Parte quinta
Pittura e musica: Gauguin
Fig. 67 Paul Gauguin in una foto del 1891 dell’amico e pittore Boutet de Monvel
1. Paul Gauguin fra pittura e musica
“Comme l’azur du ciel, les oiseaux et les fleurs,
Ses parfums, ses chansons et ses douces chaleurs!”1
Charles Baudelaire, Les fleurs du mal et autres poèmes
“Si tratta di un fatto straordinario che l’uomo d’Europa non si definisca
per la razza, la lingua o i costumi, ma piuttosto
per i suoi desideri e per la vastità della sua volontà”.
Paul Valéry, La crisi del pensiero e altri “saggi quasi politici”
“Upaupa Shneklud”: così titola un ritratto di Paul Gauguin del 1894, custodito attualmente
presso il Museum of Art di Baltimora. Al di là del valore del dipinto in sé, quest’opera rappresenta
un soggetto di notevole interesse – dal nostro punto di vista – in quanto il maestro coglie in un
momento particolare il suo soggetto: egli sta, infatti, suonando un violoncello. Il suo sguardo è
visibilmente concentrato, intenso; la mano regge l’arco che sfiora le corde dello strumento, la mano
sinistra è posizionata verso la metà della tastiera; il violoncello ha un colore molto aranciato,
intenso, carico. Gauguin, quindi e l’arte dei suoni. E non è certamente soltanto questa, come
vedremo, l’unica testimonianza dei suoi interessi musicali.
Pur non disponendo dell’intero corpus delle lettere e dei suoi scritti2 possiamo tuttavia farci
un’idea sufficientemente chiara dell’importanza che la musica aveva nella sua vita. L’epistolario e
gli scritti costituiscono un materiale prezioso per la comprensione dell’uomo e dell’artista Gauguin.
Il che era, in fondo, per così dire la stessa cosa, tanto strette e intrecciate risultarono essere – da un
certo punto in poi – le sue esperienze di vita e di pittore. Una scrittura asciutta, la sua, priva di
cedimenti all’effetto letterario, al desiderio di stupire i suoi interlocutori, i suoi lettori ma che non
manca di una certa ‘musicalità’, di una certa ‘poesia’ in qualche punto. Una scrittura dove non sono
assenti riferimenti alle sue difficoltà, economiche, familiari; osservazioni critiche sulla civiltà
europea e sulla superiorità di quella dei popoli “selvaggi”; richiami letterari (Mallarmé, Verlaine),
opinioni sui pittori che amava (Giotto, Raffaello, Leonardo, Rembrandt, Rubens, Monet, Cézanne,
Degas, Renoir, Van Gogh, Hokusai, ecc.), che non amava o che lo avevano deluso dopo essere stati
da lui aiutati (Emile Bernard). Dure sono le sue parole quando polemizza con i critici, mentre il
padre dolce e affettuoso emerge nelle lettere alla moglie quando parla del figlio Clovis e della figlia
Aline.
Nelle pagine che seguono cercheremo di cogliere quelle che ci sembrano essere le tematiche più
sentite dell’uomo, dell’artista Gauguin: la consapevolezza del suo destino di pittore e di
‘caposcuola’; l’ansia di libertà; l’attenzione per la musica3; la tensione spirituale così come esse
emergono dai suoi scritti, dall’epistolario e, sans doute, da alcune delle sue stesse opere pittoriche,
da alcune sue sculture.
Quando Gauguin si rivolge ai suoi interlocutori, siano essi la moglie, gli amici o i critici
d’arte, usa spesso richiamarsi a qualche esperienza di ascolto musicale, o utilizza espressioni di
1
C. Baudelaire, Les fleurs du mal et autres poèmes, Paris, Garnier-Flammarion, 1964, p. 41.
In questo senso gli studiosi di Monet sono certamente in vantaggio avendo a disposizione, tra l’altro, ben 2.400 lettere
del grande maestro impressionista!
3
Questo aspetto è del tutto assente nelle pur pregevoli pubblicazioni dedicate all’artista. Oltre agli scritti di Gauguin che
citerò nel corso del mio studio, tra i lavori che ho tenuto presente, oltre alla monumentale opera di F. Cachin, Gauguin,
Paris, Flammarion, 1988, segnalo: A. M. Damigella, Gauguin, Firenze-Milano, Giunti, “Art Dossier”, n. 32, febbraio,
1989 e ID., Gauguin a Tahiti, Firenze-Milano,Giunti, “Art Dossier”, n. 216; AAVV, Ia Orana Gauguin, Paris, Somogy
éditions d’art, 2003; I. F. Walter, Gauguin, Köln, Taschen, 2013.
2
carattere musicale in diversi tentativi di stabilire una relazione tra colori e suoni4. Per giudicare un
libro, scrive in Notes synthétiques, ci vuole intelligenza e istruzione; per giudicare la pittura e la
musica, oltre all’intelligenza e alla scienza artistica, sono necessarie anche delle sensazioni speciali
nella natura. Bisogna essere a suo parere nato artista, in una parola, e pochi sono gli eletti tra i
chiamati5. La musica strumentale possiede, come i numeri, una unità come base; in uno strumento si
parte da un tono. Nella pittura si parte da più toni. Un colore verde accanto ad uno rosso non da un
bruno rosso come mescolanza, ma due note vibranti. Il senso del colorista è propriamente l’armonia
naturale. Come i cantanti, i pittori cantano faux, qualche volta: il loro occhio non ha armonia.
Nell’arte decorativa il colore diviene essenzialmente musicale. Nella cattedrale noi amiamo
ascoltare quest’ordine, traduzione auditiva dei nostri pensieri; il colore è, allo stesso modo, una
musica, polifonia, sinfonia. Nel mese di novembre del 1891, durante il primo soggiorno a Tahiti,
scrivendo a Paul Sérusier si dichiara felice di aver avuto la buona idea di aver portato con sé
“musique et mandoline”, una grande distrazione per lui6. In un passo del Cahier pour Aline7, il
quaderno acquistato a Tahiti nel 1892 e scritto per la figlia Aline, ornato nella copertina e nelle
pagine di guardia con acquerelli dai vivaci colori, leggiamo che nella letteratura si fronteggiano due
partiti: quello di chi vuole raccontare delle storie più o meno ben immaginate e quello di chi vuole
una bella lingua, delle belle forme. Il processo di questa lotta dovrà durare a lungo con simili
chances. Soltanto il poeta può esigere a ragione che i versi siano dei bei versi e nient’altro. Il
musicista è un privilegiato per Gauguin, in quanto vive in un mondo speciale. Suoni, armonie,
null’altro. Anche la pittura dovrebbe essere a parte; sorella della musica essa vive di forme e colori.
Al suo ritorno in Francia8, ritornando da Tahiti il 3 agosto del 1893, verso la fine dell’anno si
propone di scrivere dei ricordi del suo primo soggiorno in Oceania. Ricorda gli hyménés, i canti
funebri in onore del re Pomaré, che gli rammentano la celebre sonata per pianoforte detta la
Patetica di Beethoven9. In una notte insonne nella quale udiva soltanto i battiti del suo cuore10, i
raggi della luna filtrano dentro la sua stanza, quasi fossero uno strumento musicale; si
addormentava al suono della musica eseguita dal vivo, uno strumento simile al nostro flauto diritto.
Gauguin ha raffigurato questo strumento in una sua tela nella quale una delle due ragazze tahitiane
lo sta suonando. Tra i musicisti ai quali fa breve riferimento vi è il suo amico Molard, nel quale
aveva riposto fiducia per il suo talento individuale; e poi Liszt, che aveva imposto al mondo intero
Lohengrin di Wagner.11
Alla musica Gauguin fa riferimento anche in alcune lettere scritte durante il secondo
soggiorno in Oceania12, per la quale era partito nuovamente il 3 luglio del 1895. Aveva davanti a sé,
scrive a William Molard, il mare e, festeggiando la riconciliazione avvenuta con le popolazioni
originarie delle isole, per quattro giorni e quattro notti, quattrocento tahitiani, le autorità francesi e
lui innalzavano canti di gioia, come a Cythère. A chi gli chiedeva se comprendeva il significato di
una tela, rispondeva che – come in una audizione musicale – non vi era nulla da comprendere: come
a dire che l’esperienza visiva doveva essere sufficiente a soddisfare il fruitore direttamente, senza
ausilio di altre componenti, come avviene nell’ascolto spontaneo e sensibile della musica. I colori
hanno una loro gravità; la pittura per essere grave, deve utilizzare colori pesanti. Per essere serena,
4
I passi che riportiamo o commentiamo sono tratti da P. Gauguin, Oviri. Ecrits d’un sauvage, Paris, Gallimard, 1974,
choisis et preséntés par D. Guérin, 1974. Tutti i corsivi sono nostri.
5
Oviri cit., p. 23 e sgg.
6
Ivi, p. 77.
7
Ivi, p. 94. Quaderno che la figlia non ebbe mai modo di leggere in quanto morì prematuramente. Alla moglie Gauguin
scriverà “je n’aime plus Dieu”.
8
Cfr. “Retour en France” in Oviri cit., pp. 97 e sgg. Gauguin consegnò il manoscritto al poeta simbolista Charles Morice
che elaborò una versione meno autentica di quello che sarà il testo di Noa Noa.
9
Oviri, p. 103.
10
Ivi, p. 107.
11
Ivi, pp. 131-133.
12
Ivi, pp. 143 e sgg.
gaia, la pittura si servirà di colori sereni: i colori canteranno come delle spighe di grano13. Nel
paragrafo Mensonge de verité14 si sforza di spiegare che al colore puro è necessario sacrificare tutto;
l’intensità di un colore indicherà la natura di ogni colore. Il mare blu avrà un blu più intenso che il
tronco dell’albero grigio, divenuto blu puro, ma meno intenso. Come mezzo chilo di verde è meno
intenso di un chilo, per fare l’equivalente bisognerà mettere un verde più verde di quello della
natura, essendo la tela più piccola della natura stessa. Questa è la verità della menzogna, secondo
Gauguin. Richiamandosi al musicista Cabaner, egli ricorda che – per ottenere la sensazione di
silenzio – si serviva di uno strumento di cuoio in grado di produrre una sola nota acuta, rapida e
fortissima. Poiché il colore è in se stesso enigmatico, nelle sensazioni che ci dà, non può che essere
logicamente impiegato enigmaticamente, tutte le volte che ce ne serviamo, non per designare
qualcosa in sé, ma per offrire le sensazioni musicali che provengono da esse stesse, dalla sua
propria natura, dalla sua forza interiore, misteriosa, enigmatica. Per mezzo di armonie sapienti si
crea il simbolo. Il colore che è vibrazione come la musica attiene a quel che c’è di più generale e
perciò di più vago in natura: la sua forza interiore15. Ci sono oggi, continua Gauguin, alcuni pittori
giovani intelligenti, con talento ma poco istintivi, poco sensibili; essi illustrano una nuova
letteratura come in altri tempi si illustrava la letteratura antica con gli stessi mezzi senza le forze
musicali del colore. Nelle ironiche pagine immaginarie dedicate alla costruzione di una rete
ferroviaria, Gauguin vede delle mani agitarsi su di una chitarra; gli sembrava anche di ascoltare un
dolce refrain: I love this money16.
Nel primo soggiorno a Tahiti aveva avuto modo di assistere ad una cerimonia che lo aveva
molto colpito. Un nuovo re doveva essere eletto; abbigliato di ricchi vestiti il nuovo capo era
attorniato di dignitari dell’isola. Al segnale dato dai sacerdoti con trombe e tamburo era collocata
una vittima umana morta davanti all’immagine del dio17.
Al suo ritorno in Francia, dopo il primo soggiorno in Polinesia, Gauguin descrive una
passeggiata effettuata nel bosco con un giovane amico maori e annota, tra le diverse sensazioni
provate durante il cammino, di aver provato un forte impulso distruttivo; colpendo brutalmente con
l’ascia un magnifico albero intonava un canto:
Coupe par le pied la fôret toute entière (des désir)
Coupe en toi l’amour de toi-même comme avec la
Main en automne
On couperait le Lotus18.
Oltre al ritratto del violoncellista Upaupa Schneklud, vi sono anche altre opere nelle quali
l’artista francese ritrae personaggi con strumenti musicali o anche solo strumenti musicali di diversa
tipologia. Il chitarrista, ad esempio; Suzanne che cuce; l’Intérieur du peintre à Paris, rue Carcel;
Vaso di fiori con mandolino; Arearea ou Joyeusetés (citato anche come Pastorales tahitiennes
oppure Passatempo). Alcuni di questi strumenti musicali, come vedremo, sono nominati nelle sue
lettere inviate alla moglie, agli amici, o sono menzionati in alcune pagine di fantasia.
13
Ivi, p. 166.
Ivi, p. 177.
15
Ivi, pp. 179-180.
16
Ivi, pp. 232-233.
17
Ivi, p. 85.
18
Ivi, p. 114.
14
Fig. 68 Paul Gauguin, “Upaupa Schneklud”: ritratto del 1894, Baltimora, Museum of Art
Fig. 69 Paul Gauguin, Intérieur du peintre, Paris, rue Carcel (1881), Oslo, Nasjonalgalleriert
Fig. 70 Paul Gauguin, Il chitarrista,
1894, Londra, National Gallery
Fig. 71 Paul Gauguin, Suzanne
che cuce, 1880, Copenhaghen,
Ny Carlsberg Glyptotek
Fig. 72 Paul Gauguin, Natura morta con mandolino, Musée d’Orsay
Fig. 73 Paul Gauguin, Mandolino e fiori,
1883, Collezione privata
Fig. 74 Paul Gauguin, Arearea ou Joyeusetés,
novembre-dicembre 1892, Paris, Musée d’Orsay
Fig. 75 Particolare: lo strumento raffigurato è il
vivo (nella lingua maori); una sorta di flauto dritto
di cui Gauguin decantava le qualità espressive
2. L’infinito delle sensazioni
“Tu connais cette maladie fiévreuse qui s’empare de nous
dans les froides misères, cette nostalgie du pays qu’on ignore,
cette angoisse de la curiosité […] Oui, c’est là qu’il faut aller respirer,
rêver et allonger les heures par l’infini des sensations”
C. Baudelaire, Petits poèmes en prose (Le spleen de Paris)
Com’è noto, Gauguin era stato, prima dei trent’anni, un buon impiegato di banca e stupisce
che, fino ai ventott’anni non avesse ancora affrontato la pratica e il problema della pittura. Ad un
certo punto, le domeniche, per occupare il tempo, comincerà a dipingere. E non smetterà più. Le
prime influenze sono quelle delle opere degli impressionisti, poi quelle simboliste. Durante il
triplice periodo maori (il primo e il secondo soggiorno a Traiti, il primo e l’ultimo soggiorno alle
isole Marchesi) Gauguin è continuamente in bilico tra forze creative e forze distruttive, tra la
difficoltà di mantenersi in vita e l’impulso di morte, tra la gioia del lavoro creativo e la
consapevolezza di non riuscire più a farcela. È un uomo, fin dall’inizio, tormentato dall’ossessione
della malattia e dalla sfortuna. Ma sempre pronto a lasciar trasparire l’entusiasmo per l’arte, per la
natura, per la bellezza incantevole delle isole dell’Oceania.
Nel suo “Omaggio a Gauguin”, posto come introduzione al volume Paul Gauguin. Scritti di
un selvaggio, Victor Segalen19 trascrive come epilogo del suo saggio un ricordo della morte del
pittore così come gli fu raccontato dal pastore Paul Vernier. Negli ultimi momenti di vita, ricordava
Venier, Gauguin si mise a parlare in modo stupendo della propria arte. Gauguin è molto malato,
quasi paralizzato, si trascina penosamente a piedi scalzi, con le gambe piagate, il petto coperto “con
una camicia di foggia tahitiana”, con un pareo “attorno ai fianchi”; sul capo aveva “il basco da
pittore di panno verde, con una borchia d’argento sul lato”. È un’immagine che ci sembra riflettere
simbolicamente molto bene i due ‘mondi’ che più hanno segnato l’esistenza umana e artistica di
Gauguin. Last but not least, una scrittura dove – prima o poi – ci imbattiamo in qualche riferimento
ad un termine musicale, ad una espressione nella quale egli cerca di esprimere le sue idee attorno
alla pittura attraverso il lessico musicale (ponendo così una relazione stretta tra le due esperienze
creative); a qualche musicista come Haendel, Beethoven, Schumann, Liszt, Wagner. Di Robert
Schumann, in particolare, Gauguin ricorda un brano che gli era particolarmente caro quando era
bambino: si tratta del n. 9 (Ritter vom Steckenpferd) dei tredici che costituiscono le Kinderszen op.
15. Da una lettera al celebre scrittore svedese August Strindberg veniamo a conoscenza, fra l’altro,
che lo scrittore suonava la chitarra.
È interessante osservare che alla morte di Gauguin tra i numerosi oggetti in vendita figurava
anche un vecchio armonium accompagnato da un’arpa, tra i libri, l’Après-midi d’un faune
regalatogli da Stéphane Mallarmé e il ritratto del poeta: quello stesso poema che il grande
compositore Claude Debussy – assiduo frequentatore, per un periodo della sua vita, dei martedì
letterari in casa di Mallarmé – metterà in musica tra il 1892 e il 1894, realizzando una delle
composizioni più innovative del linguaggio musicale europeo di fine Ottocento. Diciamo qui,
almeno brevemente, che la Francia della fine Ottocento e dei primi del Novecento è – non meno
dell’Austria fin de siècle – uno straordinario laboratorio di idee, di ricerche inquiete e di profonde
trasformazioni in diversi settori della cultura del tempo, come pure della vita privata e sociale20. Tra
19
Paul Gauguin, Scritti di un selvaggio , Milano, Guanda, 1983, pp. 76-77.
Per uno sguardo complessivo, si può vedere: E. Weber, Francia fin de siècle, Bologna, Il Mulino, 1990. Per l’area
austriaca rimane fondamentale A. Janik-S. Toulmin, La grande Vienna. La formazione di Wittgenstein nella Vienna di
20
la fine dell’Ottocento ed il primo Novecento Parigi e Vienna, con le loro forti tensioni intellettuali
ed artistiche, costituiscono punti di riferimento imprescindibili per i successivi sviluppi del pensiero
contemporaneo. Anche se uno studio indirizzato ai precedenti storici da cui possono aver preso
spunto deve essere ancora avviato con un’ottica complessiva, che tenga conto delle possibili
influenze su pensatori ed artisti di entrambe le due capitali europee. Prima ancora degli
Impressionisti francesi, per limitarci al solo contesto relativo alla storia dell’arte, a Venezia
Giorgione da Castelfranco usava stendere il colore direttamente sulla tela, senza il contorno del
disegno a matita. Sempre a Venezia, Antonio e Francesco Guardi avviavano quella sfaldatura,
quella resa imprecisa della raffigurazione dove cielo e terra sembrano confondersi in un’unica realtà
percettiva. Tecnica pittorica, questa, che sarà tenuta presente sia da William Turner in Inghilterra
che da Claude Monet in Francia. Senza contare i debiti di Manet. Si dovrà ricordare che Le déjeneur
sur l’herbe, che aveva provocato tanto scandalo a suo tempo, aveva un precedente modello
figurativo nel celebre Concerto campestre di Giorgione del Louvre, così pure la sua Olympia del
1863, sempre al Musée d’Orsay di Parigi, strizza l’occhio, per così dire, al Giorgione e al Tiziano
delle varie Veneri. Non di meno alcune questioni di natura musicale potrebbero aprire ad ulteriori
collegamenti o anticipazioni.
Fig. 76 Paul Gauguin, Stéphane
Mallarmé, acquaforte, 1891
Schönberg, di Musil, di Kokoschka, del dottor Freud e di Francesco Giuseppe, Milano, Garzanti, 1984. Pur nella
diversità delle ‘risposte’ alle problematiche estetiche, filosofiche e letterarie poste dai protagonisti dei diversi campi
della cultura austriaca, la grande rilevanza storica che esse assumono meriterebbe un tentativo di confronto con
posizioni francesi dello stesso periodo.
Osserviamo inoltre che, tra il 1895 e il 1902, apparvero diversi studi in Francia nei quali
veniva sostenuta l’esistenza di strette affinità tra colore e suono21. Così Paul Souriau poteva, ad
esempio, osservare: “Nel descriverci un quadro, i critici d’arte parlano di rossi selvaggi, di verdi
striduli, di blu che cantano, d’una stonata nota di giallo, di armonie cromatiche e di dissonanze. In
compenso una sinfonia ci è descritta con termini che appartengono alla pittura: la linea melodica si
colora di sfumature diverse…i tre colori degli strumenti a fiato nel registro acuto si combinano
armoniosamente. In alto c’è l’azzurro luminoso dei flauti, al centro il rosso vivo degli oboi, in basso
le tonalità calde e tendenti al marrone del clarinetto…”. E un altro critico, Lucien Favre, poteva
vedere nella pittura una sorta di musica statica: “La pittura è, se si vuole, una musica di colori
immobili, una musica morta che però è di già una specie di musica”22.
3. La foresta dei desideri
“[…] je suis un grand artiste et je le sais. C'est parce que je le suis que j'ai tellement enduré de souffrances. Pour
poursuivre ma voie, sinon je me considérerai comme un brigand. Ce que je suis du reste pour beaucoup de personnes
[...] Ce qui me chagrine le plus c'est moins la misère que les empêchements perpétuels à mon art que je ne puis faire
comme je le sens [...] Je sais depuis longtemps ce que je fais et pourquoi je le fais. Mon centre artistique est dans mon
cerveau et pas ailleurs et je suis fort parce que je ne suis jamais dérouté par les autres et que je fais ce qui est en moi.”
Paul Gauguin, Oviri, p. 78
Nei suoi Racontars de rapin23 Gauguin scrive che le emozioni del pittore, dello scultore o del
musicista si differenziano da quelle della letteratura in quanto esse “dipendono dalla vista,
dall’udito, dalla sua intera natura istintiva, dalle sue lotte con la materia”, aggiungendo che è
“compositore e virtuoso”. Riferimenti di questo tipo, nei quali intendo dire egli fa ricorso a paragoni
o a formulazioni di pensieri nei quali l’arte dei suoni è evocata, o per così dire chiamata in causa, se
ne trovano molteplici nei suoi scritti o nelle lettere, come vedremo.
In Noa Noa24, ad esempio, leggiamo che, all’ascolto durato due giorni di alcuni canti –
“imenei (cori)” come li definisce l’artista – gli era parso di sentire la Patetica di Beethoven. Curiosa
affermazione, perché gli imenei erano per i Greci, dei canti di nozze…Mentre si trattava,
evidentemente, di canti funebri e, quindi, dei threnoi per rimanere nell’ambito della terminologia
della Grecia antica. Dall’interno dello spazio libero della sua capanna di Tahiti udiva soltanto i
battiti del suo cuore, scorgendo le “canne allineate e distanziate”; la luce della luna filtrava e le
faceva assomigliare ad uno strumento musicale: “Zufolo dei nostri antichi, da loro si chiama vivo –
ma silenzioso – (canta la notte attraverso i ricordi).” E si addormentava al suono di quella musica.
Si avvertiva divenire sempre più selvaggio, stabilendo rapporti di amicizia con i suoi vicini,
vestendosi come loro, mangiando come loro. Di sera, quando si recava nella capanna dove si
riunivano gli indigeni dei dintorni, ascoltava una “strana musica senza strumenti”. Erano canti
intonati da tutti, dopo una preghiera pronunciata “coscienziosamente” da un vecchio dell’isola.
Cantava lui stesso una breve lirica25, al ritmo della “cadenza dei colpi dell’ascia”:
Recidi alla radice tutt’intera la foresta (dei desideri)
Recidi in te l’amore di te stesso
Come con la mano in un autunno
si recide il Fior di Loto.
22
E. Lockspeiser, Debussy cit., p. 277.
P. Gauguin, Chiacchiere di un imbrattatele, a cura di E. Grazioli, Milano, Abscondita, 2001, p. 11.
24
P. Gauguin, Noa Noa e lettere da Tahiti (1891-1893), a cura di L. Giudici, Milano, Abscondita, 2007, p. 12 e passim.
25
Ibidem, p. 22. La lirica venne modifica da Morice, tanto nel contenuto quanto nello stile e nella grafica.
23
Nel mese di luglio del 1891, la forte impressione ricevuta alla vista delle esequie del re
Pomaré lo spinge a scrivere alla moglie, soffermandosi brevemente nella descrizione degli abitanti
dell’isola, “raggruppati nell’erba”, che – giunti da ogni villaggio – intonavano di sera
alternativamente “i loro famosi imenei (canto corale di numerosi parti). Un autentico piacere per
chi, amando la musica, poteva cogliere la bellezza delle voci di quel popolo così dotato per la
musica. Ammirava due canti di uomini e di donne intrecciarsi, incrociarsi tra loro nelle note acute e
poi “alcune parti di accompagnamento” che formavano “accordi bizzarri”. Continuava la
descrizione di quella esecuzione sottolineando che delle voci maschili di basso imitavano il suono
del tamburo, facendo da accompagnamento “per dare la cadenza (cadenza particolarissima)”.
Impossibile immaginare qualcosa di “più armonioso e di più astratto”. Nessuno che facesse “una
nota falsa”26.
4. La musica nell’epistolario di Gauguin
Nelle pagine seguenti riportiamo alcuni passi, più o meno lunghi, tratti dall’epistolario di
Gauguin27: corsivi, grassetti (per i termini e le espressioni di natura musicale) e interruzioni in
parentesi del testo sono nostre; il numero delle pagine corrisponde a quello della prima e dell’ultima
pagina delle lettere o degli scritti di cui riportiamo alcuni frammenti. Come in una partitura, vi
possiamo riconoscere alcuni leitmotiven, alcune idées fixes, alcuni motivi o temi fondamentali che
si presentano, ricorrono più o meno frequentemente, tra le righe delle sue lettere o dei suoi articoli.
Nell’edizione italiana, musica e pittura appaiono accostate fin dalla prima pagina, dopo che
Gauguin ha condannato la corruzione dei critici e i loro preconcetti. Alcuni termini come armonia,
tonalità, cromatismo, sono termini caratteristici del lessico musicale. Aggiungiamo inoltre che,
aspetto non irrilevante, espressioni quali disegno melodico, colore tonale hanno la loro derivazione
dall’ambito appunto del disegno e della pittura. Le due arti, insomma, pur destinate ad organi così
diversi come l’orecchio e l’udito, così necessariamente percepite in modo diverso, posseggono
tuttavia alcuni punti di contatto che ci consentono di tentare di stabilire analogie e collegamenti.
Ma lasciamo ora ‘parlare’ lo stesso Gauguin attraverso le righe delle sue lettere.
Note sintetiche (1884 -1885), pp. 49 - 51
“[…] Quest’opera è di mio gusto, proprio come io stesso l’avrei concepita.” La critica d’arte è tutta
in queste parole. […] Non vi piace il blu, visto che condannate tutti i quadri di questo colore. Se siete un
sensibile e malinconico poeta, vorrete tutti i brani “in minore”. Chi ama l’allegria, non riesce a concepire
una sonata. Ci vuole intelligenza e cultura per poter criticare un libro. Per farlo con la pittura o con la
musica, oltre ad avere intelligenza e gusto artistico, bisogna essere capaci di particolari stati d’animo, in una
parola bisogna essere artisti, e pochi sono gli eletti. […] La musica strumentale come la matematica ha
un’unità di base. […] Nell’uso di uno strumento si parte da una precisa tonalità. In pittura ve ne sono
molteplici. Così partite dal nero e lo scomponete fino ad ottenere il bianco: è la prima unità, la più facile, la
più comune, dunque la più comprensibile. […] Ci viene rimproverato l’impiego di colori puri, usati gli uni
accanto agli altri. È facile ribattere: ci aiuta la natura stessa che non procede diversamente. Un verde vicino a
un rosso non dà il rosso opaco dei due colori mescolati fra loro, ma due note vibranti. Provate accanto al
rosso un giallo cromo, otterrete tre note che accentuano la loro particolarità accrescendo l’intensità del primo
tono, il verde. Sostituite il giallo con un blu, avrete tre diverse tonalità che vibrano per contrasto. Mettete un
viola al posto del blu e ricadrete nella tonalità unica e composta dei rossi. […] Esiste una scienza
dell’armonia? Certo! Il senso del colorista è l’armonia naturale. Anche i pittori, come i cantanti, a volte
stonano, mancano di senso armonico. Si forma più tardi, con lo studio, tutto un metodo dell’armonia, a meno
che non la si trascuri del tutto, come succede nelle accademie e negli atelier.
26
Ibidem, p. 61.
Lettere alla moglie e agli amici, Milano, Guanda, 1994 (nel corso delle prossime pagine faremo riferimento a questo
testo). Vedi anche: Noa Noa e altri scritti. 1891-1903, Milano, Mondadori, 1972; Paul Gauguin, Chiacchiere di un
imbrattatele, Milano, Abscondita, 2001.
27
Quaderno per Aline (1892), pp. 58-60
Dedico questo quaderno a mia figlia Aline. Queste riflessioni sono lo specchio della mia anima.
Anche lei è una selvaggia, capirà. […] Grazie a Dio, Aline ha un animo così nobile da non essere turbata né
corrotta da questa mente demoniaca che la natura mi ha dato. […] Dicono che Dio prese in mano un po’ di
fango e fece ciò che sapete. Anche l’artista (se davvero vuole far opera creativa e divina) non deve copiare la
natura ma usare i suoi elementi e crearne di nuovi. […] L’arte è per pochi, dev’essere nobile. […] Il
musicista è privilegiato. Suoni e armonie. Nient’altro. Vive in un mondo a parte. Anche la pittura dovrebbe
essere diversa. Sorella della musica, vive di forme e colori. Chi pensa altrimenti presto dovrà ricredersi.
[…].
Note sparse (1896-1897), pp. 63-83
[…] Io mi sono rifugiato lontano, più lontano dei cavalli del Partenone […] fino al cavallino della
mia infanzia, il buon cavallo di legno. Mi sono ritrovato a canticchiare il dolce motivetto delle scene di
bimbi di Schumann: Il cavallo di legno. E, ancora, mi sono perso con le ninfe di Corot, danzando nei boschi
di Ville-d’Avray. […] Esiste un’impressione generale del quadro che deriva dal rapporto tra colori, luci e
ombre. È ciò che chiamiamo la musica del quadro. Provate a entrare in una cattedrale, in cui la distanza
impedisce di cogliere un quadro nei suoi particolari, eppure sarete affascinati dai suoi magici accordi. È
questa la superiorità della pittura sulle altre arti, quest’emozione che scende fin nel più profondo dell’anima.
[…] Ho visto anche persone intelligenti sorridere […]. Forse avrei dovuto dipingere la mitica Tahiti come i
sobborghi di Parigi, così fitti e ordinati. (…) È astuta e saggia nella sua ingenuità l’Eva di Tahiti. (…) Non è
la più piccola Rarahu che ascolta alla chitarra una dolce melodia di Pierre Loti (Pierre Loti, anch’egli così
delicato); è Eva dopo il peccato, che ancora può camminare nuda senza vergogna, con tutta la sua fiera
bellezza come il primo giorno. […] Cabaner, il musicista, diceva che per rendere sul piano musicale la
suggestione del silenzio, avrebbe usato uno strumento di cuoio con una sola nota, acuta, improvvisa e molto
intensa. Anche qui è la finzione a tradurre una verità. Ma non voglio dilungarmi troppo in proposito: come
ho detto, non si tratta che di alcune note. Non hanno alcun valore se non per chi si interessa di fisica. Ci resta
da parlare del colore dall’unico punto di vista dell’ arte. Del colore come linguaggio dell’occhio che ascolta,
del suo valore suggestivo (come direbbe A. Delaroche) che stimola l’immaginazione, arricchendo il nostro
sogno e aprendo nuovi orizzonti verso l’infinito e l’ignoto. […] Il colore così ambiguo nelle sensazioni che
ci offre, non può che essere impiegato in modo ambiguo ogni volta che è necessario non per disegnare, ma
per tradurre le emozioni musicali che si liberano dalla natura, dal suo centro misterioso ed enigmatico. Il
simbolo si crea per mezzo di armonie sapienti. Il colore, come la musica, coglie nelle sue vibrazioni quanto
di più universale, dunque indefinito, esiste in natura: la sua energia segreta. […] alcuni giovani pittori di
talento […] ma non abbastanza istintivi e sensibili […] non fanno altro che illustrare una nuova letteratura
come si faceva un tempo, con gli stessi mezzi, rinunciando all’intensità musicale del colore.
Storia di un imbrattatele (1902), pp. 84-93
[…] Che cosa voleva dire Delacroix quando parlava della musicalità di un quadro? È facile da
capire: Bonnard, Vuillard, Sérusier per non citare che qualche giovane, sono dei musicisti, e dovete
convincervi che la pittura di colore sta entrando in una fase musicale. Cézanne, per ricordare un anziano,
potrebbe essere un allievo di César Frank; la sua è una musica totale, per questo considero la sua pittura
una pittura polifonica.
Prima e dopo (1903), pp. 94-119
[…] Note sparse, senza seguito come i sogni, come la vita, tutta fatta di pezzi staccati. […].
L’ambiguità della parola, le astuzie dello stile, quelle abili finzioni che pure a volte come artista non si
addicono al mio cuore barbaro, così testardo e sensibile. Le conosco e so usarle. Sono i lussi della nostra
cultura che non so disprezzare. Usiamoli quasi per gioco, senza particolari obblighi. Come una dolce musica
che amo ascoltare fino a che desidero soltanto il silenzio. […] A una mostra sul Boulevard des Italiens vidi
un ritratto singolare. Sentivo qualcosa dentro di me, come una strana melodia. Una testa da dottore, molto
pallido, gli occhi non vi guardano, né vi seguono, ma ascoltano. Diedi uno sguardo al catalogo: “Wagner” di
Renoir. Non occorrono commenti. Cézanne sta dipingendo. […] Le piante raffinate del giardino risaltano in
accese macchie di veronese e, per contrasto, il tono grave delle ortiche violacee in primo piano orchestra
questo semplice poema.
Huysmans e Redon (1889), pp. 123-124
Huysmans è un artista. Molti pittori vorrebbero essere musicisti o letterati; lui pittore. […] Nel
silenzio, di notte, avvolto nel buio il nostro occhio vede, l’orecchio sente.
Sotto due latitudini (1894), pp.128-129
A 47 gradi di latitudine, a Parigi credo, niente più alberi di cocco. I rumori hanno perso ogni
intonazione musicale […] d’Harcourt vi possiede una sala da concerto. […] Un mattino, dopo aver fissato
l’appuntamento, attraverso la grande sala vuota: banchi vuoti, punti interrogativi (sono contrabbassi). Entro
nello studio di d’Harcourt, passando sotto un grande organo. […] Volevo mostrargli una sinfonia del mio
amico Molard, un musicista in cui credo molto perché ha un notevole talento, un talento assolutamente
originale. Dopo avergli parlato con molta ingenuità, ascolto d’Harcourt. “Questo vostro amico è conosciuto,
ha vinto il premio a Roma? Perché non è venuto lui stesso? […] ” Prima di uscire buttai lì qualche parola
stupida quanto inutile: “Credevo […] che per scoprire i veri talenti bisognasse prima cercarli, come fece
Liszt quando presentò al mondo intero il Lohengrin. Ma Liszt era un artista. Credevo che anche quelli che
lavorano per i caffè concerto fossero nati per quello. Quelli che invece rispettano l’arte non vi sembrano nati
per fare arte e solo arte?”. […] Per strada le fogne mandano i loro fetidi odori, eppure respiro meglio: mi
sento già diverso. […] penso: “E se ce ne tornassimo ancora una volta a 17 gradi di latitudine?”. Laggiù le
notti sono sempre belle.
Intervista a Paul Gauguin di Eugène Tardieu (1895), pp. 132-134
[…] E i vostri cani rossi, i cieli rosa? “Sono voluti! Necessari; ed ogni particolare nella mia opera è
calcolato e meditato a lungo. È musica se volete! In accordi di linee e colori, col pretesto di un soggetto
qualsiasi legato alla vita o alla natura, raggiungo armonie e sinfonie che non hanno niente di reale nel senso
comune del termine, che non esprimono alcun pensiero immediato, ma sanno stimolare come solo la musica
può fare, senza l’aiuto di particolari idee o immagini, soltanto attraverso le segrete affinità del nostro
cervello con questi accordi di colori e linee.” Abbastanza nuovo! “Nuovo”, risponde Gauguin animandosi,
“Affatto! Tutti i grandi pittori non hanno fatto altro! Raffaello, Rembrandt, Velazquez, Botticelli, Cranach
hanno deformato la natura. […] Faccio cose diverse e sono considerato un miserabile. Meglio miserabile che
un semplice imitatore![…] La bellezza è eterna e può assumere mille forme per esprimersi. […] Prima di
partire farò pubblicare […] un libro dove racconto la mia vita a Tahiti e le mie opinioni artistiche […]” Il
titolo di questo libro? “Noa-Noa, che significa nella lingua di Tahiti: fragrante; sarà il profumo di Tahiti”.
“L’Echo de Paris”, 13 maggio 1895
A sua moglie, pp. 149-150
Saint-Pierre, Martinique, 20 giugno 1887
[…] Viviamo in una capanna, un vero paradiso a fianco dell’istmo. Sotto di noi, il mare
fiancheggiato dai palmizi, e sopra alberi da frutto di ogni tipo, a soli venticinque minuti dalla città.
Tutt’intorno, negri e negre tutto il giorno, con le loro canzoni creole e il loro continuo cicalìo. Non credere
che sia monotono, al contrario è tutto molto vario.[…].
A Emile Bernard, pp. 55-156
Senza data [Arles, novembre 1888]
[…] Osservate i giapponesi, che sono maestri nel disegno, e noterete la vita all’aperto, sotto il sole,
senza ombre. Usando il colore in una combinazione di diverse tonalità, di armonie distinte che danno
l’impressione del calore…Inoltre considero l’impressionismo come una ricerca originale, lontana da quanto
c’è di meccanico, come nella fotografia…così rinuncerei a tutto ciò che dà la parvenza di un oggetto e
toglierei l’ombra che non è che la falsa apparenza della luce solare. Se l’ombra invece è una presenza
indispensabile e necessaria al vostro lavoro, è tutto un altro discorso. L’ombra può sostituire così la figura
che la riflette. […].
A sua moglie, pp. 160-161
Senza data [Parigi, febbraio 1890]
[…] Verrà un giorno, e presto, che mi rifugerò nella foresta in un’isola dell’Oceania a vivere d’arte,
seguendo in pace la mia ispirazione. Circondato da una nuova famiglia, lontano da questa lotta europea per il
denaro. A Tahiti, nel silenzio delle notti tropicali, potrò ascoltare il ritmo dolce e suadente del mio cuore in
armonia con le presenze misteriose che mi circondano. Libero, senza problemi di denaro, potrò amare,
cantare e morire.[…].
A sua moglie, pp.166-167
[Tahiti], luglio [1891]
[…] Il re è morto qualche giorno dopo il mio arrivo. Per i suoi funerali è stato necessario attendere
tutti gli abitanti dell’isola e delle isole vicine. Un funerale difficile da immaginare. Ogni villaggio seduto
sull’erba cantava a turno gli imenei (in coro a più voci). Hanno cantato per tutta la notte. Davvero stupendo
per chi ama la musica, perché questo popolo è straordinariamente dotato per la musica. Due voci acute
maschili e femminili che si incrociano seguite da altre in diversi accordi. Alcuni uomini, imitando il tono
basso del tamburo, dànno il tempo (una cadenza tutta particolare). Impossibile immaginare qualcosa di così
dolce e indefinito. L’intonazione è perfetta in tutti.[…] E li chiamano selvaggi! Cantano; non rubano mai, la
mia porta è sempre aperta, non uccidono. Due parole del loro dialetto aiutano a capirli: Ia Orama (buon
giorno) salve, grazie, ecc…e Onatu (me ne frego, che importa, ecc.). Non mi piace questa morte del re
Pomaré. Tahiti adesso è interamente francese e tutto il suo antico modo di essere scomparirà. Già i nostri
missionari avevano portato l’ipocrisia protestante rubando buona parte del fascino a questa terra, senza
contare la sifilide che ha già tarato la razza senza per altro distruggerla. […].
A sua moglie, pp. 168-169
Tahiti [marzo 1892]
[…] Il centro della mia arte è nel mio cervello, da nessun’altra parte. La mia forza è nel non imitare
nessuno e seguire il mio destino. Beethoven era sordo e cieco [sic], isolato da tutto, e la sua è l’opera di un
artista che vive in un mondo soltanto suo. […] No, io ho uno scopo ben preciso e lo seguirò a ogni costo,
lavorando con accanimento. Faccio progressi ogni anno, ma sempre nell’ordine dei lavori precedenti. Sono
solo logico. Così, poche persone riescono a seguirmi a lungo. […] Devo sempre ricominciare. […] La pittura
in fondo è la nostra salvezza (tu sai che non ne voglio altre)
A August Strindberg, pp. 175 - 176
Senza data [Parigi, 5 febbraio 1895]
[…] ho appena ricevuto la vostra lettera; servirà da prefazione al mio catalogo. Pensai di chiedervela
mentre vi osservavo l’altro giorno suonare la chitarra28.
A André Fontainas, pp.184-187
Tahiti, marzo 1899
[…] Violenza, monotonia di toni, colori arbitrari e così via […] Sì, tutto questo esiste nella mia
pittura. Le cerco, a volte, queste tonalità ripetute, questi accordi monotoni, nel senso musicale del colore;
ricordano quelle melopee orientali cantate da voci aspre, accompagnate da voci vibranti che le arricchiscono
per contrasto. Non credo di sbagliarmi dicendo che per esempio ne fa uso frequentemente Beethoven nella
sua Patetica. E Delacroix con i suoi accordi ripetuti di marroni e di viola atoni come una scura lucerna a
presagire il dramma. Andate spesso al Louvre: osservate attentamente Cimabue ricordando queste mie
parole. Pensate anche all’enorme importanza che acquisterà fra non molto la musicalità del colore nella
pittura moderna. Il colore, che come la musica è vibrazione, in grado cioè di cogliere ciò che di più
universale e indefinito esiste in natura: la sua intima essenza. Qui, vicino alla mia capanna, nel più totale
silenzio, respiro armonie profonde in questi profumi naturali che mi inebriano. Mi perdo in questi sacri orrori
verso confini sconosciuti, altre volte nell’odore di una gioia presente. […] Poi, la notte, il riposo. […] il mio
sogno non si lascia prendere, non c’è alcuna allegoria. È un poema musicale che non ha bisogno di libretto,
per citare Mallarmé. Il centro materiale e sublime di un’opera è l’inespresso. […] Al risveglio, l’opera è
finita e mi dico:“Da dove veniamo, cosa siamo, dove andiamo?”.
28
Strindberg, in realtà, non volle fare la prefazione al volume di Gauguin, come il pittore si aspettava.
Fig. 77 La capanna di Gauguin a Tahiti
6. Paul Gauguin e il suo Angelo
“Anges revêtus d’or, de pourpre et d’hyacinte,
Ô vous, soyez témoins que j’ai fait mon devoir
Comme un parfait chimiste et comme une âme sainte,
Car j’ai de chaque chose extrait la quintessence.
Tu m’a donné ta bouche et j’en ai fait de l’or.”
Charles Baudelaire
“Nous aimons mieux croire à l’ange de l’Annonciation”,
Paul Gauguin, Oviri
Se la ricerca artistica di Gauguin si fosse ‘limitata’ a quanto abbiamo cercato di evidenziare
brevemente in precedenza, il pittore francese ci avrebbe dato già molto. Ma c’è anche un altro
aspetto della sua recherche che ci sembra interessante rilevare: la ricerca spirituale. Essa si è rivolta
in una duplice direzione: da una parte la riflessione attorno al cristianesimo, dall’altra lo studio della
religione maori. In entrambi i casi, ci ha lasciato non soltanto degli scritti29 ma anche delle opere
che ne rispecchiano la tensione ideale. Già nell’emblematica tela che raffigura un gruppo di donne
bretoni mentre osservano la lotta di Giacobbe con l’angelo possiamo cogliere la tensione spirituale
che agitava l’animo del pittore francese, come pure l’influenza del disegno di Hokusai I lottatori,
del 181530. Personaggi ed episodi del Nuovo Testamento si ritrovano sia in alcune opere realizzate
in Francia che in altre elaborate negli anni trascorsi nelle isole dell’Oceania. In particolare la figura
di Gesù di Nazareth sembra attrarre particolarmente Gauguin, che in un primo tempo introduce la
figura del Cristo giallo; in un processo successivo di possibile identificazione dovuto ai propri
problemi personali, artistici e di sofferenza fisica, realizza il suo autoritratto in veste di Cristo. C’è
poi la figura di Maria con il bambino, così frequentemente raffigurato nell’arte medievale e
rinascimentale europea, in un contesto esotico suggestivo e nel quale le due culture, la cristiana e la
maori, si sovrappongono in un ideale sincretismo religioso. Riflessioni di carattere religioso
emergono talvolta attraverso l’epistolario dell’artista. Con la chiesa cattolica, in particolare,
Gauguin è stato implacabile, considerandola responsabile della sofferenza non soltanto della
coscienza europea, ma anche di quella dei paesi sottoposti alla colonizzazione. Nelle pagine
dedicate all’analisi di L’Église catholique et les temps modernes31, Gauguin sferra un duro attacco
ad ogni tipo di governo, ad ogni culto ed idolatria. Condanna la Chiesa cattolica, la sua struttura
teocratica, oppressiva, di potere, che avrebbe snaturato l’inizio della verità, della verità biblica e di
Cristo. Tentare di definire l’insondabile mistero gli appariva idolatria: il mistero doveva rimanere
tale. Dio non appartiene più ai logici, ai sapienti, egli appartiene ai poeti, al sogno; egli è il simbolo
della Bellezza, è la Bellezza stessa. Ricorda le parole che hanno dato il titolo ad una sua opera
importante: ciò che noi siamo, da dove veniamo, dove andiamo. L’esprit moderne et le
catholicisme32 apre e continua con il problema di quale sia il nostro destino ideale, naturale,
razionale, di quale sia il senso citando ancora due volte le domande: D’où venons nous? Que
sommes nous? Où allons nous? E della critica alla casta sacerdotale dogmatica caratterizzata dalla
stessa ipocrisia dei farisei, tanto condannati da Gesù e dagli apostoli. Appoggiandosi alla falsa
morale che la religione cristiana ha inculcato ai nostri predecessori, lo Stato moderno – in nome del
29
Paul Gauguin, Ancien culte Mahorie (1892-1893), Paris, 1951, parzialmente tradotto in Oviri cit.
In una lettera a Van Gogh del mese di settembre del 1888, Gauguin si riteneva convinto di aver raggiunto nelle figure
“una grande semplicità rustica superstiziosa”. Rifiutato dal parroco della chiesa di Nizon, il dipinto fu esposto a
Bruxelles nel 1889.
31
Alcuni estratti si possono leggere in Paul Gauguin, Oviri cit., pp. 198-210.
32
L’esprit moderne et les temps modernes in Oviri cit., pp. 198-202.
30
Vangelo – non smette di imporre con la forza la propria “legge”, il suo “diritto”33. Alludendo al re
Luigi XIV, senza nominarlo, Gauguin ricorda la celebre frase “l’Etat c’est moi”. Ma oggi che lo
Stato siamo noi, chi ci opprime con la forza è destinato prima o poi a soccombere. Le repubbliche
che dimenticano tutto ciò, come i re, sono condannate. Inevitabile anche la critica alla morale
cristiana del matrimonio, allo Stato, ai buoni costumi, ai notai e agli avvocati, ai ristoranti per le
nozze, alle convenzioni, alle abitudini…34.
Alcune lettere35 scritte tra l’estate del 1899 e la primavera del 1903 ci aiutano a capire lo
stato d’animo nel quale l’artista si trovava. Ammalato, avvertendo la conclusione della sua
esperienza artistica, non si riconosceva come appartenente al gruppo dei pittori simbolisti e ideisti,
né con l’arte primitiva papua con la quale i critici francesi lo identificavano36. Sentiva di dover
seguire il proprio istinto e ad esso soltanto appellarsi e, a questo proposito, trovava affinità con lo
spirito del linguaggio allegorico biblico. Rileggiamone alcuni passi:
À André Fontainas, pp. 190-192
Tahiti, agosto 1899
[…] Hanno detto che la mia arte è primitiva, arte papua. Non so se è vero, comunque non ha alcuna
importanza. Non saprei cambiarla. La mia arte, che è una critica ben più terribile, saprà dire chi sono. […]
Mi muovo in effetti con precisa coscienza, seguendo un istinto ideale, un po’ come nella Bibbia, il cui
insegnamento, soprattutto per quanto riguarda il Cristo, acquista un linguaggio simbolico con due aspetti
distinti: un primo, nella forma, che servendosi di un linguaggio soprannaturale materializza l’Idea pura per
renderla più sensibile; è il senso letterale, superficiale, figurativo e misterioso di una parabola; e un secondo
aspetto che ne svela l’essenza. È il senso non più figurativo, ma figurato ed esplicito della parabola. Non
potendo spiegare la mia arte che attraverso i miei quadri, sono rimasto finora un incompreso […]
O beata solitudo!
O sola beatitudo!
Perdonate le mie simbologie, il linguaggio allegorico e altre futilità. Credetemi, vostro affezionato
Paul Gauguin
All’amico Charles Morice, nel mese di aprile del 1903, Gauguin dava brevi ragguagli sulla
situazione del processo nel quale era stato coinvolto per aver preso posizione in favore della gente
originaria delle isole Marchesi, soggetta alle ingiuste vessazioni di cui erano responsabili i soli
coloni. Il rapporto del pittore con i gendarmi francesi non furono mai stati particolarmente buoni,
come si evince da diversi passaggi delle sue lettere o degli scritti e dalla documentazione
archivistica disponibile37. La lettera proseguiva, tra l’altro, citando Raffaello nella cui arte oltre che
molta scienza c’era in realtà, fin dall’inizio, un senso innato della bellezza. Nei giovani artisti, che
vede muoversi confusamente, non trovava quella necessaria spontaneità, quell’istinto selvaggio,
quel saper e dover guardare in se stessi per trovare la propria personale via artistica. Se egli aveva
imparato da qualcuno ciò era stato a suo svantaggio; se sapeva poche cose, tuttavia preferiva queste
33
Cfr. “Contre l’État” in Oviri cit., pp. 210-213.
L’Église catholique et les temps modernes in Oviri cit., pp. 198-210.
35
Lettere alla moglie e agli amici cit. Il numero delle pagine si riferisce a questa edizione italiana.
36
À Maurice Denis, pp. 188-189 Senza data [Tahiti, giugno 1899: “[…] La mia avventura artistica è finita […]
Perseguitato dalla malattia, costretto ai lavori più umili, non dipingo quasi più, tranne la domenica e i giorni di festa.
Vedete dunque che non sarei neppure in grado di fornirvi nuovi lavori, che del resto non sarebbero sufficienti e non
avrebbero alcun senso nel contesto generale di questa vostra operazione. È assurdo inoltre accostare la mia opera
tahitiana a quella dei (Simb) simbolisti, ideisti; ma sono più che sicuro che questa vostra mostra avrà un enorme
successo”.
37
Cfr. la lettera a Charles Morice in Paul Gauguin, Oviri cit., pp. 199-200 passim e N. Spilmann, Gauguin et le
gendarmes nel vol. Gauguin. Tahiti-Marquises cit., pp. 53-60.
34
poche cose che erano solo sue. Chi poteva dire che un giorno, sfruttate da altri, non potessero
diventare una sola grande cosa?
Ma ritorniamo a riconsiderare, ora, le tre interrogazioni sulle quali Gauguin è ritornato più
volte nelle sue lettere: D’où venons nous? Que sommes nous? Où allons nous?: non sono solo
domande ma anche il titolo di una grande tela nella quale le due religioni si incontrano idealmente.
Ne faceva riferimento anche in una lettera a Daniel de Monfreid38. Si tratta dell’opera forse più
emblematica dell’artista, un lavoro per così dire ‘filosofico’, espresso da un grande artista che si
interroga sulle grandi questioni dell’umanità. Qui c’è, se non ‘tutto’, molto di Gauguin. Qui c’è la
sua ansia di Assoluto, la tensione verso il Bello, la ricerca di ‘senso’, quasi il suo testamento
spirituale anche se non è stata la sua ultima opera. Nell”Echo de Paris” del 13 maggio 1891 si
pronunciava Jules Huret a proposito di un dipinto in cui Gauguin aveva raffigurato un Cristo
insolito. Alla richiesta di chiarirgli il soggetto il pittore rispose che si trattava di un autoritratto. La
sofferenza che l’artista avvertiva dentro di sé appare davvero profonda se ascoltiamo le sue parole.
Paul Gauguin davanti ai suoi quadri di Jules Huret (1891), pp. 130-131
[…] Ieri, aiutato dalla sorte, ho incontrato Paul Gauguin davanti ai quadri che espone, oggi,
domenica, all’Hotel Drouot, per la vendita del lunedì. [ ] Eravamo davanti a un suo quadro “ultima maniera”,
uno di quei quadri che più mi incuriosivano e di cui faticavo a capire il senso. Si trattava di una figura con un
saio rosso, la barba rossa, appoggiata tristemente ai piedi di un albero; dietro a quella, sotto un cielo azzurro,
alcuni alberi; due confuse figure umane si dileguano in un sentiero. Mi avevano detto: è il Cristo nel
Giardino degli Ulivi. Vedevo il volto soffrire orribilmente, ma mi sembrava troppo brutto per un Cristo, e la
barba di un rosso eccessivo, e perché questi verdi, questi rossi, questi blu accesi e questi alberi bizzarri? Che
significato avevano quelle figure dipinte nell’atto di fuggire? E perché quella strana sensazione di terrore che
mi soffocava? Gauguin mi rispose con la sua voce schietta, misurata e carezzevole, che così bene si adatta al
sogno dei suoi occhi, all’evangelica, ineffabile dolcezza della sua persona. “È il mio ritratto che ho dipinto,
ma anche il crollo di un ideale, un dolore tanto divino quanto umano. Gesù abbandonato da tutti, anche dai
suoi discepoli, una scena triste quanto la sua anima.” “Andate a Thaiti, per dipingere?” domandai al signor
Gauguin. “Parto per starmene tranquillo, libero dalla civiltà. Voglio fare dell’arte semplice, molto semplice;
per questo ho bisogno di ritrovare le mie forze a contatto con la natura ancora vergine, di vedere solo
selvaggi e vivere la loro vita, senz’altra preoccupazione che tradurre con la semplicità di un bambino le
fantasie della mente con gli unici mezzi veri ed efficaci: quelli dell’arte primitiva.”
“L’Echo de Paris”, 13 maggio 1891
Anche se la critica alla religione, e in particolare a quella cattolica, assumono accenti forti e
aspri, tuttavia per la figura di Cristo il pittore mantiene un rispetto assoluto. L’artista desiderava
vivere in pace, voleva che lo si lasciasse morire tranquillo: desiderava ormai solo il silenzio, il
silenzio e ancora il silenzio39. L’ex agente di cambio, e poi grande artista “sauvage”, giunse alla fine
dei suoi giorni contemplando ad occhi aperti dalla sua semplice capanna l’azzurro del mare e del
cielo, indifferente ormai a tutto, anche alla sua stessa morte. Sulla casa-capanna che chiamava
“Maison du jouir”, casa del piacere, dove aveva voluto cercare la sua strada di artista e di uomo
aveva scolpito sul legno delle figure femminili e maschili e anche queste parole: “Soyez
amoureuses, vous serez heureses” (“Siate innamorate, sarete felici”). In fondo la pittura era stata per
lui come l’uomo: mortale ma vivente sempre in lotta con la materia.
In un frammento di Avant et Après40, scritto tra il mese di gennaio e quello di febbraio del
1903, Gauguin riferisce di un sogno nel quale era morto e che, cosa curiosa, era il momento vero
nel quale egli viveva felice. Era condotto a pensare, sognare piuttosto, a quel momento dove tutto
era assorbito, addormentato, annullato, nel sonno della prima età, in germe. Era il caos primordiale,
il nulla primordiale, non dell’essere ma della Vita alla quale alla fine, dopo la morte, vi si ritorna. E
nel suo sogno un angelo dalle ali bianche gli si presentava sorridendo. Dietro di lui un vecchio
38
“Contre le mariage” in Oviri cit., pp. 213-216.
P. Gauguin, Oviri cit., p. 156.
40
Ivi, pp. 340-341.
39
tenendo nella sua mano una clessidra gli diceva che era inutile interrogarlo. L’Angelo gli diceva di
chiedere al vecchio di condurlo all’infinito più tardi: avrebbe visto ciò che Dio voleva fare di lui;
avrebbe trovato che oggi egli era singolarmente incompiuto. Che cosa sarebbe l’opera del Creatore
se era di un giorno? Dio non si riposa mai. Quando il vecchio era scomparso, il pittore si era
risvegliato dal suo sogno: Gauguin, alzando gli occhi al cielo, scorgeva l’angelo dalle ali bianche
che saliva in alto verso le stelle. La sua lunga capigliatura bionda lasciava nel firmamento come una
traccia di luce.
Fig. 78 Paul Gauguin, La visione dopo il sermone, 1888, Edimburgo, National Gallery of Scotland
Fig. 79 Hokusai, I lottatori,
1815, particolare
“Il fallait bien qu’un visage réponde à tous les noms du monde”.
Paul Eluard
Fig. 80 Paul Gauguin, Il Cristo giallo, 1889, Buffalo, AlbrightKnox Art Gallery
“Si je pensais à l’absolu, je cesserais de faire tout effort même pour vivre”
Paul Gauguin, Oviri.
Fig. 81 Paul Gauguin, Autoritratto con Cristo giallo, 1890, Parigi, Musée d'Orsay
Fig. 82 Paul Gauguin, Autoritratto presso il Golgota, 1896, Saõ Paulo (Brasile), Museu de
Arte
Fig. 83 Paul Gauguin, Ia
Orana Maria, 1891, New
York, Metropolitan Museum
of Art
In Ia Orana Maria (“Je vous salue, Marie”), Gauguin si avvale della trasposizione delle figure
di Maria e del Bambino che la tradizione pittorica aveva tante volte raffigurato, in particolare nella
tradizione veneta, da Giovanni Bellini in poi. La sacralità di queste due figure è attestata dalle due
aureole collocate sopra il loro capo. Ma, questa volta, il Bambino non è disposto in braccio, come
nella tradizione europea, egli viene tenuto sulle spalle della madre, come a voler accentuare
maggiormente un loro tratto spontaneo, più naturale per così dire. Le due figure femminili che
vediamo in secondo piano hanno evidenti analogie con un fregio giavanese di Borobudur che
Gauguin aveva potuto osservare in una foto che aveva portato con sé41; dietro di loro si può notare
un angelo dalle ali dorate. Il tentativo di collocare in uno sviluppo della sua concezione naturalistica
della spiritualità, di intrecciare aspetti della religione cristiana e di quella polinesiana appare qui
particolarmente riuscito. La vivacità dei colori, la vegetazione lussureggiante e l’atmosfera di calma
e serenità che questa tela diffonde corrispondono alla consapevolezza di Gauguin che quei luoghi
rappresentavano per lui il vero Paradiso terrestre. Un Paradiso che la civiltà europea, nelle sue
forme repressive del colonialismo e della religione ufficiale cristiana, avevano danneggiato
irrimediabilmente, nella loro spontaneità, nella loro libera e serena disposizione alla vita. La
classicità di queste figure, la loro presenza così forte e la loro caratteristica fusione con l’ambiente
41
La si trova riprodotta nel volume di Françoise Cachin nel suo Gauguin cit., p. 160, fig. 166.
che Gauguin riesce ad ottenere è un’altra delle componenti riuscite delle sue opere di quegli anni.
Anche se non mancano evidenti influssi della statuaria greca, della pittura su affresco italiana del
Trecento e del Rinascimento italiano, Giotto e Sandro Botticelli in particolare. Tra le carte del
pittore erano presenti diverse fotografie appartenute a Gustave Arosa, tra le quali anche un fregio
del Partenone che ha pure evidenti analogie con un’altra opera dell’artista francese, L’homme à la
hache (L’uomo con l’ascia)42. In un’altra opera, dipinta nel 1899, Il grande Buddha, troviamo una
ulteriore prova dell’interesse di Gauguin verso le forme possibili della integrazione delle due
culture della spiritualità cristiana e di quella orientale. Osserviamo in primo piano due figure sedute
(quella a destra appare pensosa e sembra rivolgere il proprio sguardo verso l’osservatore, quella di
sinistra sembra assente); le due figure in piedi sulla destra, sembrano partecipare, all’opposto,
all’evento che si scorge appena sullo sfondo del dipinto. E questo evento biblico ci sembra essere il
racconto del Nuovo Testamento: “Le nozze di Cana”. Notiamo una figura maschile, colta di spalle,
al centro della tavola (Gesù di Nazareth?) e alcuni personaggi seduti che ricordano la distribuzione
degli apostoli in molte raffigurazioni dell’arte occidentale. Sulla destra, oltre un’apertura ad arco,
vediamo una parte di paesaggio sul quale si erge una montagna. In primo piano, sulla destra rispetto
a chi osserva e nella parte inferiore del dipinto, Gauguin ha collocato un cane bianco, accucciato,
che mi sembra rievocare un po’ uno dei due animali che Paolo Veronese aveva raffigurato in una
simile posizione nelle sue grandiose, celebri e affollatissime Nozze di Cana, ora al Louvre.
Se siamo nel giusto con queste nostre osservazioni, allora possiamo davvero pensare che il
pittore francese avesse inteso stabilire proprio tale sincretismo religioso in questa enigmatica
composizione di fine Ottocento collegando religione cristiana e religione orientale. Ancora una
volta un possibile raccordo, un probabile riferimento all’arte veneziana del Rinascimento.
.
42
Anche in questo caso non resta che confrontare le illustrazioni a p. 164 del libro di F. Cachin, Gauguin cit. (fig. 170 e
171).
Fig. 84 Paul Gauguin, Il grande
Buddha (L’idolo), 1899, Mosca,
Museo Puskin
Fig. 85 Paolo Veronese, Le Nozze di Cana,
1563, Parigi, Museo del Louvre
Il giovane critico Albert Aurier, in un pionieristico articolo aveva intravisto acutamente,
prima della realizzazione di questa grande tela di Gauguin, che vi era in lui una forte tendenza
decorativa, vedendo nelle sue opere dei possibili “frammenti d’immensi affreschi”43. Il verde
“veronese” e le tonalità fredde del blu “di Prussia”, i corpi gialli, arancio e marrone delle figure
sedute e in piedi sulla grandiosa tela che Paul Gauguin aveva realizzato tra il 1897 ed il 1898
contrastano con la scarsa presenza del colore bianco, Da dove veniamo? Chi siamo? Dove
andiamo? Di questa vasta composizione ne parla in più luoghi, come abbiamo visto. In una lettera
indirizzata a Daniel de Monfreid44 egli si sofferma su quest’opera, descrivendone alcuni elementi,
figure e tonalità coloristiche, non senza informare il suo corrispondente di un tentativo di suicidio
tramite arsenico, non avendo a disposizione una pistola. Nonostante Gauguin precisi che non si
trattava di una tela fatta come “un Puvis de Chavannes”, essendo stata realizzata senza cartone
preparatorio, è innegabile tuttavia una certa dipendenza della sua composizione da Inter Artes et
Naturam, un dipinto degli anni 1888-1891 custodito a Rouen, nel Musée des Beaux-Arts45. Gauguin
riteneva il suo lavoro superiore a tutto quanto aveva realizzato in precedenza: vi aveva introdotto,
prima di morire, tutta l’energia che possedeva, una tale passione dolorosa a causa delle circostanze
della sua vita, e una visione così netta che ne sgorgava la vita. A destra e in basso, aveva collocato
un bambino addormentato, poi tre donne. Due figure con vesti di color porpora si confidano le loro
riflessioni; una figura enorme, volontariamente e malgrado la prospettiva, accovacciata, alza le
braccia nell’aria e guarda, stupita, i due personaggi che osano pensare al loro destino. Una figura
del milieu raccoglie un frutto. Due gatti sono accanto ad un ragazzo. Una capra bianca. L’idolo, con
le due braccia sollevate misteriosamente con ritmo, sembra indicare l’al di là. La figura
accovacciata sembra ascoltare l’idolo; poi infine una vecchia vicina alla morte sembra accettare,
rassegnarsi; ai suoi piedi, uno strano uccello bianco che tiene nella sua zampa una lucertola,
rappresenta l’inutilità delle parole vane. Sullo sfondo il mare, poi le montagne dell’isola vicina.
Malgrado i passaggi di tono, l’aspetto del paesaggio è costantemente da un capo all’altro “bleu et
vert Véronese”. Sulla scia delle teorie di Stéphane Mallarmé, Gauguin era convinto che, in
un’opera, ciò che davvero conta, ciò che davvero è importante, deve consistere in ciò che non vi è
di espresso compiutamente. Egli concepiva un quadro non come un teorema ma come un sogno: un
sogno inafferrabile, privo di allegoria, un poema musicale che poteva fare a meno, per così dire, del
libretto.
Affrancato dalle regole convenzionali imposte da una tradizione che avvertiva limitante,
Gauguin sentiva che quella sua tela grezza di 4,50 metri per 1,70 di altezza presentava un tema il
cui contenuto filosofico poteva essere comparabile al Vangelo46.
43
Le Symbolisme en peinture: Paul Gauguin, “Mercure de France”, mars 1891, pp. 155-165
La lettera è riportata in Paul Gauguin, Oviri cit., pp. 193-195. La traduciamo e commentiamo liberamente nel nostro
testo.
45
L’accostatamento dei due lavori presente in A. M. Damigella, Gauguin a Tahiti cit.,p. 36, ne rende inequivocabili le
affinità generali, pur nelle loro diversità contenutistiche, stilistiche ed estetiche, pure innegabili.
46
P. Gauguin, Oviri cit., p. 195.
44
Fig. 86 Paul Gauguin, Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? (1897-98), Boston, Museum of
Fine Arts
Fig. 87 Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? (1897-98), Boston, Museum of Fine Arts;
particolare