare e nella letteratura, o nella lingua, più di un esempio che conforti la sovrapposizione: dalle gentili immagini del «pastore di anime» e della «pecorella smarrita» a quella più volgare del «branco di pecoroni», e giù giù fino ai mitologici centauri. Il cardo è, per noi, anche l'emblema di un'antica economia – che era tale in tutti i sensi, cioè davvero economica –, un'economia che, appunto, non poteva permettersi sprechi. È un fatto che il cardo bene attecchisce in una civiltà di pastori e, dunque, di lanaioli. Ma è grave errore – per più di un motivo – pensare che un oggetto abbia avuto nelle società antiche un solo valore, un solo significato, un solo uso. Il cardo, infatti, permette un ciclo – un riciclaggio! – assolutamente coerente: carda la lana e accaglia il latte! Non è certo un caso che dove son buoni i cardi – leggi carciofi, come a Chiusure – è buono anche il formaggio. Quanto al cardellino, il dizionario dice che quest'uccello è, come racconta il suo nome, un frequentatore di cardi. Chissà. Tuttavia è bene dire che il cardo, secondo noi, ha a che fare anche con il termine cardine (lat. cardo, inis). Naturalmente, i nostri vocabolari – la nostra civiltà – si guardano bene dal riunire le cose che hanno appena finito di suddividere, analizzare, sparpagliare, sezionare, specializzare, disgregare… Ebbene, immaginate un cardo, alto e diritto sul fusto da cui si diparte una corona di petali (o che so io), da cui si irraggia una ruota. Dal cardo, come dal cardine – quello della porta – si diparte il raggio del cerchio. Cardo e cardine sono il centro del cerchio, la punta del compasso sulla carta geografica: sono metafore di punti cardinali. E non è forse un cardo la rosa dei venti? w w w . m u s e o d e l b r u n e l l o . i t Raffaele Giannetti