APPUNTI SPARSI SULLA TRAGEDIA GRECA
Le Tragedie venivano messe in scena esclusivamente durante le feste dionisiache. Erano
contestualizzate all’interno di vere e proprie gare in cui i poeti tragici concorrevano con tre tragedie
e un dramma satiresco, mentre i poeti comici presentavano una commedia. Lo stato si faceva
garante dello svolgimento delle gare e l’arconte eponimo selezionava gli autori da ammettere e
designava i coreghi: cittadini che di tasca propria provvedevano alle spese delle rappresentazioni,
agli allestimenti e all’addestramento dei cori e che in cambio ricevano lo status di persona sacra per
tutto il tempo in adempievano a tali compiti. Il corego la cui opera patrocinata risultava vittoriosa
offriva un ex voto a Dioniso. Giudici delle gare erano dieci cittadini estratti a sorte dall’arconte, uno
per ogni tribù. Negli archivi di Stato si mantenevano le didascalie: documenti annuali contenenti le
registrazioni dei nomi dei singoli autori, i titoli delle loro opere, i coreghi coinvolti, il verdetto
finale e, ovviamente, il nome dell’arconte eponimo per la datazione.
ORIGINI
A tutt’oggi il problema delle origini della tragedia costituisce argomento di forte dibattito. La parola
è di orgine attica, anche se la parola dramma è invece peloponnesiaca. Etimologicamente
sembrerebbe derivare da “canto per il capro” in cui il capro però poteva benissimo costituire il
premio della gara. Secondo il Bentley invece deriverebbe da “canto dei capri” quindi il canto degli
attori travestiti da capri, o da satiri. La prima interpretazione separa di netto la tragedia dal dramma
satiresco, la seconda invece ne ricostituisce l’unità. Le innovazioni apportate al ditirambo da
Arione, VII a. C., durante la sua permanenza a Corinto presso la corte del tiranno Periandro furono
senza ombra di dubbio epocali: fu il primo a dare un titolo ai suoi componimenti utile per una
immediata identificazione dell’argomento dei versi. Sembrerebbe plausibile che la tragedia sia una
evoluzione del dramma satiresco, a sua volta evoluzione del ditirambo; L. R. Farnell e W.
Ridgeway hanno però ipotizzato una sua origine estremamente più antica, facendola derivare da una
forma mimico - drammatica in onore degli eroi strettamente connessa a riti magico - religiosi della
fecondità, assimilandola alle danze animiste dei popoli primitivi e retrodatandola in questo modo
alla preistoria. Secondo A. Dieterich e M. Nilsson, invece, deriverebbe dai lamenti funebri che si
sarebbero commisti in un secondo momento con l’elemento dionisiaco. Aristotele, massima fonte
antica in merito, ci informa che la tragedia, come la commedia, da principio era improvvisata, ed
ebbe origine da “coloro che suonavano ditirambo”, mentre la commedia da “coloro che intonavano i
canti fallici”. Non ci è molto di aiuto considerando che ci sono rimaste pochissime informazioni
circa i ditirambi. La tragedia poi ebbe numerose mutazioni fino a raggiungere la sua maturità: il
numero degli attori, l’estensione, lo stile, il metro, la disposizione degli episodi.
In seguito a questa lunga evoluzione nel corso di oltre duemila anni, riesce arduo dare una
definizione univoca al termine più generale di tragedia, a seconda dell’epoca storica o dell’autore.
Nel medioevo, quando poco o nulla si sapeva del genere, il termine assunse il significato di opera a
stile tragico, e stile tragico divenne sinonimo abbastanza generico di poesia o stile alto, illustre,
come traspare nel De Vulgari Eloquentia di Dante Alighieri. Il motivo della tragedia greca è
strettamente connesso con l’epica, cioè il mito, ma dal punto di vista della comunicazione la
tragedia sviluppa mezzi del tutto nuovi: il mythos (μύθος, parola, racconto) si fonde con l’azione,
cioè con la rappresentazione diretta (δρᾶμα, dramma, deriva da δρὰω, agire), in cui il pubblico vede
con i propri occhi i personaggi che compaiono come entità distinte che agiscono autonomamente
sulla scena (σκηνή, in origine il tendone dei banchetti), provvisti ciascuno di una propria
dimensione psicologica.
STRUTTURA
La tragedia greca è strutturata secondo uno schema rigido, di cui si possono definire le forme con
precisione. La tragedia inizia generalmente con un prologo (da prò e logos, discorso preliminare),
che ha la funzione di introdurre il dramma; segue la parodo, che consiste nell’entrata in scena del
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coro attraverso dei corridoi laterali, le pàrodoi; l’azione scenica vera e propria si dispiega quindi
attraverso tre o più episodi (epeisòdia), intervallati dagli stasimi, degli intermezzi in cui il coro
commenta, illustra o analizza la situazione che si sta sviluppando sulla scena; la tragedia si conclude
con l’esodo (èxodos).
Il prologo, secondo la definizione data da Aristotele nella Poetica è “tutta la parte di tragedia che
precede la parodo del coro”, cioè la parte recitata compresa tra l’inizio del dramma e l’entrata del
coro. Questa parte può essere costituita da un monologo o da un dialogo, ed ha la funzione di
introdurre il dramma; in alcuni casi il personaggio o i personaggi che recitano il prologo non
avranno più alcuna parte nella tragedia. Di solito nel teatro di Euripide il prologo è nella prima
parte di tipo monologico, e ha la funzione di fissare le coordinate temporali e spaziali nelle quali si
svilupperà la tragedia esponendone l’antefatto; in Eschilo e Sofocle invece il prologo ci introduce
in medias res, in quanto coincide di solito con l’inizio dell’azione drammatica.
La parodo è il primo canto che il coro esegue nel corso della tragedia, quando entra in scena
attraverso dei corridoi laterali, chiamati pàrodoi. In tutte le tragedie di Eschilo e in buona parte di
quelle di Sofocle è un canto che ha forma compiuta, e il rapporto dialogico tra corifeo e attori ha
inizio nel primo episodio, dopo, cioè, la conclusione del canto; nelle ultime opere di Sofocle e in
quelle di Euripide la parodo assume una nuova forma, in quanto il coro instaura un dialogo con un
personaggio sin dal primo intervento: l’estremizzazione di questo tipo di parodo si ha nella variante
detta commatica, nella quale il coro dialoga con l’attore che risponde in versi lirici, instaurando un
vero e proprio dialogo lirico (kommòs).
La tragedia si sviluppa attraverso tre o più episodi, che contengono le parti dialogate tra gli attori;
secondo la tradizione più antica l’attore era originariamente uno solo e dialogava con il coro; poi
con Eschilo sarebbe stato introdotto un secondo attore e con Sofocle un terzo: al numero massimo
di tre attori potevano esserne aggiunti degli altri (kophà pròsopa, letteralmente “personaggi sordi”),
ma muti e in veste di comparse. Nel dialogo interviene anche il coro, di solito con brevi battute di
commento affidate al “corifeo”, ossia il capocoro. La recitazione vera e propria era in trimetri
giambici, ma esisteva anche una forma di recitazione accompagnata dal suono del flauto che si
definisce parakataloghè. Il dialogo tragico si sviluppa attraverso alcune forme tipiche: la rhèsis, la
sticomitia (stichomythìa) e la monodìa. La rhèsis (discorso) è il monologo, più o meno esteso, di un
personaggio. Di solito la rhèsis è tipica del messaggero, che entra in scena per narrare eventi che si
svolgono fuori da essa; la rhèsis può trovarsi anche all’interno di parti dialogate, quando due
personaggi si contrappongono affrontandosi in un agone dialettico, in cui ciascuno sostiene le
proprie ragioni in conflitto con l’avversario. Spesso è costituita da una narrazione di fatti di sangue,
che non possono essere narrati sulla scena. Stichomythìa significa “battuta di un verso solo”, e
infatti si ha quando il dialogo si fa più concitato e i personaggi si scambiano battute di un verso
ciascuna. Quando un verso è diviso tra due personaggi si prla di antilabè. La monodìa si ha quando
un attore canta in metri lirici anziché recitare. Talvolta avviene un duetto tra il coro e l’attore
(kommòs) oppure tra due attori (amoibaios).
Gli stasimi sono degli intermezzi destinati a separare tra loro gli episodi, destinati ai canti del coro,
dove questo commenta, illustra e analizza la situazione che si sta sviluppando sulla scena. Come
nella parodo il canto corale è eseguito da tutti gli elementi del coro ed è composto da una serie di
coppie strofiche (dette sigizie) composte ciascuna di una strofe e un’antistrofe, tra le quali esiste una
corrispondenza perfetta per quanto riguarda la struttura metrica e il numero di versi. Comunque nel
corso del tempo la funzione del coro divenne sempre meno importante, tanto che in alcuni stasimi
di Euripide si ha la sensazione che siano dei virtuosismi poetici senza reali collegamenti con la
trama.
L’esodo è la parte conclusiva della tragedia, che finisce con l’uscita di scena del coro. Spesso,
soprattutto in Euripide, nell’esodo si fa uso del deus ex machina, ovvero un personaggio divino che
viene calato sulla scena mediante una macchina teatrale per risolvere la situazione quando l’azione
è tale che i personaggi non hanno più vie d’uscita.
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MIMESI E CATARSI
Come è già stato detto, il primo studio critico sulla tragedia è contenuto nella Poetica di Aristotele.
In esso troviamo elementi fondamentali per la comprensione del teatro tragico, in primis i concetti
di mimesi (μίμησις, dal verbo μιμεῖσθαι, imitare) e di catarsi (κάθαρσις, purificazione). Scrive nella
Poetica: “La tragedia è dunque imitazione di una azione nobile e compiuta [...] la quale per mezzo
della pietà e della paura finisce con l’effettuare la purificazione di cosiffatte passioni”. In parole
povere, le azioni che la tragedia rappresenta non sono altro che le azioni più turpi che gli uomini
possano compiere: la loro visione fa sì che lo spettatore si immedesimi negli impulsi che le
generano, da una parte empatizzando con l’eroe tragico attraverso le sue emozioni (pathos),
dall’altra condannandone la malvagità o il vizio attraverso la hýbris (ὕβρις - Lett. “superbia” o
“prevaricazione”, i.e. l’agire contro le leggi divine, che porta il personaggio a compiere il crimine).
La nemesis finale rappresenta la “retribuzione” per i misfatti, punizione fa nascere nell’individuo
proprio quei sentimenti di pietà e di terrore che permettono all’animo di purificarsi da tali passioni
negative che ogni uomo possiede. La catarsi finale, per Aristotele rappresenta la presa di coscienza
dello spettatore, che pur comprendendo i personaggi, raggiunge questa finale consapevolezza
distaccandosi dalle loro passioni per raggiungere un livello superiore di saggezza. Il vizio o la
debolezza del personaggio portano necessariamente alla sua caduta in quanto predestinata (il
concatenamento delle azioni sembra in qualche modo essere favorito dagli déi, che non agiscono
direttamente, ma come deus ex machina). La caduta dell’eroe tragico è necessaria, perché da un lato
possiamo ammirarne la grandezza (si tratta quasi sempre di persone illustri e potenti) e dall’altra
possiamo noi stessi trarre profitto dalla storia. Per citare le parole di un grande grecista, la tragedia
«è una simulazione», nel senso utilizzato in campo scientifico, quasi un esperimento da laboratorio:
«La tragedia monta un’ esperienza umana a partire da personaggi noti, ma li installa e li fa
sviluppare in modo tale che [...] la catastrofe che si produce, quella subita da un uomo non
spregevole né cattivo, apparirà come del tutto probabile o necessaria. In altri termini, lo spettatore
che vede tutto ciò prova pietà e terrore, ed ha la sensazione che quanto è accaduto a quell’individuo
avrebbe potuto accadere a lui stesso.»
(Jean-Pierre Vernant, Mito e tragedia nell’antica Grecia. La tragedia come fenomeno sociale
estetico e psicologico, Einaudi 1976)
SCOPI
Scopo ultimo delle rappresentazioni, specie nell’Atene del V secolo, era l’educazione dei cittadini.
In uno stato democratico dove i cittadini avevano diritto di voto, dove non esisteva ancora un
sistema pubblico di istruzione, dove i libri erano ancora una rarità e dove la diffusione del sapere
era affidata prettamente all’auralità i poeti potevano essere impiegati con valenza civile: fornivano a
grandi masse principi educativi spesso in sintonia con una o l’altra fazione politica con uno stile
facilmente assimilabile anche da coloro che erano del tutto privi di alfabetizzazione; fra tutte le
forme di divulgazione sperimentate in quel periodo la più adatta si dimostrò quella drammatica.
L’odio per la tirannide, l’amore per la patria, il sommo valore della libertà, la venerazione negli Dei
e negli eroi: con questi temi se cercava di creare dei buoni e docili cittadini.
TESPI
Si è soliti attribuire l’invenzione della tragedia al vincitore del primo premio del primo concorso
drammatico di Atene nel 534 a.C. Nato nel 566, ebbe la geniale intuizione di separare l’attore dal
coro, mettendolo così in grado di dare il via all’azione drammatica di un’intensità ben superiore a
quella cui si limitavano le semplici canzoni drammatiche intonate dai cori. Orazio ci informa che
Tespi era solito portare la sua arte, e i suoi artisti, in giro per l’Attica con un carro, fermandosi di
città in città per dare vita al suo spettacolo: attori con visi dipinti formavano il coro mentre un terzo
attore recitava i versi dell’opera. Gli argomenti storici erano temi ricorrenti delle sue
rappresentazioni. Questa innovazione non raccolse consensi unanimi fra i suoi contemporanei:
Solone la riteneva decisamente blasfema e disonorevole.
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FRINICO
Fu l’allievo di Tespi. Alcuni tendono ad attribuirgli l’invenzione della tragedia ad argomento storico
quando in realtà sappiamo che il suo maestro era già solito portare in scena tali opere; in realtà
Frinico ebbe la geniale intuizione di allargare la trama portando in scena una seconda parte
dell’opera, praticamente l’argomento veniva trattato da due tragedie rappresentate una di seguito
all’altra. Fu quindi padre della bilogia che precorre la trilogia classica. Altra innovazione epocale da
lui apportata è stata l’aver introdotto dei personaggi femminili all’interno delle sue opere. Colse la
sua prima vittoria alle feste dionisiache di Atene nel 511. La sua opera più nota è sicuramente La
presa di Mileto, passata alla storia in quanto fruttò all’autore una pesante ammenda da versare nelle
casse della polis in quanto, essendo argomento più che attuale, aveva decisamene recato turbamento
nell’animo degli spettatori; ce ne rimangono alcuni frammenti. Delle altre sue opere rimangono solo
alcuni titoli: Fenicie, Danaidi, Alcesti, Tantalo, Atteone.
ESCHILO
Nacque da famiglia aristocratica nel 525-24 a C. ad Eleusi, cittadina dell’Attica satellite di Atene.
La sua adolescenza fu segnata dai tragici, ma al contempo grandiosi, avvenimenti che sconvolsero
la vita di tutta la cittadinanza ateniese: la tirannia di Ippia ultimo dei pisistradi era caduta nel 510,
nel 508 Clistene presentò alla cittadinanza la sua riforma che introdusse nella città la democrazia,
dal 490 datano invece i tentativi persiani di sottomettere le città stato della Grecia, un lasso di tempo
di oltre 10 anni in cui alla fine e con sforzi titanici i lillipuziani Greci sconfissero definitivamente la
smisurata Persia. Troppo giovane per prendere parte ai primi avvenimenti, sappiamo con certezza
che non solo combatté a Maratona insieme ai suoi 2 fratelli, come tutti i cittadini di Atene atti alle
armi, ma addirittura si distinsero per valore al punto che Atene ordinò un dipinto che
commemorasse le loro imprese. Nel 480 combatté i Persiani sia all’Artemisio che a Salamina e nel
479 fu presente anche a Platea. Ovviamente assistette inerme al sacco di Atene da parte degli
invasori Persiani, sacco che permetterà poi la riedificazione monumentale dell’età di Pericle.
Anche se certamente gran parte della sua produzione letteraria successiva attingerà a piene mani
dalle esperienza di vita vissuta guerreggiando contro i Persiani, Eschilo iniziò già nel 499, a ventisei
anni, a farsi conoscere al pubblico ateniese con la sua prima opera teatrale. Fra una fase e l’altra
della decennale lotta per la sopravvivenza stessa della Grecia vinse, nel 484, il primo premio alle
feste di Dioniso, concorsi dedicati alla rappresentazione delle tragedie. Si apre per lui un periodo
d’oro che durerà addirittura una generazione. Nel 476 e nel 470 si recò a Siracusa ove fu ricevuto
dalla corte di Ierone I con i massimi onori. Nel 468 perdette, per la prima volta dal 484, il primo
premio per le sue opere teatrali, scalzato dal giovane astro ascendente di Sofocle, ma già nel 467
riconquistò la supremazia con i 7 Sette contro Tebe. La presentazione della trilogia dell’Orestiade,
nel 458, gli fece ottenere, probabilmente, il maggiore dei suoi trionfi in patria della sua intera
carriera, ma, ahimé, fu anche l’ultimo. Nel 456 tornò nuovamente in Sicilia, questa volta a Gela, e
vi morì o nello stesso anno o nel 455.
Una buona porzione delle sue tragedie è poggiata su di un sostrato storico che riflette uno spaccato,
in chiave drammatica, della società umana e delle sue strutture. La storia funge da contenitore per
contestualizzare le sue opere e renderle meglio comprensibili al suo pubblico.
Il mito di Prometeo rappresenta nella concezione filosofica di Eschilo la nascita della civiltà umana:
il titano rivendica su di sé il merito di aver donato l’unico mezzo agli uomini capace di innalzarli
dallo stadio di bestie a quello di esseri senzienti; il fuoco è alla base di ogni arte e di ogni
innovazione ma in realtà Prometeo ha fatto molto di più per gli uomini: con il suo sacrificio ha
donato loro la coscienza, la consapevolezza di essere in grado di fare qualcosa di più e di non essere
solo degli animali. La nostra civiltà è in sintesi il dono elargitoci da Prometeo, dono che però gli è
costato la sua tragedia.
Nelle sue tragedie, per lo meno in quelle che ci sono rimaste, il dolore è il perno intorno al quale
ruota il tutto: ne costituisce l’elemento caratterizzante per antonomasia. Ma questo non vuol dire
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che ogni tragedia debba per forza di cose avere una conclusione luttuosa, alcune delle sue tragedie
superano l’evento negativo recando quasi un prodromo di buon fine, ma il dolore è sempre presente.
La grandezza di Eschilo sta nell’essersi posto il problema del nesso esistente fra il dolore e il senso
della vicenda umana: il dolore è sia conseguenza del male, ma anche indispensabile tappa sulla via
della saggezza che Zeus ha fornito agli uomini. Già in Esiodo troviamo il concetto che l’esperienza
dolorosa sia fonte di educazione, ma è Eschilo ad agganciarlo alla visione divina e a fornire quindi
una spiegazione metafisica della sua causa prima. Se si esamina il dolore con gli strumenti forniteci
dal grande tragediografo, questo assume una connotazione del tutto nuova: da esperienza negativa
diventa positiva in quanto non solo rientra nell’ordine naturale delle cose ma Zeus ce lo invia per
farci crescere.
Basti dire che fu Eschilo ad aggiungere un secondo attore a quello unico che Tespi aveva
contrapposto al coro; si completava in tal modo la trasformazione del cantico dionisiaco da oratorio
in vero e proprio dramma. Tutte le tragedie superstiti presentano il secondo attore.
La presenza del secondo attore sconvolge la concezione scenica della precedente tragediografia: un
attore solo difficilmente avrebbe potuto realizzare una vera e propria azione drammatica. Con la
comparsa del secondo attore la primitiva tragedia si trasforma in un dramma tragico. Inizialmente
non in contrasto con il primo attore ma semplicemente in ausilio allo svolgimento scenico della
tragedia, spiega gli antefatti o chiarisce gli avvenimenti esterni che non possono essere
rappresentati, successivamente acquista personalità e spessore fino a diventare infine figura di
rilievo e di contrasto. In questa nuova impostazione diventa il dialogo parte portante della tragedia e
il coro, a meno che non sia esplicitamente previsto che sia protagonista, viene relegato a supporto
del recitativo degli attori.
Ulteriore innovazione di portata epocale fu l’aver ideato lo svolgimento dei tre drammi della trilogia
secondo un’unità tematica; questa innovazione, che viene detta anche trilogia legata e che
consisteva nel far presentare a ciascuna delle tre tragedie un aspetto – un momento di uno stesso
tema, venne introdotta a causa della necessità avvertita di inserire il pathos del protagonista del
singolo dramma in un quadro decisamente più ampio dove la vicenda potesse trovare una più piena
espressione.
Il primo esempio di trilogia legata di cui siamo a conoscenza è rappresentato dalla storia della
famiglia dei Labdacidi, 467, di cui ci è rimasta l’ultima tragedia, i Sette contro Tebe; le prime due,
il Laio e l’Edipo sono andate perdute.
Inoltre in alcune trilogie, come nell’Orestea, l’evento tragico era superato in una conclusione
positiva. Nell’ultima parte della sua vita sperimentò l’introduzione in scena di un terzo attore: anche
se Aristotele attribuisce questa innovazione a Sofocle, Temistio la da il merito invece a Eschilo;
resta il fatto che il terzo attore è presente nella Oresta anche se non ha un’importanza rilevante.
Anche se conosciamo oltre 80 suoi titoli, ci sono giunte solo 7 tragedie: i Persiani, i Sette contro
Tebe, le Supplici, il Prometeo incatenato, l’Orestea (Agamennone, Coefore, Eumenidi). Tra queste,
le prime tre sono opere minori; la più famosa è il Prometeo incatenato; le tre maggiori formano la
trilogia dell’Orestiade.
Tutte queste opere appartengono alla fase finale della sua vita, ovverosia dal 472, i Persiani, al 458,
l’Orestea. Nonostante siano ristrette in un arco cronologico decisamente ristretto presentano una
evoluzione costante sia di tecnica che di concezione drammatica: sembra plausibile azzardare che
nel quarto di secolo intercorso fra la sua prima tragedia, 499 di cui ignoriamo il titolo, e il 472
prima data delle tragedie pervenuteci Eschilo si attenne ai canoni tracciati dai primi tragediografi.
SOFOCLE
Nacque ad Atene nel 497 da una famiglia di origine borghese e morì nel 406; nei suoi oltre 90 anni
di vita ebbe la fortuna di assistere al V secolo dal palco eccezionale rappresentato da Atene: dalla
lotta contro i Persiani all’affermazione di Atene sul resto della Grecia, dalla Guerra del Peloponneso
alla sua tragica fine. Originario di Colono, piccolo sobborgo di Atene, era figlio di un fabbricante di
spade: la sua famiglia, a causa del mestiere del padre, fu una delle poche a uscire dalle guerre
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persiane non solo non impoverita ma anzi decisamente agiata. Di lui le testimonianze coeve ci
tramandano l’immagine di una persona affascinante, intelligente se non addirittura geniale, affabile,
avvenente fisicamente e ci informano che godette sempre di una eccellente salute. Inoltre era
abilissimo nella lotta quanto nella musica, nel gioco della palla così come suonatore di arpa; le su e
virtù lo misero tanto in mostra fra i suoi concittadini da farlo scegliere come guida per la gioventù
di Atene nei canti e nelle danze predisposti per celebrare la vittoria di Salamina. La statuaria
superstite ci mostra che manterrà la prestanza fisica fino in vecchiaia. Amico personale di Pericle,
fu impegnato socialmente nel 443, come amministratore del tesoro della lega di Delo, e come
stratega nel 441, conto Samo, e nel 427; nel 413, dopo la sconfitta di Siracusa, collaborò ad un
progetto di costituzione oligarchica. Però più che il personaggio politico gli Ateniesi lo amarono
come poeta tragico; come tale produsse non solo ben 123 opere, per buona parte risalenti all’ultima
fase della sua vita, ma vinse addirittura 18 volte il primo premio. Nel 468, ad appena 27 anni,
strappò il primo premio per la tragedia a Eschilo. Ebbe un primo figlio, Iofonte, e poi un secondo
dalla cortigiana Theoride; il primogenito provò a portare in tribunale il padre per non perdere la
propria eredità denunciandolo di incompetenza: Sofocle lesse in anteprima ai giurati alcuni cori
dell’Edipo a Colono e questi non solo non lo condannarono ma lo scortarono a casa in trionfo. Alla
sua morte il re di Sparta Lisandro permise ai suoi amici di uscire da Atene assediata per seppellirlo
nella tomba di suo padre a Decelea.
Sofocle esamina il concetto di colpa e introduce una distinzione tra il fatto e l’intenzione che ha
portato a commettere il fatto stesso.
Fino a questo periodo i Greci concepivano la colpa come un dato oggettivo che non veniva distinta
dalla responsabilità: l’artefice di una azione ne era anche il responsabile e l’ambiente ne dipendeva
strettamente.
Le sue tragedie affondano le radici nel problema uomo: si costruisce e fa meditare su come l’uomo
si relaziona con gli dei, con gli altri uomini ma soprattutto con se stesso. Analizza i comportamenti
umani cercando di stabilire quali siano i più adeguati da adottare nei conflitti, nelle difficoltà e nei
contrasti della quotidianità, e, qualora non trovasse una soluzione appropriata, invita a prendere
piena coscienza circa le difficoltà insite nella vita. Per Sofocle l’uomo e il Dio sono differenti in
maniera incommensurabile per quanto inerente la potenzialità d’agire ma, nel contempo, sono
estremamente simili, in quanto la divinità si rifà all’uomo come norma di condotta, nei meri valori
assoluti: esistono alcune leggi immortali, non scritte, che un mortale non può trasgredire, risiedono
nel cuore e sono alla portata d’precchio di ciascuno che le voglia ascoltare. Leggi semplici come:
onora Zeus e la giustizia, parla e agisci con onore, onora i morti e i santi. Nelle sue tragedie sono
più vivi che mai gli antichi ideali dell’areté, senso dell’onore. Gli eroi da lui portati in scena sono
alla ricerca della positività o, per meglio dire, del motivo scatenante che renda la vita degna di
essere vissuta o, addirittura, di essere sacrificata.
Stravolse la trilogia eschilea spezzandone il legame tematico. Non fu una scelta di poco conto:
Eschilo aveva introdotto il legame tematico per poter meglio sviscerare gli argomenti trattati,
Sofocle la spezza invece per concentrare la vicenda, aumentarne il ritmo narrativo e per mettere in
risalto il dramma dell’eroe. Innalzò il numero dei coreuti da 12 a 15: non tanto per aumentarne la
mera potenza vocale, bensì per poter usufruire di due semicori, ognuno dotato di assistente proprio,
e uno pseudo attore in più in scena, dato che il corifeo veniva quasi del tutto svincolato dai
precedenti compiti.
Secondo Aristotele introdusse il terzo attore per primo, però cronologicamente lo troviamo prima
nelle tragedie di Eschilo.
Sono rimaste solamente 7 delle sue tragedie: Trachinie, Aiace, Antigone, Edipo re, Elettro,
Filottete, Edipo a Colono. Sebbene tutte siano ascrivibili agli ultimi 40 anni di vita, se ne possono
datare con certezza solamente tre: l’Antigone risale al 442, il Filottete risale al 409 e l’Edipo a
Colono subito prima della morte del poeta. Fino a che non perdette la voce, era solito recitare egli
stesso una delle parti.
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EURIPIDE
Nacque ad Atene intorno al 485 a.C.,ma secondo la tradizione, si fa risalire il suo giorno di nascita
al giorno della famosa battaglia di Salamina per creare una linea di continuità tra i tre maggiori
tragediografi greci. Nacque da una famiglia ateniese rifugiata sull’isola per sfuggire ai Persiani. Il
suo nome verrebbe dall’Euripe, il canale dove si svolse la battaglia. Aristofane suggerisce a più
riprese nelle sue commedie la bassa estrazione sociale del poeta, confermato da Teofrasto. Tuttavia,
la sua cultura dimostra una educazione raffinata, acquisita dallo studio presso sofisti come
Protagora, che non sarebbe stata possibile senza una condizione sociale agiata. Avrebbe messo
insieme una ricca biblioteca, una delle prime di cui si faccia menzione. Euripide partecipò anche a
giochi ginnici, venendo incoronato almeno una volta.
Contemporaneo di Socrate, ne divenne amico. Si propose pubblicamente come tragediografo a
partire dal 455 a.C.. La sua prima opera, Peliadi, ottenne il terzo premio. Divenne presto popolare.
Plutarco racconta, nella vita di Nicia, come nel 413 a.C., dopo il disastro navale di Siracusa, i
prigionieri ateniesi in grado di recitare una tirata di Euripide venissero rilasciati. Verso il 408 a.C.,
Euripide si ritira a Magnesia, poi in Macedonia, alla corte di Archelao, dove muore, si dice,
sbranato dai cani (ma la notizia è quantomeno dubbia). Solo dopo la sua morte la Grecia lo
riconosce in tutto il suo valore e le sue opere divengono famose. Gli ateniesi gli dedicano nel 330
a.C. una statua di bronzo nel teatro di Dioniso.
Le peculiarità che distinguono le tragedie euripidee da quelle degli altri due drammaturghi sono da
un lato la ricerca di sperimentazione tecnica attuata da Euripide in quasi tutte le sue opere e la
maggiore attenzione che egli pone nella descrizione dei sentimenti, di cui analizza l’evoluzione che
segue il mutare degli eventi narrati.
La struttura della tragedia euripidea è molto più variegata e ricca di novità rispetto al passato,
soprattutto per effetto di nuove soluzioni drammatiche, per un maggiore utilizzo del deus ex
machina, soprattutto nelle tragedie più tarde, e per la progressiva svalutazione del ruolo drammatico
del coro, che tende ad assumere una funzione di pausa nell’azione. Anche lo stile risente della
ricerca euripidea di rompere con la tradizione, mediante l’inserimento di parti dialettiche per
allentare la tensione drammatica e l’alternanza delle modalità narrative.
La novità assoluta del teatro euripideo è comunque rappresentata dal realismo con il quale il
drammaturgo tratteggia le dinamiche psicologiche dei suoi personaggi. L’eroe descritto nelle sue
tragedie non è più il risoluto protagonista dei drammi di Eschilo e Sofocle, ma sovente una persona
problematica ed insicura, non priva di conflitti interiori, le cui motivazioni inconsce vengono
portate alla luce ed analizzate.
Proprio lo sgretolamento del tradizionale modello eroico porta alla ribalta del teatro euripideo le
figure femminili. Le protagoniste dei drammi, come Andromaca, Fedra e Medea, sono le nuove
figure tragiche di Euripide, il quale ne tratteggia sapientemente la tormentata sensibilità e le
pulsioni irrazionali che si scontrano con il mondo della ragione.
Euripide espresse le contraddizioni di una società che stava cambiando: nelle sue tragedie spesso le
motivazioni personali entrano in profondo contrasto con le esigenze del potere, e con i vecchi valori
fondanti della polis. Il personaggio di Medea, ad esempio, arriva a uccidere i propri figli pur di non
sottostare al matrimonio di convenienza di Giasone con la figlia del re. Aristofane, il maestro
riconosciuto della commedia, ci offre ne Le rane la cronaca del tempo riguardo alla disputa fra i
tragediografi, e del pubblico che parteggiava per l’uno o per l’altro, presentando Euripide come un
rozzo portatore di nuovi costumi. Il teatro di Euripide va considerato come un vero e proprio
laboratorio politico, non chiuso a se stesso, ma al contrario, affine ai mutamenti della storia, fino
all’accettazione ultima del regno di Macedonia.
Delle circa 90 tragedie da lui composte ce ne sono giunte solamente 17: Alcesti, Andromaca,
Baccanti, Ecuba, Elena, Elettro, Eracle furente, Eraclidi, Fenicie, Ifigenia in Aulide, Ifigenia fra i
Tauri, Ione, Ippolito, Medea, Oreste, Supplici, Troiane. La più antica pervenutaci è l’Alcesti, 431, a
cui si contrappongono le due opere postume delle Baccanti e dell’Ifigenia in Aulide. Alcuni gli
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attribuiscono anche la tragedia Reso, probabilmente frutto di un imitatore del IV secolo.
Sicuramente di Euripide è invece il dramma satiresco Ciclope.
BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO:
• Max Pohlenz, La tragedia greca, Paideia 1979
• Umberto Albini, Nel nome di Dioniso. Il grande teatro classico rivisitato con occhio
contemporaneo, Garzanti 1999
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