digital magazine aprile 2010 N.66 Lost in Musical Byrne & FatBoy Slim A Toys Orchestra Caribou Fucked Up Cobblestone Jazz Adi Newton/Clock DVA Santo Barbaro // Vessel // Temperatures // Kuupuu // Evy Arnesano // Ikonika 66 Sentireascoltare n. Turn On p. 4 Santo Barbaro 5 Vessel 6 Temperatures 7 Kuupuu 8 Evy Arnesano Tune In 10 Ikonika 12 Caribou 16 Cobblestone Jazz 20 Fucked Up Drop Out 24 A Toys Orchestra 30 Lost in Musical Recensioni 36 Balaclavas, Caribou, Crookers, Extra Life, Ikonika, MGMT... Rearview Mirror 90 Jawbox, Adi Newton, ZU... Rubriche 86 Gimme Some Inches 88 Re-boot 102 Giant Steps 103 Classic Album 104 La Sera della Prima SentireAscoltare online music magazine Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05 Editore: Edoardo Bridda Direttore responsabile: Antonello Comunale Provider NGI S.p.A. Copyright © 2009 Edoardo Bridda. Tutti i diritti riservati.La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare Direttore: Edoardo Bridda Direttore Responsabile: Antonello Comunale Ufficio Stampa: Teresa Greco Coordinamento: Gaspare Caliri Progetto Grafico e Impaginazione: Nicolas Campagnari Redazione: Antonello Comunale, Edoardo Bridda, Gaspare Caliri, Nicolas Campagnari, Stefano Solventi, Teresa Greco. Hanno collaborato: Giancarlo Turra, Marco Braggion, Gabriele Marino, Leonardo Amico, Fabrizio Zampighi, Luca Barachetti, Stefano Pifferi, Andrea Napoli, Filippo Bordignon, Luca Barachetti, Salvatore Borrelli. Guida In 2 spirituale: copertina: Adriano Trauber (1966-2004) Lost in Musical (David Byrne+Fatboy Slim) Vessel —Setacciare la verità— —Next pop queen— Il gruppo bolognese cerca una rifondazione delle parole all'insegna della purezza e della densità con un disco e un libro in dialogo tra loro Due parti di Giardini di Miro' e una parte di Pitch. Per un viaggio in tre tappe a bordo del Vascello A “L 'idea di Mare Morto è sorta in modo estemporaneo e imprevisto. Abbiamo fatto qualche prova e nessun concerto, poi ci siamo chiusi in studio. Volevamo ridestare la centralità della parola, del testo. Ma non per giungere allo stomaco di un pubblico vasto e sconosciuto, piuttosto per scavare nella nostra coscienza e mettere in discussione la nostra percezione delle cose. Come scrivere sulla superficie liscia di uno specchio per accusare e additare quel volto ignoto che ci appare di riflesso”. I Santo Barbaro praticano il difficile mestiere di chi sta tra parola e verità. Dalla prima vogliono distillare significati che alimentino la seconda. Un disco, Mare Morto, uscito nel 2008 e oggi ristampato insieme ad una raccolta di racconti (Un giorno passo e ti libero) dalla benemerita Ribéss Records, ovvero i due poli rappresentativi di una poetica dove la densità – lirica in primis, e dunque di songwriting – è uno dei tratti più distintivi: “I racconti rappresentano l'altra faccia di uno stesso ragionamento, sono squarci attraverso i quali si cerca di giungere ad una dimensione infantile della rivoluzione. Ma sono anche chiavi di lettura, una via per dare colore alle pagine in bianco e nero dell'album”. Un bianco e nero dalle tonalità livide, che inserendosi 4 Turn On Turn On Santo Barbaro fra riferimenti previsti ma rimasticati a dovere (Black Heart Procession, Radiohead, Nick Cave, C.S.I., Giancarlo Onorato), cerca forme di comunicazione purificate e perciò (ri)fondative. Prima di tutto nel trattare temi purtroppo banalizzati dal brusio appiattito del presente: “Il punto è setacciare la verità attraverso l'immagine che abbiamo di noi stessi, la nostra realtà, la propaganda che ci avvolge come un fumo denso”. Quali ad esempio la guerra: “La guerra invade il nostro presente ma i nostri occhi ne rifiutano l'esistenza. Parlare di guerra è come parlare di dio, di una astrazione, di qualcosa a cui ci si è abituati e che non si mette in discussione in senso intimo e profondo. Ma gli occhi di chi ha vissuto la guerra – e per cui quel termine non è come per noi un semplice slogan orwelliano che si confonde spesso con la parola pace – affondano nella nostra intimità e la squarciano. Ridanno corpo e voce all'orrore che nutriamo quotidianamente. Tutto questo, in ultima analisi, ci riporta alla verità, e alla menzogna”. E ad un lavoro che non chiamiamo poesia solo perché nell'essere Canzone trova il proprio altissimo senso. Ma che della poesia ha tutto il fine e la forza. Luca Barachetti unire Alessandra Gismondi, Corrado Nuccini ed Emanuele Reverberi in un nuovo progetto discografico non è la voglia di scoprire, ma di riscoprire. Seguendo i binari di una formazione musicale comune passata per anni di ascolti e sbocciata di recente in una collaborazione per una cover/tributo a Leonard Cohen. “Vessel” recita la ragione sociale, perché di viaggio si tratta. Pianificato e con tanto di data di (presunta) scadenza, da concludere entro il 2010 con tre EP ognuno dedicato a un tema preciso. In quel Tales Of A Memento Island che trovate in spazio recensioni si parla della "memoria", mentre i prossimi due verteranno sulla “passione” e sulla “rinascita”. Un fil rouge utile a dare credibilità alla produzione del gruppo ma anche a giustificare scelte stilistiche fortemente contestualizzate. “Coverizzare” senza (o quasi) cover, verrebbe da dire, almeno in questa prima stazione del viaggio. Con gli anni Ottanta e i Novanta che si mescolano all'indie-shoegaze dell'accoppiata Pitch /Schonwald e a un elettro-cantautorato malinconico spruzzato di Velvet Underground. Anche perché se di riscoperta si deve trattare, tanto vale giocare con l'anagrafe e ritrovarsi ventenni: “Gli anni Ottanta hanno rappresentato forti cambiamenti di sonorità e sono stati un forte punto di riferimento. Gli anni 90 sono stati espressione della nostra vita creativa perché li abbiamo vissuti fisicamente sia come pubblico che come musicisti on stage. Abbiamo semplicemente omaggiato un'epoca, esplorando territori diversi, avvicinandoci alla musica d'autore e cantautoriale, mescolando il background delle singole esperienze musicali”. Un misto di nostalgia canaglia e di creatività, sommate alla velocità con cui gli ultimi dieci anni hanno azzerato tutte le sicurezze che l'Era del CD sembrava aver prodotto. E con loro due decenni dalla personalità stilistica tutto sommato monolitica, se confrontati con un'attualità in cui la contaminazione tra i generi e la mancanza di definizioni certe sono la regola. Nella diatriba tra "evoluzionismo" e "citazionismo" i Vessel si schierano apertamente a favore del secondo cercando nel contempo i giusti referenti: over trenta, o magari nuove leve con la voglia di andare oltre quell'ascolto distratto, veloce e costantemente "sulla notizia" che il caleidoscopio della rete spesso offre loro. Il tutto con uno stile pacato, fedele ai modelli, ma capace anche di trascendere il mero reprise puntando sul carisma e l'esperienza dei musicisti. Alla fine la sensazione di deja vù è forte per chi ha vissuto quegli anni e in Memento List si ritrova citati Folk Implosion, Built To Spill, Meat Puppets, Charlatans,Teenage Fanclub, Jeff Buckley, Sebadoh. Come forte è l'impressione che i Vessel abbiano iniziato il loro percorso con la giusta convinzione. Fabrizio Zampighi 5 C apita che Mr. Thurston Moore si materializzi nel web consacrando qualche oscuro act agli esordi. è successo ai Mouthus, agli Upsilon Acrux ed ora è il turno dei Temperatures, scovati spulciando tra i dischi del fido negozio di Prurient a Brooklin e prontamente segnalati in una pubblicazione di Pitchfork. Era la fine del 2007 e il duo basso/batteria costituito dai due pischelli Peter Blundell e James Dunn aveva appena pubblicato, su Heat Retention, un primo ellepì intitolato Ymir. Un lavoro rumoroso nello stile della Load rimasticato però in una variante detritica, lasciando di quel suono soltanto le rovine. In pratica, se da una parte rifiutava la matematica dei Lightning Bolt, nondimeno quel sound toglieva quel poco di wave rimasto ai Sightings senza farsi mancare infide cacofonie ottenute attraverso un synth semi-modulare. Se Colin Langenus, batterista del duo USA Is A Monster ha dribblato con l'organo a pedali il problema di aggiungere spessore all'output sonico di una formazione ridotta ai minimi termini (che dai Ruins agli Hella, oltre ai già citati LB, si risolve spingendo al limite muscoli e cervello), i Temperatures ne escono con l'ausilio della (vecchia) tecnologia: un synth analogico ARP 6 Kuupuu —Rumori caldi, rumori freddi— —Rito d'altro mondo— Ha viaggiato a lungo, portato il girovagare in musica e ora ha trovato la propria voce: il pop meticciato e cosmopolita dei Ruby Suns di Ryan McPhun A qualche mese di distanza da Lumen Tähden torniamo nel magico mondo finlandese di Kuupuu 2600 collegato tramite microfoni a contatto ai tamburi di Blundell che amplifica e deturpa (in lunghi scrosci e gracchi) i colpi del batterista. È col medesimo setup che a tre anni di distanza, licenziato lo scorso febbraio dall'italo-americana Ultramarine, esce il sophomore Eksra, un passo decisivo verso una cifra stilistica significativa. Il drumming si è fatto più vicino al free di Sunny Murray o Chris Corsano, lasciando sovente a Blundell e al suo basso il compito di reggere la struttura ritmica a colpi di motorik, mentre blatera frasi incomprensibili alla maniera lightinboltiana. Ne vengono fuori delle sorta di jam sbronze, in cui si alternano fasi slabbrate e fuori controllo ad intenzioni più propriamente rock, in cui i due spingono all'unisono verso una catarsi mai data. Mantenendo nei loro pezzi quelle sensazioni come di un ebbro torpore che impedisce ogni spinta risolutiva. è un sound sempre in bilico tra costruzioni instabili e rovine inevitabili, che li tiene lontani da facili tentazioni parossistiche di band come Skullflower e Dead C declinandoli verso i toni remissivi - e quasi malinconici della madre patria albionica. E già così Temperatures. Leonardo Amico L Turn On Turn On Temperatures a Finlandia è uno stato d'animo, un cervello specifico, il sit-in di emotività senza tempo ed inesprimibili; guazzabuglio d'arbusti, laghi, foreste, distese chilometriche di natura allo stato puro, riti d'altri mondi. La musica che nell'ultimo decennio è passata da qui ha toccato una tangente parallela (ma forse in combutta) con il New Weird America. è probabile che siano i luoghi la forza magmatica di questa differenza con tutto il resto, anche con sottoboschi musicali che sostanzialmente dividono i medesimi percorsi. Etichette come Fonal, Ikuisuus, 267 Lattajjaa stanno al folk come l'acqua per Marte. E del sottobosco finlandese Jonna Karanka ha manovrato con sapiente disappartenenza i fili di questa scena non troppo dissimile dalle sabbiose distese rossastre dal pianeta rosso. Avarus, The Anaksimandros, Maniacs Dream, Kukkiva Poliisi, Lussu ja Magneetti, Kermakolmio, Hertta Lussu Ässä, Thriller Bingo, Way Of The Cross, Mezzolat, Master QSH, tra i micro-gruppi più importanti che la finlandia in odore weird abbia sfornato, è come se avessero scelto la musica come mezzo per non morire; la solitudine a tenerli uniti, a farli collaborare. Tra loro, Kuupuu è l'incantatrice di serpenti, ama il collage visivo e sonoro. è pittrice, organizzatrice d'eventi, musicista vaudeville, tessitrice di mosaici noise dall'im- pianto para-acustico, usa il laptop come qualunque strumento consono e non consono, ama il metallo pesante, così come le foreste, i laghi, l'apocalisse, e l'inferno depressivo dei suoi strani soggetti sonori, un po' alla stessa maniera di Zeek Scheck quando s'inventava personaggi limite, ossessionati e sessualizzati, per i suoi siparietti da hot-lines. Difficile racchiuderla in un genere musicale: la sua più che dozzina di dischi in solo, e l'altra doppia dozzina di materiali in compagnia, la schierano a fianco dell'attitudine moderna di registrare qualsivoglia più per necessità immediata, che per preciso bisogno di costruire discografie perfette. Inoltre, è qualcosa di più di una musicista freak folk: il suono è mesmerizzazione, visione parapsichica, qualcosa che come nel caso di Lau Nau ed Islaja appartiene all'inconscio; i dischi, a partire dalle immagini, indecifrabili, sogni nascosti e glaciali e la discografia è tutt'altro che perfetta con l'ultimo Lumen Tähden a rappresentare l'apice di quello che possiamo chiamare pre-birth folk, musica che ti ribattezza uno stile (diventato anch'esso schematico) piuttosto che ancorarsi agli abusati riti sciamanici. Salvatore Borrelli 7 Turn On Evy Arnesano —Tipa Tenace— Low budget, tanta tenacia e la giusta dose di talento. Una situazione post-anni zero su cui vale la pena meditare T ipa Ideale di Evy Arnesano - recensito nel ReBoot di marzo - è una autoproduzione a basso budget che però non rinuncia all'intento di deliziarci con raffinatezze e arguzie pop. Canzoncine che si cantano sotto la doccia eppure dotate di una loro robustezza che deriva da ascendenze lounge, swing, beat-pop melodico anni sessanta... Degna di nota poi è l'applicazione anzi la tenacia con cui l'autrice lo promuove e si promuove, utilizzando tutti i mezzi a disposizione dal moderno do it yourself. Ci è sembrato opportuno indagare. Chi sei, da dove vieni, cosa hai fatto sin'ora? Sono salentina, felicemente trapiantata a Bologna ma con una incipiente voglia di tornare al mare, ex studentessa di legge, ex tastierista reggae ska, con l’hobby 8 di cucinare dolci in particolare crostate di mele, con il pallino di inseguire le mie idee, musicali e di scrittura. Inoltre svolgo in maniera atipica e precaria alcuni lavori: sono editor audio di videogames, coordino un centro estivo di bambini delle elementari, faccio qualche lezione di piano e doposcuola ai piccoli. Cosa c'è dietro a Tipa Ideale? Dietro questo disco c’è da un lato il bisogno di chiudere un decennio di vita e di canzoni, dall’altro il tentativo di lasciare almeno una testimonianza della mia piccola e "numerica" esistenza. Con l’ambizione di poterci riuscire da sola, senza intermediari, bypassando i normali canali e interlocutori e arrivando direttamente al pubblico dal "basso", per dirla così, realizzando una sorta di prodotto artigianale per veracità ma professionale per caratteristiche tecniche. Come sono nate le canzoni? Componi da sola? Ho cominciato a scrivere musica sin da quando suonavo le tastiere in alcune formazioni ska e reggae, per le quali proponevo sia le mie parti, sia armonie e arrangiamenti per altri strumenti. I primi pezzi sono nati su un atari 1040 dove girava cubase midi e su un akaj 3000 xl, in una camera di un grosso appartamento che condividevo con un numero incredibile di persone, ero disoccupata e più squattrinata che mai. Il primo nucleo di Tipa Ideale nacque in sei mesi di lavoro: idee di armonia e melodia al piano, cesello del testo, arrangiamento al computer. Compongo da sola avvalendomi del computer col quale ho un'intesa perfetta, soprattutto con alcuni softwares tipo reason, logic e pro tools. Suono il piano e le tastiere e quindi posso arrangiare tutto immettendo le parti suonate con la master, programmando sequenze o lavorando campioni. Mi piace molto armonizzare le voci e compenso coi cori la mancanza di virtuosismi vocali non affini alla mia scrittura. Quante persone sono state coinvolte nel progetto? Davvero tante. Per numero e qualità siamo a livelli di una bella produzione standard, cosa che visto il budget a disposizione non ti aspetteresti. Questo perché i 14 turnisti, grafico e fotografa non hanno preso alcun compenso per le loro prestazioni, essendo tutti amici ai quali ho chiesto di dare un contributo. Inoltre ho fatto il lavoro di editing quasi tutto io personalmente, comprese le voci che ho voluto lavorare senza servirmi però di auto-tune. Dimmi dei tuoi riferimenti musicali. Preciso che, nel momento in cui mi viene in mente un’idea per un pezzo, scrivo di getto senza pensare mai a riferimenti e modelli. In quel momento tutto ciò che fa parte del mio background musicale è ampiamente metabolizzato e inglobato a tal punto che, se qualcosa rimane, sono richiami subliminali, quasi inconsci. Il punto è che di musica altrui ne ascolto davvero parecchia, spaziando dalle cose molto vecchie a quelle dell’ultima ora, anche se purtroppo non riesco a comprare tutti i cd che vorrei possedere. Ad esempio alcuni gruppi che amo molto e che non sono per niente presenti nella mia musica sono Phoenix, Bent, Milosh, Telefon Tel Aviv, Kings of Convenience. Tra i miei ascolti, quello che invece è più facilmente riconoscibile nel mio stile è tutta la musica cinematografica anni sessanta e settanta, quindi soprattutto Umiliani e Piccioni, Bruno Martino, Sergio Caputo, Carosone, Buscaglione, Arigliano, Mina, Battisti, Curtis Mayfield, Isaac Hayes. E potrei andare avanti davvero per molto ancora... C'è un altro aspetto oltre a quello musicale che mi interessa molto di te, ed è quello promozionale. Stai spingendo molto sui social network, ti promuovi con tenacia e devo dire una certa abilità... Il web ha dato un nuovo e decisivo impulso a qualcosa che esisteva già. Quando cominciai a mettere i pezzi del vecchio demo su myspace mi accorsi che da più parti, anche dall'estero, venivano apprezzamenti crescenti e la richiesta di un disco e di un live. Quando mi sono iscritta a FB non l’ho fatto con l’intento di promuovere le mie canzoni, la cosa è venuta come conseguenza essendo la musica una parte di me. I primi contatti che ho cercato sono stati scrittori ed editori proprio perché avevo interesse a comunicare il mio interesse per la lettura e la scrittura. Da lì in poi, man mano che cresceva il mio seguito, è stato naturale farmi conoscere anche per il progetto musicale che nel frattempo aveva preso forma. Poi c’è il mondo reale. Ovviamente fai concerti. Come ti organizzi, hai una band? Ho cominciato in questi giorni a riorganizzare il live, che per esigenze di budget dovrà esser pensato per un organico piccolo, e questo significa che dovrò suonare la tastiera con un impegno maggiore rispetto al precedente live set, dove mi concentravo più sul canto e sulla presenza scenica. Debutterò in questi giorni in forma light ad un contest cittadino bolognese, giusto per saggiare il terreno e prendere confidenza con questo mio doppio impegno. Con me ci saranno un bassista, un batterista e probabilmente un percussionista, tutti scelti tra i turnisti che hanno partecipato al mio disco, i quali, essendo soprattutto degli amici, aiutano a ricreare un’atmosfera da "gruppo". Fin dove si spingono i tuoi sogni o, se preferisci, la tua ambizione? Fino al punto di desiderare di fare altri due album, uno di cover e uno di inediti, di scrivere il mio primo romanzo o libro di racconti, di finire in programmazioni radio che mi permettano di arrivare ad un maggior numero di persone (mentre ti scrivo sono in gara a Fattore C di radio 101) ma senza mai, e dico mai, perdere la mia libertà creativa, senza mai assoggettarmi a logiche di mercato, nel rispetto della mia personalità e del gusto di chi ascolta. Con onestà tale da offrirmi magari in modo piu' ingenuo ma sincero! Stefano Solventi 9 Turn On Ikonika —She Bleep Steps!— Debutto sull’etichetta di Kode9 per la ventiquattrenne di West London. La nuova onda del dubstep avanza H yperdub. Quartier generale di Londra. L'etichetta culto per il mondo dubstep/wonky e per tutte le declinazioni del suono now londinese d'avanguardia nerdy commemora la longevità quinquennale con una compilation che fa storia. Tra i più di 30 titoli spuntano due tracks - Please e Sahara Michael - di un'illustre sconosciuta: Ikonika. In compagnia di nomi sacri del calibro di Zomby, Burial, Kode9, Rustie, Martyn, Flying Lotus, The Bug e King Midas Sound s'incunea una 10 ragazza giovanissima, coloured e con la fissa per le tastierine. Grazie a una serie di break al fulmicotone fa capire al mondo che in mezzo alla sporca dozzina lei gioca duro, e a modo suo. In un 2010 stanco dei mix da dilettanti che scimmiottano la classe di Bibio o di Zomby, rivalutarsi attraverso lo strumentale è già degno di nota, eppure l'approccio della westlondoner prende una direzione diversa dai maschietti pasticcomani che le girano attorno (vedi alla voce Toddla T). Con un'estetica a metà tra l'umanista e l’hauntologico, Sara Abdel-Hamid sta lontana dalla techno, cerca nelle vecchie macchine il cuore, scava nella memoria con occhio sbarrato e, usando le sue parole, «fa esprimere alle macchine le loro emozioni, come WALLE», mescola cioé melodia e ritmo in un equilibrio tra sogno e disimpegno, quasi come volesse fare della messthetica aggiornata ai tempi del dubstep. La Young Marble Giant dell'elettronica made in Londra. Uno scarto inatteso per una scena autocelebrativa che fino ad oggi ha indossato sempre e solo i calzoni. La storia di Sara inizia a scuola. L’attuale ventiquattrenne inizia a conoscere la musica tramite la batteria a soli 11 anni. Il suo amore per l’hip-hop e il crossover la fanno entrare prima nel giro hardcore, poi nelle sonorità hiphop con il moniker KillKip. Ma dal 2005 c’è la folgorazione. Una traccia classica di Skream (Midnight Request Line) le fa alzare le orecchie e pensare di imbarcarsi nell’avventura. Inizia a frequentare il sito di scambio di tracce dubstepforum e nel 2007 manda in giro i primi demo di Please. Steve Goodman (aka Kode9) la nota, dice lei, forse per quel nome apparso in un documentario quando frequentava la film school. La traccia è una bomba imprevedibile che raccoglie idee e suoni da fonti apparentemente slegate: la ritmica spezzettata del free jazz, i synth anni '90 dei videogame, il minimalismo bleep techno e in mezzo a tutto questo caos un amore per la melodia che riporta la cantabilità su un pianeta dominato in gran parte dal beat. Nelle mani del boss di casa Hyperdub il pezzo viene tagliuzzato e limato per la stampa vinilica. «è strano e sorprendente avere la richiesta di poter rimaneggiare il pezzo da parte di una persona di cui sei fan», ci dichiara via mail. Il singolo esce a febbraio 2007 e viene replicato nel 2008 con la track Millie. Per il full length bisognerà attendere altri due anni, fino ad oggi dunque: un intervallo nel quale Sara, paziente e scrupolosa, licenzia soltanto altre due tracce, sempre su Hyperdub, Sahara Michael e Fish (novembre 2009). Ora che l'attesa è finita le chiediamo qual è il core dell'album. «Quello che volevo raggiungere col disco è contrasto ed emozioni elettroniche», ci risponde secca. Come a dire che il calderone si basa su melodia e su nostalgia nerdy per gli anni ‘90. I bleep a 16 bit (la cosiddetta quarta generazione di consolle, tipo Sega Mega Drive e Super Nintendo per intenderci) e la melodia di sottofondo, tutto filtrato con la trasversalità del wonky e della nostalgia dell’hauntology. La melodia di Sara si fonde con il ritmo e porta una ventata di novità alla scena, ormai stanca di celebrare esclusivamente la stagione del rave. Contact, Love, Want, Hate - come dice bene il giornalista britannico Adam Harper - è un disco per la Hyperdub generation, non per i reduci dei party Metalheadz. Il suo merito è quello di variare continuamente le coordinate e situarsi nella direzione tracciata da Joker, Hudson Mohawke e Starkey: un nuovo modo di vedere oltre la corte fumosa del dubstep. Non si rinnegano le origini, ma si applicano trasversalmente le conclusioni massimaliste ereditate dalla storia decennale degli Animal Collective e dalle ultime produzioni di Bibio. è Londra che si mostra in tutta la sua positività: dopo aver esplorato l’assenza di luce e gli abissi magmatici del grime con il campione Burial, Ikonika riporta il gioco in primo piano: nell’intro Ikonklast (Insert Coin) e nella penultima traccia Look (Final Boss Stage) i riferimenti sono dichiarati esplicitamente già nei titoli. Le sequenze campionate provengono da quelle session pomeridiane da cameretta che richiamano adolescenza nerdy e manine paffute. Non solo: Idiot e R.e.s.o.l sussurrano melodie apparentemente infantili costruite con i synth mescolate a scale orientaleggianti e bassi da pompa magna Hyperdub, Yoshimitsu si avvicina alle meraviglie ambient di Scuba, a quello stupore che oltre al suono proponeva meditazione e trance, They Are All Losing The War ci spara direttamente in sala giochi, nella progressività al fulmicotone della due posti di Out-Run, Psoriasis ha il vago sentore del baile funk sudamericano e ascoltando Video Delays scappa pure un’involontaria lacrimuccia minimal. L’innovazione non sta solo nella mescolanza fra generi, ma nel processo stesso di costruzione del nuovo. Per chi cerca un tag che definisca sinteticamente la musica di questa generazione di smanettoni sarà uno shock non trovare definizioni unilaterali, dato che ad ogni ascolto si aggiungono elementi eterogenei, particolari che assumono sfaccettature diverse. Caleidoscopio di bleep, di ricordi e di proposte, la “nuova onda” del dubstep parte da West London. La Giovanna D’Arco della rivoluzione istantanea è una ventiquattrenne schiva e concentrata sul suo lavoro. Con un EP in uscita su Planet Mu la prossima estate e con una pletora di remix e collaborazioni, Sara non ha un minuto di sosta. Il debutto ufficiale colpisce ad ogni iterazione di ascolto. Ikonika è la nuova voce dello sprawl londinese. Marco Braggion, Gabriele Marino 11 D Tune-In alla post-idm del primo lavoro, alla folktronica massimalista, con cui si è fatto conoscere e apprezzare negli ambienti elettronici tramite la blasonata Leaf Records, Dan Snaith in arte Caribou (precedentemente noto come Manitoba) è un autentico campioncino del suono anni zero e un testimone paradigmatico delle sue evoluzioni. Caribou —Minimalismo e complessità— Caribou svolta il decennio con un nuovo corso musicale all’insegna di un’idea di trance rinnovata dai richiami dance, colti e rave Testo: Edoardo Bridda Virando di 180° gradi l'approccio pop ad alto tasso psych del precedente Andorra, Swim - in uscita nella prima metà di aprile - apre una nuova fase nello sviluppo sonico del canadese, rinnovando gli arrangiamenti e virando verso un'elettronica trance-dance ispirata, tra gli altri, a Arthur Russell. Il filo rosso risiede, ancora una volta, nel dialogo tra pop e avanguardie, mentre il cambiamento di pelle ripensa la mutant disco di fine Settanta, in una prassi cui presiede un continuum personale di ripetitività e complessità, due estremi di un concetto di trance che, secondo Snaith, ha raggiunto il massimo equilibrio nell'epoca d'oro del free jazz, allorché Oriente e Occidente, libertà e virtuosismo hanno a suo avviso hanno combaciato perfettamente. Per il canadese, infatti, non vi è molta differenza tra kraut rock, drone music e quello psych-rock che più gli piace: ognuno combina diversi elementi di minimalismo e costruzione, collocandosi in seguito nel quadro di una dialettica a distanza con l'amico Kieran Hebden, anch'egli responsabile di una similare svolta nel recente There Is Love In You. Da qui partiamo anche con l'intervista, curiosi di sapere se tutte le spezie presenti in Swim siano figlie di una certa razionalità o siano da ricondurre al "consueto" istinto dell'artista. Senza tralasciare quanto ancora vi sia di eccitante e creativo nel fare musica dopo cinque album e dieci anni di attività. Parlando con Kieran del suo ultimo lavoro è venuta fuori una sua passione adolescenziale per il two-step, stile che troviamo anche come influenza del tuo primo lavoro Start Breaking My Heart. Swim in un certo senso pare ricongiungersi con tutta un’elettronica lasciata temporaneamente da parte… Credo che Kieran sia molto più dentro di me in queste cose attualmente, come è sicuramente vero che quando incisi l’esordio, il two step era molto popolare tanto a Londra quanto nei miei ascolti ed è finito per influenzarne alcune di quelle tracce. In questo periodo ho ascoltato molto funky elettronico, sempre inglese, e non di meno mi sono interessato proprio agli inserti two step nelle recenti produzioni dub step. 12 mi piacciono le sue canzoni. Più che altro è il background di partenza a cui entrambi facciamo riferimento. Penso agli ottanta quando la dance music dialogava con le avanguardie, l’avant disco di Arthur Russell Nell’album c’è tutto un portato rave. Cose a cavallo tra idm e ballo come per esempio gli Orbital pre Insides, i Chemical Brothers… Non mi è mai piaciuta l’ambient techno quando ero a scuola. E non ho mai ascoltato di proposito quella musica al tempo, piuttosto l’album è frutto della fascinazione per l’idea sonica che stava dietro a quella musica. Mi riferisco alla trance per esempio: mi piace moltissimo quel senso di euforia che ha dentro ma non l’effetto “detonazione” del ritmo, il rush da sballo. Infatti, in Swim sia che si tratti di suoni rave come quelli ricavati dai primi sintetizzatori, è la ricollocazione di contesto quello che conta. è entusiasmante il percorso che ti ha portato da certa psichedelia pastorale di Milk Of Human Kindness al trance pop di Andorra e infine a quello Swim ce ne parli un po’? C’è sempre stata quest’attenzione alla trance. Magari un po’ meno in Andorra che vedo sempre come il mio lavoro pop. Quando ero teenager tutto si focalizzava sull’imparare a suonare bene uno strumento e fare i primi virtuosismi. La dance music ha sovvertito tutto. La ripetizione era quello che contava e non l’assolo, proprio come nel kruat rock e proprio come certe musiche etniche come quella africana o indiana. Il minimalismo poi, in grado com’è di creare la trance attraverso la ripetizione, è un’idea veramente potente, totalmente agli antipodi rispetto alla tradizione classica europea che si basa sulla complessità. Eppure nella tua musica c’è un progressivo grado di elaborazione e concettualizzazione Già, penso di aver utilizzato entrambi i modi. Andorra per esempio aveva molto a che fare con le complessità armoniche, il comporre e l’arrangiare i brani, in Stop Breaking My Heart e gli altri album domina invece la ripetizione. In Swim le componenti utilizzate sono entrambe. L’uso che fai del free jazz è dunque da intendere come un modo per rompere il meccanismo? Sul versante melodico, Odessa, il tuo primo singolo ha un evidente richiamo al white soul. Durante tutti gli anni zero Erelnd Oye ha riscosso un certo successo portando quel tipo di sound in discoteca, agganciandoci tappeti di funk e groove house, credi ci sia una connessione? In un certo senso anche nel jazz è successa la stessa cosa. Gente come Ornette Colemann era ossessionata dalla complessità e dalle capacità tecniche, poi gente come John Coltrane coltivò la direzione del mantra pur rimanendo comunque virtuosa. Credo che il tardo John Coltrane, Alice Coltrane, Albert Ayler sia quello ha sposato al meglio complessità e semplicità. C’era il senso del ritmo, della ripetizione, del groove e una lussuosa combinazione di suoni. La free jazz music che adoro non è così lontana dal kraut rock e neppure dalla mutant disco di Arthur Russell Non ci ho mai pensato. Amo la sua voce ma decisamente non La dinamica tra semplice e complesso è riscon13 trabile nella tua musica ma è più una strategia procedurale dal di dentro: chi ascolta Up In Flames, e in particolare la traccia Skunk, dove citi una canzone dei Beatles, ci sente del massimalismo in musica e magari un’operazione post modernista tout court… Fino a quest’album, non ho mai pensato concettualmente. E crescendo in un posto merdoso nel mezzo del nulla nel Canada, non hai proprio idea dei contesti e da dove vengono le cose. Certo, suonare psichedelia con una drum machine e suonandoci sopra free jazz è post-moderno, e se fossi cresciuto a New York quando è nato l’hip hop avrei avuto un contesto sociale molto forte che mi avrebbe insegnato cosa questo significava, eppure, fino a Swim è stato un mettere assieme i suoni che mi eccitavano di più, senza contesti né barriere. Up In Flames pare proprio un tutt’uno con le fascinazioni che lo hanno prodotto. Quasi ti si vede copiare e incollare tutti quei layer. Formare mondi tridimensionali basandoti sui suoni. è un album figlio di un uso massivo del laptop, strategia che hai progressivamente ridimensionato… Ho iniziato suonando il piano, classico e jazz, poi ho suonato un po’ la batteria e la chitarra. La cosa eccitante della musica elettronica, un computer e un synth per dire, è il suo costo. Potevo fare musica a costo praticamente nullo. Così, sin dal mio primo album, che è sicuramente quello più elettronico, ho iniziato a rimetterci gli strumenti che avevo suonato per anni. Poi hai iniziato a fissarti con le percussioni. Aspetto che ti ha portato all’esibizione dell’ATP del 2009 che è stato un po’ uno spartiacque… Ho suonato con quindici persone on stage, amici e miti personali: quattro batteristi, cinque trombettisti tra cui Marshall Allen della Sun Ra Arkestra, Kieran Hebden, Jeremy Greenspan (Junior Boys) ecc. è stato il massimo. Il capitolo finale di un’apoteosi psichedelica, la realizzazione di un sogno con la consapevolezza che era la fine di quel tipo mondo sonico. Infatti in Swim c’è un ritorno all’elettronica e a un suono molto meno corale… C’è molto molta tecnologia nell’album. Per esempio in Balls ho campionato il suono di palle tibetane comprate in un viaggio in Cina. Successivamente le ho suonate grazie a una tastiera (proprio come un sintetizzatore) tirandoci fuori tutto lo spettro di possibilità che mi potevano dare. o un PAD rispetto a uno schermo del computer. è più performativo utilizzare i sample, suonarli veramente. Hai utilizzato anchei contact microphone che vanno tanto di moda ora? Non quando ho registrato, saranno sicuramente una parte importante del live show. Rispetto a prima ora la tecnologia ci permette di suonare spontaneamente le parti elettroniche ed è una prospettiva tremendamente eccitante. Tornando alle canzoni. Ci racconti un po’ come sei arrivato alla forma canzone (E agli Eighties)? Andorra è stato il mio album pop. Quello attraverso il quale ho imparato a scrivere canzoni. Quest’album invece è un misto di loop e pop. Non mi sento parte del revival ’80, sicuramente appena finirono ho pensato che erano stati un totale spreco di tempo. Solo successivamente amici come Jeremy mi hanno introdotto a cose interessanti come John Fox per esempio. A parte il pop, gli Ottanta sono stati fondamentali per la musica elettronica ma quel che mi preme è che un mio disco non sia facilmente etichettabile dentro un periodo. Oggi sul mercato trovi gente che mima quei suoni in ogni aspetto, contrariamente, a me interessa che passi l’aspetto compositivo, che ci si riconosca l’impronta sotto i riferimenti. Nell’album ci sono canzoni autobiografiche che parlano di aspetti anche negativi della vita. Sono una novità? è la prima volta che parlo di me stesso nelle canzoni e ho una prospettiva più lunga riguardo alla vita rispetto a quando ero un ventenne. Andorra aveva a che fare con la musicalità, quest’album invece è più il frutto di una persona cresciuta. Lo scorso anno sono morti i miei nonni ma non si è trattato di scrivere canzoni catartiche, piuttosto d’immaginare come era la loro vita quando avevano la mia età. Questione di prospettive che ambiano dunque. Come ti vedi fra tre anni? Non ho mai amato ripetermi e sicuramente andrà così ancora per lungo tempo. Quest’album ha gettato almeno una manciata di direzioni possibili e la cosa più eccitante è che sono arrivato al quinto lavoro lungo e ci posso ancora sentire l’eccitamento per la musica che avevo nel primo. Anzi, forse di più. Ai tempi del suo secondo album, Kieran creò suoni molto editati partendo esattamente da queste basi. Hai avuto anche tu un periodo in fissa con la manipolazione dei campioni? Direi che proprio in quest’album mi sono interessato a processare come faceva Kieran al tempo anche se non in maniera così massiva. Del resto, rispetto a quel periodo, ora è molto più interessante catturare i suoni e riprodurli live con una tastiera 14 15 Tune-In Cobblestone Jazz —The Modern Deep (has just) Left (the building)— I Cobblestone si spostano a Berlino, tornano quartetto e sfornano un secondo album a base di electro '80, deep e ambient house '90 che ne conferma bravura e gusto Testo: Gabriele Marino V ictoria, British Columbia, Canada orgogliosa provincia dell'impero, anno 1997: quattro giovani electrofili mettono in piedi un progetto dancefloor orientato a live jam e improvvisazione. Si chiamano The Modern Deep Left Quartet e sono Mathew Jonson (Roland SH-101 e altri synth, drum machine, missaggio), Danuel Tate (piano Rhodes, vocoder Roland SVC-350, synth vari), Tyger Dhula e Colin de la Plante (sample e missaggio). Registrano soltanto un EP, Babyfoot, lavoro ad alto tasso di sperimentazione che viaggia tra electro, minimal, tribal e ambient. Interessante, con chiari indizi degli sviluppi di là da venire, ma non del tutto a fuoco. Quando viene pubblicato (su Wagon Repair, label fondata da Jonson e Konrad Black), siamo ormai nel 2005, il quartetto si è già dissolto. O meglio, si è già trasformato in qualcos'altro. De la Plante si è tirato fuori e ha messo base a Montreal. Gli altri si sono spostati a Vancouver e si sono ribattezzati Cobblestone Jazz: nome suggerito da un amico per indicare la capacità dei tre di dare risalto a diverse sfaccettature musicali. Si riparte. Cinque EP in quattro anni (2002-2006), ottima messa a punto dello stile, e poi il botto con l'esordio sulla lunga - lunghissima (doppio cd, uno in studio e uno dal vivo) - distanza, 23 Seconds (2007; !K7). Il disco li impone subito come una delle realtà electroniche più interessanti e di qualità della scena. Jonson intanto si è fat16 to un nome come solista, con collaborazioni prestigiose (Luciano, Hrdvsion, Carl Craig, Ricardo Villalobos) e remix importanti (Chemical Brothers, Moby, Nelly Furtado), ma soprattutto con una valanga di 12" votati a una deeptechno rotonda e immediatamente riconoscibile: la stessa che costituisce l'ossatura ritmica dei pezzi Cobblestone. è lui il prominent man della formazione. Passano gli anni e si aspetta il secondo album. A fine 2009 viene annunciato il titolo: The Modern Deep Left Quartet. Si drizzano le orecchie perché viene riesumato il nome del progetto where it all started e non è un caso: il disco segna infatti il ritorno in cabina del produttore e old time friend Colin de la Plante aka The Mole. Copertina di memorabile bruttezza (un radiografia acrilico su tela di un pulcino?), registrato in tre settimane a Berlino la scorsa estate (e si sente), anticipato da due EP su Wagon Repair, l'album viene pubblicato da !K7 su compact ma anche su doppio 12", quasi a ribadire la vocazione traxistica, per quanto eterodossa, del combo. Si tratta di un gioiellino in cui la poetica Cobblestone si fa ancora più asciutta e chiarisce nuove sfumature. Questa la cronistoria in breve dei Ciottoli. Andiamo adesso alla loro musica. Qualche anno fa avremmo detto che la cosa che più ci interessava e ci piaceva dei Cobblestone è il suono che sono riusciti a creare, quel suono che è già un marchio di fabbrica riconoscibile tra mille. A ben vedere però, il vero highlight del gruppo canadese è la condizione di possibilità di quel suono: la sintesi musicale che ci sta dietro. Fare sintesi, cosa questa che rappresenta oggi la vera sfida linguistica di un mondo che ha nelle contaminazioni, negli incroci e nei ribaltamenti il proprio campo d'azione naturale. Pur nutrendosi di una vasta gamma di generi e riferimenti, i Cobblestone non hanno creato un Frankenstein, ma una creatura sulla cui pelle le suture, quando pure visibili, non appaiono mai come cicatrici. Salta subito all'orecchio la cura con cui è preparato l'impasto timbrico, che, fatte le dovute differenze, avvicina i nostri ad altri act tra i più interessanti della scena, da Bruno Pronsato a Ricardo Villalobos a Luciano a Sam Shackleton al "nostro" Andrea Sartori. Per comodità tassonomica li definiamo minimal e/o deep, ma forse vale davvero la pena di rispolverare quell'etichetta tanto vaga eppure tanto efficace che ha inteso sintetizzare - appunto - il continuum dell'elettronica extra-colta che comprende tutti i gradi della techno, dell'house e derivazioni: electronica. Eccola allora l'electronica dei Cobblestone: la dialettica pienovuoto e l'ottusità timbrica del dub, l'asciuttezza e il gioco di variazioni della minimal techno, la cremosità e la gom17 mosità - a seconda della sfumatura messa in evidenza - della deep house. Il tutto giostrato con un gusto per l'interplay mutuato dal jazz suonato. Per capire da dove vengono poetica e suono Cobblestone bisogna forse spendere due parole sulla figura del burattinaio - neppure troppo occulto - del progetto: Mathew Jonson. "Theo" traffica con gli strumenti fin da bambino (piano classico e batteria jazz), con alle spalle un padre smanettone appassionato di circuiti ed elettronica: è questo il seme della dialettica magica che anima la formula del gruppo. La sua è una preparazione musicale da autodidatta, eppure capace di lambire sperimentazioni solitamente appannaggio di chi fa fusion o addirittura prog. La musica è una struttura organica da tirare su quasi fosse un grattacielo: progetti ingegneristici compresi. Ecco allora l'uso insistito dei poliritmi (parti differenti che seguono tempi differenti sovrapposte in modo coerente) e una concezione frattale dello sviluppo dei brani, sempre uguali a se stessi eppure sempre cangianti (i frattali sono figure geometriche non euclidee - a metà strada tra bidimensionale e tridimensionale - che spiegano su un piano teorico l'irregolarità ordinata delle forme naturali; loro caratteristica principale è l'autosimilarità e cioè la proprietà di mantenere, a qualsiasi scala di osservazione, la stessa forma e la stessa struttura). Il tutto può sembrare cervellotico, ma l'ascolto dei pezzi riesce a fugare quest’impressione: calcolo matematico e freddo rigore strutturale vengono immersi in un flusso sonoro dal feel caldo e live, si intravedono come sottopelle, cosicché in superficie resta soprattutto un’immediata godibilità. è proprio la capacità di riduzione ad unum che ammiriamo nei Cobblestone, capacità che in questo secondo lavoro, certo meno decisivo del primo, appare forse ancora più affinata. Ne abbiamo parlato con Mathew. L'intervista Com'è stato lavorare di nuovo con Colin? Che contributo ha dato a questo secondo album dei Cobblestone? Mathew Jonson: Io e Colin stiamo lavorando assieme continuativamente da quando abbiamo deciso di dividere lo stesso appartamento a Berlino. Tyger e Danuel cercano di passare tutto il loro tempo libero qui con noi e così lavorare assieme non è stato troppo difficile. Certo, pensando a cosa erano i Modern Deep Left Quartet, entrare con Colin in studio come Cobblestone Jazz è stato un po' come tornare alle origini, a dieci anni fa. L'album sembra molto più anni Ottanta, electro (il primo pezzo ricorda abbastanza i Kraftwerk) e voice-oriented rispetto a 23 Seconds. Anche più 18 morbido, meno spigoloso, tanto nei suoni che nelle melodie... Sì, è stato davvero divertente lavorarci sopra. Ogni pezzo che abbiamo scritto per il disco è diversissimo da tutti i nostri lavori precedenti. Forse perché ci siamo spostati a Berlino, forse perché è tornato in formazione The Mole. Non ti saprei dire, però è venuto fuori così. E sono davvero contento del risultato finale. Mi piace molto di più del nostro primo album. La vostra electronica sintetizza diversi generi e stili: techno, house, dub, eccetera. Pensi che sia una musica più adatta per il dancefloor o per un ascolto hi-fi nel salotto di casa? La nostra musica è pensata per gente con la mente aperta che vuole ballare su qualcosa che non sia per forza la solita roba del momento. Credo che possa funzionare davvero dappertutto se suonata nel giusto contesto. Purtroppo alcuni dj preferiscono andare sul sicuro e non rischiare e questo indebolisce molto le potenzialità dei club e la varietà di esperienze musicali che la gente vi può vivere dentro. Nei vostri pezzi focalizzate l'attenzione su un'idea semplice ma forte e la sviluppate lavorando di cesello. Hai detto che di solito partite da un particolare ritmo e da un particolare suono per poi trovare una melodia. I vostri pezzi nascono sempre come jam live in studio, come ai tempi di 23 seconds, o avete introdotto processi compositivi diversi, magari più orientati alla scrittura (computer, spartito)? Continuiamo a mettere su traccia tutto quello che arriva live al bancone del mixer. Questo vuol dire che siamo costretti a fare più take dello stesso pezzo se qualcosa non va per il verso giusto o se qualcuno di noi non è contento di come ha suonato. Penso comunque che abbiamo lavorato un po' più in post-produzione - taglia qui, cambia questa parte - rispetto al primo album. Per come lavorate e per come rifinite i pezzi, date l'impressione di pubblicare solo le versioni migliori dei pezzi migliori. Quanto materiale inedito avete in archivio? Grazie! In effetti abbiamo un archivio enorme, pieno di materiale. Registriamo tutto quello che facciamo e le session sono davvero tante, ma ci sono molto cose che non credo proprio valga la pena di pubblicare e altre che sono davvero troppo strane per avere un mercato. Direi che abbiamo pubblicato circa un 5% delle nostre registrazioni. La vostra è un'electronica suonata e live. L'interplay è il vostro highlight.Vi interessa un approccio come quello del Moritz Von Oswald Trio? Parlo di Vertical Ascent. L'integrazione tra l'elettronica e un approccio suonato potrebbe essere uno degli scenari musicali futuri più interessanti... Sì, quel disco mi è piaciuto molto. E penso che man mano che l'elettronica cresce e va avanti quel tipo di approccio sarà sempre più rilevante. La gente sta imparando sempre più cose sulla tecnologia che consente di fare electronica live e si va stancando sempre più dei set fatti solo col laptop: la nuova generazione di quelli che frequentano i club e i festival, gente che non ha avuto esperienza diretta di gruppi come Orbital o Future Sound of London, sta cercando qualcosa che vada oltre il solito set a base di Mac e Ableton Live. Incorporare musicisti e una strumentazione extra-computer negli show è una via possibile. Siamo vicini a un grande cambiamento e credo che ce ne accorgeremo già dall'anno prossimo. La scorsa settimana eravamo nel suo studio e Richie Hawtin mi ha dato un assaggio del suo progetto Plastikman. Ecco, penso che lui sia davvero all'avanguardia in tal senso. Vi sentite parte di una scena "deep"? Ti interessa il lavoro di produttori come Bruno Pronsato, Sam Shackleton, Luciano, Ricardo Villalobos? Conosci anche produttori italiani (Andrea Sartori aka DeepAlso, per esempio)? Sono fan da anni di tutti i nomi che hai citato. E sono anche un grande fan di Donato Dozzy [vero nome Donato Scaramuzzi, romano, file under deeptechno, tanti 12" ma ancora nessun album; ndr], probabilmente il mio dj e produttore italiano preferito. I tuoi musicisti preferiti? Squarepusher, Vangelis, Herbie Hankock, Miles Davis, Thelonious Monk, N.W.A., Public Enemy, Prince, Del tha Funkee Homosapien, Keith Jarett, Manu Dibango, Quincy Jones, Sergei Rachmaninoff... Potrei andare avanti all'infinito, perché amo tantissime cose e tutte diverse tra loro. Ve l'avranno chiesto mille volte... Sappiamo che il nome Cobblestone Jazz è stato scelto da un vostro amico. è possibile che nelle sue intenzioni ci fosse una qualche allusione all'omonima etichetta jazz, la Cobblestone Records, che pubblicava dischi di gente come Elmore James, Earl Grubbs, Pat Martino e di alcune edizioni del festival di Newport? No, non credo che ci sia alcun legame. è solo una coincidenza. Ti interessa quello che sta succedendo nella "newwave" dell'hip hop con produttori come Madlib (per non dire ovviamente di J Dilla), Flying Lotus, Sa-Ra? E produttori non-dance come Burial? Dilla (R.I.P.) è semplicemente s-t-r-a-o-r-d-i-n-a-r-i-o. L'ho scoperto anni fa grazie a Colin. Le sue produzioni... non trovo neppure le parole giuste per descriverle. Anche Flying Lotus mi piace molto. 19 Tune-In Fucked Up —La scalata alla montagna dorata— La costruzione di sè come arma decisiva. Testo: Andrea Napoli 20 I Fucked Up sono un fulgido esempio di come un gruppo proveniente da più rigidi ranghi del punk hardcore possa maturare un'evoluzione personale sia sul piano strettamente musicale sia su quello, non meno elaborato o carico di significati, dell'immagine e della comunicazione di sé. La band, formatasi nel 2001 a Toronto, ha saputo progressivamente arricchire la propria identità come pochi altri negli ultimi anni. Dagli inizi ortodossi ai muri stratificati di chitarre e alle infinite sovraincisioni che oggi affollano le loro tracce, ogni elemento dice di un fine labor limae che non ha mancato di dare i frutti sperati. Parallelamente all'eloquenza comunicativa, la band ha aggiunto sempre più spezie all'intingolo. Dovresti vedere i nostri files di Protools, sono sempre un inferno allucinante - dichiara 10,000 Marbles a Vom di Bam! Magazine, riassumendo quella continua rielaborazione che, un paio di mesi fa, ha trovato l'ennesimo sunto nella doppia raccolta Couple Tracks: Singles 2002-2009. Vademecum a base di B sides e rarità, florilegio di singoli, cover ed inediti sperduti tra 2005 e il 2008, l'uscita impone la necessità di una riflessione su ciò che è accaduto fino ad oggi, uno sguardo che getti luce su un passato solo apparentemente lontano. Oggi i nostri possono permettersi di duettare con miti d’infanzia e celebrità dell’effimero pantheon indie in maratone concertistiche di dodici ore, e vantano un lavoro come The Chemistry Of Common Life, l'album del 2008 osannatissimo da tutte le riviste musicali del globo, dalle più blasonate giù fino ai blog e alle webzine misconosciute. Della partita (vincente) erano alchimie di punk'n'roll villoso alla Turbonegro e hard/space rock primi ’70 (Son Of The Father, Days Of Last), dissertazioni da opera rock (Golden Seal, Looking For Gold), epicità prêtà-porter (Black Albino Bones e soprattutto la title-track). E ancora, punk chords in minore scansati da stomp dal sapore occulto (Twice Born) e No Epiphany, vero tour de force per un numero sconfinato di chitarre, synth liquidi e coralità ascensionale. Non è dunque un caso che l'album, premiato con il Polaris Music Prize edizione 2009, sia stata la definitiva consacrazione presso il grande pubblico, il culmine di potenzialità già nell'aria da tempo. Fin dagli esordi i nostri si fanno notare per un hardcore irsuto che non fa mistero dell’influenza di padri storici come Negative Approach e 7 Seconds, ma soprattutto dei paladini della seconda ondata, dai Sick of It All ai Poison Idea di Pig Champion. L’attitudine è vistosamente ambigua, con un primo singolo dall’inequivocabile titolo No Pasaràn preceduto da uno split raffigurante in copertina una folla oceanica di braccia tese. Ma è solo la prima di una lunga serie di efficaci trovate. In primis una sfilza di nickname accattivanti di scuola spudoratamente Dwarves (Concentration Camp, Mustard Gas, Pink Eyes). Poi la teatralità sudata dei live, con Pink Eyes spesso denudato, quando non sanguinante, che si agita in mezzo alla folla come un lupo appena uscito di gabbia. Le grafiche infine non si esimono dall’accostare tradizione anarchica a suggestioni totalitaristiche, alzando gli inevitabili polveroni. E se è innegabile la capacità di comporre ordigni di hard’n’roll dinamitardo e trascinante, altrettanto si deve dire dell’abilità nel crearsi gimmick ad hoc, presto rivelatisi efficaci gimme-ink. Coi FU la due cose vanno di pari passo fin dal primo periodo, la cui furia ragionata viene documentata dalla raccolta Epics In Minutes edita da Deranged. Dance Of Death, Circling The Drain, Baiting The Public dicono di un esordio al fulmicotone che di lì a poco esonderà dagli argini per invadere ben altre sponde. E come sarebbe potuto essere altrimenti, data la patina di mistero e contraddizione che 21 non sembra mai smettere di incuriosire gli scribacchini di mezzo mondo? Hidden World, primo effettivo album, esce 2006 per Jade Tree e segna il primo punto di svolta. Qui le tendenze agit-prop da Oi! punk scalmanato incrociano divagazioni dal retrogusto volutamente esoterico; nel farlo il sound ne esce ripulito ed ingrossato, più catchy e ammiccante. Ma è anche il disco dove l’infatuazione per simboli magici ed occulti trova il suo coronamento, e dove fa il suo ingresso il personaggio (fittizio?) che cambierà le sorti del gruppo, con buona pace degli ortodossi. I Fucked Up infatti assumono il manager-guru (MC5 docet) Da22 vid Eliade, uno che, tanto per non sfigurare, riprende il cognome dello scrittore rumeno affiliato alla Guardia di Ferro. Non sono in pochi a sostenere che sia quest’ultimo il vero artefice del loro successo e se guardiamo a certe figure del passato (Malcom McLaren in primis) non si può non prendere in considerazione questa ipotesi. Le leggende sul suo conto si sprecano, da quella che lo vorrebbe vero autore dei testi, alle dicerie per cui sarebbe l’unico dell’entourage in grado di accordare una chitarra. Nessuno stupore dunque che le reazioni divergano. Chi plaude la svolta elaborata e stratificata, figlia al contempo della passione per il punk più stradaiolo e per l’hard-blues e la psichedelica (la copertina dell’album dice più di qualsiasi press sheet), e chi accusa i sintomi del tradimento, tuffandosi di rimando nella pletora di 7 pollici e split che, va detto, il gruppo non smetterà di alimentare. È anzi nelle produzioni laterali, nei singoli, negli EP su 12 pollici che i canadesi mostrano il lato più innovativo, dando spazio ad esperimenti inusitati che richiedono, giustamente, una dimensione, e quindi una pubblicazione, propria. Per tutti valga l’emblematico Year Of The Pig, diciotto minuti che fagocitano giochi vocali di genere, distensioni kraut e sfrenate corse tardo-hc . Non proprio il pane quotidiano della prima punk band che trovi in una sala prove qualsiasi. Seguono roventi tour Europei e apparizioni su MTV i cui set vengono ridotti a brandelli da un pubblico in preda al mosh più esagitato, e il gioco è fatto. Da quando Vice ha scritto di noi per la prima volta abbiamo visto sempre più hipsters o gente indie-rock ai concerti. Ma piu o meno contemporaneamente molti dei nostri fan storici hanno cominciato a odiarci, quindi in fondo ci è pure andata bene! (Rumore, Febbraio 2010). Il cortocircuito mediatico è innescato e i FU sono sulla bocca di tutti e sulle pagine di Pitchfork, NME e finanche il New York Times. Da questo punto in avanti il cerchio si chiude su se stesso e la storia è ormai nota. Ancora oggi l'agenda del gruppo è, al solito, ricca di appuntamenti, come suggerisce il numero delle uscite annunciate tra cui gli inevitabili singoli e split. A cambiare sono però il nome e il calibro degli artisti tirati in ballo, se è vero che nel futuro immediato sono previste collaborazioni con King Khan & BBQ e NOFX, quest'ultimi rivendicati nelle interviste - a bella posta, verrebbe da dire – come importante influenza. Molti li sottovalutano come uno dei mille gruppi pop-punk stupidi, ma The Decline è un capolavoro. Year Of The Pig ha anche altre influenze, la psichedelia e il prog, ma sarei un bugiardo se dicessi che i NOFX non hanno nulla a che fare con quel disco e con la sua stessa esistenza (Rumore, Febbraio 2010). Proprio come nelle narrazioni epiche che tanto sembrano ispirarli, la saga discografica dei FU è potenzialmente infinita. 23 A Toys Orchestra —Più carne, meno sogno "M Drop Out Una crescita costante lunga oltre dodici anni, ed oggi un quarto disco che sembra il salto definitivo. Intervista ad Enzo Moretto degli ...A Toys Orchestra Testo: Stefano Solventi 24 anca forse un po' di carne a queste visioni, il piglio ad alzo zero delle cose terrene. Ma sospetto si tratti di una scelta precisa, di cui prendo atto." Ho scritto queste parole quasi tre anni fa, chiudendo la recensione di Technicolor Dreams, terzo album firmato A Toys Orchestra. Mi sono tornate subito in mente ascoltando la loro ultima fatica Midnight Talks, album che li vede calare sul tavolo carte più crude, meno teatrino visionario e più romanticismo viscerale. Ferma restando la fibra sontuosa del sound, che stavolta decide di puntare forte sul pop ad alta gradazione come se ne distillava al crocicchio tra psych, glam e prog nei primi seventies. Non una rivoluzione a ben vedere. Per dire, retaggi Bowie, Lennon e Floyd erano palpabili anche nei precedenti lavori. A volte però basta spostare di un nulla le coordinate per cogliere il bersaglio in pieno. è proprio quello che sembra essere accaduto. In procinto di compiere il tredicesimo anno di vita, il quintetto campano può vantare finalmente una maturità e una ricchezza espressiva in grado di sostenere ogni proscenio. Ne abbiamo parlato con Enzo Moretto, voce, chitarra e "mente" della band. Fin dalla copertina Midnight Talks segna un netto cambiamento rispetto al passato. è spregiudicata, aggressiva, provocatoria, ma in fin dei conti è un bacio. O no? Raccontatemi come è nata. 25 de. Se parli dell'aspetto onirico del suono, allora probabilmente è vero. Forse per via del fatto che abbiamo eliminato i campionatori e un certo tipo di elettronica. è un disco tutto "suonato" dalla prima all'ultima nota. Ci sono però inserti maestosi di orchestra che conferiscono un colore "sgargiante" e marcatamente psichedelico agli arrangiamenti che non avevamo mai usato prima in tal senso. Per quanto concerne le liriche poi, le canzoni di questo disco sono popolate anche di strani personaggi. Frankye Pyroman è a suo modo una favola, così come lo sono Plastic Romance e Red Alert. Ovviamente sono da contestualizzare. Ma era così anche per Hengie o Mrs Macabrette nei dischi precedenti. Il fascino dei personaggi scuri, outsider, bizarri, dalla crosta dura ma teneri dentro è sempre radicato in me. E in un disco in cui l'amore è il tema portante non potevano certo mancare. E non solo l'amore di coppia, anche quello fraterno, ancestrale, o ancora quello divino e spirituale... Quel battito che regola la vita nella gioia e nel dolore. In questo disco c'è voglia di parlare a "qualcuno" piuttosto che a se stessi, con toni differenti, a bassa o ad alta voce. Anche questa volta non vi fa difetto la capacità di azzeccare grandi melodie. Pills On My Bill, ad esempio, è davvero stupenda. Ma un pezzo come Celentano da dove esce? Beh, che dirti, nasce dallo stesso grembo di tutte le altre... Il titolo Celentano viene da uno dei tanti bizarri titoli provvisori che diamo alle canzoni ancora in fase di definizione. In realtà non è una canzone celebrativa nè tributativa all'Adriano nazionale, quanto meno non nel messaggio lirico. Nonostante ci sono delle evidenti citazioni nascoste nel testo e nella musica che fanno poi dei riferimenti palesi proprio a lui, per la precisone alla celebre Yuppi Du. In fase di provinaggio la ritmica della chitarra e gli accordi ci rimandavano a quel brano, per cui temporaneamente fu nominato così. In principio era solo ricollocabile a questo motivo ma poi al momento di scriverne il testo ho trovato intrigante congettuare su quel nome e quella canzone, pur mantenedo le distanze dal tributo vero e proprio. Non è un caso poi che abbiamo deciso di mantenere delle caratteristiche pronunciatamente italiche per questo pezzo. Tutti i nostri dischi sono diversi tra loro... Ogni volta cerchiamo di esprimerci in modo differente da quella precedente. Di rielaborare le nostre idee, di trovare nuovi stimoli nella ricerca. Abbiamo bisogno di "muoverci" sempre. Non siamo il tipo di band che consolida un sound e lo ripropone per il resto della carriera. Per questo disco è venuto subito fuori un sound più crudo, più "carne" e meno "sogno", forse anche condizionati dal fatto che venivamo da un lungo tour. Abbiamo mantenuto quell’attitudine, quella potenza, quel “battito” più viscerale e sanguigno. l'umanità dall'alba dei tempi, insieme al suo fratello gemello: l'odio. Ho approfondito molto questi aspetti in questo disco: l’odio all’interno dell’amore, l’amore all’interno dell’odio. A volte è quello che scrivi che sceglie te e non tu quello che scrivi. La copertina nasce proprio da questo: i due personaggi ritratti sono una coppia di amanti che dopo essersi massacrati di botte fanno l’amore. C'è da dire poi che questo è il nostro primo disco interamente d'amore. Ovviamente per amore non intendo quello fatto di "tvtb" e dichiarazioni edulcorate. Ho intrapreso sentieri più misteriosi e rischiosi di questo sentimento che tiene in ostaggio Poi si ascoltano le canzoni ed è ufficiale: qualcosa è cambiato. Siete più diretti, meno "favolistici". è il frutto di una scelta precisa? 26 Un'immagine che si è formata nel mio cervello poco dopo aver scritto i primi testi. In questo scatto (di Graziano Staino) c’è però secondo il mio intento un rivaleggiare dell’amore sull’odio e dentro l’odio. è un immagine a mio avviso, estremamente potente e ricca di vita. Quel bacio/morso è espressione della potenza dell’amore anche all’interno di sentimenti diverso da esso. Come ti dicevo è un disco in parte fatto meno di sogni e più di realtà, dunque - per paradosso - più allucinante. è incredibile come una foto “reale” possa suscitare una reazione così violenta al punto da risultare più “assurda” rispetto alle gemelle siamesi di Alice ritratte sulla cover di Technicolor Dreams… Come ti dicevo appunto nella risposta precedente il "cambiamento" è una necessità. Non credo ci sia stata un scelta realmente ponderata, di solito seguiamo il nostro istinto. Non siamo molto cerebrali quando componiamo, cerchiamo di fare al meglio quello che ci viene più naturale. Nella nostra natura è insito il rinnovamento ciclico. Non saprei poi se siamo realmente meno "favolistici", dipende da che favole si inten- Così a spanna sembra che vi siate sintonizzati su una stazione specializzata in power-pop, psych, glam e un pizzico di prog. Roba che passava in radio nei primi anni settanta. Sbaglio? Non sbagli. Rock, Power-Pop, Glam, Prog, Hard, Psych, Electro… Nulla di ciò ci è estraneo, siamo divoratori di musica a tutto tondo. E non mi meraviglia che questi ascolti possano essere confluiti nel nostro approccio creativo. Anzi, sinceramente credo che dal primo tamburo dell'homo sapiens ad oggi sia stato sempre un evolversi in prospettiva. Un continuo imparare la lezione dai maestri che ci hanno preceduti. è il ciclo vitale della musica, e non ci arroghiamo certo l'esclusiva di essere quelli che inventano dal nulla. A nostro modo cerchiamo di rielaborare con originalità e rispetto quanto continuiamo ogni giorno ad imparare. Quale ovvia (?) conseguenza c'è la grana del suono, marcatamente vintage. Molte tastiere analogiche, le chitarre che sfrigolano ruvide, gli ottoni, le partiture orchestrali. Le stesse voci, colte in flagranza di reato. Anche Technicolor Dreams aveva i suoi rimandi ai settanta e sessanta, però in Midnight Talks diventano la nota dominante. No? Potrebbe dipendere da come ci siamo rapportati alla realizzazione di questo disco. Infatti proprio per mantenere vivo l'aspetto "umano" abbiamo deciso di registrare il tutto completamente in analogico su nastro. Utilizzando solo strumenti e macchine analogiche e a valvole, che hanno bisogno di un confronto reale con chi le suona, 27 di un'interazione uomo/macchina con maggior relazione. Anche l'uso di fiati, ottoni e archi negli arrangiamenti sono emblematici in tal senso. Volevamo rifuggire dalla "fredda" praticità della tecnologia moderna, provare a fare un disco come si faceva "una volta" con l'impegno e il sacrificio che ciò comporta. Un gesto di rispetto verso la nostra musica e verso il progetto ambizioso che stavamo cercando di realizzare. Era nostro intento quello di osare molto, e per farlo necessitavamo dei ritmi più consoni per non rischiare di creare un pasticcio pretenzioso. E probabilmente questo tipo di approccio, sicuramente meno pratico ed agevole, è più figlio di tempi andati. Dischi come il vostro mi fanno pensare che un altro airplay radiofonico sia possibile. Musica accomodante per quanto strutturata, intensa e orecchiabile, appassionata e "colta" ma dannatamente pop. Mi sto facendo delle illusioni? Beh, ti ringrazio. Ma non saprei... Questo non è un giudizio che spetta a noi. Se confermassi i tuoi apprezzamenti varrebbe il detto che "me la canto e me la suono"... Mai così azzeccato. Ovviamente amo quello che faccio, altrimenti non avrei motivo di farlo con tanta veemenza e dedizione. Ma l'autoelogio è dietro l'angolo e non sono uso a questa pratica. Sembra ormai finita l'epoca delle scene prevalenti, il panorama musicale è abitato da una miriade di situazioni diverse, dal folk più atavico all'elettronica più sperimentale con tutto quel che passa nel mezzo (e anche di più). Una collocazione la si trova sempre, anche nei casi compositi come il vostro. Semmai difficile è capire quanto è importante quello che si fa rispetto a tutto il resto. Che impressione avete al riguardo? O, se preferite, che cosa vi auspicate? Questa è la "domanda da un milione di dollari". Anche perchè in quello che dici 28 c'è una bivalenza applicabile anche al di fuori della musica. Diciamo che la sfumatura più pessimistica che riesco a cogliere è profetizzabile nel proclama che fu di Andy Wahrol che "nel futuro tutti avrebbero avuto un quarto d'ora di notorietà". Le epopee del passato erano indice di una forte coscienza collettiva, cosa che oggi manca quasi del tutto. Le microscene che si alternano al giorno d'oggi hanno più o meno lo stesso ciclo vitale di un modello di telefonino, e una forza aggregativa molto blanda. Oppure si cerca di spacciare per nuovo quello che sarebbe più facile e veritiero catalogare come revival. Il che potrebbe suonare come un segnale allarmante di mancanza di "idee". Ma in realtà non credo sia proprio così. Credo piuttosto che sia il passaggio di un epoca che si sta rinnovando nel modo di comunicare e di interagire, e tutto è successo così rapidamente da averci colti impreparati. Forse è solo una caotica fase di transizione da un epoca all'altra. Inevitabilente noi stessi siamo esponenti di questi tempi in quanto li viviamo e ne siamo figli legittimi, e se abbiamo la possibilità di dire la nostra allora probabilmente dovrei vederci dei vantaggi. Non sono un "nostalgico" fondamentalista. Riconosco i vantaggi del progresso, ma è pur vero che nella "rete" ci siamo finiti davvero in troppi. Ascoltandovi si ha la chiara impressione che i vostri punti di riferimento siano ben oltre i confini nazionali. Anche la pronuncia dell'inglese è sempre più disinvolta. Come stanno le cose? Credo che la scelta di essere una band che si esprime in inglese ci metta nella posizione di proporci come realtà "europea" piuttosto che specificamente italiana. Perchè se è vero che siamo italiani al 100% lo è anche che siamo europei. Non c'è alcuna intenzione di rinnegare la nostra cittadinanza, è solo un'alternativa nel modo di proporsi e di comunicare. Si pensi ai Notwist, ai dEUS, agli Air, ai Motorpsycho o addirittura a Bjork... Sono tutti artisti non madrelingua ma cittadini d'Europa e di essa rappresentanti. Non di certo dei volgari epigoni! L'idioma inglese è l'idioma universale, non c'è alcuno "scimmiottìo" nell'esprimersi in una lingua che è ormai quella dell'umanità tutta. In verità ho cominciato a cantare in inglese fin da quando da adolescente rifacevo le cover delle bands rappresentati della mia generazione. Sono cresciuto negli anni novanta, l'influenza della scena americana aveva contagiato il mondo e non aveva certo risparmiato me... Poi da cosa nasce cosa, e dopo tre lustri paradossalmente l'unico modo in cui riesco ormai ad esprimermi è in inglese, con cui adesso mi trovo perfettamente a mio agio, mentre per assurdo non ho dimestichezza con la mia lingua d'origine, almeno per quel che concerne il cantare... sodo la notte e dormono di giorno, ed entrambi abbiamo il compito di "sfornare"... Personalmente sento forte il bisogno di ritagliarmi degli spazi di "normalità". Quando non sono in tour o in studio mi dedico alle cose più semplici, vado a pescare in barca, oppure guardo le partite di calcio con mio padre. Mi piace oziare e passare del tempo con i miei amici di sempre, anche solo a cazzeggiare davanti ad un bar. Ho una famiglia stupenda che non appena ho il tempo vado a trovare. Ho due splendide sorelle con cui passo delle ore a chiacchierare sul letto. Mi diletto in cucina con mia madre, vado a passeggio con il cane... Insomma, non potrei fare solo vita mondana, mi annoierebbe e mi distruggerebbe. Ho bisogno di ricarburare e nelle cose cosiddette "normali" trovo le alternative giuste. Quali sono le difficolta che una band della vostra dimensione (una indie band?) deve affrontare? Contano più i problemi logistici - ad es: avete una vostra sala prove? - o quelli culturali? Spesso i problemi logistici sono legati a doppio filo a quelli culturali. Laddove manca la cultura mancano le strutture per sostenerla. Da qualche tempo siamo di adozione bolognese, dove tutto per certi versi ci è più semplice. Ma fino a pochi mesi fa abbiamo vissuto in una cittadina nel cuore della Campania dove per avere qualcosa bisogna che te la crei da te, anche soltanto avere una sala prove non si è mai rivelata cosa facile. Non mi sento però di incolpare il Sud, che forse è vittima prima che carnefice.Vivere nel centro-nord ti avvicina a tutto. Purtroppo musicalmente e non solo il territorio italiano non è ben distribuito... Succede che le "menti" del Sud spesso sono prevaricate dalle difficoltà. è pur vero però che laddove c'è poco è più forte l'esigenza di creare. Il bicchiere in questo caso è sia mezzo pieno che mezzo vuoto, e non dipende dai punti di vista. In questa vostra avventura che dura ormai da più di un decennio, vi sentite isolati o c'è una comunità musicale cui fate riferimento? Non lo so. Per parlare di un ipotetica "scena" musicale servirebbero dei presupposti come l'aggregazione e l'intenzione collettiva. Credo in verità che questi fattori non siano ancora compatti al punto da essere appellati con tale dicitura. Piuttosto parlerei di "realtà", che è tangibile e comprovabile nelle numerose bands che popolano il sottobosco musicale italiano, e che non deifinirei più come "minori", ma come una nuova forma di cultura o "controcultura" in contrapposizione a quella di massa, con un numero sempre più significativo di esponenti e sostenitori. Siete rinomati per i vostri live act. Avete già programmato il tour di Midnight Talks? Ovviamente si, gireremo in lungo e in largo la penisola prima di lasciare i confini. Dici che siamo rinomati per i nostri live? Beh... non vi resta che verificarlo! Immagino che seguire le orme ad esempio dei Jennifer Gentle non vi spiacerebbe per nulla. Ma il successo internazionale significa buttarsi, mollare se non tutto un bel po' di cose. Quanta vita siete disposti a mollare e - quindi - investire nella band? Beh, non so com'è è andata per i Jennifer, ma noi da quando dodici anni orsono abbiamo intrapreso questa avventura abbiamo cancellato il raziocionio dalle nostre vite... Com'è ad oggi il rapporto tra la vita "normale" - famiglia, lavoro, burocrazie varie - e la dimensione del musicista? Come ti dicevo fare la vita del musicista ti porta a intendere e interpretare la vita in modo astrurso e a rapportarti in maniera differente alle cose "normali" della vita. Dormire, mangiare, curarsi del proprio corpo è una cosa che un musicista vive in modo assolutamente differente ad esempio da un impiegato statale o, chessò, da un commesso di H&M. La motivazione non è riscontrabile solo in una romantica visione "bohemienne" della realtà,quanto piuttosto nei ritmi altissimi che questa vita comporta. Soprattutto laddove bisogna stringere i denti e spesso anche la cinghia. A volte il modus vivendi del musicista è simile a quella di un panettiere, entrambi lavorano 29 Lost In Musical —David Byrne, Fatboy Slim R ock ' n ' romanze Drop Out David Byrne che si da a un concept partendo da un musical? Perché mai stupirsi dato che il pop sembra essersi preso un posto a teatro Testo: Giancarlo Turra 30 La musica pop vive di corsi e ricorsi ed è un fatto a tal punto noto da passare quasi inosservato. A maggior ragione oggi che tutto pare accatastarsi fino a confondere le prospettive e rendere l’identificazione di uno o più filoni un problema. Sovrapponendosi, però, i ritorni mutano in qualcosa d’altro: non sempre apprezzabile o tenuto entro i recinti del gusto, ma il punto non è questo. E dunque, dopo l’elettronica a sogni aperti e le canzonette in bassa fedeltà, le cantautrici folk neoclassiche e il grande suono da collettivo, emerge una mescolanza da senno di poi che somma gli umori del glam, seppur al netto di lustrini e primedonne; citazioni operistiche che sfociano in un cattivo gusto consapevole; ampiezza di vedute e celebrazione mistica. Ogni cosa assieme spassionatamente, come può chiarire il melodramma venato anni Sessanta dei nostri Baustelle o quello combinatorio - gli Sparks e le rock operas giusto dietro l’angolo: non a caso - su cui si fondano i Fiery Furnaces. Senza tralasciare la recente metamorfosi dei MGMT, usciti dal bozzolo “Karaoke Flaming Lips” dell’imbarazzante esordio impastando popedelia kitsch e citazionismo spinto, nel frattempo prendendo per quel che sono - baggianate usa e getta - le pose da Falco versione Amadeus degli Irrepressibles, la fluorescenza da Glamour (“non perderti tutti i trucchi dell’estate”) cui si ispira Bat For Lashes e la ninfetta Marina And The Diamonds. Meglio pensare a un Lightspeed Champion che, indie-folker di colore, si professa amante del Libro Della Giungla (poco da ridere: consigliamo di ripescare il fenomenale Stay Awake, tributo a Walt Disney risalente al 1988, dove Tom Waits, Sun Ra e Replacements e altri maestri gettavano colore su una tela di fenomenali rielaborazioni semantiche) e afferrare che una voglia di platea è nell’aria. Percorsi a volte attenti più alla confezione, magari, che trovano una parafrasi approfondita attraverso la prospettiva di David Byrne. Il quale, dopo aver riabbracciato la trasversalità pop con Brian Eno (a sua volta cresciuto 31 col gospel e maturato in canzoni di geniale, avanguardistica asimmetria), si imbarcava lo scorso anno in un tour con l’aspetto da musical per gente colta e chic, pubblicando oggi un concept album di presupposti e ispirazione conformi. Una capriola d’autore, l’ennesima. Teste, ritmo, storia Un gesto che, dopo una gravidanza lunghissima e la pubblicazione ulteriormente posticipata di un paio di mesi, spiana la strada a Here Lies Love, il progetto di David Byrne che racconta la figura di Imelda Marcos, moglie del dittatore filippino deposto a metà anni ’80. Partita come “ciclo di canzoni” pensato e scritto da Byrne e arrangiato con Norman Cook a.k.a. Fatboy Slim, fu rodata una prima volta in Australia un lustro fa e due anni dopo a New York con reazioni piuttosto scettiche. La registrazione veniva nel frattempo condotta in studio in modo affatto lineare, sia per gli impegni di entrambi che per la ritrosia di Cook a lavorare tramite file sonori via internet. Comunque felice il rapporto tra i due, benedetto da molto punti di contatto e su tutti il senso per la “fisicità” del suono e la forma canzone (da musicisti e non dj), saldato alla passione per la black music. Ecco come la vede Norman, sfoggiando una cordiale concretezza: "David mi sorprese con una telefonata a casa: tre giorni dopo ero a New York e David mi veniva incontro in bici con in mano delle birre. Andammo sul lungomare di TriBeCa a bere qualche lattina in un sacchetto di carta e conoscerci meglio. Al momento in cui ci cacciarono dal molo per aver bevuto in pubblico, avevamo le basi su cui lavorare". 32 Praticamente, aveva già tutto in mente, melodie e testi. è uno cui piace fare le cose giuste nel modo sbagliato, ottenendo ciò che vuole con l’opzione più complicata. è come me: un ragazzo bianco ossessionato dal funk. Insomma il duo doveva chiudersi in studio a Brighton per ragionare su strutture, abiti sonori e le interpretazioni dei brani. Perché oltre a essere un doppio cd (con annesso libro e DVD: forse una robusta presa di posizione “d’altri tempi” verso l’attuale fruizione frammentaria e superficiale), il lavoro affida a una pletora di cantanti ospiti i ruoli e la narrazione, donando carne ai fondamentali esperimenti con le found voices che furono. Accantonato in via momentanea l’allestimento teatrale (nondimeno sembra che Byrne si stia attrezzan- do: all’idea qualche brivido giunge; non esattamente di piacere) permane il “famigerato” formato del concept, pesante croce e rara delizia per rocker complessati e intellettuali o supposti tali: "La cosa che ha scatenato il tutto risale a un bel po’ di tempo fa: lessi un libro intitolato “L’Imperatore” dello scrittore polacco Ryszard Kapuscinski. Raccontava di come si stesse in Etiopia verso la fine del regno di Haile Selassie. Tratteggiava un affascinante quadro della vita di corte, nel pieno della follia del potere.Vi ho scorto alcune bellissime immagini teatrali, ma la cosa si era fermata lì. Poi vidi qualcosa su Imelda che frequentava regolarmente lo Studio 54 e aveva fatto costruire una discoteca nella sua casa di New York". Così crediamo vada inteso il risultato finale: come un passo che - allorché la musica è ormai smaterializzata - richiede un approccio diverso per come va ascoltato e letto; una maniera alla quale il pubblico giovane non è abituato e verso la quale, di conseguenza, seguiterà a mostrarsi indifferente. In tutto ciò c’è una familiare temerarietà, una voglia di rimettersi costantemente in gioco e in discussione che anima Byrne sin dagli inizi. Che lo ha portato a incrociare sulla propria strada i collaboratori più disparati, ad allestire geografie sono33 re sulla carta improbabili e invece azzeccate. Una Testa Pensante prototipo dell’intellettuale rock moderno (da Michael Stipe a Damon Albarn passando per Thom Yorke, tanti coloro che hanno raccolto l’esempio), lontanissimo dalla Rivoluzione Contro Il Sistema o la deboscia di eccessi e decadenza; che vive serenamente la propria condizione di moderno uomo rinascimentale. Senza limiti né freni alla creatività e libero di spaziare su ogni possibile fronte, nervosa wave e neo-tribalismo, fotografia o scavo della psiche umana. In considerazione dell’opera byrniana in toto, realizzi allora che da More Songs About Building And Food ogni suo disco è di fatto un concept, o comunque maneggia un filo conduttore a prescindere dall’esito e dal momento. Comprendi come proporre tanta carne al fuoco (portatasi via fatica e tempo come mai prima per l’artista americano, incluse ricerche sul campo e viaggi in bicicletta su e giù per le Filippine) in un contesto sonoro peculiare sia, per prima e somma cosa, una sfida; uno di quei rischi che sono sempre meno a prendersi e dunque da lodare, a maggior ragione sapendo che, economicamente, Byrne ci ha messo tutto del suo. Anche solo per questo guadagna l’applauso sincero. R oads to where ? Non è però impresa agevole attraversare le due ore di musica di Here Lies Love: la prima metà arranca e la penna si rivela involuta, piatta, nonostante una storia che intriga e stupisce senza romanzare, perché - come ha dimostrato Byrne nel film True Stories - la realtà supera sempre in bizzarria qualsiasi fiction. Un racconto che, a un certo punto, trascolora in un’indagine sul criminale potenziale che giace in noi, sul potere che (politico o rockstar non fa differenza, come indicava con poca finezza Roger Waters in The Wall) a un certo momento si trasforma in potentissima droga. Da qui l’affidarsi per metà programma a ritmi dance: il rush adrenalinico della pista da ballo e l’euforia dell’onnipotenza si correlano a vicenda, persuadendo che la passione di Imelda per la disco non fosse un caso. Così come non lo era l’ossessione per bellezza e stile, farcitura estetizzante (i palazzi faraonici che fece costruire mentre il popolo moriva di fame; le leggendarie 3.000 paia di costose scarpe rinvenute nel palazzo reale) per colmare un’esistenza inizialmente di una povertà dickensiana. La ragazza cresceva in un garage, tirata su dopo la morte della madre dalla giovane cameriera Estrella Cumpas, poco più grande di lei. Sul loro rapporto verte buona parte dei brani con quel sottile calarsi nel personaggio incominciato da Psycho Killer e che osserva la Marcos diventare reginetta di bellezza, sedurre il dittatore e assurgere a First Lady di un regime dove, nel 1972, impone la pena di morte: lotta tra angeli e demoni psicologici: talvolta vinceva un lato, altre volte toccava a quell’altro. Mi interessava comunque la sua estrema risolutezza, il fatto che fosse scaltra e tosta. La questione era che dovessi celebrare qualcuno che ne fosse degno, oppure una figura totalmente opposta? Faccenda complicata, perché è difficile scrivere dei buoni." E neppure dei cattivi, se è per questo, benché all’album non difettino grandezza di mezzi (orchestra e beats, suoni “del mondo” e panoramiche pop-rock, epica e leggerezza) e celebrità: Tori Amos, Steve Earle, Martha Wainwright, Cindy Lauper sono la punta di un iceberg dove il “concetto” non prevarica l’esposizione. Il vizio che affligge la più parte dei ridondanti concept records - la distanza tra contenuto e forma - si mantiene entro limiti accettabili e c’era da contarci. Quel che lascia perplessi è semmai la scrittura, che fatica a reggere la distanza scorrendo senza gravi scivoloni ma - tra mestiere consumato, motivi anonimi, pop risaputo - neppure colpi d’ala rilevanti. Tranne quando Fatboy Slim guadagna il proscenio nel secondo dei due cd, in massima parte latore di ibridi big-beat ripassati pop, funk venato di squarci melodici, soul contemporaneo affatto banale che tocca apici in American Troglodyte (il Nostro che affonda i pallidi discepoli odierni) e una sensuale Please Don’t illuminata da Santigold. Insomma: considerato per quello che a conti fatti non è, cioè “un nuovo disco di David Byrne”, Here Lies Love (epitaffio che la Marcos, tornata nel frattempo in madrepatria a fare opere di bene amata da un’ampia fetta della popolazione, vorrà sulla sua tomba…) paga il confronto con i caleidoscopi acuti Grown Backwards (che peraltro includeva la dance sperimentale di Lazy, con gli X-Press 2) e Look Into The Eyeball. Se, viceversa, ragioni sui presupposti di partenza, ne emerge un progetto sfaccettato che all’altezza di Music For Knee Plays o The Catherine Wheel avremmo definito multimediale e al pari di quelli disorienta e sfugge. Come la protagonista e il tema “ultimo” che incarna, ovverosia il prevalere dell’ego su ogni altro aspetto dell’esistenza e la conseguente origine di una malvagità obliqua che giace in agguato dentro ognuno di noi. Perplessi, rieccoci su questo folle pianeta come l’io narrante di Once In A Lifetime: spaesati, la testa attraversata da un poco rassicurante “che ci faccio qui?” "La faccenda delle scarpe è stata un vero problema, soprattutto lo spingersi oltre. Le scarpe, in ogni caso, non furono scoperte fino al 1986, mentre l’esercito americano portava via i Marcos in aereo nel pieno della rivolta popolare, ed è lì che termina la storia che intendevo raccontare. Dalla nascita, Imelda aveva un peso psicologico sulle spalle: ho iniziato a ragionare sul fatto che, se etichetti le persone come mostri senza spingerti più a fondo, non capirai mai ciò che li muove a compiere le loro malefatte. Devi calartici e vedere dove conduce. Come la maggior parte dei politici, lei era spinta da una 34 35 Recensioni AA. VV. - Pizza 4 Seasons (Sonic Belligeranza, Gennaio 2010) G enere : N oize Se c`è qualcosa che non manca al titolare dell'etichetta Sonic Belligeranza, è di sicuro l'inventiva. Circa un anno fa, Dj Balli faceva uscire l'infame concept album da scratch - per mazze e buche - Pornogolf, poi fu il turno del 7" Bally Corgan giocato in corto circuito sui vezzi poetici del Corgan vero (lui che poi ci assomiglia un tot), infine arriva il presente 12" picture disk Pizza 4 Seasons, una compilation noise per altrettanti artisti/ingredienti. Ci troviamo Balli in Con il fischio o senza? rispondere alla domanda di Pierino con stridii di treni in freno, mischiando elettronica harsh a spezzoni da seconda serata; Bruital Orgasme e ZR3A - Belgio e Giappone - a continuare la bolgia di laptop rumorismi (da Merzbow in avanti); System Hardware Abnormal in quello che potrebbe essere il risultato di una sintonizzazione sbagliata nei pressi di Radio M2O. Girando il vinile - sul lato della crosta - troverete un unico-megamix all stars, 100% Pizza Noize Guaranteed e bollino sul disco assicurato.(6.8/10) Leonardo Amico AA. VV. - Kitsuné Maison Compilation 9. Petit Bateau Edition or The Cotton Issue (Kitsuné Music, Aprile 2010) G enere : disco pop Ci son almeno tre motivi per ascoltare questa nuova Kitsuné. Uno: i francesi aprono con Beloved di Washed Out e aumentano il gossip sul glo-fi, da qui in poi nuovo pop per gli anni '10. Due: il coraggio e la perseveranza che batte ancora una volta le strade dell'electro. Tre: il gusto fashion che plastifica consapevolmente la proposta e discrimina tra in e out. Ci son almeno tre motivi per non ascoltare questa nuova Kitsuné. Uno: l'ostentazione barocca che fa traboccare il vaso con tracce zuccherose come Let's go Together o Stop And Stare. Due: la presunzione spocchiosa che non ammette come il ricordo '80 stia già ammuffendo. Tre: 36 — cd&lp l'esclusione dal mondo ritmo dell'universo adult, a favore di sporadiche sonorità brufoloso-tardoadolescenziali. A voi la scelta. Per chi scrive la sufficienza è comunque raggiunta. I kudos sono per il già citato Ernest Greene, per il pezzo dei Crookers ovviamente più francese che mai con il featuring di Yelle e per il richiamo ai Depeche Mode mescolati Sommerville nel pezzo dei Silver Columns.(6/10) Marco Braggion AA. VV./DJ T - Fabric 51 (Fabric, Marzo 2010) G enere : deep Il boss di casa Get Physical nonché fondatore di Groove Magazine, Thomas Koch si propone sul prestigioso mix del club londinese. Dopo aver sfornato da poco un buon The Inner Jukebox, l'uomo che da oltre 20 anni bazzica per i sobborghi della techno e dell'house di alta classe, prova a inserire un po' di soul nel dancefloor. Ne viene fuori una selecta squadrata (da buon tedescone) ma nel complesso varia, che punta sul vocalismo ora parlato (grande Ursula Rucker in Where Is It), ora cantato (You Will Find Out). Il nuovo ricorso storico, inaugurato magistralmente da Terre Thaemlitz e da Chatterton qualche mese fa, ritorna qui più concentrato che mai sulla grana vocale che richiama l'old school newyorchese garage (I Get Deep). Una 'svolta' retrò (vedi le basi 303 di Hungry for the Power o i laser in The Royal Pennekaums) che piace e che ci ricorda come il ritmo abbia sempre e comunque bisogno dell'anima. Ancora una volta i ragazzi di Londra c'hanno preso.(7/10) highlight A Toys Orchestra - Midnight Talks (Urtovox, Aprile 2010) G enere : power pop A volte mi chiedo se una recensione, in fondo, non sia che un desiderio. Ogni scribacchino ha il suo disco perfetto rannicchiato da qualche parte tra cuore e memoria. Magari è solo un'idea, qualcosa cui tendere. Rispetto al quale emozionarsi più o meno. Ecco, ad esempio, nella recensione di Technicolor Dreams, terzo album per i campani A Toys Orchestra, dopo aver speso i complimenti del caso - ed era il caso - mi auguravo un po' più di carne nel menù, perché tanta mirabilia pop a gioco lungo poteva rischiare l'inconsistenza, di restare appesa a nuvolette tutte sue. Passati tre anni, ascoltare questo Midnight Talks mi fa quasi venire il sospetto che Enzo Moretto e compagni abbiano tenuto in grande considerazione il mio auspicio. Figuriamoci: chi cazzo se lo caga un recensore? Resta il fatto che, ferma restando la polpa melodica, è un disco che sterza con misura ma deciso verso un sound più energico e appassionato. Pop-rock radiofonico ad alta densità, con le radici evidentemente affondate nel power à la Badfinger, quindi comprensivo di aperture orchestrali e con digressioni psych anche parecchio asprigne, ma non va trascurata una certa enfasi riconducibile alle propaggini più potabili del prog. Lungo il programma t'imbatti nell'inquietudine muscolare di Mystical Mistake, in quella The Golden Calf che si disimpegna tra Kinks e George Harrison, in una Frankie Pyroman che - ohibò - strizza l'occhio ai Nirvana e agli Stranglers, oppure in una Plastic Romance che potrebbe essere la marcetta da brass band diretta dalla coppia Syd Barrett-Wayne Coyne. E poi ancora nel piglio noir assieme desertico e metropolitano di Backbone Blues, nello struggimento in bilico tra Wings e Wilco della stupenda Pills On My Bill, senza scordare l'arguzia molleggiata di Celentano col suo stuzzicare visioni e memorie annidate chissà dove. E via discorrendo, muovendosi poliedrici e compositi senza sembrare mai dispersivi, anzi azzeccando una bella coerenza emotiva, avvalorata dai begli arrangiamenti orchestrali di Enrico Gabrielli e dalle chitarre di Alessandro Stefana tra gli altri. No, ok, Midnight Talks non è il disco ideale cui accennavo sopra (quello che chissà se esiste o se mai esisterà). Ma è l'album che consacra una grande band.(7.8/10) Stefano Solventi Marco Braggion AA. VV./Duke Dumont (The) Fabriclive 51 (Fabric, Aprile 2010) G enere : deep techno Già conosciuto per qualche remix di pulzelle anni '80 (Bat For Lashes una per tutte), il buon Adam Dyment approda alla costola per emergenti del rinomato club londinese. Il ragazzo, balzato alle cronache per aver vinto nel 2006 il Diesel U Music contest, ci propone oggi una selecta che contiene la miscela electro-tech eredi- tata dai primi esperimenti con la Playstation e rivisitata con il gusto mesh now. Il mix, oltre ad andarci di spigoli, propone una buona varietà di sound, con le sue parole, "pieni di emozioni": l'anima deep (Reality Check, Debbie Downer), la puntatina balearic (Imitation Dub), il soul (On The Streets) aggiornando il display con una puntatina al dubstep liquido di Scuba (nell'ormai classico Hundreds And Thousands) e all'ambience 2-step di Floating Points (K&G Beat). Un buon miscuglio che preserva il piacere per l'atmosfera (vedi la chiusa IDM di Idioma) e per il groove. Senza data di scadenza. Noblesse oblige, Duke.(7/10) Marco Braggion 37 Africa Unite - Rootz (Universal, Marzo 2010) G enere : reggae Ventisette anni di musica insieme, in pratica il reggae importato e diffuso in Italia. Gli Africa Unite arrivano al disco numero quindici della loro storia tornando alle origini e ad una classicità compositiva - programmatico il titolo - che fa da contraltare alle divagazioni dubelettroniche del precedente Controlli. Se quello infatti era il disco dove si sentiva più incisivamente la mano di Madaski, qui è Bunna a spadroneggiare, infilando uno dietro l'altro una serie di brani cui non mancano ortodossia musicale e calore. Dunque ritmi in levare, spesso dal respiro soul, poetry, fiati reintrodotti, e il nume di Linton Kwesi Johnson a proteggere un'ispirazione che nelle liriche si rivolge soprattutto a tematiche socio-politiche, fra ambientalismo, antiomofobia e un generale invito a riprendere in mano il proprio destino (vedasi l'anti-singolo in accorato spoken Cosa Resta). Dal canto suo Madaski si ritaglia spazio in tre-quattro tracce dub dove appoggiare rime e voce gutturale, mentre il resto lo fanno i tanti ospiti, tutti italiani, a confermare il ruolo degli Africa quali capostipiti della scena nostrana. Ottimi gli interventi di Piero Dread e Roddy Jah Son dei Franziska su Here and Now e di Alborosie su Reality, più interlocutori gli altri (Patrick 'Kikke' Benifei dei Casino Royale, Jacopo dei Mellow Mood, Mama Marjas). E del resto interlocutorio risulta tirate le somme l'intero disco, non privo di episodi assai riusciti (Mr.Time su tutti) ma poco capace di sorprendere se non per una scrittura comunque all'altezza.(6.5/10) Luca Barachetti Alice Donut - Ten Glorious Aniimals (Alternative Tentacles, Febbraio 2010) G enere : I ndie H ardcore Sono ancora cazzoni e divertiti rockers gli Alice Donut. Ten Glorious Animals non è all'altezza dei passati Mule o Bucketfulls of Sickness and Horror in an Otherwise Meaningless Life, ma non è doma la tetra pazzia che rimbalza in pezzi di conciso e letargico hardcore, lercio e scassato blues altezza Jon Spencer e felici intuizioni di pop deviato e corrosivo. Ten Glorious Animals segna anche il ritorno alla storica Alternative Tentacles, a cui il gruppo era approdato dietro raccomandazione di Jello Biafra per poi sfasciarsi a seguito della sconfitta commerciale inferta loro dai "rivali" Butthole Surfers. Solo ora, dopo il discreto Fuzz del 2006, il sacro fuoco della creatività pare riardere e se proprio non si tratta di incendio, è un caldo e amiche38 vole falò, lisergico il giusto. Per averne la conferma basta partire dalla fine. Dalla cover di Where Is My Mind, identica all'originale tranne che per le parti cantate affidate a trombe e tromboni. Ok, un'idea già sperimentata per una versione di Helter Skelter nel live Dry Humping The Cash Cow, ma funziona ancora a dovere. Ben dispongono anche il delirio tra Old Time Relijun e Paper Chase dell'apripista Mrs Carradine, l'hardcore caramellato di Lorelei & Henry, gli Screaming Trees sotto codeina di No More Room, il tetro e marziale bozzetto prog/punk di Esophagus e Prog Jenny e The Cavalry, ballate punk/country dal cuore ricolmo di sangue zuccheroso.(6.8/10) Giampaolo Cristofaro Andrea Carboni - La terapia dei sogni (Seahorse Recordings, Febbraio 2010) G enere : I ndie pop L'incrocio è tra Thom Yorke e Jeff Buckley in stanca e ripetuta discendenza; lo scotto da pagare quello di falsetti e trionfalismo pericolosamente Negramaro nonostante un Corrado Rustici in meno e un'attitudine ad asciugare gli arrangiamenti virata alternative. Non salvano Andrea Carboni neanche certi tentativi post-rock intimiditi da briglie saldamente pop o sciolti in cavalcate a dir poco didascaliche. E l'accostamento ad un Alessandro Grazian folleggiante nell'episodio in francese Des Larmes Et Leurs Cendres che poi torna nella teatralità folk-rock di Livido sono gli unici segni più di tutto il lotto. Ma così non si uscirà mai vivi dagli anni Novanta, neppure attraverso tentativi di parodie che parodie purtroppo non sono o liriche che sembrano scritti in automatico da un generatore di testi del perfetto songwriter sangiorgiano. Diamo comunque atto a questo ragazzo di saper cantare e arrangiare come si deve. Però la prossima quantomeno ci provi a fare qualcosa non diciamo (addirittura?) di personale, ma che non sembri proprio preso in prestito dagli scarti di magazzino di qualche grande marca. Per favore.(5/10) Luca Barachetti Arrington De Dionyso - Malaikat Dan Singa (K Records, Novembre 2009) G enere : etnogarage Arrington De Dionyso ha qualcosa di profondamente viscerale. Ogni nota siglata dal suo nome segna una presenza fisica e metafisica insieme della musica, del rumore, del filo rosso che conduce l'uomo al centro della terra. È un personaggio che studia da sempre, che non smette di lasciare a bocca aperta per i numeri che la sua ugola riesce a produrre - forse a volte non facile da seguire, nel momento in cui licenzia dischi giusto per documentare i progressi nelle passioni e nelle tecniche etno-oltranziste (à la Sublime Frequencies). È mistico e sanguigno, all'essenza, Arrington, proprio come gli Old Time Relijun, specie negli indimenticati primi dischi del combo. Se proprio vogliamo trovare un difetto, lo rinveniamo nel rischio di limitare la musica a scenografia della voce, della gola, del clarinetto impazzito - uno sfondo su cui scatenare il talento e la tarantola che si annida nella gola infuocata. Non in Malaikat Dan Singa, dove ritroviamo l'efficacia e l'equilibrio graffiante di Uterus And Fire, e forse una delle produzioni migliori di quell'essere dionisiaco degli ultimi dieci anni. Lo testimoniano il ragamuffin scapestrato e abrasivo di Mani Malaikat (echi di ultimi Oneida?), che è un pretesto per gli sfoghi improvvisatori del fiato di Arrington su un ohm di retroguardia, come il garage ludico ed etnico del disco, che lo permea da Kedalaman Air e Nama Bersembunyi (ricordate l'androidpunk di Detroit?). Ciliegina, il rimando continuo a una versione mistico-garagista della musica indonesiana, richiamata da alcune vie di fuga, da meditazioni (Tenaga Halusinasi) e dalla lingua con cui De Dionyso scandisce le lyrics. Un album da recuperare dalla fine del 2009, e da continuare a riascoltare.(7.35/10) Gaspare Caliri Aufgang - Aufgang (InFiné, Ottobre 2009) G enere : T echno /P iano M usic Presenziare ai festival che sperano ancora, nel 2010, di gettar ponti tra classica e musica da ballo recitando la trita litania secondo cui l'elettronica, nata negli studi di fonologia, imbastarditasi nei club, sarebbe alfine tornata nel rassicurante alveo della musica d'arte - ah, l'eterogenesi dei fini! - è un prezzo che si può pure scegliere di pagare. Essere esposto in bella mostra di tutto punto vestito sui carrozzoni (sempre meno allegorici) della dance intelligente, a nostro avviso, invece, no. Sono passati cinque anni da quando il trio Aufgang (Francesco Tristano e Remi Khalifé, pianoforte; Aymerich Westrich, batteria e programming) si è esibito per la prima volta al Sònar, eppure chi ha avuto l'occasione d'assistere da vicino alla sua genesi, o si è incuriosito nel frattempo alle metamorfosi del giovane Tristano, non troverà in quest'esordio novità eclatanti se non un autoimposto sfoggio di classe. L'approccio cerebrale e, oseremmo dire, progressivo (alla Mars Volta, per intenderci: gli scettici ascoltino Channel 7) a quel tipo di pianismo post-minimal che tanto è penetrato nel tessuto della musica di consumo rimane inalterato, e continua ad andare di pari passo con le regole base della techno. Melodia e ritmo allo stato puro, dunque, eccezion fatta per quei rari luoghi - i più interessanti da esplorare - in cui qualcosa (un incedere caotico in Channel 8, una serie di dissonanze in Soumission) intorbida il tocco cristallino dei due eccellenti strumentisti.(5.5/10) Vincenzo Santarcangelo Awesome Color - Massa Hypnos (Ecstatic Peace!, Aprile 2010) G enere : hard - rock E così gli Awesome Color, giunti al terzo album, prendono definitivamente la via dell'hard-psych seventiesoriented. Ed era ora, verrebbe da dire, visto il curriculum sempre indeciso sulla direzione da prendere. L'attacco di Transparent - stoner primigenio alla Kyuss, ma essiccato e ancor più ossessivo - è una dichiarazione d'intenti bella e buona, che poco lascia all'interpretazione di chi ascolta. Tutto l'album infatti emana continuamente effluvi acidi hard&heavy, qua e là venati di stoner postkyussiano o di risvolti heavy-rock rifunzionalizzati alla maniera dei primi Monster Magnet. Certo che non di soli panorami post-kyussiani vive Massa Hypnos: il rifferama ashetoniano resta la base fondante del suono dei trio newyorchese (specialmente quando accelerano come in White Cloud) così come una certa, vaga predilezione per ballate bluesy strascinate (Zombie) e psychbluegrass (Slaughterhouse) ma è il richiamo della foresta hard-seventies la pietra filosofale di questo terzo disco. Vedasi la lunga IOU, che fotografa gli Stooges di Funhouse intenti a jammare coi Loop sul palco di Monterey. Come a dire che, dopo peregrinazioni e tentativi di focalizzazione poco riusciti, questo sembra essere il terreno ideale dei tre capelloni americani.(6.2/10) Stefano Pifferi Baby Dee - A Book Of Songs (Drag City, Marzo 2010) G enere : folk cameristico Ritorno al futuro per Baby Dee. Il passo successivo 39 all'eccellente Safe Inside The Day è un ritorno ad un lavoro pubblicato in pochi esemplari, poco più che un demo registrato in autarchia nel 2001 e da tempo ormai introvabile. Riarrangiati da Maxim Moston, già al lavoro con Antony and the Johnsons, i pezzi che compongono questo A Book Of Songs sono altrettanti lieder cameristici con nuances teatrali. Archi, legni, piano e arpa costituiscono un trepido fondale per la voce incredibile di Dee: un impasto di solennità e abbandono, fragilità ed ebbrezza, dolore ed estasi, con quella capacità di galleggiare tra rappresentazione e intimità, tra crepuscolo solitario e luci del palcoscenico. Il tema è l'amore, ovviamente, ovvero il diritto d'amare e di essere amati, malgrado tutto e tutti. Un tema che sta particolarmente a cuore al Nostro, che ci regala interpretazioni notevoli quali l'accorata Black But Comely, la guizzante Lilacs, l'angelica Love's Small Song e la desolata Unheard Of Hope. Bel disco, ideale alternativa all'ultimo di Joanna Newsom, come se di quello fosse un fratello senz'altro minore ma forse più saggio. (7.2/10) Stefano Solventi Balmorhea - Constellations (Western Vinyl, Febbraio 2010) G enere : F olk ancestrale Constellations è uno sguardo al cielo notturno, in riva al mare d'inverno con pace e inquietudini a mescolarsi nelle viscere. Immagini sfocate di una città in movimento dal finestrino di una macchina in corsa sotto la pioggia. Serenità rivestita di morbido spleen. è anche il susseguirsi di composizioni di folk ancestrale istoriato da accenni di musica classica e jazz. Composizioni bagnate dalle lacrime di corde pizzicate, sfiorate e da granuli d'archi e timidi organi. Ma è il piano (Steerage And The Lamp una per tutte) centro gravitazionale attorno a cui ruotano strumentali minimali e impressionistici al contempo, misurati e cesellati con sapienza. Forse troppo allineato al precedente All Is Wild, All Is Silent, ma poco importa. Mani nelle tasche, armati di un lieve sorriso è ora di tornare a casa.(7/10) Giampaolo Cristofaro Basia Bulat - Heart Of My Own (Rough Trade, Febbraio 2010) G enere : songwriting Per il sophomore Heart Of My Own la songwriter canadese Basia Bulat conferma produttore (Howard Bilerman) e studio (il prestigioso Hotel2Tango di Montreal) concependo, durante un anno on the road, un seguito più eterogeneo dell'esordio Oh My Darling. Se lì Basia coglieva i nostri favori mettendo in mostra un 40 fresco songwriting spesso in acustico al piano con archi e inflessioni chamber e jazzate, al contrario in questa prova tutto è più in grande e di maniera con arrangiamenti e musica declinati su un folk rock di marca Neko Case, puntate nel country e ancora approccio da camera. Caratteristiche e levigatezza che non giovano alla verve compositiva della cantautrice.(6.5/10) Teresa Greco Baustelle - I mistici dell'occidente (Warner Music Group, Marzo 2010) G enere : pop rock Il quinto dei Baustelle è un disco che azzarda una disinvolta maturità. Non alza l'asticella, anzi, persegue un'inerzia scafata e agile in chiave pop-rock, spogliandosi in parte del vezzo citazionista a vantaggio di un'alta definizione sonica che bene incorpora inventiva ed essenzialità. Ha fatto buon gioco quindi la presenza di Pat McCarthy alla co-produzione e non era affatto scontato, visto che comunque c'era da perpetrare tutto un immaginario infarcito di beat italiano, morriconismi e languori orchestrali. Finisce così che certi preziosismi - uno sfarfallio di flauto, lo svolazzo pettoruto di una tromba - somiglino a rapide pennellate su una trama ricca, sobria ed incisiva ad un tempo. Il suono quindi, innanzitutto. Poi una scrittura mediamente più sbrigliata del solito, come se avesse mollato qualche zavorra nostalgica e - di conseguenza - quella posa blasé, tanto che avverti una generosità inedita nel suo alternare ballate estatiche e guizzi ruspanti. Le coordinate sono individuabili nei sessanta più favolistici che favolosi ma anche nei corollari più abboccati del prog, finendo per lambire le ruggini R.E.M. altezza Green (Canzone della rivoluzione) e perfino il caracollare arguto dei tardi Blur (Le rane). Archiviata una Gli spietati che in quanto primo singolo/video è biglietto da visita abbastanza ingannevole (col suo citazionismo ipertrofico che si permette una sorta di Rino Gateano à la Mio fratello è figlio unico nel finale), sono degne di nota la title track (con le strofe De André che vanno a sublimarsi in un ritornello sinfonico), una San Francesco che potrebbe non spiacere a Wayne Coyne e quella Il sottoscritto che smazza garbata solennità ed enfasi melodica. Di contro, una certa fiacchezza pervade la narcosi quasiAir di Follonica, lo yeh-yeh automatico di La settimana enigmistica e lo struggimento un po' troppo accademico della conclusiva L'ultima notte felice del mondo. Un'ultima considerazione riguardo ai testi: laddove Amen pareva esprimere la consapevolezza di un'epoca sull'orlo del baratro, l'approccio de I mistici dell'occidente sembra accettare con fatalismo e appassionata disinvoltura highlight Balaclavas - Roman Holiday (Dull Knife, Febbraio 2010) G enere : D ub P ost -P unk Dopo i due EP di un paio di anni fa, i texani Balaclavas debuttano su lunga distanza capitalizzando sapientemente il tempo trascorso dall'ultimo Inferno. Come dimostrano la title-track e Up The Newel, il sound dai richiami Public Image Ltd. e Point Line Plane resta la fondante di una ricetta comunque messa a punto e orientata, ora più che mai, al dub di matrice Wobble-iana. La passione per le ritmiche giamaicane, e nere in genere, la troviamo negli incastri tribali di Vuitton e Nine Livers che farebbero la gioia di Yaki Leibezeit. Parallelamente, una coltre color pece dal forte regusto Gun Club ammanta brani come True Believers, mentre il sax nottambulo di Ralf Armin (già nei local heroes Culturcide) in Night Worship ci prende per mano e ci conduce in un viaggio onirico come solo i Morphine sapevano fare. Roman Holiday odora di funk umido e sporco e di asettica austerità inglese, madido del sudore dei tropici e bagnato dalla pioggia urbana di Londra. Lavori di tale fattura sono sempre più rari. Chapeau.(7.3/10) Andrea Napoli l'inevitabilità del day after, dove l'estinzione del sacro è lo sfondo crudele ma congeniale per vite alle prese con la legge inesorabile del tempo, "che passa ma il segno rimane". La leggerezza pensosa di queste canzoni è assieme un lenitivo e una chiave, o se volete - appunto - un buon passatempo. Con tutto ciò che questo può significare.(7/10) Stefano Solventi Black Dog - Music For Real Airport (Soma Records, Aprile 2010) G enere : IDM, soundtrack Avete capito bene. I Black Dog, a trentadue anni di distanza dal mitologico Music For Airports, hanno deciso di licenziare un album sullo stesso tema aggiungendo polemicamente un real al titolo. Come riportato dal sito ufficiale alcuni membri del combo non erano mai stati contenti del trattamento rivolto da sir Brian Eno all'argomento. Troppa celebrazione della società contemporanea, troppo ruffiano l'assist alle compagnie stesse che potevano docilmente usare quella musica come muzak. In pratica, se lodevolmente i Black Dog intendevano rispondere al sulfureo Eno con un lavoro comprendente, e dunque contemplante, quella paura sottotraccia persistente nell'atto del volare (toccando magari i risvolti subconsci legati al terrorismo), successivamente non hanno resistito al richiamo della polemica (contro una supposta falsa utopia e falso idealismo presenti nello storico lavoro) e a quello della resa tecnica. Frutto dell'elaborazione di 200 di field recordings e di un significativo uso dei sintetizzatori sull'asse Vangelis/Jarre, Music For Real Airports offre cinquantotto minuti totali di IDM scura e senza forma, risultando però un album pretenzioso e, fin da subito, piuttosto noioso. Invece di stimolare gli aspetti irrazionali della paura di volare, il combo punta a una chirurgica calligrafia IDM '90 dagli astuti quanto prevedibili ritagli dub step. Non ricordavamo i Black Dog come degli Oasis dell'ambient.(5/10) Edoardo Bridda Black Rebel Motorcycle Club Beat The Devil's Tattoo (Vagrant, Marzo 2010) G enere : rock - shoegaze Singoli come Whatever Happened To My Rock 'n' Roll hanno fatto il loro tempo e sono invecchiati inesorabilmente. Periti sotto i colpi della poca voglia di rischiare, storditi dall'ebbrezza provocata da un buon disco d'esordio e dalla disillusione allegata al secondo, contaminati dal blues-psych elettro-acustico di Howl e minati nelle fondamenta dalla superficie lucida di Baby 81. Un percorso tortuoso e non sempre dai buoni risultati, quello dei Black Rebel Motorcycle Club, speso tra riciclo e furberie, banalità assortite e rinnovata credibilità. In mezzo, quel mix di shoegaze-blues-rock a grana grossa un po' Brian Jonestown Massacre, un po' Jesus And Mary Chain, un po' Ride, un po' punk, generoso dal vivo ma spesso poco sorprendente su disco. Beat The Devil's Tattoo non sconvolge il quadro clinico, ma qualche argomentazione a sostegno la trova, 41 facendoci credere almeno per un istante che ci sia vita oltre la morte. Forse non nell'iniziale title track - un' outtake di Baby 81 ? - e nemmeno nella successiva Conscience Killer - classico punk acido delle origini -, ma di sicuro nel blues acuminato di War Machine, nell'elettricità monolitica di Mama Taught Me Better, nel beat di River Styx, nella suite lisergica di Half-State. Col pedale dell'elettricità a fondo corsa e un ritrovato entusiasmo dovuto anche al cambio di formazione - dietro ai tamburi, al posto del dimissionario Nick Jago, c'è Leah Shapiro delle Raveonettes - che costringe la band a prendersi qualche responsabilità in più. Né un fallimento annunciato né musica da vette creative dell'indie più coraggioso, Beat The Devil's Tattoo, ma un'opera riconoscibile. Con tutti i pro e i contro del caso.(6.4/10) Fabrizio Zampighi Blood Red Shoes - Fire Like This (V2 Music, Febbraio 2010) G enere : I ndie R ock Tesi e nervosi spasmi di indie rock chitarristico di stampo marcatamente anni '90. Non si discostano molto da tale canovaccio i pezzi del secondo disco dei Blood Red Shoes. In due, Steven Ansell (batteria e voce) e Laura Mary Carter (chitarra e voce) non sono i White Stripes al contrario, benché qualche stilla di secco blues sporcato di garage si intraveda a tratti.Volendo riferirsi al recente passato Fire Like This si potrebbe attribuire a degli Arctic Monkeys più muscolari e cinetici. Spiccano la possanza di When We Awake (e qui c'entrano qualcosa anche le Breeders), le arroventate Keeping It Close e Heartsink dalle sfumature grunge (!) e l'autistica Follow The Lines.(6/10) Giampaolo Cristofaro Blood Red Shoes - Fire Like This (V2 Music, Febbraio 2010) G enere : I ndie R ock Tesi e nervosi spasmi di indie rock chitarristico di stampo marcatamente anni '90. Non si discostano molto da tale canovaccio i pezzi del secondo disco dei Blood Red Shoes. In due, Steven Ansell (batteria e voce) e Laura Mary Carter (chitarra e voce) non sono i White Stripes al contrario, benché qualche stilla di secco blues sporcato di garage si intraveda a tratti. Volendo riferirsi al recente passato Fire Like This si potrebbe attribuire a degli Arctic Monkeys più muscolari e cinetici. Spiccano la possanza di When We Awake (e qui c'entrano qualcosa anche le Breeders), le arroventate Keeping It Close e Heartsink dalle sfumature grunge (!) e l'autistica Follow The Lines.(6/10) Giampaolo Cristofaro 42 Brian Lavelle - Ustrina (Afe records, Ottobre 2009) G enere : elettronica / ambient La forza di questi field recordings vecchi dieci anni (come nel miglior Basinski), e delle loro stratificazioni in droni sta nella proporzione e nell'equilibrio che delineano una continuità perenne fatta di slittamenti, passaggi che galleggiano, decomposizioni, dissonanze e sedimenti di suono. Sembra esser stato composto in stato di sonnambulismo, l'ultimo lavoro dello scozzese Brian Lavelle licenziato dall'italiana Afe Records.A tratti ricorda il DJ Olive della Room40, quello delle Sleeping Pillows, sicuramente continua sulla strada dei due precedenti Just a Song at Twilight (Dust, Unsettled, 2006) e Supernaturalist (EE Tapes, 2008); ma la differenza, per Ustrina, sta nella logica perfettamente isolazionista che lo caratterizza. Suoni per spazi profondi e imperscrutabili verso i quali dirigersi grazie a un lento e denso spostamento orizzontale.(7/10) Sara Bracco Burning Star Core - Papercuts Theatre (No Quarter, Marzo 2010) G enere : P sych N oise Distante dalle efferratezze dei compagni di sventure Yellow Swans, Prurient e John Wiese, chi ha seguito da vicino Chris Spencer Yeh/ Burning Star Core sa quanto l'uomo abbia ammiccato alla musica colta nella propria carriera. Disseminati in Amelia o di Everyday World Of Bodies, ad esempio, troviamo evidenze di LaMonte Young come di Tony Conrad attraverso suoni minuscoli e variazioni altrettanto microscopiche. Papercuts Theatre ne cambia corso a favore della visceralità della comitiva: un insolita batteria (non più campionata) oscilla tra spasmi e ritmi funk nella traccia I, affogata da synth pulsanti di rumore fluido; e se in III ritorna la voce (come in Everyday World Of Bodies processata fino a sembrare una beat-box sbronza) passa un attimo e la foga dei synth sommerge tutto di nuovo. Un suono che reclama spazio. Che si fa strada attraverso i reverberi in direzioni misticheggianti per un free noise mai annichilente. In Papercuts Theatre, quello che C. Spencer Yeh ha tolto al cervello, lo restituisce allo spirito tutto.(7.2/10) Leonardo Amico Burzum - Belus (Byelobog Productions, Marzo 2010) G enere : B l ack M etal Dai Sunn O))) di Stephen O'Malley ai Jesu di Justin highlight Caribou - Swim (Leaf, Aprile 2010) G enere : folk , trancetronica Ci aspettavamo un nuovo capitolo della saga kraut-psych ad alto contenuto ritmico, aggiornata magari a una scrittura ancor più fluida e matura, ed invece Dan il canadese più amato dalla Leaf, seguendo parallelamente le linee guida dell'amico fraterno Kieran Hebden, ha preferito intendere Andorra come un capolinea di tutto un percorso intrapreso sicuramente con The Milk Of Human Kindness, album con il quale si era fatto conoscere e valso l'appellativo di gentle-tronico, il ragazzo dall'elettronica gentile. Allo stesso modo di There Is Love In You, la svolta di Swim introduce l'elemento ballabile unendolo a quello ipnotico, combinando così kraut e minimalismo. Ad differenza di un Four Tet dritto sulla rotta trance più minimal tracciata dall'altro amico James Holden, Snaith preferisce tenersi il pop come metro con il quale misurarsi i vestiti, scegliendo persino di buttarsi negli eighties più synth con il singolo Odessa, brano di punta di un look che non rinnega né certo white soul (e funky nei ritmi) né una posa dancefloor doppiozero à la Erlend Øye (presente anche in Leave House). In Swim però c'è soprattutto altro come i ritmi para DFA di Bowls o i citati modi trance che sublimano in Sun, brano chiave per l'altra importante lezione messa in circolo che è l'idm-ravetronica, Orbital in primis, Underworld dopo, e più indietro l'old school chicagoana. Dan è fresco e appassionato alla materia sonica come non lo sentivamo dai tempi di Up In flames, un lavoro che siglò a inizio Duemila la cosiddetta folk-tronica. Ora occorre che qualcuno scovi un termine nuovo per questo movimento in fieri che finalmente guarda oltre il copia/incolla Ottanta. Sentiamo un po' che farà l'altro guru delle contaminazioni extra-dance, Matthew Herbert, e per il momento godiamoci questo bel viaggio intelligent di gran gusto che, attenzione, non rinnega niente: né lo psych né il jazz (Hannibal) né l'indie né Nick Drake.(7.3/10) Edoardo Bridda Broadrick, passando per atti ben più underground come Xasthur e Striborg, i pegni a Varg Vikernes sono stati molteplici così come indelebili i segni lasciati dal progetto Burzum su tutte le musiche estreme degli ultimi quindici anni. Oggi che il Conte è tornato in libertà - e Burzum redivivo - i sedici anni di reclusione pesano però come un macigno sulle sorti di Belus, settimo sigillo di uomo che oggi risveglia il genius loci che aveva guidato le gesta degli adepti del culto più un lustro or sono. L'iniziale coppia di brani Belus' Død (con recupera il vecchio riff di Dauði Baldrs) e Glemselens Elv (reminescente degli Ulver di Bergtatt) è indubbiamente la più riuscita; Kaimadalthas' Nedstigning si salverebbe agilmente se non fosse per le parentesi folk-metal, mentre Sverddans, un thrash-black risalente al periodo degli Uruk-Hai (il nome del progetto prima che si chiamasse Burzum) mostra inevitabilmente i tratti più anacronostici del suono dell'ex detenuto di Trondheim. Altro aspetto negativo è il paragone con lo scream dei bei tempi, oggi un pallido riflesso di quello di allora, e perciò non rimane che la nostalgia nell'incedere finale di Belus' Tilbakekomst memore dei fasti '90. In casi come il suo, sarebbe meglio lasciare che le reliquie giacciano indisturbate per essere eternamente onorate e servire da monito negli anni a venire.(6/10) Andrea Napoli Canemorto - Canemorto (Music Valley, Marzo 2010) G enere : canzone d ' autore Più attenzione e un pizzico di furbizia a volte non guasterebbero. è necessaria una cover di Ivan Graziani quando vocalmente si è pressoché identici? Perché rischiare dunque un simile misunderstanding identitario come fa Canemorto in questo esordio omonimo? Antonio Nardi, già nei Colya (un ep e un singolo, Laura, in buona rotazione nel 2005), a tratti scrive e sicuramente 43 canta come l'autore di Firenze (canzone triste). Non lo fa (del tutto) apposta, è la sua voce. Però pensa bene di mettere in tracklist proprio una rilettura di quel brano, peraltro fin troppo smaltata. Ed è un harakiri. Anche perché il resto naviga zelante su rotte novantiane di Afterhours impoltroniti, enfasi Muse giusto in apertura (A 300 all'ora), e quasi a metà la scoperta a dir poco bizzarra di un inno calcistico (Fiorentina) versato shoegaze e violini cameristici. è chiaro che Canemorto cerchi una via personale alla canzone d'autore ereditandone lo stile, l'impegno, e opponendo alla nostalgia soluzioni nuove, tratte per lo più dagli ultimi vent'anni di rock anglo-americano (Leopoldo Giachetti e Martino Mugnai dei Velvet Score a dare una mano). E date le premesse, è anche ovvio che queste soluzioni nuove manchino, ma fa niente. Il nodo è semmai un altro: che ad arrancare sono proprio le canzoni, perse tra rock'n'roll a salve (Se ritornasse il Signor G), cromatismi elettronici che hai voglia a vederli i Primal Scream (Aeroplani) e una stanchezza diffusa che solo in un episodio si riprende (Giuliano non lo sa ha la stessa rotondità suadente di certo Graziani, ma rimane un bel pezzo). Costui ha vinto nel 2008 il Premio De André? Mah...(5.2/10) Luca Barachetti Capputtini 'i Lignu - Capputtini 'i Lignu (Jeetkune, Febbraio 2010) G enere : G arage B lues Capputtini 'i Lignu sono l'esempio lampante di come la tradizione musicale americana continui ad esercitare un fascino globale ed incondizionato. Il duo formato dal francese trapiantato a Roma Cheb Samir (già nei Normals e Two Tears) e dalla siciliana Kristina, dopo l'ottimo 7'' su Shit Music For Shit People, distilla undici episodi che sono un vero vademecum di old time music made in the Usa. Espliciti richiami Gories (3per3, She's A Crime) e vecchi blues rurali (Fireflies) fanno il paio con tristi ballad d'antan (Mr Death, tra i fiori del lotto) e boogie indiavolati (la nomen omen American Dance). Un completo ed ammaliante compendio di cent'anni di rock'n'roll, un salutare refresh che farà la gioia di chi di quei suoni ha sempre la giusta nostalgia.(7.1/10) Andrea Napoli Chapelier Fou - 613 (Ici d'ailleurs, Marzo 2010) G enere : chamber - folk - tronica Bisognerebbe lasciarli crescere, gli artisti. Senza pretendere che dicano subito quel che vogliamo o che confer44 mino le aspettative che abbiamo riposto in loro. Dovremmo lasciarla alla farsa del nostrano calcio la sciocchezza di licenziare un allenatore dopo tre mesi di campionato perché il rendimento non è all'altezza. Abbiamo avuto pazienza con Louis Warynski, il ventiseienne francese di belle speranze che si fa chiamare Chapelier Fou, e i due EP già passati al vaglio - Darling, Darling Darling... e Scandale - convincevano il giusto mentre indicavano un talento alle prese con elettronica e tentazioni classicheggianti, folk e cameristica mantenendo forza comunicativa. Ne veniva fuori un'avanguardia sorridente e in nessun caso autocompiaciuta, col raro dono di aprirsi senza banalità. Impresa non delle più agevoli, nondimeno lo è per lunghissimi tratti in 613, album d'esordio dal titolo enigmatico e inafferrabile come le sonorità che trattiene. In grado di far tutt'uno di chanson e morbidezze - morbosità? - 4AD (Half Of The Time: canta Matt Elliott: Louis ricambierà il favore partecipando all'imminente ritorno di Third Eye Foundation); di ammiccare con personalità alla folktronica e ai bozzetti di Brian Eno, ai Cluster più trasognati e alla giocosità contorta dell'Holger Hiller di Oben Im Eck; di commuovere come un'Orchestra Pinguina discesa in una domenica paesana d'oltralpe. Soprattutto di mescolare ogni aspetto in base a estro e verve moderni, caratteristici di una generazione che si accosta alla musica senza più barriere né preconcetti, siano essi di stile o metodo (il tris d'apertura G tintinnabulum, Les métamorposes du vide, Luggage). Lo aspettavamo al varco, il Cappellaio, ed è sfuggito con una piroetta perché ha un sacco da fare. La perfezione non dista molto: intanto, gli applausi sono per lui.(7.4/10) Giancarlo Turra Christian Prommer - Drumlesson Zwei (!K7, Aprile 2010) G enere : jazz on electronica A quasi trent'anni dalla sua fase pionieristica, l'electronica è ormai storicizzata e canonizzata. Ha sfornato i suoi capolavori e fissato i suoi standard. è pronta per entrare nei real book dei jazzisti. Quello del tedesco Christian Prommer è forse il più riuscito tra i progetti che mettono su disco considerazioni come questa, rileggendo in chiave strumentalesuonata, e appunto jazz, pezzi ormai classici a cavallo tra electro, techno e house. è un approccio che, lo abbiamo visto, si sta facendo strada, con pari densità teorica, anche nel mondo hip hop (oggetto, per adesso, brani dai corpus di Pete Rock e J Dilla) e che, con molta meno densità teorica e programmaticità, ha portato anche a riletture di pezzi - capolavori pop Duemila, precisiamolo - come Toxic di Britney Spears e Hey Ya! degli Outkast. Torna quindi Prommer con un secondo capitolo Drumlesson dopo l'ottimo esordio del 2007. La formula non cambia, classici electronici vecchi e nuovi riletti in chiave jazz, e ancora Peter Kruder a co-produrre. Lì i pezzi forti erano Can You Feel It di Larry Heard/Fingers Inc. (la nascita della deep house), Strings of Life di Derrick May (codificazione delle tastiere house dentro un pezzo techno, quando ancora non c'era stata l'elettrolisi a separare i due generi), Nervous Track dei Masters at Work a nome Nuyorican Soul, Trans Europe Express dei nonni Kraftwerk, lo smash hit Around The World dei nuovi stilisti Daft Punk. Qui i brani scelti sono forse meno universalmente noti, per cui vale la pena di elencare la tracklist per intero: Sandstorms di Carl Craig, Groove La Chord di Aril Brikha, Sleepy Hollow di Stefan Goldmann, Acid Eiffel di Laurent Garnier, Oxygène Part IV di Jean-Michel Jarre, Jaguar di DJ Rolando e Mike "Mad Mike" Banks (in doppia versione), Sueno Latino di Craig e May, High Noon di Kruder & Dorfmeister, Sandcastles di Dennis Ferrer e Jerome Sydenham. Prommer è bravo a dosare gli elementi, trova il giusto equilibrio tra sottolineatura del tema e spazio lasciato ai musicisti e ai loro soli, tra rispetto del brano e lettura personale. Ma perde un po' di mordente. Forse perché è scemato l'effetto sorpresa (e forse perché alla "seconda botta" si avverte di più il fattore manierismo di un'operazione come la sua), forse perché sono le selezioni stesse ad essere meno efficaci. Sia come sia, rispetto al primo volume la massa sonora è più essenziale e filiforme, più spacey, più elettrica (molte tastiere e anche un minimoog), meno strettamente jazz. Il risultato, per quanto appunto meno intrigante, è comunque sempre godibile. Nota: l'impostazione ritmica di un paio di pezzi, ma soprattutto di Jaguar, ricorda incredibilmente da vicino i King Crimson di Discipline.(6.9/10) Gabriele Marino Coal Porters (The) - Durango (Prima Records, Febbraio 2010) G enere : bluegras s , country The Coal Porters è il gruppo bluegrass inglese in cui milita Sid Griffin, ex The Long Ryders, band di metà Ottanta del giro Paisley Underground. Il leader della band che esiste da ormai quasi due decadi è da anni giornalista (Mojo, Uncut, Record Collector..) nonché scrittore, saggista e discografico indipendente, dividendosi tra Inghilterra ed America. The Coal Porters erano nati come gruppo rock elettrico, per poi spostarsi anche verso territori acustici e contaminazioni punk e rockabilly. Durango arriva dopo tre anni dal precedente Turn The Water On, Boy!; forse più che alt bluegrass l'album si può definire country tout court con spruzzate contaminanti di Clash e rockabilly sparsi. Banjo, violino, chitarre, contrabbasso e mandolino con la produzione di Ed Stasium (Ramones, Smithereens, Belinda Carlisle), per un disco piuttosto tradizionale con alcune sorprese, come una versione basic di Like An Hurricane di Neil Young, e testi letterari. Per il resto i due guest Tim O'Brien (assolo di mandolino in Roadkill Breakdown) e Peter Rowan (voce e chitarra in Moonlight Midnight) non lasciano dubbi.(6.8/10) Teresa Greco Cobblestone Jazz - The Modern Deep Left Quartet (!K7, Marzo 2010) G enere : deepminimal / fusion Il secondo attesissimo album dei canadesi è un passo avanti che li riporta - per certi versi - alle origini. Il trio diventa infatti un quartetto con l'ingresso in formazione di Colin de la Plante aka The Mole, produttore già in quel Modern Deep Left Quartet dalle cui ceneri nacquero i Cobblestone e che dà opportunamente il titolo a questo lavoro. Cosa cambia rispetto a 23 Seconds? Poco e tanto. Il tocco è quello, globuloso e avvolgente, immediatamente riconoscibile, la cura del dettaglio quasi maniacale, la concentrazione tutta spesa su motivetti essenziali che animano pezzi iterativi e fluttuosi dagli esiti praticamente trancey. Stavolta però gli angoli appaiono smussati, i temi più lineari, la materia più asciutta e compatta, fanno capolino atmosfere che definiremmo addirittura solari, anche se la luce è quella del tramonto (parola chiave ambient house primi Novanta). Il cesello insomma non solo rifinisce ma ammorbidisce le forme. Ed emergono con maggiore chiarezza anche altre sfaccettature delle radici di Jonson & compagni: gli anni Ottanta e la mamma di tutte le forme elettroniche della dance - l'electro - con un uso più marcato della voce, vocoderizzata e inintellegibile, mol45 to Transformers. Dici electro e l'iniziale Chance Dub è a due passi della cavalcate soft dei Kraftwerk di Tour de France. Fiesta, il pezzo di maggiore impatto, è un riff scuro e potente che ricorda i GusGus di 24/7, nome questo da scomodare anche per la successiva Children, se non altro per quel modo di accumulare tensione senza mai risolverla. Mr. Polite, basso appiccicoso, claphand e vocoder, sembra una versione stilizzata - in silhouette - di certi numeri Daft Punk, e l'ombra dei due francesi, mista a un ricordo come di certi Devo post-Are We Not Men..., si allunga anche sulla successiva Cromagnon Man. Resta il tris di pezzi che riprende le tastiere elettriche e lo spunto fusion di Slap My Back (su 23 Seconds) sviluppandolo con feel latin: Sun Child si mantiene su quello stesso mood jazzy, mentre Chance e soprattutto la conclusvia Midnight Sun - un titolo che è un programma - prendono una piega soft praticamente lounge, perfetti per chill out ibizenchi all'ora del crepuscolo. Un lavoro conciso che massimizza l'efficacia lavorando su poche idee fatte benissimo, suonate da dio e risolte sempre con stile e classe. Probabilmente è già maniera, ma chi se ne frega.(7.3/10) Gabriele Marino Dag för Dag - Boo (Haldern Pop Recordings, Febbraio 2010) G enere : indie - rock L'inquietudine Joy Division ripassata con spugnature lisergiche, ovvero drumming serrato e prossimo alla deflagrazione e chitarre che non rinunciando all'elucubrazione elettrica spargono reflui luccicanti e aciduli: quello che fanno i fratelli svedesi Sarah e Jacob Snavely in questo esordio sulla lunga distanza prodotto per quasi metà negli Stati Uniti (da Richard Swift) e per il resto nella terra natale è presto detto. Si aggiunga a ciò solo un violino spiritato che per Boxed up in pine dichiara un'ascendenza folk non troppo precisata e una Wouldn't you da Arcade Fire in tensione misticheggiante e la mappa del percorso dei Dag för Dag è completa. Ovvio che sulla distanza di tredici tracce il gioco si ripeta un po' troppo e annoi - anche se ai nostri non manca quel tiro che live saprà farsi rispettare - tuttavia neanche una bonus track intitolata Ring me, Elisa che li vede travestiti da White Stripes sembra aprire chissà quali prospettive. Insomma: vi piaceranno solamente se saprete accontentarvi.(6/10) Luca Barachetti David Byrne - Here Lies Love (Nonesuch, Aprile 2010) G enere : pop , l atin , kitch L'unico modo per rendere giustizia a questo mastodon46 te è considerarlo sin da subito un "a sé" nella carriera di David Byrne. Non pensarlo, né tanto meno valutarlo, come se fosse il seguito di Grown Backwards. E, con ciò, di riconoscerlo come pegno di coraggio da parte di uno che non s'è mai fatto mancare nulla quanto a genio e sperimentazione, grandi canzoni e futuro preconizzato. Giano bifronte, Here Lies Love, è disco schizofrenico che affida al doppio cd un concept sulla vita di Imelda Marcos, in cui abbondano ospiti davanti al microfono, dunque si trova una strada segnata sin dall'inizio. Che non è male nella title-track a mo' d'introduzione, gustosa di screziature disco, melodia sorridente e orchestrazione folta però agile. Canta Florence "Machine" Welch e rende un buon servizio, come Candie Payne e St. Vincent sul latineggiare marpione Every Drop Of Rain. Potrebbe bastare e buttiamo sul piatto pure l'ironia elettro-rock funk di Eleven Days (ospite Cyndi Lauper), giacché il resto sa di epica sfocata, banalità folk e un rock-pop che - come le citazioni etniche e cameristiche - scorre anonimo e pallido. Tutt'altra musica sul secondo dischetto, dove il ruolo di Fatboy Slim ha maggior peso ed è cosa buona e giusta: esclusi un paio di numeri soporiferi, si tocca l'apice con American Troglodyte (Byrne si ricorda di mutare la disco e mostrare la via alle sciacquette odierne) e la sensualità nu-errebì traboccante da Please Don't con Santigold. Sul rimanente funzionano il battito squadrato ma caldo e l'ugola di Sharon Jones su Dancing Together, la hi-energy anni '70 Men Will Do Anything, la contorsione alla Prince - Kate Pierson dei B-52's risvegliata dal letargo - immaginata con The Whole Man. Stimolante e controverso ma, per quanto ce lo potevamo aspettare, tutto si conferma una sorpresa. Non sempre di quelle positive, però.(6.6/10) Giancarlo Turra Dino Fumaretto - La vita è breve e spesso rimane sotto (Trovarobato, Marzo 2010) G enere : surreal cantautorato Dino Fumaretto è lo pseudonimo di Elia Billoni, o forse l'alter ego, oppure il prodotto di una schizofrenia artistica/esistenziale. O un gioco. Uno scherzo terribile ed esilarante. In ogni caso, c'è. E c'è questo disco, l'esordio ufficiale dopo un paio di autoproduzioni e tante performance che hanno fatto di Billoni/Fumaretto un piccolo culto in attesa di più ampie platee. Arrangiamenti stringati, pianoforte e voce perlopiù, qualche tastiera, l'armonica ed il kazoo, tutti suonati dal Nostro nel tentativo di dare vita a tanti teatrini quante sono le canzoni in programma. highlight Crookers - Tons Of Friends (Universal, Marzo 2010) G enere : mesh rap urban Una tonnellata di amici per il debutto full lenght dei ragazzi italo che hanno sbancato all'estero con una pletora di remix da far impallidire il più navigato dei produttori. La loro è la storia di chi non è (e forse non sarà mai?) profeta in patria. Pazienza, l'importante è il disco (dopo quel Mixtape underground comunque indimenticabile) e la guest list che da un artista italiano non avresti mai osato nemmeno immaginare: Soulwax, Kelis, Róisín Murphy, Yelle, Kid Cudi e Dargen D'Amico. Phra e Bot: orgoglio da veri rockers sul piatto senza peli sulla lingua. Internazionalismo a base di mesh Missill, M.I.A. e suono losangeliano. Dall'anthem Day'N'Nite per Kid Kudi ne sono passate di serate, ma i due anni trascorsi non hanno sedato l'urgenza e la voglia di divertire, professionalità in consolle included. Dopo i remix mito per i Chemical e la rilettura degli AC/DC il duo è finito pure in copertina su Mixmag... e ci sarà pure un motivo, no? Un successo che è e rimarrà esterno allo stivale, non ancora pronto alla loro rivoluzione sul verbo rap. Un genere che per definizione non ci appartiene ma che a loro calza a pennello. L'abito indossato risulta comunque stretto e con la mano da sarti ci hanno dato delle sforbiciate da panico. Nuova collezione per loro, oggi. Parola d'ordine: crossover. Le tracce parlano da sole: l'inizio rombante house di Soulwax di We Love Animals, la spocchia urban di Kelis mescolata al fidget in No Security, la classe chic della Murphy in Hold Up Your Hand e in Royal T, Hip-Hop Changed appunto nuovo anthem da panico mesh (stranamente cancellata dall'edizione italiana), la moda innestata nella voce '80 della francesina Yelle in Cooler Coleur, il tributo rap-italo di Dargen in cordata con Marina e The Very Best in forma più che mai nel baile reggaeton di Birthday Bash, Transilvania in odore Grace Jones per Steel Lord, un blues acustico per Tim Burgess (Lone White Wolf) e l'inevitabile laserone truzzo con Major Lazer (Jump Up). E poi un tripudio di professionalità da artigiani di bottega rap now che solo i due uomini sanno maneggiare così. Chapeau, ragazzi.(7.7/10) Marco Braggion Nevrastenia sciroccata, disarmo totale, disamine tragicomiche, invettive deliranti e laconici parallelismi: è un carosello meno divertente che patologico, l'autore è una vena sul punto di scoppiare e questo suo blaterare trepido è la terapia che stasa, almeno temporaneamente. In realtà però non c'è cura, non c'è scampo, predomina un senso di resa feroce (Venite assassini) ed implosione nell'assurdo (Nella casa), ingannevoli vie di fuga (Nuvole e meraviglie) e cinismo sprezzante (Mostra). Personaggio e disco interessanti, anche se a stretto rischio di autoreferenzialità. (7/10) Stefano Solventi Downpilot - They Kind Of Shine (Tapete, Aprile 2010) G enere : F olk rock Un po' come Hendrix, Paul Hiraga si costruisce il proprio studio per registrare il terzo episodio a nome Downpilot, e un po' come il McCartney dell'esordio solista decide di suonare tutto da sé (ovviamente "con un piccolo aiuto dagli amici" che gravitano intorno al gruppo). Hiraga scrive suggestive e ariose canzoni in piena tradizione Americana, vivacizzate da una ricchezza strumentale che evita il rischio dell'autoindulgenza. Il gusto lo scopriamo per esempio nell'efficace opener All The Ghost Will Walk e nel resto della tracklist dove la scrittura rimane disinvolta (The Regrade e il modo in cui fregandosene svicola dalla sua stessa classicità), anche se un po' calante man mano che si procede. Non si evita però l'altro rischio: quello di mescolarsi nel mare magnum di una scena dalla tradizione annosa e dalla produzione oceanica, dove ormai bisogna essere i migliori più uno per spiccare. Hiraga si colloca in fascia alta, ma non lo è.(6.5/10) Giulio Pasquali 47 Drive By Truckers - The Big To-Do (Pias, Marzo 2010) G enere : A mericana La trattengono nel Dna la musica, i Drive By Tuckers. In buona parte figli di musicisti, hanno imparato a suonare prima di dire "mamma", ragion per cui è stato naturale tramutare una passione in professione. Grossomodo dalla fine dello scorso decennio, quando muovevano i primi passi non senza difficoltà e guadagnandosi un pubblico di tutto rispetto grazie all'intensa attività concertistica. Ed è lì che gli americani mettono alla prova i gruppi: non puoi barare e tanto meno te lo consentono nel loro Sud, dove si bada alla concretezza, all'esecuzione e alle canzoni. Sin qui ne hanno infilate di mediamente buone e qualcuna pure ottima e seguitano a farlo, rispondendo con equilibrate metamorfosi stilistiche ai rimescolamenti di formazione. Come nelle famiglie numerose si inseguono le certezze, così loro percorrono una tradizione più sfaccettata di quel che si creda. Meno southern rock gravido di assoli e boogie per loro: piuttosto una raffinata alternanza di folk da ebbrezza alcolica (I Told You So), muscoli flessi (Drag The Lake Charlie) e propensione all'intimismo (You Got Another, Eyes Like Glue); gestendo l'influenza evidente di Tom Petty senza calligrafismi e incorporando chitarre più ruggenti dell'usuale (The Fourth Night Of My Drinking, Daddy Learned To Fly). Lontani dalla sintesi e scrittura stellari che appartengono ai Black Crowes, i ragazzi quasi persuadono del contrario con l'indolente romanticismo di Santa Fe e una tesa però delicata The Flying Wallendas, sfacchinano con gioia e convinzione da far chiudere un occhio su alcuni indugi. Tra manodopera e ingegneria esiste una fascia intermedia: profuma di orgoglio e onestà.(7/10) Giancarlo Turra Dum Dum Girls - I Will Be (Sub Pop, Marzo 2010) G enere : weird garage , lo - fi Se c'è un centro nel pulviscolo di etichette, artisti e situazioni che compongono il pantheon del nuovo lo-fi americano, è certamente da rintracciarsi nella figura dell'enigmatica Dee Dee: bibliotecaria di professione, agitatrice culturale nel tempo libero. Nell'ultimo anno e mezzo ha collezionato così tante collaborazioni con i prime mover della scena weird garage, che viene naturale domandarsi se ogni tanto la ragazza a casa ci torni. 48 Dum Dum Girls rimane il suo progetto principale, ma vale la pena ricordare il disco fatto uscire lo scorso anno con Mike Sniper (alias Blank Dogs) sotto il moniker Maifair Set. Il tutto all'insegna della vecchia ricetta cara a Jesus And Mary Chain: melodie velvetiane, ritmica minimale e fuzz che si trasformano in seghe circolari. Dalle poche foto rubate e disponibili in rete, appare chiaro che la ragazza è tutto fuorché un sex symbol. Eppure, in questa nuova era dell'understatement, capita che il suo primo album fosse uno dei lavori più atteso dell'anno. La Sub Pop, memore una volta tanto del ruolo seminale avuto in passato, non si è lasciata scappare il colpo: le ha affiancato un produttore (Richard Gottehrer, già al lavoro con Blondie e Raveonettes) che ha ripulito il suono quel tanto che basta a renderlo appetibile a chi ha paura di rovinarsi i timpani con fischi e distorsioni e le ha lasciato il giusto raggio di autonomia (la versione vinilica del disco esce per la HoZac, microlabel di culto della scena shitgaze). Il risultato è questo I Will Be, che arriva dopo una pletora di e.p., 7'', video casalinghi postati su YouTube, scorie musicali disperse per il web e materiale prodotto nel più puro spirito DIY.Togliamo subito spazio ai dubbi: è un disco bellissimo. Una delle poche volte in cui la realtà supera le aspettative. Ci tengo ad affermarlo prima che l'indie snob di turno venga a dire che "si stava meglio quando si stava peggio", ovvero quando il cantato di Dee Dee era solo un flebile sussurro dietro una coltre di feedback. Non credetegli. Il canzoniere della nostra è così solido che farebbe un figurone anche se fosse suonato con l'ausilio della sola chitarra acustica, tale è la limpidezza delle melodie. Sono perle di poesia minimale e senza tempo. Poi, certo, l'estetica fa la sua parte: il jingle jangle distorto, la ritmica elemantare, il furore delle chitarre, unito all'innocenza delle linee vocali: tutto punta verso l'Inghilterra di metà anni 80, al twee pop di Shop Assistants e Talulah Gosh, all'alba dello shoegaze. Ma è evidente pure l'amore per i 50s, i girl groups, l'inevitabile Wall Of Sound spectoriano. Elementi che abbiamo già visto combinare insieme altre volte, non ultimi dai danesi Raveonettes. I Will Be però è un'opera coincisa e focalizzata come non si ascoltava da tempo in questo ambito.Vi troverete undici tracce coincise e dirette, come qualcuno che ti da subito del tu e che dimostra di conoscere tutto di te, comprese le tue debolezze.(7.1/10) Diego Ballani Edible Woman - Everywhere At Once (Sleeping Star, Aprile 2010) G enere : post - math - noise Già in supporto ai Jesus Lizard, le prime avvisaglie di un suono più scarno e tirato s'erano sentite. Ora la conferma si chiama Everywhere At Once ed è un disco potente, screziato, frastagliato, per certi versi spiazzante sin dall'accoppiata iniziale Slightly Shifted e A Small Space Odissey. La prima un bozzetto da filastrocca pop 60s; la seconda un farfisa spacey che fa tanto anni '70 ma che a metà della sua folle corsa si slabbra in una nenia psych che tritura Barrett e Kubrick. Ad accompagnare gli Edible Woman c'è un nutrito stuolo di ospiti di rango: dai produttori Mattia Coletti e Lorenzo Stecconi (Lento) che prestano chitarra acustica e lowtuned al sax di Roberto Mazzoli e Marco Emoli. Ma non è questo il nocciolo della questione. Sono Andrea Giommi (basso, voce), Federico Antonioni (synth) e Nicola Romani (batteria) ad aver lavorato di cesello, cercando di affinare un suono che, potente, spigoloso e dissonante quanto si vuole, mostrava già in The Scum Album la volontà di superare se stesso. I tre hanno coraggiosamente scelto la via della bastardizzazione delle coordinate (post)math-noise adagiando le curve a gomito e le abrasioni di genere su un senso del pop che in alcuni casi (Goran Sarajlic) sfiora la melodia psych-pop alla Eno, in altri (Entomology) propone ballate malinconiche, in altri ancora (To My Brother) sembra distorcere il già devastante procedere oneidiano in una sorta di mayhem tribale e schizzato. Un po' come accade con cover ed artwork, tutto è riconoscibile, seppur trasfigurato.(7/10) Stefano Pifferi Electric President - The Violent Blue (Fake Four Inc., Marzo 2010) G enere : I ndie pop Barcamenarsi tra sottotesti glitch ed estetica indie pop non è cosa tanto semplice. A giocare con la fragilità e la delicatezza del pop da cameretta si rischia di riempire bicchieri di aria e far scappare i clienti. Gli Electric President son bravi gestori e lo si era capito sin dai due dischi su Morr, edificati con abilità tale da far trasparire la propria personalità pur adeguandosi all'identità musicale dell'etichetta stessa. Scongiurati rischi di noia e maniera, reggono ancora bene i sottili equilibri alla base del precedente Sleep Well quanto di questo The Violent Blue. Ancora i Death Cab For Cutie e i Grandaddy più soffici come riferimenti per pezzi caratterizzati da elettronica sobria e chitarrine languide, al servizio un indie-pop vellutato ma capace di alternare duri colpi allo stomaco (Nightmare No.5 Or 6) e carezze seduttrici. A conferma di tutto poi, All The Distant Ships poteva segnare il tracollo: pezzone di più di otto minuti ad alto rischio di sbadigli e palle rotolanti. E invece è delizioso e il pezzo migliore di The Violent Blue, lavoro colmo di amarezza incantata quanto il battito d'ali di una farfalla appena nata che svolazza beata incontro alla morte.(7/10) Giampaolo Cristofaro Eleh - Location Momentum (Touch Music UK, Marzo 2010) G enere : elettronica drone Dopo una serie di uscite relegate alla pubblicazione vintage su vinile, l'enigmatica sigla che risponde al nome di Eleh (Compositore? Band? Androidi?) approda al primo parto su supporto digitale vero e proprio per i tipi della Touch, con quello che possiamo definire un riassunto generale della propria estetica. L'intero progetto, per sua stessa ammissione, ruota intorno ai massimi esempi di minimalismo sonoro, nella fattispecie La Monte Young, Elian Radigue, Charlemagne Palestine e Pauline Oliveros. La strumentazione si adegua di conseguenza utilizzando un sintetizzatore analogico / modulare, un oscillatore e a tratti (molto rari) chitarra e piano. Il risultato finale è una caduta a peso morto nelle frequenze più disumane ed estreme della drone music elettronica, in un regno asettico che ricorda i suoni più incontaminati di certa elettronica cheap neozelandese (Seht, Omit). Il parto su Touch riassume tutti i capisaldi dell'operazione: loop ripetitivi attenti ai granuli più minimi dello spettro sonoro (Heleneleh), giochi di mixer per astratti diagrammi sonori (Linear To Circular / Vertical Axis), sculture sonore informi su pattern ritmici deturpati su frequenze hyper-bass (Circle One: Summer Transcience), chip digitali e rumorismo informale da eden androide (Observation Wheel), elettronica vintage con spettrogramma valvolare (Rotational Change For Windmill). Davvero troppo ermetico per la maggior parte della sua durata, il progetto di Eleh è destinato ad attrarre e respingere allo stesso tempo. Solo per appassionati del settore.(6/10) Antonello Comunale Elton Junk - Loophole (Forears, Marzo 2010) G enere : indie psych Lucidità è la parola giusta per iniziare a parlare di Loophole, quarto disco degli Elton Junk. Sembra che il trio tosco-emiliano abbia finalmente trovato la quadratura tra entusiasmo e consapevolezza, azzeccando un'apertu49 highlight Extra Life - Made Flesh (LoAF, Marzo 2010) G enere : math - prog Dopo essersi aggiudicata la ristampa di Secular Works, la LoAF licenzia anche il seguito, il CD Made Flesh (in vinile stampato dall'italiana Africantape), carne viva ma sofisticatissima, ovvero il nuovo lavoro di Extra Life. Charlie Looker continua la parabola progressiva che contrappunta i rumori di Zs, e lo fa ancora con un prog principalmente derivato dalla voce, sempre sul limite dell'eccesso, ma evidentemente già marchio distintivo, insieme all'impianto musicale dirompente ma distaccato. È evidentemente un prodotto che guarda agli anni novanta, ma non per questo lo mettiamo a distanza; la derivazione non è derivatività, il riferimento esula dal già sentito. L'accordatura (scordatura?) delle chitarre sembra citare Glenn Branca (con cui Looker ha lavorato, in passato). Le note dei riff sembrano seguire una legge di rimbalzo regolare di una pallina nel flipper. La ritmica è scontrosa, asimmetrica ma regolare (come nei Novanta?) - e tiene splendidamente in Easter, contrappuntata da un barrito quasi mistico. Made Flesh è pervaso da una sorta di epicità, che però viene ponderata in quelle strutture e ratio difficilis ereditate dal decennio pre-'00. Sentite la title-track e ne avrete prova, con quell'afasia con cui culmina e ri-culmina il crescendo tensivo. Le atmosfere arrivano a essere invece quasi madrigaliste in One of Your Whores (se non dessero l'impressione di esplodere da un momento all'altro, ci ricorderebbero nientemeno che Desertshore). Peccato per il finale un po' imbarazzante, che chiude la suite di The Body Is True. Ci ricorda le invasature del metal ma suggerisce anche che forse l'impasto di mondi ala fine troverà un ascoltatore terzo (o meglio quarto, quinto) rispetto a quelli appassionati ai generi e ai mondi da cui gli Extra Life provengono.(7.2/10) Gaspare Caliri ra del ventaglio sonico-stilistico impressionante (un viaggio tra psych e wave passando da scorribande desertiche, escursioni cinematiche e avant-pop) senza mai mollare la barra, senza mai sembrare altro da se stessi. E la scrittura segue nello stesso solco, disimpegnandosi benissimo tra malsana circospezione Black Heart Procession e squilli Calexico (Summer), ballate Eddie Vedder col ruggito in canna (All Along The Horizon), indolenza Tim Buckley in mezzo a narcosi Gun Club (la title track), asprezze teatrali Killing Joke (Police Officer) e frenesie Talking Heads sbilanciate Nick Cave (Lost). Riescono a sorprendermi non poco con una The Power Of Love melmosa come un Johnny Cash rifatto dal più torvo Mark Lanegan e soprattutto con la conclusiva Del Miele che in qualche modo mette in cortocircuito La Crus e Laurie Anderson. Senza contare la prova di bravura di The Beast Called Rock'n'Roll, spigoli wave, distensione emomelodica e coaguli Stooges celebrando la nostra bestia preferita. Sottolineata con piacere la presenza di Nicola Manzan aka Bologna Violenta al violino, non resta che ribadire: gran bel disco. (7.4/10) Stefano Solventi 50 Fenn O'Berg - In stereo (Mego, Marzo 2010) G enere : P ost -D igital Nove anni fa li lasciavamo in un crashing generale. L'inizio e la fine di un genere, così forte era l'onda d'urto.Trasversalismo, fusione di elementi, l'intenzione di sorprendere ancor prima che narrare. E due lustri, nella musica elettronica sperimentale odierna sono come novanta anni di profilassi rock, soprattutto se parliamo del ritorno di chi aveva squadernato tutti i binari della ricerca elettroacustica con due dischi manifesto. Vederli tornare come fantasmi, quasi si trattasse di una seduta spiritico-digitale, fa un po' impressione; dedurne linee e percorsi attuali, alla luce delle carriere personali probabilmente rende le cose più facili. Christian Fennesz ha intrapreso costruzioni granulari minimali, Peter Rehberg, con KTL, costipato il noise in forme analogicozen col gusto M.B., Jim O'Rourke coltivato la purezza faheyiana nell'ultimo The Visitor. Così In Stereo, è un disco di coesione, di struttura e prima di tutto un disco giapponese: giocato nipponicamente tra puro e spurio, tra l'alternarsi di movimenti costruttivi, ed elementi di disastosi ricorsi ad un'analogia dotata di rimasugli ante-litteram e circuit-bending che una decina di anni fa solo pochi potevano vantare. Un disco giapponese perché registrato in quel di Tokyo, una città futurativa dai ritmi e dai movimenti fantasmatici, di cui il solo O'Rourke è di casa. Al di là di tutto questo però, In stereo rappresenta un disco pre-contemporaneo, levigato, discorsivo, strutturato. Un atteggiamento molto più concreto dunque, sul punto di tornare all'origine attraverso la costruzione di snodi e circuiti propri di una struttura rock, in barba a chi riteneva che il glitch fosse l'assenza di soluzioni o il momento mori del linguaggio elettronico. Recuperati i fossili, ovvero le strutture di base di un suono minaccioso, ed a tratti operistico, il trio privilegia la parscostruens, e così ecco gettare nero su bianco, imprimendo al lavoro, l'intento di un'opera enigmatica e per certi versi addirittura rigenerante per l'elettronica tutta (sul vinile è presente una bonus-track che da sola vale tutte le tracce dell'album)(7.5/10) Salvatore Borrelli Fionn Regan - The Shadow Of An Empire (Heavenly, Febbraio 2010) G enere : F olk -R ock Secondo disco per il menestrello di Dublino. Amante di Leadbelly quanto dei Nirvana, Fionn si dimostra infatti perfettamente capace di elaborare ispirazioni antitetiche, rendendole felici compagne di viaggio ed espressione di una cifra stilistica sempre più compiuta. Partenza con chitarre in twangle, piglio sbarazzino e sarcastico degno dei migliori Libertines (Protection Racket e Coat Hook renderebbero viola di invidia Pete Doherty), ritornelli killer che si infilano sotto pelle ed entrano in heavy rotation nel sistema circolatorio. Da Genocide Matinee in poi gli archi voltaici di puro istinto rock'n roll si estinguono e rinascono a nuova vita in acute incursioni di incantato e incantevole cantautorato folk, tra energia ed estasi melodica bilanciate con consumata sapienza. Mutevole e caleidoscopico The Shadow Of An Empire: Violent Demeanour è ciò che sarebbe scaturito da una jam tra Violent Femmes e Nick Drake, torch song dalle minuzie western Lines Written In Winter, House Detective è un congegno di pulsioni rock alla Chuck Berry remixate da Lee Hazlewood. E poi dolci fitte al cuore di romanticismo alcolico Little Nancy, estro e profonda emotività nell'accorata preghiera di frontiera di Lord Help My Poor Soul, piano, voce e la pelle diventa del tutto splendida con la title-track a suggellare una promessa mantenuta. All'uscita del debutto The End Of History, la speranza di aver scovato un talento era palpabile. Ora è sbocciato.(7.3/10) Giampaolo Cristofaro First Aid Kit - The Big Black And The Blue (Wichita Recordings, Gennaio 2010) G enere : F olk Con un'abile strategia di marketing i boss Wichita han permesso alle sorelle Johanna and Klara Söderberg di "arrivare" anche aldilà della loro Svezia. è bastato ristampare l'ep Drunken Trees del 2008. rimpinguarlo con una cover dei Fleet Foxes (Tiger Mountain Peasent Song, piuttosto calligrafica) e tre versioni live di nuovi pezzi non inclusi in questo debutto. La cifra stilistica del duo di Stoccolma è rimasta in sostanza la stessa, molto vicina all'austera eleganza di certe composizioni targate Laura Veirs, Alela Diane e Marissa Nadler. Una buona coralità sonora e caldi impasti vocali poi, ben si amalgamano all'affresco pastorale disegnato in ogni pezzo pur peccando in varietà. Lì dove il recupero di stilemi folk di stampo britannico non è sorretto da una scrittura capace di convincere per personalità, The Big Black And The Blue scivola nella maniera. E allora ci si ritrova ad essere piacevolmente cullati dalla melodia cristallina nutrita a mandolini squillanti di Hard Believer, elettrizzati dal saltellare country di Sailor Song, ammaliati dall'ispirato fingerpicking di Heavy Storm o dall'organetto caricato a melanconia di Ghost Town. Ma poi perplessi per i motivi citati poco su. Scivolano via senza emozionare In The Morning e Josefin e si sconfina nell'aurea mediocritas da A Window Opens (con il fantasma di Will Oldham a farsi una passeggiata) a Will Of The River.(6.4/10) Giampaolo Cristofaro Frightened Rabbit - The Winter Of Mixed Drinks (Fat Cat, Marzo 2010) G enere : I ndie Che attraversino le lande Sebadoh discorrendo con Sonic Youth e Oneida sulla loro identità (l'esordio Sing the Grays, 2007), o cavalchino folkeggianti stalloni acustici con inaspettate reminiscenze Counting Crows (il seguito The Midnight Organ Fight, 2008) ai Frightened Rabbit non riesce mai di muoversi dal canovaccio che disco dopo disco decidono di gare loro. E pure The Winter Of Mixed Drinks non è da meno, nonostante l'ingresso di un quinto elemento (Gordon Skene: chitarra, tastiere, cori) e l'ottima vena della scrittura di Scott Hutchison. Lo spunto è un recupero new wave portato a casa pardon: al college - con virulenta energia tutta canadese. 51 highlight Ikonika - Contact, Love, Want, Hate (Hyperdub Records, Aprile 2010) G enere : wonky - step In un momento in cui il dubstep è solo uno dei possibili generi, le etichette che contano si fanno notare smarcandosi dai tag più prevedibili. Una di queste è (da sempre) la Hyperdub del DJ e teorico Kode9. Invece che andarci di melodia o di ritmi affini alla techno, il nuovo acquisto Sara Abdel-Hamid punta sulla produzione. La ragazza propone un album contaminato dai giochini per nerd degli amici wonky, infatuati per il lo-fi a 8 bit (Idiot, R.e.s.o.l), ma non si nega nel contempo alle profondità di esplorazione dubstep del capitano Nemo aka Scuba (Yoshimitzu: sogno e distopia bladerunneriani). In più, grazie all'amore per le Roland, si anima con le istanze house old school (They Are All Losing The War), si scontra con il canone dei laser superimposto dalla label (Heston) e non resiste alla prova di contaminazione con ritmiche che ricordano l'uptempo/ baile di M.I.A. filtrato dalle visioni di Zomby (Psoriasis), per concludere con una nostalgia ereditata dai Crystal Castles mescolati a Kavinsky (Video Delays). Che il suono di Londra sia un continuum lo sapevamo ma che una ragazza potesse uscirsene con un trattato così complesso di ritmiche e di spensieratezza elegantemente misurate, proprio non ce l'aspettavamo. Un concentrato di idee e di savoir faire musicale inusitati. Primo disco dell'anno per chi scrive.(7.5/10) Marco Braggion Reich, il nuovo album dello svizzero Gilles Aubry riprende il tema della deportazione degli ebrei nella Germani Nazista. Solo che s6t8r sostituisce agli arrangiamenti orchestrali e ai campioni vocali del padre del minimalismo lo spazio gonfiato di rumore di una stanza deserta. L'effetto, ottenuto grazie a registrazioni effettuatte nelle stanze dello Stralau 68 - storica sede berlinese che ospita concerti di musica sperimentali - è di un paesaggio reiterato di elettronica plasmata con field recordings, drones e loop di eventi acustici originariamente privi di significato. Suddiviso come Different Days in tre parti, s6t8r dedica la prima a drones e microvariazioni armoniche, la seconda a fluttuazioni e rimbalzi e la terza al dispiegarsi di fonti sonore che finalmente elicitano il loro referente, che sia soffio di un vento che filtra dalla finestra o, rumore dei treni della metropolitana. Trecento copie in tutto e un cartonato impeccabile per un progetto che riesce ad equilibrare estremo rigore formale con mobilità ed emotività di stampo ritmico.(6.6/10) Sara Bracco In pratica l'impazienza di chitarra e batteria e la coralità anthemica degli Arcade Fire talvolta ulteriormente infiammate da incandescenze elettriche o facilitate da apertura di ritornelli alla meglio. Ciò che ne esce è piuttosto divertente e ben suonato, ma troppo omogeneo. Meglio prenderli per singoli episodi allora (Things, Skip The Youth) o sperare che al quarto disco provino a stupirsi, e a stupirci.(6.4/10) Luca Barachetti Giancarlo Frigieri - Chi ha rubato le strade ai bambini? (Autoprodotto, Marzo 2010) G enere : folk autorale Non ha perso tempo Giancarlo Frigieri a dare un seguito alla svolta in italiano de L'età della ragione. Tanti anni ci sono voluti per decidere quel passo da lui ritenuto difficilissimo, tanto urgente sembra oggi la voglia di dare voce al mix di sentimenti che gli si agitano dentro, come se avesse finalmente trovato il codice più efficace o forse quello più giusto. C'è uno sgomento arrabbiato, c'è sarcasmo disarmante, c'è il bisogno di recuperare poesia attraverso il pessimismo, l'amarezza, lo sdegno. Soprattutto, c'è il bisogno di cantare come atto improcrastinabile, meno liberatorio che accusatorio, più cerebrale che viscerale, come gesto che stabilisca le di52 stanze tra sé e tutto il resto e quindi definisca il Frigieri (l'uomo prima che l'artista) come sensibilità disallineata, (e quindi) viva. Molto più propensa al cantautorato che al rock, e non solo per la veste perlopiù acustica (a proposito, molto belli gli interventi al flauto di Max Marmiroli e all'organo di Federico Barbieri). Se avverti un po' del piglio Giorgio Canali (soprattutto nella title track e Le disgrazie), a prevalere è però un incedere narrativo vicino al miglior Vecchioni o se preferite a un Guccini più asciutto, scomodando altrove il Gaber più lirico (nella trepida L'ipotesi) ed il De Gregori arguto (Colleghi). Per non scordare l'immancabile De André (palpabile in Canzone del 9 novembre) e fermi restando i rimandi al folk d'oltreoceano (particelle Steve Wynn e Bob Dylan in La vita che ti ha scelto). Disco fieramente, lucidamente, sprezzantemente obsoleto. Che l'autore ha provveduto a stampare anche in formato vinile 180 grammi. Più o meno imperdibile.(7.4/10) Stefano Solventi Gilles Aubry - s6t8r (Winds Measure Recondings, Luglio 2009) G enere : elettronica Sulla scia del monumentale Different Trains di Steve Goldfrapp - Head First (EMI, Marzo 2010) G enere : dance pop Col quarto album i Goldfrapp finalmente portano a compimento la loro missione. Un percorso lineare, a ben vedere, che forse solo oggi è possibile scorgere con assoluta chiarezza. Felt Mountain fu un esordio formidabile, eppure messo in prospettiva sembra un episodio occasionale nella carriera del duo: quel ricercare suggestioni oblique tra barbagli cinematici malfermi, così come il calore differito dell'aura emotiva, rappresentarono un tentativo (riuscito) di scavare un pertugio sofisticato nel pop di largo consumo, gratificando allo stesso tempo i neuroni più scafati e quelli un tanto al chilo, con una disinvoltura che parve francamente straordinaria. Nei lavori seguenti è accaduto però uno sputtanamento progressivo a base di glam danzereccio e ballate sciroppose, sostenuto da un sempre più accurato e screanzato impiego del look, sorta di anello mancante tra le pose di Madonna (a proposito: in copertina la somiglianza tra Alison e la Ciccone è sconcertante) e l'ultra-glamour di Lady Gaga. Con Head First, infine, tutto si compie: canzoni che sembrano schizzare fuori da una capsula del tempo dove qualcuno ha voluto shackerare gli eighties ipotizzati da Abba e Moroder, i vezzi a perdere di piccoli calibri dimenticati tipo gli Industry e quelli stra-ruffiani dei Van Halen col synth. Il risultato è una tracklist incredibilmente vacua e affabile che spopolerà nelle radio da qui a qualche mese. Lo sputtanamento è così totale da suscitare un certo rispetto. (4.5/10) Stefano Solventi Goodnight Loving (The) Arcobaleno EP (Wild Honey, Marzo 2010) G enere : C ountry - F olk La nostrana Wild Honey ha un vero e proprio culto per i Goodnight Loving di Milwaukee. Dopo aver pubblicato la versione europea del loro ultimo omonimo album, portati in tour e curato la distribuzione in patria, ecco un nuovo EP dalla lussuosa veste grafica: un 12 pollici stampato su un lato solo e serigrafato sul secondo in cui i ragazzi del mid-west virano leggermente dai luccichii pop dei precedenti dischi per concedersi una pausa più intima. Prova ne sono il folk in levare di 4&3 ed il country placido di You'll Own My Heart, cui si aggiungono le fascinazioni western di Sweet Clover e quelle byrdsiane di Pinalope, il pezzo più struggente. Una gustosa parentesi prima del prossimo full-lenght.(7.1/10) Andrea Napoli Gorillaz - Plastic Beach (Parlophone, Marzo 2010) G enere : H ip hop Penso a quello spot che gira molto in questi giorni. Ragazzi neanche trentenni appollaiati su un cartellone pubblicitario. A non fare un cazzo e canticchiare una canzoncina di enorme successo. Trattasi di Clint Eastwood, il primo grande successo dei Gorillaz. Situazione perfetta. Emblematica. Grandi investimenti, disinvoltura prossima all'indolenza, l'atteggiamento scafato di chi non ha bisogno di entusiasmarsi troppo, ché ci pensa l'organizzazione a mettere in piedi i giusti canali. E poi, in ogni caso, sbattersi non fa troppa differenza. I Gorillaz nenache esistono davvero. Sono cartoon. E giocano. Come anche - e soprattutto - in quest'ultimo disco: tra hip-hop e soul sonnolento, slackerismi nineties e pop-psych da supermercato, elettro-funk e tentazioni house, guarnizioni kitsch anni ottanta e certi curiosi rimandi alle traiettorie cosmic-disco dei seventies. è un gioco da professionisti. Non si bada a spese. Nel singolo Stylo ci sono Mos Def ed il vecchio, glorioso Bobby Womack. Nel pa53 sticciaccio laser-disco-punk di Glitter Freeze c'è Mark E Smith. Nell'esotismo posticcio della title track ci sono quei mattacchioni di Mick Jones e Paul Simonon. In Some Kind of Nature chiamano addirittura Lou Reed a fare il robottino di plastica in una ballatina tanto arguta quanto insulsa. E non vi ho detto dei De La Soul, degli svedesi Little Dragon, di Gruff Rhys già Super Furry Animals. Più che un disco è una SPA. Una multinazionale postmoderna del suono pop. Prima di sfornare un prodotto fa ricerche di mercato. Nel caso specifico, meno Londra e più America. Comunque è tutto un sintetizzare gusti tirando righe traverse per poi cantarci sopra, con quei modi da upperclass afroamericana supercool che non deve urlare perché basta metterla giù svaccati sul divano. Ed è una tracklist che si commenta in modalità Sanremo. Tutta roba già fatta anni prima e riproposta come se fosse l'ultima edizione di. I Gorillaz sono gli U2 per la massa generazionale successiva che su Mtv il rock non glielo hanno passato più. C'è fascino comunque e sempre nel Damon maliconico eterno ragazzo fuori dai giochi. Nei suoi occhi: il ragazzo Novanta che nei Duemila ha capito tutto e si sente mica tanto bene.(7/10) Stefano Solventi Growing - Pumps (Vice Records, Aprile 2010) G enere : industrial La transizione che è avvenuta in seno ai Growing è ormai del tutto compiuta. In Pumps troviamo un suono elettronico industriale volutamente datato e del tutto incentrato sull'ossatura ritmica delle batterie elettroniche e sull'interazione (sempre ritmica) delle punteggiature create dalle tastiere. Un sound che ricorda tanto i pionieri dell'EBM (Pankow su tutti, sin dall'inziale Short Circuit) quanto i Krafwerk - i primi Ralf & Florian, raramente, (Drone Burger), ma spesso quelli più tardivi. Strutture e timbri che hanno molto di fantascienza vintage (ma di derivazione '80), e non si spingono molto in là rispetto ai due riferimenti citati (forse solo nello step di Challenger arrivano a intraprendere un dialogo verso altri pilastri, vedi Mark Pritchard). Ma di kraftwerkiano c'è anche una certa ironia o leggerezza giocosa, nel settimo lavoro in studio dei Growing. Lo studio, a questo proposito, è una chiave fondamentale di lettura e il risultato è un lavorio che arriva alle orec54 chie, nel delineare i primi piani delle tastiere e nel creare e trattare, laddietro, dietro gli angoli delle strutture, gli spazi delle voci (Highlight). Manca però la permanenza, dentro ai padiglioni auricolari, degli otto pezzi di Pumps. Non si può dire che qualcuno rimanga tatuato nei neuroni, semmai vi vaga un po' e poi si spegne. Colpa (o intenzione) forse contenuta nell'avvicendarsi dei brani, che sembrano incastrarsi tra loro e puntare più all'effetto di insieme. Ma, di scala in scala, neanche il contenente ha la capacità di far memorizzare il contenuto. Resta un'impressione di poliritmo marziano (non lontano dai Black Dice), non a caso il collante della conclusiva Mind Eraser - con echi di voce alla Throbbing Gristle. Una spersonalizzazione, in una parola. Ma non è detto che sia l'ultima parola.(6/10) Gaspare Caliri Happy Birthday - Happy Birthday (Sub Pop, Marzo 2010) G enere : A lternative La Sub Pop è un'etichetta che sta cambiando pelle. Passata in secondo piano la cotta per la formula alt.country che ne ha caratterizzato le produzioni recenti, è tempo di guardare altrove. Meglio se al passato. Così, fedele a quel corollario della legge dell'entropia che afferma che nel pop nulla si crea e nulla si distrugge, l'abbiamo vista rinfrescare la propria estetica con il noise degli AFCGT, gli abboccamenti grunge dei No Age e il lo-fi di Dum Dum Girls e Male Bonding. Adesso è la volta dei celebratissimi Happy Birthday, il cui noise pop si inserisce perfettamente in quella riscoperta del sound dei primi 90s che pareva inevitabile dopo quasi un decennio di 80s revival. L'incipit di Girl FM farà subito girare la testa ai nostalgici di quel pop sbilenco che una ventina d'anni fa era patrimonio di gruppi squisitamente perdenti come Superchunk e Archers Of Loaf. Chitarre che incespicano, ritmiche spezzate, spasmi rumoristici e slackness di fondo: tutte cose che scalderanno il cuore a chi (come il sottoscritto) è cresciuto a pane e Pavement. Purtroppo, con lo scorrere dei pezzi, si fa strada la fastidiosa impressione che Kyle Thomas e compagni amino unire questi elementi ad un'inopportuna passione per certo stucchevole pop dei 70s, roba alla 10cc per intenderci, ovvero quella parte di storia del pop che neanche il tempo è riuscito a nobilitare. Un connubio capace di generare strani ibridi a base di chitarre a bassa fedeltà, assoli tamarri e falsetti che sfiorano la parodia. Peccato davvero, anche perché altrove il gioco funziona: succede quando le melodie si fanno più compiute, la voce meno nasale e il chitarrismo, pur restando piacevolmente slabbrato, diventa più essenziale. Segno che la misura resta una dote da cui è impossibile prescindere.(5.5/10) Diego Ballani High Places - High Places vs. Mankind (Thrill Jockey, Aprile 2010) G enere : M eta pop Ciò che colpisce del sophomore degli High Places è il salto di qualità di un progetto già nato sotto i riflettori della critica specializzata di mezzo mondo. Nello splendido High Places vs. Mankind i suoi protagonisti sono passati da un approccio dominato dall'elettronica bric a brac di Animal Collective e Black Dice a un maturo guitar sound, un nuovo livello in scrittura alla giusta distanza da certa oscurità Ottanta, e soprattutto la voglia di melodie cristalline di stampo 4AD. Come per l'esordio, i brani scorrono sicuri lungo le linee (leggi le tape) psychesotiche - e a tratti dub - dell'esordio, con la differenza che sopra di esse si poggiano i refrain wavey della chitarra di Barber e il canto dreamy - o pop tout court - di un'incantevole Pearson. Ed è proprio come se il combo volesse porsi a contraltare ideale del metapop dei compagni d'etichetta Pit Er Pat. Stesso fascino e qualità per obbiettivi differenti, con il duo a puntare al cuore di una personale missione sonica: una morbida lievitazione dagli smalti appena ingialliti, una maniera escapista, afosa e senza nostalgie sotto la quale si balla anziché no. Nelle loro parole, se il precedente sforzo era tutto bellezza e crescita, il presente si focalizza sul concetto di essere umano e sull'interazione. Massimi sistemi per una collezione di tracce facili, ricchissime di spunti e meglio di ogni altra cosa, potenti. (7.3/10) Edoardo Bridda Holly Miranda - The Magician's Private Library (XL, Marzo 2010) G enere : dream pop Holly Miranda bazzica l'ambiente newyorkese già da qualche anno. Si era fatta conoscere come opening act per The XX, Scott Matthew, Vampire Weekend ed era frontwoman dell'indie act The Jealous Girfriends da Brooklyn. Ora con un piccolo aiuto da parte degli ami- ci TV On The Radio (Kyp Malone, Jaleel Bunton) e soprattutto Dave Sitek (amico fin dagli esordi e anche producer del lavoro), approda all'esordio firmando una musica atmosferica molto vicina ai colori di una Bat For Lashes o meglio di una Bjork, influenza primaria per questo genere. The Magician's Private Library oscilla tra indie pop atmosferico, numeri psych debitori ai Pink Floyd (Joints), dream pop d'annata, melodie XTC-iane (il già citato Joints), il tutto colorato dalla mano onnipresente di Sitek che arricchisce il suono di sfumature pur senza appesantirlo. Un esordio interessante.(7/10) Teresa Greco Ilaria Pastore - Nel mio disordine (Totally Unnecessary Records, Febbraio 2010) G enere : folk - pop Una Cristina Donà jazz, la Consoli più elegante, il folk bucolico dell'ultimo Moltheni. Ilaria Pastore sta esattamente in mezzo, con una proposta che lavora per sottrazione, prediligendo una musica d'autore ordinata, dagli arrangiamenti sobri e naturalmente predisposta al virtuosismo vocale. Insomma, il "disordine" del titolo è solo supposto perché tutto quadra in questo esordio a cui collabora in veste di arrangiatore e produttore il collega d'etichetta Gipo Gurrado, in arte Nolan. Dall'intimismo di Addosso alle declinazioni sudamericane di Miele, dalle basi dispari di Fermo immagine al pop di La chiamano notte. Manca un po' di coraggio. Per andare oltre l'opera tecnico-compilativa, evitare l'effetto piano-bar e approdare a una dimensione musicale peculiare lontana dalle solite confezioni pop-melodiche.(6.4/10) Fabrizio Zampighi Jaguar Love - Holograms Jams (Fat Possum, Aprile 2010) G enere : synth - wave Restano in due i Jaguar Love. Per chi si fosse perso la puntata precedente (Take Me To The Sea di un paio di anni fa) la defezione riguarda il batterista Jay Clark, così che ormai la sigla è roba degli ex Blood Brothers Cody Votolato e Johnny Whitney. E se possibile i due riescono a fare anche peggio di quel disco, già piuttosto brutto di suo. Andiamo però con ordine. Per primo le musiche: quanto di più banale si possa estrarre da synth, drum machines e chitarra. Immaginate i Death From Above 1979 senza ironia e con un centesimo dell'impatto, impegnati in una synth-wave danzereccia finta e melensa. Un concentrato 55 di finto-spigolosità alternativa inscenato su immaginari futuribili quanto poteva esserlo la scenografia di Spazio 1999. Poi la voce. Quella di Whitney è sempre stata particolare con quel falsetto schizoide e da castrato, ma all'epoca era funzionale alle riottose aperture screamo dell'ex band. Inserita in un contesto catchy zuccherosamente elargito per le comunity finto-ribelli post-MTV, si trasforma in un'arma di devastazione di massa. Roba da orchite immediata e senza possibilità di fuga. Forse c'è un intento ironico dietro tutto ciò, ma se così fosse non l'abbiamo colto.(4.5/10) Stefano Pifferi Jahcoozi - Barefoot Wanderer (BPitch Control, Aprile 2010) G enere : dub minimal Gli Jahcoozi sono Sasha Perera (cingalese di Londra), Robert "Robot" Koch (berlinese) e Oren Gerlitz (nato a Tel Aviv). Sasha è la voce - ma anche l'immagine - del gruppo; Robot e Oren si occupano delle basi, produzioni e basso elettrico rispettivamente. La loro fortuna è stata piacere a John Peel, che nel 2003 mise il loro debut EP Fish tra le sue cose preferite del momento. Con tutto l'hype che ne era potuto seguire. Il primo album, Pure Breed Mongrelera (2005), era ottimo, una miscela molto ben studiata di dub, ragga, pop (un pezzo ammiccava a All That She Wants), breakbit ed elettronica minimale. Questo terzo album, pubblicato dalla label di Ellen Allien, asciuga al massimo il loro stile, cosa potenzialmente molto interessante (nonché volano assicurato per una pletora di rmx), ma registra pure un abbassamento della qualità sotto il profilo compositivo. Tra numeri sexy e catchy e feat ragga tutti abbastanza già sentiti, il punto più basso lo si tocca con l'inciso di tastierazze di Close to Me, una sbracata imperdonabile. Peccato, perché un due-tre pezzi tra quelli più intimisti - rarefatti tappeti elettronici stesi a uso esclusivo della bella voce di Sasha sono davvero interessanti (Zoom In Fantasize, Barricated) e anche il rappato di un ospite di lusso come M. Sayyd degli Anti-Pop Consortium (influenza tra le più sbandierate dal gruppo berlinese d'adozione) risulta molto riuscito.(6.3/10) Gabriele Marino Johann Johannsson - And In The Endless Pause There Came The Sound Of Bees (Type Records, Marzo 2010) G enere : cl as sica soundtrack Johannsson è l'ultimo dei maestri della classica contemporanea approdato al circuito delle etichette rock orien56 ted. Dopo due lavori largamente apprezzati dai fan del settore, Fordlândia e Englaborn, entrambi su 4AD, che il compositore islandese arrivasse a pubblicare anche su Type era solo una questione di tempo. And In The Endless Pause There Came The Sound Of Bees sembra essere il lavoro ideale per l'etichetta di Xela. Trattasi in pratica della colonna sonora del film di animazione intitolato Varmints, diretto nel 2008 da Marc Craste, quindi cronologicamente parliamo di materiale antecedente a Fordlândia, che dopo una primissima tiratura limitata per il tour americano, viene ora proposto al grande pubblico sull'etichetta britannica. Come tutte le colonne sonore, anche quelle più riuscite, si avverte sempre la mancanza delle immagini. Il sinfonismo si fa per forza di cose, astratto e descrittivo, alla ricerca perenne di un senso da dare al tutto, ma Johannson si dimostra assai più abile e colto degli altri compositori da etichetta "indie". Non ha paura di misurarsi con i massimi esempi. Si respira l'aria del Prokofiev di Ejsenstejn nei frangenti più tesi (Escape, Siren Song), così come il romanticismo classico dei Debussy e dei Gorecki (Entering The City, The Gift). Si avverte anche il piglio islandese, quello magico e ghiacciato dei Sigur Ros (Rainwater, Pods) e la composizione sinfonica si traduce nell'estetica più contemporanea attraverso l'elettronica agli ultravioletti di Tim Hecker (City Building). Un lavoro suggestivo.(7/10) Antonello Comunale John & Jehn - Time For The Devil (Naive, Marzo 2010) G enere : wave pop Secondo album per questa coppia di parigini domiciliati a Londra dove più e meglio possono sfogare l'estro postwave, mantenedo altresì un atteggiamento da poseur che non guasta. La formula sonora è piuttosto variegata, per non dire slegata, frutto evidente di un calcolo che tenta la quadratura tra citazione cool ed immediatezza raffinata. Lo senti da come ondeggia tra evidenti richiami Joy Division-New Order (Shy) e capricci errebì (una Vampire che manda in cortocircuito la Whinehouse e Siouxsie), enfasi Echo & The Bunnymen con additivi Franz Ferdinand (London Town) e casomai - perché no? - un retrogusto Arcade Fire (la title track, Down Our Streets), stemperando al bisogno melodie Smiths col brio balzano Julian Cope (And We Run) oppure ammiccando certa wave nera come avrebbe potuto il primo Prince (Oh My Love). Sono interessanti la tenacia, l'arguzia, l'accuratezza dello sforzo produttivo, il "physique du rôle", quelle due voci che si scambiano i compiti nel modo più congeniale. Ma tutto suona splendidamente artefatto. è un disco che andrà bene come sottofondo nelle festicciole per scafati. Casomai.(6/10) Stefano Solventi John Zorn - In Search of the Miraculous (Tzadik, Febbraio 2010) G enere : romantic Z orn / jazz è dallo scorso anno che ci ripetiamo su Mr. JZ: semplicemente perché è l'uomo a ripetersi. Torna così il trio di Alhambra Love Songs, potenziato dal vibrafono di Kenny Wollesen e dal basso di Shanir Blumenkranz. Ed è ancora lo Zorn romantico e cinematico: jazz da camera e saliscendi di sapore minimalista - nel senso del Philip Glass meno avant - per piano e percussioni. I pezzi sono piacevoli, ma è davvero scocciante sentire ancora autocitazioni che sempre più hanno il sapore dell'autoriciclo: Sacred Dance sembra una outtake da Invitation To A Suicide (2002). Il disco si salva grazie alla bravura di Bob Burger (agli acquarelli pianistici Affirmation, Hymn for a New Millenium e Journey for the Magicians) e al pezzo principale della raccolta, The Magus, lunga dissertazione fusion-prog su un tema in controtempo. Zorn il miracolo l'ha già fatto, brevettando una maniera che è riconoscibile, accessibile e - formalmente - sempre di qualità. Ma se per adesso, nella aurea mediocritas su cui si è comodamente appollaiato, l'oro e la mediocrità si bilanciano ancora piuttosto bene, niente esclude che nel futuro il secondo termine possa mettere in ombra il primo.(6.4/10) Gabriele Marino Jon Mueller/Jason Kahn - Phase (Fss, Marzo 2010) G enere : B l ack droning Jason Kahn, conosciuto ai più come musicista riduttivo (usa dei piatti percossi filtrati pesantemente con max/ msp), è anche installatore e performer; Jon Mueller, batterista sui generis ma comunque non quanto il Kahn, ha pure lui il vizietto dell'elettroacustica e dell'improvvisazione radicale. Che prima o poi i due musicisti collaborassero insieme esprimedosi nel modo più radicale possibile, un po' ce l'aspettavamo. Non si capisce dove finisca il gioco percussivo e cominci quello dronico né quali meccaniche sottili determinino queste frequenze sonore cariche di metallo, aria e carne, né cosa le abbia generate e rimesse in moto per sbalordirci. Phase non è un disco complesso, non ha né un luogo d'origine, né un tempo se non quello raffermo e grigiastro della percorrenza statica, ma sono proprio gli elementi imperituri del materiale - così come la forma ottusamente chiusa su se stessa - a renderlo un lavoro importante. Non è musica che richiede attenzione. è piuttosto un luogo, introiettato e passivo, che fa di quel luogo più vasto e dinamico che è la vita, il suo vascello naufragato ma fluttuante.(7.2/10) Salvatore Borrelli José James - Blackmagic (Brownswood, Febbraio 2010) G enere : soul - jazz Una serie di 12" e di collaborazioni eterogenee (Basement Jaxx, Gilles Peterson, Jazzanova, Flying Lotus) ne hanno segnalato il nome; il debutto The Dreamer ne ha fatto un singer coccolato dai festival e dalle riviste jazz USA (per alcuni, tra i migliori dischi del 2008). Il newyorkese José James unisce la tradizione del soul e del jazz con l'appeal della nowness produttiva tra nu- e hip hop, ama John Coltrane, guarda a Marvin Gaye e allo Gil Scott-Heron degli anni Ottanta. La critica lo ha paragonato spesso a D'Angelo, ma il nostro sembra molto meno incline allo sdilinquimento vocale e più classic-sided. Un pugno di pezzi vellutati ed eleganti (Touch, Save Your Love For Me), ibridi costruiti con intelligenza (lo step-jazz di Warrior) e le tre produzioni firmate Flying Lotus (la dilliana intro, Made For Love e la titletrack), non riescono però a fugare del tutto l'impressione che tiri una certa aria di autoindulgenza e che sul piano compositivo - la confezione è impeccabile - sia possibile fare di più. José ha i numeri giusti - piglio, voce, cura del dettaglio - per farlo. In coda, un remix by Joy Orbison che guarda alla old skool house, divertente ma un po' fuori luogo.(6.9/10) Gabriele Marino Josiah Wolf - Jet Lag (Anticon, Marzo 2010) G enere : indie pop L'Anticon punta ancora sul suo lato pop. Josiah è il fratello maggiore del più famoso Yoni e il batterista dei suoi WHY?. Piccoli feat su alcuni dischi del giro, la co-produzione di un EP dei cLOUDDEAD, il debutto solista 57 highlight MGMT - Congratulations (Sony BMG Music Entertainment, Aprile 2010) G enere : S ixties psych pop Tra le giovani e attesissime promesse pop, a pari merito coi Vampire Weekend che hanno bissato non senza qualche critica lo scorso gennaio, arrivano ora gli MGMT, altro combo in vacanza permanente che ha deciso peraltro di promuovere il sophomore con le medesime strategie dei newyorchesi (e non solo): metterlo in ascolto gratuito sui propri canali ufficiali. Congratulations è innanzitutto un lavoro molto differente dall'esordio e come dichiarato a inizio anno dal cantante Andrew Van Wyngarden, il duo ha voluto evitare ad ogni costo "il classico lavoro di cui si scaricano i soli singoli". Dunque a limiti dichiarati, quand'anche sir Paul McCartney ha espresso il desiderio di lavorare con loro, e appurata la natura simbiotica di un progetto comunque legato a un produttore importante, i ragazzi puntano ad andarci sul serio in vacanza invece di arrivarci pieni di droghe sintetiche. Dopo Dave Friedmann, c'è un'inedito Pete Kember (che-ve-lo-dico-a-fareSpacemen 3) a tenere le redini. Ed è come ascoltare un'altra band che contrariamente a quanto tutti s'aspettavano, con le tastiere vintage al posto di quelle Ottanta e le batterie vere invece delle drum machine, suona molto più friedmann-iana (e melodicamente Flaming Lips) di quanto non lo fosse nella prova precedente. Un salto di qualità contro i supersingoli. Una manciata di buoni sixties pop che punta più a un compatto crescendo (spesso in contagiosa euforia) che a un pronto consumo anthemico. In qualche caso i brani non bucano, eppure cadono sempre in piedi, a partire da It's Working, giochetto psych dai contorni canori AIR per uptempo western in (deliziose) stratificazioni wall of sound spectoriani; oppure nell'altro esperimento indie disco di Flash Delirium che da un crooning e glamour Bowie-ano sale fino a un'incontrollabile (quanto altrettanto riuscita) schizofrenia arrangiativa. A catturare in toto troviamo le surfate per tastierina fantasmatica e il bridge jingle jangle di Song for Dan Treacy, mentre in scrittura piace tutta la seconda parte dell'album dallo psych folk di I Found A Whistle (che tenta il colpaccio ruffiano riuscendoci quasi) all'apparente semplicità à la Kings Of Convenience di Siberian Breaks (in verità è un collage di almeno tre canzoni dagli smalti country pop per 12 minuti) e alla ballatona confidenziale Congratulations. Infine, a tagliare trasversalmente una collezione di canzoni ognuna con una propria vita autonoma, c'è lo spettro degli accenni musical delle citate Song For Dan Treacy (Rocky Horror?) e Flash Delirium (Grease?), aspetti di kitcheria controllata che portano a quella Brian Eno che altro non è che un'adorabile operetta rockabilly glam. Un tracklist solida come una quercia.(7.5/10) Edoardo Bridda con un EP lo-fi nel 2003 e adesso l'album, registrato nel 2008 in solitario ritiro campestre. Il legame con la band madre si sente ed è forte, siamo sempre in ambito indie pop e con le percussioni intonate (marimba) a farla da padrone, ma qui emerge - giocoforza? - una vena più cantautoriale e folkie (particolarmente evidente in alcuni dei pezzi migliori come Skull in the Ice). Una vena agrodolce, dettata dalle vicende personali che fanno da sfondo al disco (la fine di una storia d'amore durata undici anni), che in certi pezzi può ricordare anche i Velvet Underground del periodo Doug 58 Yule (That Kind of Man). La voce di Josiah, e lui stesso lo ammette, è poco educata al canto, sempre un po' trattenuta e stonata, ma questo poco importa. Importa di più che, per quanto tutto sia ben fatto, è anche tutto un po' troppo ripetitivo e, alla fine, poco personale: e in un campo così inflazionato, questo non è certo un dettaglio trascurabile.(5.6/10) Gabriele Marino judA - Malelieve (Il verso del cinghiale, Aprile 2010) G enere : rock Esistono dischi totalmente emo senza possedere una nota riconducibile all'emo. Malelieve, comeback dei judA, ne è perfetto esempio. Grunge-rock psichedelico si definisce il giovane trio, ma forse si va solo di coordinata generica per inquadrare un suono che fa del pathos e della struggente evocazione emotiva la sua forza, mettendovi al servizio una carica strumentale non indifferente. Il cantato autoctono aiuta in questo senso, sfruttando certe caratteristiche della lirica in italiano che i tre - Marco Antoci D'Agostino (basso/voce), Sergio Fossati (chitarra) e Alberto Mangili (batteria) - piegano sapientemente agli stilemi rock anglofoni alla Alice In Chains/Soundgarden. Ne è esempio la splendida Il Tuo Male, lunga suite rock (hard-, post-, heavy-) struggente e malinconicamente melodica composta di crescendo e sbilanciamenti vuoto/pieno non banali, messi al servizio di liriche su mali interiori, illusioni e perdite più o meno necessarie. Il resto non è da meno nell'appoggiare trame (semi)cantautoriali di stampo indie in metrica libera (Trema, Invasa Da Umori A Distanza con ospite sua maestà Xabier Iriondo) ad un interplay potentissimo solo apparentemente di matrice post-rock alla Mogwai (l'alternanza restrain/release e la compattezza delle chitarre), ma in grado di slanci post-core apocalittici alla Neurosis come di intricate e cerebrali costruzioni strumentali. Bravi i judA, autori di un disco sentito, schietto, non artyfatto. Bravi soprattutto per intendere la musica come una passione da non svendere al primo che passa. Si chieda all'Hollywood cosa ne pensano in proposito.(7/10) Stefano Pifferi Juliana Hatfield - Peace and Love (Ye Olde, Febbraio 2010) G enere : songwriting Sono passati due anni da How to Walk Away e la Hatfield sembra esserne uscita. Ha accettato la perdita di quell'uomo e se n'è fatta una ragione, o perlomeno, abbandonando l'impianto folk-rock di quella prova per un set acustico, torna sul luogo del delitto facendone ancora una volta metafora. La metafora di come una ragazza affronta i malanni dell'amore di coppia con la differenza che qui a spuntarla è la filosofia. L'autobiografia del 2008 deve averle giovato: l'inedita serenità di Peace And Love ce la restituisce agrodolce, eternamente Novanta e nondimeno in ritrovata forma. Sarà un album con il grande difetto dell'ennesimo giro in giostra post-Lemonheads-grunger-Gilmore-girl- suburbana, eppure l'accorata semplcità di alcune delle composizioni scansano ogni cinismo e mettono da parte l'ennesima speculazione sul "come sarebbe stata" la sua vita se quel disco su major fosse uscito veramente come doveva ecc. I cocci di quell'altrimenti sono solamente stati spazzati sotto il letto eppure negare a episodi come Why Can't We Love Each Other e I Picked You Up la loro bellezza sarebbe stupido e disonesto. D'altro canto, anche in mero songwriting i numeri ci sono (Faith In Our Friends) e quindi benritrovata seconda giovinezza.(7/10) Edoardo Bridda Kalweit And The Spokes - Around The Edges (Irma Group, Febbraio 2010) G enere : rock Il nome Georgeanne Kalweit probabilmente non dirà molto alla maggior parte dei lettori, eppure l'artista di Minneapolis ha già all'attivo una serie di collaborazioni illustri con musicisti del calibro di Vinicio Capossela nei panni della Medusa Cha Cha Cha di Ovunque Proteggi -, Calibro 35 - per Tutta Donna -, Arto Lindsay, Luca Gemma e non ultimi Delta V, a cui ha prestato la voce nel nuovo millennio. è lei la Kalweit della ragione sociale, mentre gli Spokes rispondono al nome di Leziero Rescigno e Giovanni Calella, rispettivamente musicista negli Amour Fou e produttore. Base lombarda per una band interessata a tutt'altre atmosfere, visto che in questo disco si parla di America e dintorni. Un mondo sospeso tra la cowboy-psichedelia di Curtains e il crooning di New York Movie, il roots di Ice Man e il folk della title track, il blues di The Whore e il rock di Guns Are Back. Un caleidoscopio di generi che può vantare sicurezza, fascino e quel po' di mestiere che deriva dal saper mettere a frutto un lungo percorso di esperienze professionali. Nel classico disco dagli equilibri impeccabili e la scrittura rassicurante.(6.8/10) Fabrizio Zampighi Kazumasa Hashimoto Strangeness (Noble, Marzo 2010) G enere : E lettronica lounge Ekkehard Ehlers, che di fiuto ne ha, con l'antologia Childish Music, coinvolse anche Kazumasa Hashimoto nel rango della freakerie eletronique, elevandolo a cadetto di una preziosa promessa. Alla sesta prova su lunga distanza, il "naive sounds" di Hashimoto, da minimalismo texture-elettronico trasborda a canzononcina-lounge, cancellando vistosamente una serie di dettagli e microprocessing elettronici. L'avevamo lasciato con Tokyo Sonatas, che accompagnava l'ultimo 59 rarefatto film di Kiyoshi Kurosawa, ed il capitombolo all'indietro, si avverte, nel senso generale di un'assenza di dettagli e novità. Sia chiaro, le traccie sono ganze, l'architettura pop tiene e regge, ma il tutto è oggettivamente intaccato dall'accanimento quasi morboso di azzardare il tributo definitivo ai vestali pop. In tal senso, Strangess cade irreparabilmente in un salto all'indietro, s'ingolfa in arrangiamenti stucchevoli e pesanti, e finisce per somigliare all'ennesimo tentativo da copisteria tardo-revival. Hashimoto non sta alla musica pop come Arto Lindsay sta a quella brasiliana, e poiché siamo abituati dai giapponesi al costante isolazionismo-straniamento, ci risulta difficile digerire un ennesimo disco cover alla Stereolab. Per non parlare dell'ultima traccia, 20 minuti di piano, che esulano completamente dalle atmosfere del disco. Dispensabile.(5/10) Salvatore Borrelli Ken Camden - Lethargy & Repercussion (Kranky, Aprile 2010) G enere : chitarra avantgarde L'operazione di Ken Camden, debuttante neo acquisto di casa Kranky, non è poi molto distante da quella recentemente messa in essere da Geoff Mullen, ovvero sperimentalismo chitarristico che gioca di sponda tra le vibrazioni kraut, le scale orientali e l'appeal cosmicoelettronico di chiara ascendenza frippertronics. Qui c'è meno metodo e molta più improvvisazione. La stesso dettaglio non secondario che tutto il disco o quasi (fa eccezione la traccia finale Jupiter) sia stato registrato in presa diretta, senza l'uso di sovra-incisioni, restituisce immediatamente la fragranza cruda di un approccio live. Quindi il passaggio rapido dai bozzetti orientali dell'iniziale Birthday al viaggio intergalattico della successiva Raagini Robot avviene senza soluzione di continuità. Tutto il disco vive amabilmente su questo equilibrio precario ottenuto senza rifletterci due volte di troppo sulle soluzioni da adottare, ma il risultato finale è troppo poco coraggioso. Il riferimento quasi imprescindibile al raga lascia il tempo che trova. Certo, non c'è una virgola fuori posto, ma cui prodest l'ennesimo disco che rifà il verso, senza troppo sforzarsi, alla magia di No Pussyfooting?(5.8/10) Antonello Comunale Kissaway Trail - Sleep Mountain (Bella Union, Marzo 2010) G enere : C anadian pop La All Music Guide ci racconta che il gruppo è frequentemente associato agli Arcade Fire. Dubbio che sciogli 60 immediatamente quando l'autore dell'articolo ci tiene a mettere in chiaro che la copertina dell'esordio dei danesi è dello stesso grafico dei canadesi più famosi del rock. Emuli sembrano e emuli sono. A distanza di tre anni da quel lavoro siamo ancora a rintoccare campanellini e soprattutto campane e campanacci su un canovaccio orchestral wave folk rock ad alto tasso di emozione e sentimenti assortiti. L'orecchio più attento scorgerà la piega Mercury Rev nella voce di Thomas Fagerlund. è un tocco dreamy che fa bene a una formula che sa ancora pesantemente di presa in prestito, specie se coetanei più influenti come Get Well Soon stanno già girando il timone in direzioni differenti. Come per gli americani Eagle*Seagull (pure loro freschi di sophomore) era prevedibile che il cosiddetto Canadian Pop venisse emulato a destra e manca fuori dai confini patri. Sarà ricordato come un prodotto tipico anni zero, proprio come il post-rock fu per i Novanta, e acquisizioni di format come queste fanno capire che è ora di voltare pagina. Da qui in poi sarà soltanto maniera.(6/10) Edoardo Bridda Knife (The) - Tomorrow, In a Year (Rabid, Gennaio 2010) G enere : electro - opera Nel centocinquantesimo anniversario della pubblicazione, gli electro-dancer svedesi Olof e Karin Dreijer celebrano Darwin e il suo rivoluzionario L'origine della specie raccogliendo una commissione della compagnia teatrale danese Hotel Pro Forma. Ne viene fuori una electro-opera della durata di un'ora e mezza, sedici brani medio-lunghi spalmati su due dischi, realizzata a sei mani col dj e produttore Mount Sims (americano trapiantato a Berlino): tappeti che pescano tra l'elettronica di ricerca (con tanto di field recording registrati in Amazzonia ed esperimenti onomatopeici come il dittico Variation of Birds e Letter to Henslow) e l'ambient disturbata, evidente l'influenza dello splendido spin-off di Karin a nome Fever Ray nelle atmosfere algide e brumose che informano tutto il disco, solo qualche indizio invece della poetica più Knife-danzereccia (la minimal techno di Seeds). Progetto interessante e rischioso, e la scommessa del duo («At first it was very difficult as we really didn't know anything about opera...») si può dire vinta, annotando però che le parti cantate in stile operistico (la mezzo-soprano Kristina Wahlin Momme) sono proprio quelle meno riuscite, tutte molto - troppo - simili tra loro. I pezzi danno il meglio quando il focus è concentrato sulla produzione e quando entrano in scena le voci "più pop" (Janine Rostron aka PlanningToRock, highlight Mulatu Astatke - Mulatu Steps Ahead (Strut Records, Aprile 2010) G enere : etno - jazz A giudicare dal titolo dato a quanto segue l'acclamato e splendido Inspiration Information, penseresti a un lavoro estremista. All'enfasi posta sul lato più sperimentale della felicissima collaborazione del maestro etiope - qui replicata - con gli Heliocentrics e la Either/Orchestra. Non è così, e in tal senso l'iniziale Radcliffe rappresenta un bluff d'eccezione, col suo gassoso veleggiare che s'inquieta sopra trombe davisiane e sofisticate trame di percussioni e piano. Basterebbe da solo a consigliare l'acquisto, non vi fossero sparsi a piene mani il coraggio e l'onestà intellettuale di non ripetersi, pur in un momento di impressionante lucidità artistica. Mulatu Steps Ahead prende così le mosse dagli stessi presupposti del predecessore ma, stilisticamente, aggira le secche della ripetitività; rimane sé stesso nel momento preciso in cui mostra venature più solari, come potevano nondimeno intenderle il modello Duke Ellington e l'inquieto pioniere del meticciato Charles Mingus. Sta lì il senso di quel "passo avanti" di cui sopra: in una Green Africa che maneggia bordate di ottoni e un violino africaneggiante solo per aprirsi allo swing, quello stesso cui Ethio Blues si abbandona totalmente. Nella fusione di jazz e radici che incarna la cifra dell'uomo, di un'attualità da lasciare sbalorditi e lo stesso per la disinvoltura con cui viene riadattata. Se infatti la breve Assosa respira in modo classico, I Faram Gami I Faram, Mulatu's Mood e The Way To Nice sorprendono con sensuale ma ruvida latinità. Gli spigoli sono smussati senza smarrire verve, anzi trattenendo un'attenzione al dettaglio e all'intarsio che rivela più della facciata. Mentre si indaga un romanticismo tenue e antico in Motherland, con una mossa che la dice lunga sull'intenzionalità del gesto, il brano più sperimentale - la glassa sospesa Derashe - è "confinato" a bonus digitale. Il momento critico nella carriera di un artista è il seguito a un capolavoro. Una regola che, evidentemente, non vale per chiunque.(7.5/10) Giancarlo Turra Jonathan Johansson, l'attrice Lærke Winther Andersen, la stessa Karin). Nota: di recente, anche gli Sparks e David Byrne in coppia con Fatboy Slim si sono lasciati tentare, in maniera molto diversa, dall'efficacia narrativa e dall'intensità esibita propri del teatro musicale. Back to the opera?(7/10) Gabriele Marino Konrad Sprenger - Versprochen (Schoolmap Records, Novembre 2009) G enere : S ound A rt Seguito di un esordio discografico che lo annunciava sin dal titolo (Miniaturen, Choose Records, 2006), Versprochen torna a indagare la forma del bozzetto in musica, così come declinata dal giovane sound-artist tedesco Konrad Sprenger - anche tecnico del suono e produttore già visto all'opera con Arnold Dreyblatt ed Ellen Fullman. Stampato in 300 vinili dalla sempre attenta Schoolmap, il lavoro sembra davvero provenire da quell'età dell'oro in cui la sound-art era ancora genere degno di un certo credito, regolato da leggi non scritte che tuttavia, paradossalmente, lasciavano che l'artista (si badi: l'artista, non il musicista) navigasse libero nell'oceano delle sconfinate possibilità offerte dal mezzo elettronico allora da poco scoperto. Dunque non stupirà la disinvoltura con la quale si passa, in dodici tracce e poco più di mezz'ora, da innocui field recordings di treni in corsa (Freier Im Wald) a drone ambient (Lethe) o di ascendenza kraut (Fenchel); da angosciosi reperti sonori antropomorfi (Das Helle Fell Am Hinterteil Des Hirschs) a bestiari dell'assurdo in musica (Lügner). E in tutto questo, continuare a coltivare quella passione per l'amabile/cantando che può manifestarsi indifferentemente con uno stornello medievale (Geht Von Alleine Weg), dementi colonne sonore per b-movies inesistenti (Wanderheuschrecke) o musiche da circo di clown ubriachi danzanti (Die Artischocke Und Die Blaue Banane). Non male.(6.8/10) Vincenzo Santarcangelo 61 highlight Santo Barbaro - Mare Morto + Un giorno passo e ti libero (Ribéss Records, Marzo 2010) G enere : canzone d ' autore Dei Santo Barbaro emerge prima di tutto una forza comunicativa importante, che cerca tempo e spazio concedendo ben poco. Canzoni d'autore, le loro, distillate nelle liriche, poco inclini alla narrazione, tagliate come fotografie di guerre, solitudini, schiavitù appartenenti ad un futuro desolato che è già presente. Un folk illividito che nelle tonalità si accosta ai Black Heart Procession, preferendo però trame solo apparentemente tradizionali, in realtà allucinate da stridori Radiohead, elettriche baldorie Nick Cave, nenie in soluzioni folk come le avrebbero fatte i C.S.I.. Tutti riferimenti fin troppo gravosi se non fosse la forza della scrittura, testuale in primis, a levare i Santo Barbaro da un pantano spersonalizzante in agguato come non mai. Ed è qui che entra in gioco il rimando più prossimo al gruppo, nella densità lessicale dei versi come nel cantato dalla voce traballante e leggermente teatrale, quello di un Giancarlo Onorato che di queste undici tracce sembra essere una sorta di padre putativo. Brani come Nero deserto, Occhi immensi (samba zoppicante sfibrato in fondo da una coda di spezzature e tonfi ritmici), Il mondo è la patria di chi non ha dimora segnano i confini di un'espressività in cui l'essenza nuda degli animi e il bisogno di una rinascita che restituisca ordine al caos sono contrassegnati da un forte rigore poetico e comunicativo. Non stupisce dunque che in questa elegante riedizione del disco (già uscito nel 2008) venga accorpata da Ribéss Record una silloge di racconti intitolata Un giorno passo e ti libero. Quasi a confermare la centralità della parola nell'economia del gruppo e l'importanza di una (nuova) purificazione di essa all'interno dell'immanente confusione dei tempi che stiamo attraversando: «e ho pensato che forse dovremmo solamente / abbandonarci al rumore del mare / per poi spiaggiarci sull'asfalto / come balene suicide / perché puoi anche uccidere la menzogna / ma è più difficile partorire la verità».(7.7/10) Luca Barachetti L'insolito clan - Non vi stimo più (Altipiani, Marzo 2010) G enere : folk jazz A tre anni dall'esordio, da quel titolo un po' Lina Wertmüller (50enne bruno povero senza fissa dimora cerca donna ricca e bella scopo matrimonio) e un piglio fresco da cantastorie surreale, torna L'insolito clan con un'opera seconda che sottolinea l'eccezionalità di questa band calabrese trapiantata in Romagna. In loro il cantautorato militante, socialmente attento e per certi versi impegnato, è la sinopia su cui ordire arazzi acuti e beffardelli (Felicità, La Panda, il buono e lo sconto), talora sornioni ma sotto sotto caustici (L'estate), il folk pervaso d'aromi swing e strattonato brass-band (sentite l'irresistibile Richiamerò) intanto che soffiano spifferi etnici e reggae (La gogna). è un carosello sardonico che non punta il dito anzi si fa carico di quanto messo alla berlina secondo la lezione di 62 Gaber e Gaetano, schiudendo talvolta pertugi inebrianti con fare Vinicio Capossela (Il capo) e con ciò concedendosi apprezzabili esorcismi sonori. Tutto un teatrino di quelli che ti sembra di starci in mezzo.(7/10) Stefano Solventi Le Le - Le Classics (Gomma, Aprile 2010) G enere : E lectro D isco P op Piet Parra approda su Gomma affiancato da Serge Fabergé (ex DJVT) e da Rimer London (ex Comtron). Il designer/stilista/musicista olandese esprime la fascinazione per gli '80 con un full lenght che raccoglie singoli ben noti (Disco Monster, Breakfast) e altre amenità. Il calderone richiama luci strobo, passi colorati al neon, Ray Ban e sottofondo fashion (Ich Clack Dich) che fanno rispuntare per l'ennesima volta dal cassetto la decade degli yuppies, dei synth e del minimalismo di Miss Kittin. Sarà che il glo-fi ci ha portato a riguardare il pop caramelloso con occhio diverso, sarà che la Gomma non è proprio l'ultima etichetta, ma a riascoltare queste hit (Skinny Jeans è stata in top 30 olandese) osannate tra gli altri da Erol Alkann e da Mehdi ci vien voglia di scattarci delle polaroid, di bere Martini e di passerella. Missione compiuta Piet.(6.4/10) Marco Braggion Le-Li - My Life On A Pear Tree (Garrincha Dischi, Marzo 2010) G enere : folk - pop Non ci stupiremmo più di tanto se un giorno trovassimo in un disco dei Le-Li una Mary Had A Little Lamb o una ABC (The Alphabet Song). Non ci stupiremmo perché l'immaginario che richiama il folk-pop del duo è da sempre profondamente legato alla dimensione infantile, per lo meno nella concezione generale e nell'estetica. Una musica minimale, immediata, sussurrata, capace di prodursi in filastrocche in bilico tra chitarre acustiche e archi (Junk Girl), per un "barone rampante" in gonnella - come vorrebbe farci credere la candida copertina di Andrea Pitinto - immalinconito e fin troppo piccino per il mondo che ha attorno. Colori pastello, basso profilo, ma anche una pletora di collaboratori del giro Garrincha/Trovarobato in My Life On A Pear Tree - tra i tanti, Marcello Petruzzi, Elia Della Casa, Nicola Manzan e l'accoppiata di co-autori Alessandro Grazian/Matteo Romagnoli -, a nobilitare un disco che in versione naked avrebbe forse raccolto meno entusiasmi. Perché se dal punto di vista della comunicazione l'approccio soft/acustico/malinconico/ english/french/pop rende, in fatto di originalità fa storcere un po' il naso a chi ha a che fare con produzioni sul genere dall'alba al tramonto. Detto questo, il primo disco lungo dei Le-Li rimane un'opera godibile, oltre che un passo in avanti rispetto al precedente Music Is Not For Grownups Ep. Collezione di parentesi musicali perfettamente oliate, ingentilite da orchestrazioni raffinate, capaci di stupire in con una Lithium dei Nirvana trasfigurata o con una Which Way tutta sitar che non sarebbe dispiaciuta al miglior George Harrison. E non di meno in grado di ipotizzare con i pochi episodi in italiano una prospettiva originale - e forse una via di fuga percorribile - per una leggerezza di tutti e di nessuno.(7/10) Fabrizio Zampighi Librarians - Present Passed (Postfact, Marzo 2010) G enere : art - pop Vengono dal West Virginia i quattro Librarians (Ryan Hizer, voce e chitarra;Trey Curtis, chitarra; Kyle Vass, basso; Billy Parsons, batteria) ma è come se uscissero dal calderone arty newyorchese, tanti e tali sono i punti di contatto con la pop oddity made in Williamsburg. In particolare, stella guida dei 4 sono indubbiamente gli Animal Collective di Merriweather Post Pavilion, per quella maniera di rivestire il pop di sperimentazione o, viceversa, fornire musica sperimentale rivestita di accessibilità pop. Cosa quest'ultima che in alcuni passaggi è più di un riferimento (Candy Season, Wait & See) sfiorando quasi il plagio. A scavare a fondo negli 11 pezzi di Present Passed si nota la volontà di emanciparsi dal modello e così ci si ritrova tra i piedi frammenti di tropicalismo indie sconnesso e/o gentile (dagli Abe Vigoda meno irruenti ai Vampire Weekend più riflessivi), stratificazioni ludico-infantili di beat digitali e chitarre psych-pop, un certo barocchismo mai esasperato nelle strutture delle canzoni e minime curvature wavey dissonanti. Kid Stuff e Present Passed, le due tracce che chiudono l'album, sono infatti due gioiellini di experimental-pop alla Brian Eno accattivanti quanto basta per mostrare la via da intraprendere.(6.4/10) Stefano Pifferi Lonelady - Nerve Up (Warp Records, Marzo 2010) G enere : wave Il canto, diciamolo subito, buca le casse: di ghiaccio o rasposo, espettorato o caramellato, è l'affascinante protagonista di una graffiante manciata di art song abilmente confezionate da Guy Fixsen dei Laika (già al lavoro con My Bloody Valentine, Pixies, Stereolab). Con la musicista mancuniana che poi ci mette tutto il coraggio che serve, mescolando pose di oggi e di ieri senza distinzione di tempi e geografie. Throwing Muses e Bat For Lashes. Estetiche 4AD e La Roux con una fluidità pari al dialogo black messo in gioco, trasfigurato anch'esso come il post punk che sentiamo uscire dalla sei corde (ma anche dai setting delle drum machines) e prodotto proprio come sarebbe piaciuto al Martin Hannett della Factory Records. I Joy Division di She's Not Control sono citati in If Not Now, il funk dei Gang Of Four riproposto in Intuition, l'epica romantica e un poco esotica di certi Echo & The Bunnymen messa sottopelle a Immaterial, fino alla terra incantata per violino e chitarra a spine staccate di Fear No More. Quest'ultimo atto conclusivo di un album giocato 63 tra l'elettronico vintage Ottanta e una strutturante citazione chitarristica art pop mai banale e dai ritornelli insidiosi, anche se stretta tra le mura di modelli ingombranti. Ad ogni modo, per sbilanciarci, ci sarà tempo.(6.9/10) Edoardo Bridda Love Is All - Two Thousand & Ten Injuries (Polyvinyl Records, Marzo 2010) G enere : pop - punk Si giocano tutto sulla freschezza, i Love Is All. Cosa di per sé notabile, dato che il combo svedese si presenta al pubblico del 2010 non con un esordio, né con un sophomore, ma con una terza prova. Termine tardoliceale che ben si presta all'adolescenza incallita e romantica cantata dal cinguettio punteggiato di raucedine emesso da Josephine Olausson - come del resto a tutta la materia di cui stiamo parlando, cioè i dodici pezzi di Two Thousand & Ten Injuries. Dietro all'apparente semplicità ed essenza twee-pop punk, però, c'è un tentativo apprezzabile di quadrare il cerchio di abitanti vicini e lontani del genere. In Early Warnings e False Pretense i Nostri dimostrano di avere imparato la lezione offerta loro da Vampire Weekend, come del resto in Bigger Bolder riecheggiano le indicazioni dei primissimi Strokes, pur ammorbiditi. Ci sono anche tentativi di fare qualche passo (strumentale) più in là (The Birds Were Singing With All Their Might) e finte di corpo verso il post-punk (quasi funk-punk?) - sentite Dust, peraltro subito riallineata con un anthem morbido, un refrain corale e varie ed eventuali indiepop appena più ruvido. Il segreto è sempre lo stesso, essere il più appiccicosi possibile (Kungen), al di là della parvenza di ruvidità e di rimandi garagisti. Ma niente oltranzismi. La ballata finale (Take Your Time) è dichiarata intenzione di non voler essere intransigenti. Una chiusura sofficissima, fatta di arpeggi leggeri e bolle di sapone. E forse è questo che più ci piace, per una volta, dei Love Is All: la totale indifferenza verso l'anti-indulgenza.(6.5/10) Gaspare Caliri Mantler - Monody (Tomlab DE, Aprile 2010) G enere : pseudo - canterbury Ha alle spalle un percorso interessante il quarantunenne 64 canadese Chris Cummings, in arte Mantler. Di quelli che dici un riassunto attitudinale del fare musica contemporaneo: da bambino alterna gli studi classici di pianoforte alla passione per l'eleganza pop; da grande si dà alla scrittura e alla produzione di film nel mentre inganna il tempo come dj e appassionato di rarità black. Dopo una falsa partenza nel '94, col nuovo secolo prende a incidere autarchicamente, inaugurando il rapporto Tomblab nel 2002 con Sadisfaction, da dove si porgeva come un giovane Robert Wyatt rasserenato che scrive con Brian Wilson, facendosi talvolta arrangiare da Donald Fagen ma stretto di manica e budget. Ne risultava un'isoletta felice non più eguagliata da Chris, che in seguito ha pubblicato poco e senza guizzi preferendo sonorizzare spettacoli teatrali. Tenta un rilancio con questo disco, che si è portato via tre anni di lavorazione e si giova di un folto cast di musicisti riguardosi e della co-produzione di Jeremy Greenspan e Owen Pallett. Che dire di composizioni aggraziate da cantautorato easy anni '70? Che sono gradevoli e tuttavia gravate da uniformità d'atmosfere, scrittura poco incisiva e un paio di scivoloni disco. Tranne per gli sprazzi d'introspezione un po' alla Rock Bottom (Author, Crying At The Movies, Mount Shasta), per il jazz da camera Maiden Name e per una Fortune Smiled Again che vira Peter Gabriel in funk-pop da cameretta, la magia oggi è ordinarietà. E ti rincresce.(6.5/10) Giancarlo Turra Marc Behrens - Sleppet (Crónica, Marzo 2010) G enere : F ield R ecordings La foresta nei pressi di Nerben, i ghiacciai più giù a Nord, il lago di Røsskleivvatnet, la Norvegia come contenitrice di ambienti, l'isolamento umano la cui presenza ambientale amplifica i pensieri irrequieti del dentro, la Norvegia come l'avamposto sul nulla e sull'altrove. è questo Sleppet, l'ultimo materiale della ventennale ricerca di Marc Behrens. Da questi lidi, neo-riduzionisti (riduzionisti in quanto conduttori di un macrocosmo esistente pronto al congelamento perenne) ci si era imbattuti sia con Lionel Marchetti che con Eric La Casa. L'uno alla ricerca di fratture e discontinuità dei luoghi, l'altro in ossessiva narrazione-catalogazione del sinfonico racchiuso nell'aperto. Marc Berhens sembra invece interessato all'aperto come concetto animale, come continua permanenza dell'animalità nel processo razionale dell'ascolto e dipana una ricerca proto-acusmatica in quattro dissertazioni, che sono anche quattro inni alla sopravvivenza su prossimità zero e del contatto innaturale che c'è tra l'ascolto e la natura. è questa la grande tensione di questi materiali: più che filmare elegiaci movimenti dello spazio, Behrens sembra attraversato dall'idea di fotografare i rigurgiti, le spietatezze, i gap ambientali dei luoghi che filma, catturando l'ascoltatore con movimenti transitivi e la somiglianza di questi alle nature umane viventi (il ruscello della seconda traccia che somiglia ad un vinile in loop, i rumori della terza che sibilano come se catturassero un missile che proviene dalle galassie). Nel mezzo di questi anfratti invisibili ed ostici, ogni tanto emerge qualche voce umana, qualche silenzio, degli strani sbalzi di pressione sonora, che ci ricordano come certi suoni siano manipolati da fili, da cervelli, e come proprio in questo caso, questi cervelli non abbiano bisogno d'inventare musiche ma solo di tenerle in bilico perpetuo, di come non ci sia bisogno di strumenti, né di molto altro, per organizzare delle forme a dir poco soprendenti col solo aiuto di Dio.(7.4/10) Salvatore Borrelli Mark Van Hoen - Where Is The Truth (City Centre Offices, Aprile 2010) G enere : shoegaze - beat A volte basta consultare la carta d'identità di un musicista per chiarirsi le idee. Nativo di Croydon, l'inglese Van Hoen è cresciuto dentro quella che dalle sue parti chiamano "Black Country", l'area industriale delle Midlands. Un po' come gli illustri suoi maestri di Düsseldorf, Sheffield e Detroit, ha familiarizzato prestissimo a con ritmi e clangori da fabbrica, smanettando già a quindici anni col primo synth e (senza dimenticare l'amore per i Cocteau Twins: si sente) abbracciando la musica elettronica. Che, a ben pensarci, è oramai un'etichetta che contiene tutto e nulla come "rock". E infatti Mark - di sangue misto d'India, Giamaica e Albione - si è fin qui destreggiato facendo di tutto un po': sintetizzando, ricordiamo la presenza nei Seefeel; il progetto Locust e un contratto andato all'aria non per colpa sua con la R&S; esperimenti con sonorità digitali stimati dagli Autechre; l'apprezzabile produzione per gli ex compagni di giochi Scala e i teneri Mojave 3. Punta di un sommerso che non lo vedeva uscire in prima persona da sei anni e sarebbe stato meglio così. Resta difatti a metà del guado Where Is The Truth, indeciso tra un'elettronica pastorale in scia ai Cluster più morbidi e agli Harmonia (bella e illusoria la partenza Put My Trust In You) e un trip-hop dalle venature shoegaze - e viceversa - sulla carta stuzzicante ma frigido negli esiti. Logico che vi sia tanto professionismo dell'intarsio e si viaggi su levigate stratificazioni; meno che ciò affossi i brani nonostante certe intrusioni più sperimentali. Senza che qualcosa, ad eccezione della straniante I Need Silence, si imponga sulla scrittura anonima. Così non si esce vivi dagli anni Novanta.(5.5/10) Giancarlo Turra Marvin - Hangover The Top (Africantape, Aprile 2010) G enere : noise - rock Trans Am sballoni, Devo psicotici, heavy-metal futuribile alla Fucking Champs, strabordare di synth in overdrive, catalessi math-noise. Questo è una minima parte di quel che ci offre il comeback del trio misto di Montpellier: noise-rock futuribile ai suoi massimi livelli per trasporto e applicazione con pregevole compattezza di suoni e mobilità schizofrenica di strutture a far da contorno. Fred alla chitarra, Greg alla batteria e la graziosa Emilie alle tastiere propongono una musica potente e screziata, capace di far convivere molte anime diverse su un sostrato riconoscibilmente math-noise per volumi, frenetici cambi di passo e intrigo di strutture: passaggi neanche tanto velatamente metal (Conan Le Bästard, Roquedor), ossature ossessivamente reiterate da disco-bar venusiano e prog alieno (Good Radiations), tour de force strumentali che collidono con ritmi pestonissimi da disco demente (Fear), ipervitaminizzati assalti all'arma bianca da terroristi sonici doc (Au 12). Il tutto sempre ben amalgamato ed equilibrato, seppur sulla carta potrebbe sembrare un ibrido stucchevole o forzato. Il conclusivo omaggio al Brian Eno obliquamente pop di Here Comes The Warm Jets non passerà certo alla storia con la sua rielaborazione noisy, ma da la misura dell'apertura mentale dei tre e di una scena francese che sembra aver recuperato terreno alla grande non solo sul versante garage.(6.9/10) Stefano Pifferi Matthew Herbert - One One (Accidental, Aprile 2010) G enere : (W hite ) S oul P op Consapevole o no - e con tutti i limiti del caso - Matthew Herbert è il Brian Eno della generazione E. Un musicista concettuale che non lascia nulla al caso, un produttore sempre più richiesto, un acuto osservatore della società e soprattutto un artista che ha il coraggio di esplorare i limiti della propria opera. In comune Brian 65 e Matthew hanno anche uno stacanovismo impareggiabile. O meglio, un'autentica scimmia creativa. Sul sito ufficiale s'apprende che il Nostro quest'anno pubblicherà tre album, ultimerà i lavori per Eska, Barbara Panther e il blackissimo elettro funker Rowdy Superstar, curerà il prossimo capitolo della fortunata serie Recomposed e contemporaneamente farà soundtrack, dj set e pure il direttore della premiata Matthew Herbert Big Band. Non dimentichiamo poi che, parallelamente all'impianto che sta dietro all'Herbert ambient, c'è anche un manifesto al quale il musicista britannico sottostà dal 2005 e che prevede una deontologia precisa: bannati i preset, niente suoni di fabbrica, niente samples di altri artisti e nemmeno synth che suonino di marca. Tutto artigianale e fatto in proprio, ricostruito secondo precise modalità. Con in più la nota politica: la provenienza di ogni strumento - e fonte sonora - deve essere resa pubblica. Di qui la sfida più grande, ovvero la voce: apice di un percorso umano e artistico di un uber musicista da sempre nascosto dietro l'afonia della generazione elettronica. One One è l'album di canzoni di Matthew. Una collezione di soul song inevitabilmente bianche, umoralmente georeferenziate e venate di jazz. Sofisticate come l'ultimo Eno pop "sul pianeta terra", soul come potrebbero essere le strofe di un Robert Wyatt late nite, magari piazzato in mezzo ai tavoli di un cocktail lounge o perso negli anni '50. Non il Wyatt esistenzialista dunque, piuttosto quello più subliminale, notturno ed efebico, sottilmente mondano come lo sono certe pose memori della dance (via minimalismo). Oppure abilmente berlinese in quel fare asciutto ma pur sempre cool (Milan) e attentissimo al folklore globale (la latinità funk di David Byrne in Dublin). Non tutti gli episodi spiccano per estro: Herbert non ha le capacità compositive di un Eno (che proprio con il canto forgiò i primi capolavori del postmodernismo pop partendo dalla decadenza glam) e il suo crooning in Berlin non è proprio indimenticabile; e così la scaletta, sul finale, scivola in un sottofondo discreto e impalpabile. I prossimi due capitoli della trilogia lo vedranno tornare al concretismo a sfondo politico di Plat Du Jour, nel frattempo le basi per un percorso canoro sono state gettate.(7/10) Edoardo Bridda essere passato l'appetito per quei suoni slavati ed estivi. Anche se manca la bella cavalcata di 22 minuti (Treeship), la stampa italiana si mantiene su quei binari che avevamo già individuato qualche mese fa: chitarre 4AD, field sounds estivi, batterie slow-motion e strumenti di un'elettronica a 8 bit, voci in eco e tanta tanta nostalgia Ottanta. Oggi, che Toro Y Moi è diventato una moda, e che spuntano come funghi nuovi adepti (uno degli ultimi è Summer Camp), il disco di Dayve Hawk per la sua omogeneità è un piccolo classico, una cosa che per ora non ci sentiamo di esaltare troppo, ma che fra qualche anno potrebbe diventare un culto. Accattatevillo!(7.1/10) Marco Braggion Meshel Ndegeocello - Devil's Halo (Mercer Street, Aprile 2010) G enere : adult oriented bl ack In questi tempi di citazionismo senza copia carbone, e post-modernismi facili facili, far propri i modelli invece di frullarli è merce rara così come sentire una formazione suonare come dei Police in salsa soul, una Sade dub con smalto chamber e funk liquido o ancora la mestizia ultra chic degli Everything But the Girl (Bright Shiny Morning) libera dai soliti Ottanta. Meshell non è proprio una ragazzetta. Nata a Berlino nel 1968 ma americanissima - risiede tutt'ora a Los Angeles -, si divide tra nominations ai Grammy e qualche vezzo da star, e con Devil's Halo arriva all'ottavo album solista. Nel passato il più grande successo lo deve al duetto con John Cougar Mellencamp (la cover di Wild Night di Van Morrison), fulgido apice di una carriera spesa come musicista aggiunta di Alanis Morisette, Rolling Stones e tanti altri. Oggi è autrice di un soul morbido, adulto e smaltato dub, che alla bisogna svirgola verso il rock o magari nei pressi della prima Goldfrapp (Love You Down). Uscito lo scorso ottobre in America e negli Uk e ricoperto di plausi planetari, Devil's Halo esce anche da noi senza essere invecchiato. è un lavoro fresco e d'esperienza, giocato in sicurezza per una buona metà (Die Young) e in cui manca probabilmente una hit vera (la andy summeriana Tie One On è semplicemente un ottimo arrangiamento), non di meno, uno di quei dischi nu soul degni di più di una nota a margine.(7/10) Edoardo Bridda Memory Tapes - Seek Magic (Edizione Italiana) (Something In Construction, Aprile 2010) G enere : glo - fi Micol Martinez - Copenhagen (Discipline Venus, Gennaio 2010) G enere : canzone d ' autore Con un ritardo di quasi un anno, viene importato anche da noi il buon album di Memory Tapes. Dopo mesi di moda glo, a riascoltare uno dei caposcuola, non sembra Poco spazio ma anche pochi nomi interessanti per il cantautorato italiano al femminile. Dietro la solita Consoli, una Donà di cui attendiamo il ritorno, e qualche nome 66 highlight Scuba - Triangulation (Hotflush Recordings, Marzo 2010) G enere : T ech , step Appurato lo shifting techno - che non volta le spalle a mamma Warp - del precedente 12'' Klinik / Hundreds & Thousands, e la selecta a base di drum'n'bass nel recente Sub:stance, di Paul Rose era attesa la collocazione nel continuum dopo i fasti ambient-step dell'oramai antologico A Mutual Antipathy. Scuba risponde portando la formula al livello successivo come non ci si aspettava, triangolando sapientemente i cosiddetti sottostili in quello che rappresenterà la pietra d'angolo per la scena a partire dalla rimessa in gioco del two step burial-iano in groove ambient house (già in odor di deep in Latch), oppure dialogando a distanza con gli olandesi (2562, Martyn) a colpi di lezioni funk house e trance (On Deck, Tracers). La forza sta comunque nell'intuizione drum'n'bass, riproposta non come baluardo bensì restituendocela come anti materia: in pratica l'essenza e l'eleganza della Metalheaz del 1996 (Three Sided Shape) tolta d'ogni elemento euforico, una mental d'n'b come seme nella roccia dell'overstep. Di più, attraverso un portato concreto - da sound degli abissi come da pendici del vulcano - all'opera s'aggiungono la coesione, la coerenza e la cifra stilistica, altra triangolazione in sublimazione questa volta tecnica, perché in quanto a steps Rose non rinuncia nè a groove housey nè a stilettate techno (l'egregia You Got Me con tanto di tastiera cinematografica à la John Carpenter). Molta carne al fuoco, tanto che con i soli fuori programma (Minerals) c'è pure da giocarsi l'asso afro step, un passo prima della soulness di Burial e King Midas Sound. Fondamentale.(7.5/10) Edoardo Bridda ormai storicizzato senza troppi trionfi (Turci) c'è campo aperto per esordi come questo di Micol Martinez. Produce Cesare Basile, partecipano tra gli altri Enrico Gabrielli e Rodrigo D'Erasmo ad aggiungere quel tanto che basta su strutture folk-rock che al siciliano devono molto, sia nell'essenzialità di scrittura e arrangiamenti che nella tensione poetica più votata al lato femminile dell'esistenza che a quello tragico-biblico. Martinez parte insomma da basi solide che la portano ad approdi piuttosto prevedibili ma non per questo carenti di sostanza (PJ Harvey nella scansione elettrica di una title-track decisamente berlinese; la Cristina Donà di Nido nella sensuale Il cielo). Di suo aggiunge interpretazioni precise (è anche attrice) ed almeno due canzoni che lasciano intendere quanto sarà interessante l'evolversi del progetto. In Testamento biologico parla di fine vita senza speculazioni retoriche ma con l'altera autorevolezza di un Ivano Fossati; mentre Donna di fiori è la canzone che chi scrive ha fatto vincere nell'ipotetico Sanremo che ci siamo inventati per il Re-boot di marzo. Come si diceva là, da conservare intatta e promuovere. E vista la scarsità di materia prima di cui all'inizio, possiamo dire sia decisamente il caso di accorgersi di lei.(7.2/10) Luca Barachetti Mixtapes & Cellmates - Rox (Tangled Up, Dicembre 2009) G enere : R ockgaze Saturazioni elettriche, languidi cantati dal candore macchiato di sangue, tastierine twee, testi esistenziali. L'omonimo debutto degli svedesi Mixtapes & Cellmates è stato il mix di un po' tutto questo. Era il 2007 e il rifiorire dello shoegaze abbinato a fascinazioni indie rock dalle forti ascendenze emo di band quali Mineral o Sunny Day Real Estate, non aveva ancora partorito i The Pains Of Being Pure At Heart o rinvigorito la cifra stilistica dei Deerhunter, né tanto meno riportato in voga il verbo professato dai My Bloody Valentine. Insomma, i Mixtapes & Cellmates si muovevano in quei mondi lì con sorprendente disinvoltura, lontani da qualsiasi hype e dal furbo affidarsi al vento che tira. Con Rox la strada maestra è la stessa, ma prevalgono divagazioni in direzione di un suono più robusto e spigoloso, meno istintivo e deliziosamente fragile, abbinate a piacevoli sbandate elettroniche di stampo New Order. In un certo senso, è il classico disco della maturità: certifica un'evoluzione stilistica costruita a colpi di pezzi dall'identità precisa che non si accartocciano in cliché stantii, ma paga pegno smarrendo in parte le dolci inquietudini degli 67 esordi, magari naif e non sempre a fuoco, ma dotate della spontanea freschezza al calor bianco che seduce senza remore. Solido e ben congeniato, ma non conquisterà mai davvero.(6.4/10) Giampaolo Cristofaro Mother Mother - O My Heart (Last Gang Records, Marzo 2010) G enere : M utant P op In tempi recenti il Canada è stato territorio fertile per certo pop mutante. Basta considerare le vette raggiunte dai raffinati esperimenti genetico/sonori di Broken Social Scene, Stars e Most Serene Republic, all'exploit prettamente commerciale di Tegan and Sara. Da Vancouver in arrivo il secondo album dei Mother Mother che della contaminazione del corpo pop han fatto credo e si affidano per meglio ribadirlo alla scintillante produzione di Howard Redekopp, già al lavoro con i New Pornographers. Pop Mutante si diceva, ed anche di pregio, non fosse per l'ennesima sciatta deriva neo wave della title-track e il tremendo affondo kitsch di Hayloft. Tant'è, e allora meglio sperdersi nell'imponenza di arrangiamenti carichi ma non ridondanti, negli spunti melodici che passano in scioltezza da Beatles a MGMT, tra sprazzi di intimismo acustico annegato in orchestrazioni d'archi e fiati e chorus dalle classiche ma funzionali strutture chiamata/risposta e alternanza di cantato maschile e femminile. Toccanti e trasognate Try To Change e Wisdom saltellano come clown in crisi di pianto, Ghosting è degna del Jason Collett più vispo e giocherellone, la muscolare e catchy Body Of Years è impreziosita dal bridge di pulviscolare amarezza indie. Arms Tonite e Wrecking Ball poi - pezzo manifesto del disco tutto - ricordano il gioioso rimescolamento di cromosomi indie rock dei Los Campesinos e il rammarico per i due scivoloni di poco su si fa via via più amaro.(6.8/10) Giampaolo Cristofaro Motor City Drum Ensemble - Raw Cuts Vol. 1 (Faces Records, Marzo 2010) G enere : deep house funk Tagli primitivi, quasi anni Settanta in questa lunga compila unmixed. In prima battuta sembra fatta apposta per i cultori dell'old school dance (Raw Cuts #1) e del funk (Raw Cuts #2), ma poi si insinua anche un vago sapore jazzy (Prayer) che ricorda profumi di fine secolo parigini (Dimitri e soci della Bastiglia) e un basso che ti apre lo stomaco con una deepness tagliata techno street (All My Life e Monster Box unici due pezzi targati Jayson Brothers). 68 MCDE è la creatura di Danilo Plessow, nuova star della deep immaginifica e grondante freschezza dopo quel capolavoro di Terre Thaemlitz che ha riaperto il discorso sul suono postChicago. Il ventiquattrenne di Stuttgart dice la sua senza scomodare ingombranti ammennicoli da studio di produzione, sfoggia il suo vocabolario lo-fi in modo a tratti didascalico, ma in questa chiarezza (e se vogliamo ingenuità) acquista punti. La selezione di singoli dalla sua etichetta è fatta per chi ascolta house con il cuore black, per chi crede che ci sia ancora una possibilità di anima dietro la consolle (ottimo in questo senso il featuring di Stee Downes in There's A Truth). Se non fosse per le note biografiche, Danilo potrebbe essere nato a Detroit (vedi la bomba da autobahn kraftwerkiana Monorail). Tenete d'occhio questi tagli, potrebbero farvi sanguinare...(7.2/10) Marco Braggion Nice Nice - Extra Wow (Warp Records, Aprile 2010) G enere : post - modern rock Due ragazzi da Portland entrano nei quartieri generali Warp con la carta in mano del postmodernismo rock. Giocano quindi difficile da subito Jason Buehler e Mark Shirazi, dato che impantanarsi nel territorio in cui regnano gli Animal Collective è cosa rapida. Anticipata da una compilation a inizio anno, la proposta si colloca nel minestrone noisy sperimentale progressivo olistico che imperversa nella generazione di trentenni che hanno (avuto) a disposizione tonnellate di musica da scaricare. Eppure, avere troppi dati a disposizione a volte è un difetto e il forte rischio è quello di non saper più cosa dire. Il mix risente di echi balinesi cari ai minimalisti americani à la Reich, si mescola alle esperienze dei Talking Heads (See Waves), al noise dei Liars (Set And Setting), al cosmic-prog di Prins Thomas (A Vibration) e a mistiche orientaleggianti proto-Alice Coltrane (New Cascade), un bombardamento di stimoli sonici senza le briglie che piacevano tanto a Frank Zappa (e di cui ci sarebbe enorme bisogno qui).(6.5/10) Marco Braggion Nina Zilli - Sempre lontano (Universal, Febbraio 2010) G enere : pop Calmatesi le acque, invero quest'anno stagnanti come di rado, scegliamo un disco sanremese da recensire ed è quello di Nina Zilli. L'italico pop arriva sempre qualche anno in ritardo, e mica solo lui a dirla tutta, dunque per una Amy Winehouse in surplus mediatico ecco giungere una schiera di voci sgrezzate, aroma cuoio ancora caldo, che vagano chiccose ed elitarie con nobili Avvocati a far da padrini (Malika Ayane) o rivalutano i magnifici Cinquanta/Sessanta come nel caso della milanese. Zilli riparte infatti dalla grande stagione del pop orchestrale nostrano e lo mescola a fiati Stax, incrinature raggae e ska, quadrature beat, con gusto melodico perfetto e voce che pur senza strafare fa comunque quel che vuole. Il tutto è nuovissimo per il cambriano sanremese, fin troppo incravattato e prevedibile quando invece si torna nella realtà. Certo, la ragazza ha stile ed il disco è piacevole, Il paradiso ad esempio concentra in una sola traccia tutto quanto detto fino ad ora ed è un bel sentire, più Caterina Caselli che Mina. Tuttavia un qualche azzardo in più avrebbe sicuramente giovato, soprattutto sulla lunghezza di dodici tracce con in più le ovvie featuring di Giuliano Palma e degli Smoke. La si vedrebbe bene prodotta dal Fossati in spleen Motown di Lampo viaggiatore, che magari le scrivesse anche qualche brano.(6/10) Luca Barachetti Nothing People - Soft Crash (S-S Records, Febbraio 2010) G enere : S pace G arage R ock Terzo album in poco meno di 3 anni per il trio californiano formato da misteriosi individui rispondenti ai nomi di Ør, Ød e Øs. Laddove il precedente Late Night insisteva su tonalità notturne e oniriche, Soft Crash recupera l'energia ruvida del primo Anonymous come già paventato nel recente singolo Enemy With An Invitation. Così, se non mancano i richiami alle più recenti dissertazioni narcotiche (Avoiding Needels, In The House), a farla da padrone sono le scariche elettriche di Is This What You Want e Wasting Our Time, e il glam rock grattugiato e accattivante di Marilyn's Grave; e ancora, le sfumature Chrome(atiche) della title-track e Friend Or Foe. Ma è la calibrata miscela di irruenza ed atmosfera il vero collante e punto di forza di un disco che guarda al passato per raccogliere i frutti del tempo e riscrivere la storia con parole nuove.(7.1/10) Andrea Napoli Oren Ambarchi/Keiji Haino/Jim O'Rourke - Tima Formosa (Black Truffle, Aprile 2010) G enere : impro , noise Tre campioni dell'improvvisazione si incontrano sul pal- co della Playhouse nel nipponico Kitakyushu Performing Arts Center, l'8 gennaio 2009. Ambarchi alla chitarra, O'Rourke al piano e Haino alla voce, flauto, drum machine ed elettronica. L'ora di improvvisazione parte con il solito drone di chitarra di Ambarchi (un misto tra Sunn O))) e musica tibetana) che dopo una decina di minuti viene interrotto dal falsetto di Haino. Da qui in poi si capisce chi è - per questa volta - il leader: le vocals del giapponese saranno infatti il filo conduttore dell'ora di improvvisazione. In partenza meditazione sacra di voci bianche (Tima Formosa 1), nel mezzo una breve discesa su toni basso-baritonali con la non sorprendente improvvisazione di O'Rourke al piano che invoca il fantasma di Tudor (Tima Formosa 2), in conclusione un maelstrom che riporta il disco sui binari del miglior avant-metal contemporaneo tagliato con l'elettronica di Merzbow (Tima Formosa 3). Obbligatorio per i fan dei tre artisti, consigliato a chi stravede per la pseudoavanguardia impolverata di Fennesz e per chi è in attesa del nuovo disco del combo di Stephen O'Malley (che ha peraltro curato l'artwork dell'album). Per gli altri merita sicuramente una passata.(6.9/10) Marco Braggion Paolo Saporiti - Alone (Universal, Gennaio 2010) G enere : cantautorato folk L'atmosfera è la stessa delle prime due uscite su Canebagnato Records: quella di un autunno in risveglio, attraversato dai primi lievi raggi di sole, con l'aria odorante di terra, malinconie e sofferenze. Ma le coloriture sono maggiori, ampliate dai complementi sensoriali di un Teho Teardo che cura produzione e arrangiamenti: dunque accanto al legno-corda della voce e della chitarra ecco oscurità di cello, rhodes e pianoforti gocciolanti, luccichii di glockenspiel, beat materici e soprattutto un quartetto d'archi a volteggiare setoso. Insomma l'apertura ideale per il folk classico di Paolo Saporiti - voce interiore e granulosa ma capace di innalzamenti ampi come landascapes - alla sua prima volta su major. Teardo non invade, piuttosto scontorna, e solo in un caso (il nervosismo di elettrica e costole elettroniche di Haven't you heard?) dimostra cosa sarebbe un disco firmato a due mani. Un po' come se Bonnie "Prince" Billy o il primo Devendra Banhart passassero dalle radici ai rami (l'apertura in quasi soundtrack di I could die alone) 69 e dai rami al cielo (le splendide ascensioni emozionali di A real love e Fever), così questi due insieme potrebbero fare grandi cose, magari non solo in inglese ma anche in italiano, vedasi in fondo una travolgente e più comunicativa Gelo. Che non si fermino qui.(7/10) Luca Barachetti Park Avenue - Time To (BKM Productions, Aprile 2009) G enere : B ritish pop rock Novaresi i Park Avenue, eppure Time To pare l'esordio di una band british sin nelle mutande. Non è ovviamente per il cantato, ma piuttosto per il coacervo di input sonori che da bravi mattoncini ammaestrati marchiano il disco da cima a a fondo. Leit Motiv di Time To è il gioco di chiaroscuri di un pop-rock che lascia emergere senza remore i punti di riferimento del caso: gli Stereophonics (invero gallesi) e i Supergrass. Ovvero, la mediazione perenne tra tradizione anglosassone altezza Kinks o Small Faces e la predisposizione a certo pop simil-trasversale di marca Stone Roses. E allora campo libero a chitarre grattugiate come da dettami neo wave, tappetini di synth non troppo invadenti, alternanza di possanza elettrica (South Road) e pacatezza acustica - Morphine o On August 15 (I'll Go), quest'ultima davvero riuscita e toccante - al servizio di hook melodici in bilico perenne tra il banale e il gustoso. Ognuno con i propri vezzi, specificità e contaminazioni, Kelley Jones e Gaz Coombes avevano però trovato la quadratura del cerchio per una manciata di dischi davvero buoni. Federico Marchetti Florio, Marcello Cravini,Vinicio Vinago e Alberto Piccolini invece, ne han metabolizzato ogni piccola sfumatura, ma la scrittura è ancora troppo calligrafica e poco personale per convincere davvero.(5/10) Giampaolo Cristofaro Peggy Sue - Fossils And Other Phantoms (Wichita Recordings, Aprile 2010) G enere : folk rock Si sono tolti i pirati dal nome e adesso sono soltanto Peggy Sue, questo trio di Brighton composto da due cantantesse-chitarriste-percussioniste più un batteristabanjoista. Ed è quindi un debutto per la nuova denominazione sociale il qui presente Fossils and Other Phantoms, titolo che cova mistero e balzane suggestioni adeguate al contenuto. La loro musica è infatti un folk rock perturbato blues teso ed eccentrico, inquieto e capriccioso, capace di stemperare con grazia e acume il furore laconico di Cat Power e le bizzarrie teatrali delle Cocorosie, riesumando a tratti certo lirismo arcaico 70 un po' Joanna Newsom e un po' PJ Harvey. Tutto ciò ferma restando l'aura british folk dei Sessanta-Settanta come sfondo su cui proiettare questi dodici ologrammi irrequieti. L'incedere ossessivo di Watchman, il passo lunatico e marziale di I Read It In The Paper, la trama fitta e onirica di Careless Talk Costs Lives e l'ectoplasma gospel di Green Grow The Rushes sono forse i momenti migliori di una scaletta senza sostanziali cali di tensione.(7.3/10) Stefano Solventi Radio Dept. - Clinging To A Scheme (Labrador, Aprile 2010) G enere : indie pop , lo - fi Dopo il fulmine a ciel sereno di Lesser Matters e il parziale aggiustamento di tiro di Pet Grief, arriva l'album che rappresenta la formalizzazione del Radio Dept. sound, nonché un'istantanea ben definita dell'indie pop targato Labrador all'alba del nuovo decennio. L'etichetta svedese, erede di una label di culto come la Sarah Records, si è ormai specializzata in una peculiare commistione fra melodie opalescenti, linearità elettroacustica e algidi suoni elettronici: traiettorie che Clinging To A Scheme recepisce in pieno. Certo, Lesser Matters rimarrà la pietra di paragone su cui misurare l'opera del combo svedese negli anni a venire. Loro lo sanno e cercano di accontentare i fan della prima ora con un paio di episodi che, guarda un po', suonano fra i migliori dell'album. In A Token Of A Gratitude, in particolare, si respirano i paesaggi boreali che ci avevano fatto innamorare dell'esordio, così come in Four Month In A Shade, pervasa da brume shoegaze e trafitta da pattern elettronici misurati e meno invasivi rispetto al recente passato. Il nuovo corso, piaccia o meno, sta nelle atmosfere soffuse di Domestic Scene, in cui il gruppo si appropria delle melodie uggiose di Felt e Field Mice (questi ultimi vengono omaggiati con una This Time Around in odore di plagio) e le adagia su un soffice tappeto di arpeggi e tastiere glaciali; oppure nella circolarità Heaven's On Fire, curioso ibrido fra austerità nordica e atmosfere esotiche. Inutile rimpiangere il passato: i Radio Dept. si dimostrano abili nel forgiare piccole gemme in bassa fedeltà, a suggerire mood malinconici e avvolgenti. Un'arte, la loro, che conquista poco a poco, basta prestare loro la necessaria attenzione.(6.7/10) Diego Ballani highlight Talibam/Peeesseye - Talibam Peeesseye (Invada, Aprile 2010) G enere : impro - noise Cosa succede quando due tra le formazioni più imprevedibili e inclassificabili dell'out-rock mondiale uniscono le forze? Ne esce un disco capolavoro che moltiplica le energie messe in campo e, di conseguenza, amplifica i risultati. Fuor di retorica è proprio ciò che accade in questo lungamente atteso omonimo, in cui Matt Mottel (synth) e Kevin Shea (batteria) da una parte e il trittico Chris Forsyth (chitarre), Jaime Fennelly (elettronica) e Fritz Welch (batteria) dall'altra, si sfidano a singolar tenzone. Non una novità per l'estemporaneo quintetto, non nuovo alla pratica collaborativa avendo spesso incrociato le armi con spiriti affini; nello stesso modo i cinque sono avvezzi alle pratiche dell'impro più o meno radicale di matrice jazzistica (e a proprio agio nel devastare dal di dentro gli stilemi del rock più storto e vagabondo). È perciò superfluo dire che l'improvvisazione sia la musa-guida della collaborazione, in quanto modalità in grado di mediare da un lato ed esaltare dall'altro sia il free-rock deforme dei secondi, sia quello free-jazz oriented dei primi. La sintassi rock - sotteso scheletro portante dell'intero album in quanto terreno d'incontro/scontro tra el due formazioni - è sottoposta a una furia devastante, selvaggia, irriverente e al limite dell'incontrollabile, che la frulla e la ricombina in continuazione, senza però mai abbandonarla sul soglio sacrificale dell'autoreferenzialità. Che si appoggi a dilatazione semikraute (l'iniziale You Tried (To Eat It)) con la sua cavalcata targata Faust) o a informi e ossianici rumorismi post-industrial (Everything To Everyone), a minimalismo disturbante da eco-pastorale noise (New Vitality In The Biomass) o a dilatatissime suite ritmico-espressioniste (Year Of The Moral Orgy), poco conta. È il senso del tutto a stabilire in maniera definitiva chi comanda il gioco in ambito impro-avant-rock.(7.8/10) Stefano Pifferi Rafter - Animal Feelings (Asthmatic Kitty Records, Aprile 2010) G enere : E lettro pop Nonostante ci sia sempre un po' troppo produttore dietro alla maschera del musicista, il buon Rafter questa volta le canzoni le raddrizza. Anzi, se non fosse per quei testi un po' idioti ci crederesti davvero che s'è messo a pensare a quello che farà da grande. Per esempio pop scritto maiuscolo, come lui stesso precisa -, tra pletore di synth, percussioni e strumenti veri che indagano uno stile alla volta, evitando quasi del tutto siparietti inutili e affidandosi finalmente a una produzione pulita, ruffiana ma intelligente. C'è spazio per il vocoder da piani alti virato Daft Punk nell'operner No Fucking Around e nel singolo Fruit, per arrangiamenti caraibici Vampire Weekend e per tanto funk bianchissimo condito da smalti r'n'b: in pratica, il meglio dell'avant traghettato pop stellestrisce, il portato indie traslato world, l'esotismo che in Timeless Form, Formless time mastica sofisticazioni à la Sea And Cake e ribalte Madagascar (quello della Pixar). Non mancano momenti cheesy (Never Gonna Die), uno houmor tipicamente americano da sempe parte integrante dei modi rafteriani e una certa giocosità che sfocia in un format divertito e divertente. Senza che la bravura diventi un peso ed evitando la chirurgia pedante. In una parola, uno spasso.(7.1/10) Edoardo Bridda Red Sparowes (The) - The Fear is Excruciating, But Therein Lies the Answer (Conspiracy Records, Marzo 2010) G enere : post post rock I Red Sparowes sono un quintetto losangelino giunto al terzo album. Fanno post rock strumentale riconducibile ai primi Mogwai ed Explosions In The Sky, ma ci fanno la grazia di declinarne l'accento verso territori brumosi Americana, senza disdegnare complicazioni gotiche a base di synth. Così facendo si salvano in corner, però a dire il vero neanche troppo e non certo fino in fondo. Resta quel senso di ricerca spasmodica dell'acme, l'accumulo degli elementi, la cottura a fuoco lento 71 dei materiali emotivi, la cura dei risvolti cinematici, tutte quelle forme e movenze insomma che avevano un senso - eccome se ce l'avevano - quando era in corso una profonda crisi di ripensamento rispetto ai cliché e persino alla "missione" del rock. Poi è successo quel che è successo, il riflusso, la simultaneità degli stili, l'accessibilità totale, la polverizzazione delle scene. E tutto quell'elucubrare sembrò d'improvviso perdere senso, forza, necessità. I Red Sparowes sono una buona band, capace di sfornare trame suggestive con bella padronanza. Ma oggi, anno 2010, trovo che ascoltarli sia un esercizio ozioso e a dire il vero un po' noioso.(5/10) Stefano Solventi Rhys Chatham - The Bern Project (Hinterzimmer Records, Gennaio 2010) G enere : neominimalism Di Rhys Chatham abbiamo ancora in mente la grandiosità di quattrocento chitarre che suonano insieme per un obiettivo neominimalista. Era A Crimson Grail For 400 Guitars, un progetto maestoso che ha creato subito abitudine, stilemi, che ha lasciato tracce indelebili. The Bern Project è un'altra cosa. Innanzitutto è il risultato di un incontro, di un aneddoto: Chatham che arriva nel 2008 a Berna per un concerto e lì incontra Mago Flueck, Julian Sartorius, Beat Unternährer, nonché Reto Mäder della Hinterzimmer Records. Quest'ultimo diventerà produttore del progetto, e la sua etichetta responsabile della pubblicazione. Gli altri tre, il primo bassista, il secondo batterista e il terzo trombonista, da musicisti "raccolti" daranno l'anno dopo la propria identità e i propri timbri (e, ai fini del copyright, anche la propria autorialità) a The Bern Project, altra opera di grande effetto, ma meno incompromissoria che nel passato. Il crescendo esaltante di War In Heaven (titolo esemplare) parla chiaro, proprio alla luce dei nuovi inserti. I tratti del neominimalismo Chatham-iano sono qui più euforici, più vicini ai suoni e alle norme del rock, ma non della no-wave, di cui davvero poco si sente nell'album. Siamo a un livello più concreto di ascoltabilità, riconoscimento di figure a cui ancorarsi. Stupisce poi la carezza free di Scrying In Smoke, dove la tromba di Rhys prevale sussurrando e misticheggiando sulla chitarra - ma senza dichiarare gerarchie, sia ben chiaro. Il bis è subito lì di presso, nell'incanto quasi ambientale di My Lady Of The Loire. 72 E c'è un ombrello che racchiude tutto questo, come i due episodi finali. Si chiama leggerezza. L'ultraoltranzista Rhys Chatham mette in scena le vie di fuga da se stesso, lasciando prendere il ruolo protagonista a qualcun altro, che aleggia in tutta l'opera e si materializza sul finale, prima nella micro-frammentazione impro alla Sinistri di Under The Petals Of The Rose, poi nell'eccitazione del pubblico, che sembra spronare il compositore su questa strada. Il quale si toglie la soddisfazione (affatto divertita) di auto-citarsi - ma evidentemente con buona dose di ironia - in Is There Life After Guitar Trio? Come meglio concludere una recensione di The Bern Project se non rispondendo di sì? è Rhys a dircelo.(7.2/10) Gaspare Caliri Rob Swift - The Architect (Ipecac Recordings, Febbraio 2010) G enere : turntabilism Basta poco perché un disco basato sull'abilità tecnica si trasformi in sfoggio onanismo: da questo punto di vista tra un autocompiaciuto virtuoso del Technics SL-1200 e l'invasato della sei corde alla Steve Vai non v'è alcuna differenza. Idem quando ha la meglio un approccio che saggiamente considera i "mezzi" per quello che concretamente sono. Accade in modo costante in questo nuovo lavoro di Rob Swift, esordio per Ipecac, la cui gestazione è iniziata diciotto mesi prima dell'uscita ufficiale: considerando la sua riconosciuta destrezza (testimoniata - tra numerosissime partecipazioni e onorificenze, apparizioni televisive e in festival jazz - nel 2009 dal DVD As The Technics Spin), Swift si appoggia a una robusta conoscenza della sostanza sonora e ne esce salvo. Frammentaria com'è tipico e giusto, questa mezz'ora abbondante spazia da fondali orchestrali (Mozart, Bach e Chopin nel background del ragazzo: ascoltare Spartacuts prima di inorridire) a goticismi, da sospensioni stridenti a visioni cinematiche unificate da groove plastici. Roba fina, anche se non si toccano i vertici del giovane DJ Shadow (referente dei passi d'impronta metropolitana) o di certe frange estreme della scena hip-hop. I tre "movimenti" di Lower Level e le due tracce arricchite dal rimare di Breez Evahflowin inducono a riascolti non di mera cortesia, essendo qualsiasi orpello ridotto al minimo se non assente. Fan ed esperti hanno di che apprezzare.(6.7/10) Giancarlo Turra Robyn Hitchcock - Propellor Time (Sartorial Records, Aprile 2010) G enere : songwriting Con Propellor Time Robyn Hitchcock riprende il di- scorso lasciato nel 2006 con Olè Tarantula, quando per la prima volta era stato affiancato dai Venus 3 (Peter Buck, Scott McCaughey e Bill Rieflin); infatti i pezzi che sarebbero diventati l'ultimo album sono stati messi da parte, in favore di un altro disco, Goodnight Oslo pubblicato l'anno scorso, composto di materiale successivo sempre con i Venus 3. La formazione si arricchisce in Propellor Time di ulteriori ospiti, come Johnny Marr, John Paul Jones, Nick Lowe e Chris Ballew (Presidents Of The United States Of America), confermando l'ex-Soft Boys ancora padrone di quel songwriting tra rock e psichedelia, psych e folk, ironia e malinconia che lo ha reso un capostipite di questo genere. Hitch realizza un disco compatto questa volta, degno seguito della "tarantola", che sancisce l'amalgama perfetto con i compagni di viaggio e soprattutto la tenuta della sua scrittura. Una vitalità ancora fresca e una prolificità invidiabile.(7.2/10) Teresa Greco Roedelius - The Diary Of The Unforgotten Selbstportrait VI (Bureau-b, Aprile 2010) G enere : krautrock La chiave di lettura per questa ennesima uscita dell'alchimista sta nel (sotto) titolo. Trattasi del sesto capitolo della serie "autoritratto", al cui interno Roedelius rispolvera in perfetta solitudine materiale lasciato nel cassetto: nel caso specifico, l'ora che qui scorre - tra gassose elevazioni d'elettronica campestre e un classicheggiante ristagnare di acustici tasti - proviene dal lustro '73 '78, dall'amato ritiro di Forst come dalla località austriaca di Blumau. Nastri, chissà, forse accantonati tra una sessione con Moebius e Rother, un'insalata con Brian Eno e un caffé lungo tutti assieme. Musica solo apparentemente immobile ma che, come sempre, nasconde l'indole inquieta tra le pieghe quando la esplicita. Dopo aver ritratto il futuro dell'occidente industriale che è divenuto questo presente, in lui aveva all'epoca prevalso l'essere umano. Riaffiorava così il pianista che stira i suoni come acquerelli e lo stesso fa con i sintetizzatori, cavando dal cilindro rifrazioni, brume e atmosfere stranianti allorché finge di rassicurare. E inscena per lo più pagine d'accademia punteggiate di qualche colpo d'ala, quantunque lontano dalla grandezza "vera" del suo educato Genio. Che è chiaramente da cercarsi altrove, tuttavia guai a sottovalutare l'artista quando dipinge se stesso.(6.8/10) Giancarlo Turra Sade - Soldier Of Love (Sony BMG Music Entertainment, Febbraio 2010) G enere : urban soul Dopo dieci anni ritorna la signora del soul britannico anni '80. E con lei ritorna il portamento regale, la capacità di smarcarsi con il solo sguardo e quel pop di qualità che da sempre si sposa con il successo di vendite (cinquanta milioni di dischi venduti o giù di lì). Over 50, è ancora bella come 20 anni fa. La nobiltà di una voce e di una dedizione. Sade Adu. Mezza inglese mezza nigeriana: il miscuglio che intriga e che appassiona. Il classico che si ripresenta oggi e che è senza tempo. Con un personaggio così eterno hai quasi paura a sentirle le prime note: passi in rassegna le tracce e ti ritrovi un singolo con il tamburo in marcetta quasi bbreak Soldier Of Love, la sviolinata puro soul di The Moon And The Sky, il lentone meditativo Morning Bird, i pezzi urban (Babyfather, Bring Me Home), le ballad cavallo di battaglia (The Safest Place, Long Hard Road, da panico gli archi e il sax di In Another Time) e t'accorgi che l'anima sopravvive al tempo senza effetti o superproduzioni, sopra agli arrangiamenti piacioni e alle strizzatine d'occhio alla top ten (che non mancano manco loro). Che donna, Sade.(7.2/10) Marco Braggion Samuel Katarro - The Halfduck Mystery (Angle Records, Aprile 2010) G enere : rock - psichedelia Le aspettative le creano le testate giornalistiche, i premi ricevuti, le manifestazioni a cui partecipi, i buoni riscontri che riesci ad ottenere dal pubblico. E ovviamente la musica. In questo senso Beach Party, esordio di Samuel Katarro, ha rappresentato un paio di anni fa un caso emblematico di convergenza inaspettata tra intellighenzia e gusti degli ascoltatori, originalità e urgenza creativa. Un disco di cui c'era evidentemente bisogno e al cui seguito si chiedeva di confermare le ottime premesse, oltre che di indicare quali direzioni avrebbe preso il Mariottipensiero fuori dall'incoscienza blues-psych-wave degli esordi. Il nuovo The Halfduck Mystery viene a patti con l'istituzione "rock" e palesa un debito non indifferente verso i Sixties americani più freak innervati dalla consueta componente lisergica. Preferendo alla creazione di un arche73 tipo personale folgorato sulla via di Robert Johnson un prêt-à-porter sornione e adatto alle grandi firme del giornalismo musicale. A nobilitare il tutto ci sono un lavoro di studio articolato, un pugno di validi collaboratori (tra i tanti l'inseparabile Wassilij Kropotkin e Enrico Gabrielli dei Mariposa) e una tendenza alla contaminazione generalizzata, nel tentativo di giustificare con un'opera ambiziosa l'attenzione capitalizzata in passato. Da qui, la routine. Nei Grateful Dead circensi - periodo Aoxomoxoa - di Pink Clouds Over The Semipapero, nel vaudeville deviante di The First Years Of Bobby Bunny , nei Love di Three Minutes In California, nel garage morbido di Pop Skull. I pezzi da novanta non mancano, ma sono giusto un paio: l'iniziale Rustling e la barocca 'S Hertogenbosch Blues Festival, guarda a caso gli unici episodi che si discostano dal tenore revivalista del disco. Entrambe sontuose suites psichedeliche sospese tra archi, jazz, Jennifer Gentle, Mercury Rev, folk orchestrale e capaci di far emerge prepotente il Katarro più visionario. In altre parole, il personalismo da ricercare a cui si faceva riferimento all'inizio. Il resto del disco si posiziona tra un dignitoso mestiere e qualche sprazzo brillante, finendo per meritarsi un sette che da un lato tradisce in parte le aspettative e dall'altro non rappresenta appieno le reali potenzialità di Samuel Katarro.(7/10) da Conan O'Brien a David Letterman, da Denzel Washington a David Byrne tutti la chiedevano e tutti la volevano. Ognuno a lodare esibizioni dal vivo - Coachella, Roskilde e WOMAD non possono sbagliarsi - che le cronache raccontano esaltanti. Belli i dischi, allora, ma le mura dello studio fallivano nel restituire appieno le potenzialità di Sharon e dei Dap-Kings, da par loro strumentisti in grado di far volare Al Green ed Amy Winehouse. Non qui, in un album prodotto dall'abile chef di casa Bosco Mann utilizzando un vecchio Ampex a otto tracce negli oramai mitici studi - nomen omen - House Of Soul. è un disco che respira e ricostruisce consapevole uno stile, questo, e mai revival fine a se stesso. Non si è al cospetto di effimere sciacquette, ma di gente che questa materia la maneggia da sempre, e sta lì la spiegazione di un'ugola matura e duttile, di un riassunto curato però viscerale della musica nera classica allestito tra un punteggiare di tasti e un incastro tra ottoni e archi, una ballata sofferta e un'accelerazione del passo. Dal sontuoso "Philly sound" The Game Gets Old che apre vellutato eppure fermo fino alla chiusura (Sam Cooke giovane e femmina ) Mama Don't Like My Man sfilano solo delizie che non temono polvere. Con I Learned The Hard Way, titolo autobiografico che sigilla il traguardo raggiunto, Miss Jones entra nell'alta società del vintage soul contemporaneo. Srotolate il tappeto rosso.(7.4/10) Fabrizio Zampighi M Ward e Zooey Deschanel, il songwriter e l'attrice, strana coppia davvero, ancora insieme per la seconda parte della loro collaborazione. Il primo Volume One (2008) aveva funzionato, con lei a scrivere quasi tutto il materiale e lui ad arrangiare e produrre quella mistura tra folk e pop di derivazione Sixties, con la voce cristallina dell'attrice a far da collante. In Volume Two viene riproposto lo schema consolidato di scrittura-arrangiamento, cover comprese (questa volta tocca a Ridin' In My Car - NRBQ e Gonna Get Along Without You Now - Skeeter Davis), con una maggiore consapevolezza e sicurezza di scrittura rispetto all'esordio: scintillanti pezzi revival rivisti all'oggi, una sorta di Isobel Campbell & Mark Lanegan, o Belle & Sebastian tout court, riecheggiando altre coppie famose del passato, come i gloriosi Nancy Sinatra e Lee Hazlewood o i Carpenters. I nomi obbligati sono gli stessi del primo album, Dusty Springfield piuttosto che Zombies e Ronettes; dalla sua la Deschanel - vista di recente in 500 giorni insie- Sharon Jones & The Dap-Kings - I Learned The Hard Way (Daptone Records, Aprile 2010) G enere : vintage soul Brillante crescendo quello di Sharon Jones, partita da un basso di palchi polverosi e platee sudaticce macinando black della più vibrante e convincendo pian piano critici e appassionati del globo con un tris di dischi. Tre anni dopo 100 Days, 100 Nights spetta alla carta numero quattro rivelare se la cinquantatreenne georgiana può infine calare il poker. Perché se di bluff non si è certo trattato sin qui, nondimeno ci pareva che mancasse la scintilla di Bettye LaVette e Candi Staton. E questo, si badi, in un contesto di solidità esecutiva e ricchezza dell'interpretazione encomiabili; nel disinvolto pescare da funk ed errebì, nel volgersi a Stax e Motown come solo col senno di poi è possibile. Frattanto la scalata era in pieno corso: dalla CNN a VH1, 74 Giancarlo Turra She And Him - Volume Two (Domino, Aprile 2010) G enere : songwriting me - ci mette personalità, freschezza e appeal, una Laura Veirs back to sixties. Il tutto si tiene ancora una volta e per essere qualcosina in più di un side-project funziona bene. Una riconferma.(7.1/10) Teresa Greco Sig - Freespeed Sonata (Makasound, Febbraio 2010) G enere : hip hop / jazz Il francese Sig ci gioca molto, sul look e i modi dell'artista vagabondo. Regista e fotografo, compositore e polistrumentista, i suoi dischi sono le colonne sonore delle sue pellicole (l'esordio, doppio, Louise (Take 2), 1998; Sansa, 2003, su cui suona nientemeno che Steve Lacy) e comunque mantengono sempre forte il legame con l'immaginario cinematografico, come dimostrano Free Cinematic Sessions (triplo cd, 2008) e questo ultimo Freespeed Sonata. L'album si propone pomposamente come la prima "hip hop sonata" della storia (ma sonata è uno dei termini più vaghi del vocabolario musicale) e come un poetico vagabondaggio attraverso la città addormentata (un concept? Una colonna sonora di un film immaginario?). In ogni caso, la formula non cambia di una virgola rispetto ai dischi precedenti: un melange tra jazz (a tratti anche free), hip hop (e trip hop) e classica (anche contemporanea), con inevitabili sfumature world, che unisce spartito e improvvisazione. Protagonisti il piano dello stesso Sig, la voce di Joy Frempong, ghanese trapiantata in Europa, e il sax di Christophe "Stalk" Turchi (effettivamente bravissimo nel colorare i pezzi e dare atmosfera, con sottolineature emozionali che pescano - ovviamente - da certi cliché delle colonne sonore). Figlio diretto di quell'estetica fusion/hop che negli anni Novanta aveva portato da una parte a cose come Jazzmatazz, dall'altra al trip hop, è un lavoro sicuramente ben fatto e ben impaginato, ma con molto di già sentito e soprattutto privo della giusta dose di intensità: ascoltando il disco si prova la stessa sensazione - artefazione, mancanza di qualcosa - che si prova guardando una foto in bianco e nero che sai essere stata scattata a colori. Datato, compiaciuto, leggermente soporifero (i momenti efficaci galleggiano in mezzo a sessantacinque minuti che sembrano molti di più) e conservatore.(6.1/10) Sightings - City Of Straw (Brah, Aprile 2010) G enere : industrial - nowave Non dall'inizio, ma dalla seconda traccia proviamo ad approcciare il nuovo album dei Sightings. Jabber Queens è un incubo analiticamente tutto interno a New York (DNA, su tutti), ma in qualche modo ecumenico. È pur vero che il disco è stato registrato a Brooklin, NY (la patria stessa della band), nello studio degli Oneida, e pubblicato dalla Brah Records, costola brooklin-iana di Jagjaguwar. E che in sostanza sentire suonare i Sightings vuol dire prestare orecchio a un suono in tutto e per tutto newyorkese. Ma, saranno gli anni che passano (e i dischi con essi, trattandosi del settimo della ragione sociale) e sarà l'equivalenza sempre più circostanziata e sempre più imitata del noise di marca NYC, si sente un tentativo di linearità, nel disco. Qualcosa che faccia il punto, e con ordine, seppure in un fracasso micidiale, as usual. Sono gli elementi che compongono il tutto di City Of Straw a farcelo dire: l'analisi, non la sintesi, e quindi lo smontaggio pezzo per pezzo. La voce - per iniziare - è un filo conduttore fin troppo continuo, un timbro che rischia di diventare discorso scontato, per la band. Un lamento impostato e costruito, un po' distaccato, nell'orrore che vuole esprimere. La cavalcata di Saccharine Traps ci mostra l'unica variante all'ugola monolitica di Mark Morgan, qui rimpiazzata da un declamatorio noise-core strindentissimo. Eppure questa stessa traccia mette in grandissima evidenza la centralità della chitarra, che a livello di riconoscibilità figurativa emerge in tutti i pezzi come appiglio quasi salvifico, timbricamente solido. Una certezza per l'ascoltatore, che tiene ancora la scena ancorata a sé, tracciando un lungo dilatatissimo solo, in We All Amplify, così come battendo continue staffilate sul tessuto industriale di Hush. La title-track è - ancora - un inceppo continuo tra una rhythm box rotta e una chitarra con aperture quasi cosmo-noise. Un incaponimento che alla fine (dopo nove minuti) convince, nel delirio di rumore bianco che ne germoglia, come una primavera malatissima. Eppure, nel tentativo di trovarsi uno spazio - peraltro brillantemente preso in affitto e abitato negli album precedenti, da Arrived In Gold a Through The Panama - nell'impero del noise / industrial della grande mela, i Sightings perdono mordente e acquistano in caricatura. Ma forse, semplicemente, dopo quasi tre anni ci aspettavamo qualcosa di più dal trio di Brooklin.(6.6/10) Gaspare Caliri Gabriele Marino 75 Sleep Whale - Houseboat (Western Vinyl, Novembre 2009) G enere : F olk Joel North (chitarra e cello) e Bruce Blay (macchinari e violino) un bel giorno sono partiti da Denton, Texas, e sono andati a vedere il mare. In quel periodo probabilmente lì da qualche parte nel Golfo del Messico nuotavano tranquille delle balene. Ne è venuta fuori una musica marina, a tratti proprio cetaceologica, un incantamento panistico che all'epopea di Melville preferisce il naturalismo di un Thoreau deciso ad imbarcarsi per scoprire la parte acquea del mondo. Ma sulla nave l'equipaggio è atipico: Bert Jansch e le sue prose acustiche, qualcuno dei Can, poi Steve Reich in persona, e ad occuparsi di sonar e aurore Sigur Ros, Mogwai e di passaggio per qualche giorno addirittura Fennesz. Fatta la somma pensate ad una base psych-folk di chitarre, archi e filamenti kraut dove crescendo e attitudini paesaggistiche entrambi tenuti leggermente a freno sono le vele della barca. Detto così pare un capolavoro, ed in effetti alcuni episodi che lasciano libero seppur solo a tratti qualche vagito tra l'ambient e lo sperimentalismo quasi lo sono (We were dripping, Still drumming). Sulla lunghezza di tredici tracce il discorso è però abbastanza ripetitivo ed arrivati in fondo si ha come l'impressione assai paradossale che gli Sleep Whale osino poco. Forse devono semplicemente riprovarci.(6.7/10) Luca Barachetti Songdog - A Life Eroding (One Little Indian, Marzo 2010) G enere : folk rock E sono cinque gli album per i Songdog, trio inglese da Blackwood con tanta America nel cuore. Meno lirici e visionari, se volete più dimessi rispetto a quelli del predecessore A Wretched Sinner's Song, gli undici pezzi di A Life Eroding si disimpegnano tra ballate soffici e indolenzite come potrebbe un John Mellencamp parecchio giù di corda (la title track, Shaman) o degli Okkervil River col cuore in ambasce (3:30 AM, oppure quella Obediah's Waltz al sapor di Tom Waits). La sobrietà delle composizioni è sorretta da arrangiamenti ben commisurati, elettricità, fiati, fisarmoniche, archi e quant'altro sono segni che colorano con garbo il mood delle varie situazioni: ascoltare per credere quei gioiellini di 1979 e I Got Drunk And I Wrote You A Poem. Si ripete 76 quindi il miracolo del folk (più o meno country), che forse non ha più nulla d'inedito da proporre ma nei casi migliori riesce a trovare comunque qualcosa di bello da dire. (7/10) Stefano Solventi Stereo Total - Baby Ouh! (Disko B, Marzo 2010) G enere : E lectro pop Chiamatela coerenza, se volete. La verità è che sono più di quindici anni che Françoise Cactus e Brezel Goring ci deliziano con la loro formula a base di trash pop, canzone d'autore, punk e attitudine cosmopolita. Nel frattempo, le mode sono cambiate e la formula che agli inizi dello scorso decennio sembrava la più cool in circolazione ha subito più imitazioni della Settimana Enigmistica. La progressiva normalizzazione, iniziata col pur valido Musique Automatique, aveva fatto sì che l'ultimo Paris Berlin procurasse qualche mal di pancia ai fan della prima ora, e Baby Ouh, l'ottavo album di inediti giocato anch'esso al ribasso, non sarà certo quello che riporterà indietro le lancette dell'orologio. Negli anni Françoise, da suadente chanteuse ha finito per assomigliare a quella gattara della mia vicina di casa, mentre Goring è sempre più il moscone da bar di bukowskiana memoria. Morale della favola: il punk è solo un ricordo di gioventù. I nuovi brani risultano tanto più convincenti quanto più volano bassi sui binari di un freschissimo easy listening e di un electropop danzereccio. In questa appiccicosa verve troviamo l'appeal immediato di Illegal (il guilty pleasure a cui difficilmente rinunceremo) e la cover di No Controles dei one hit wonder Flans (una cosetta dalla melodia infantile che canticchiavo a dodici anni e che ora, accidenti a loro, non riesco più a togliere dalla testa). Sul versante pilota automatico invece c'è sicuramente l'europop della title track, con tutto che quando tirano improvvise zampate (come nel caso dell'electro a 8-bit di Alaska o della frenesia da patchinko di Elles Te Bottent,Mes Bottes?), i nostri dimostrano d'essere vecchi leoni con le unghie ancora ben affilate.(6.5/10) Diego Ballani Thomas Dybdahl - Thomas Dybdahl (Last Suppa, Aprile 2010) G enere : C ountry - folk pop In attesa del quinto album di studio, è uscita già da un po' questa retrospettiva della carriera dello stimato exQuadraphonics in cerca di conferme internazionali dopo gli anni d'oro (quando non di platino) nella nativa Norvegia. In dieci anni circa di carriera, il nostro ha infatti messo insieme un songbook che potrebbe tranquillamente scavarsi una nicchia due passi più lontana dal pop rispetto ai conterranei Kings Of Convenience, o due più vicina rispetto al Jeff Buckley cui viene paragonato spesso (nemmeno a torto a sentire per es. Adelaide o A Lovestory). Con gli afieri del NAM condivide la sommessa delicatezza generale e i paragoni con Nick Drake, e può ricordarli sulle spazzole a treno di Cecilia o di Something Real, ma se ne distingue per uno spettro sonoro non altrettanto terso sia strumentalmente (vedi i tormenti-Cave di I need love baby, love, not trouble), sia per il pathos dei falsetti Jeff-iani, ma anche per un rapporto col pop che passa per gli USA di un certo folk bianco venato soul, come l'ottima apertura di From Grace e che sa anche far dialogare steel guitar e jazz in One day You'll Dance For Me New York City, sdraiarsi sui Pink Floyd altezza Meddle di If We Want It, It's Right e Rise In Shame o scrivere una Dice che sarebbe perfetta per Isobel Campbell. Lo scopo artistico di mostrare gli indubbi talenti dell'autore lo raggiunge, per quello commerciale vedremo. I numeri ci sarebbero.(7.1/10) lunghezze come i 7:10 minuti di A More Perfect Union, il loro nuovo manifesto). Vale quanto detto per The Airing Of Grievances, il disco d'esordio, ovvero un giudizio non senza riserve. I Titus Andronicus hanno fatto piazza pulita di tutto e si propongono con una coerenza estetica che, più che naif, questa volta sembra furba. L'unica condizione per non essere ridicoli è avere penna e cimentarsi con una determinazione da cavalli, cioè coi paraocchi. Questo sono i Titus Andronicus. E The Monitor è un album lungo, che si manifesta come tale, ma che tiene all'ascolto. A conti fatti, un altro pareggio tendente alla vittoria.(6.6/10) Gaspare Caliri Tre Allegri Ragazzi Morti Primitivi del futuro (La Tempesta Dischi, Marzo 2010) G enere : punk - reggae - dub Scorrono uno dopo l'altro i brani di Primitivi del futuro. Giulio Pasquali Con La ballata delle ossa che scalda i pneumatici mescolando Jamaica e vecchi TARM, in vista di una quarantina Titus Andronicus - The Monitor (XL, di minuti di tornanti tra reggae e dub come non ci si aspettava proprio.Tanto che inizialmente si cerca qualche Marzo 2010) rassicurazione nei brani a venire, almeno per giustificare G enere : irish - punk I Titus Andronicus puntano al sodo, anche per il so- la ragione sociale che campeggia in copertina. phomore. Recuperano la formula che inizialmente ave- E invece, niente. Inflessibile, disciplinata, stravolta nell'esteva dato loro visibilità, cioè la declinazione punkish delle tica e ben diretta dallo specialista Paolo Baldini (B.R. folk-songs tirate all'irlandese. E in The Monitor portano Stylers, Africa Unite, Dub Sync), la band di Pordenone la formula all'eccesso, cioè all'estremo protagonismo. Di mastica ritmi in levare e sputa tribalismi. Un'immersione certo questa è una scelta fatta per godere del favore che consapevole in un primitivismo musicale che vorrebbe si dà alle cose vere, a quelle senza troppi fronzoli, a quel- fare il paio con i testi "a tema" di Toffolo, questi ultimi in le che affrontano un discorso autentico e come tale lo bilico tra critica sociale (Prendi a calci il tuo padrone / non restituiscono - basti pensare che i testi imbastiscono un lo fai / parla dei tuoi desideri / non lo fai / metti a fuoco la nablando concept sulla guerra civile USA. I Titus Androni- zione / non lo fai / smettila di comperare / non lo fai / stacca cus hanno l'indubbia capacità di vendere una autenticità la televisione / non lo fai) e riferimenti alla natura (guardate pronto consumo che oggi non ha neanche più bisogno che sbagliate / se il grillo torna al campo anche voi ci guadagnate / hanno ammazzato i grilli /sterminato le formiche / dell'alone wavey per fare successo. Cavalcate alla Pogues che si animano di corse, sgolate esiliato talpe e topi ed impiccato me), riflessione (Il mondo punk, arpeggi che sanno d'arpa verde, toni anthemici, ri- è mio mi sembra / sarà che ho ventotto anni / e mi distraggo partenze nel più classico dei copioni, e diremmo anche ancora molto / perché figli non ne ho / ne ho avuto un tempo una innegabile conoscenza del mezzo espressivo (che in uno / me l'hanno sequestrato / parlar da solo in tribunale / queste vesti non è neanche così difficile da conoscere, questo è il mio reato) e impegno (La memoria che non è / ammettiamolo). A Pot In Which To Piss è una ballata rapida- quello che ricordi della storia passata / è qualcosa di più promente trasformata nell'ormai distintivo inno punkish. E, in fondo / che ha a che fare con la memoria del mondo). generale, i brani sforano la soglia del minutaggio punk (o Fine dell'amata adolescenza, fine degli Occhi bassi, fine dei folk) per diventare innesti di canzoni su canzoni, di inni fratellini che scoprono il rock'n'roll. Eppure, nonostante su inni, in atteggiamento quasi narrativo (e determinando una freddezza generalizzata sconosciuta ai ritmi giamai77 cani ma giustificabile chiamando in causa il DNA originale della band, c'è personalità. Anzi lo stile TARM emerge ancora più forte, a tener le redini di una virata stilistica riuscita proprio perché consapevole di rappresentare idealmente - e paradossalmente - un continuum con la produzione precedente.(7/10) Fabrizio Zampighi Unfolk - The Venetian Book Of The Dead (Diplo, Marzo 2010) G enere : avant - folk Dieci moderne protest songs e sei interludi strumentali avvolti in un packaging di una bellezza e ricercatezza unica con copertina cartonata e immagine presa dall'Ecce Homo di Delvaux. Si presenta così il comeback di uno dei progetti più oscuri e trasversali del panorama italiano. Unfolk, termine eterodosso che un paio d'anni addietro dava il nome al primo disco di Alessandro Monti e che ora, sulla scia di quel che successe con Carla Bozulich/Evangelista, si trasforma in moniker a sé stante. Quasi come una calamita, Unfolk attira a sé, oltre al succitato capopopolo, anche Kevin Hewick, misconosciuto artista del primo post-punk inglese e cantante dal pathos inimmaginabile, e una moltitudine di artisti e musicisti (Gigi Masin, Bebo Baldan, Riccardo De Zorzi, ecc.). Tuxedomoon e Current 93, experimental-folk sui generis e elettronica bislacca, free-prog canterburiano e wave coltissima, musica etimologicamente industriale e emotivamente ricercata. Genericamente, e in misure variabili e umorali, è ciò che si può rintracciare nel libro veneziano dei morti, sorta di Bardo Thodol della città lagunare. The Venetian Book Of Dead è infatti un concept che sotto le spoglie gentili di una musica elegante e raffinatissima, in alcuni tratti elegiaca come può essere quella di Mr. Tibet, trattiene una natura forte, pregna di odore di morte. Centrale nelle liriche è la denuncia sociale legata alle vicende del petrolchimico di Marghera: le malefatte di chi impunemente dirigeva quel luogo e il silenzio che ha accompagnato, vera e propria colonna sonora di un universo in disfacimento, le molte morti succedutesi in zona. Unfolk propone dunque un modo, ormai quasi dimenticato, di coniugare impegno civile e musica, mettendo la seconda al servizio del primo per poter oltre che dilettare anche risvegliare qualche coscienza assopita. Nello stesso tempo chi vorrà approfondire la storia dietro questo concept scoprirà che The Venetian è un sentito, 78 appassionato "tributo alla città, ai lavoratori e ai cittadini scomparsi e all'amato vinile".(7.5/10) Stefano Pifferi Unwinding Hours (The) - The Unwinding Hours (Chemikal Underground Records, Febbraio 2010) G enere : pop post - rock Knut è un pettinatissimo crescendo verso l'inevitabile deflagrazione (Mogwai? Sigur Rós? Fate voi). Poi una serie di ballate tra il pop orchestrale, una volta mood primi Elbow (Tightrope), un'altra con coralità eteree e melassa (Little one), e il bozzetto acustico con archi o senza (Solstisce) su cui si spande un'incursione rumoristica che definire inutile è carità (There are worse things than being alone). Nella seconda parte invece parziale cambio di registro: inquietudini e chiaroscuri Peter Gabriel in salsa indierock (Peaceful liquid shell: non manca un'altra mezza botta finale) o su profondità di basso (Child), albeggiamenti con rifrazioni di luce che rimangono un po' lì così a mezz'aria e una chiusura, The Final Hour, che inizia sussurrata e lontana e quindi esplode giusto un attimo prima che ci si addormenti. Diabete e noia con gli ex Aereogramme Craig B e Ian Cook, i quali ripartono esattamente da dove erano rimasti con il gruppo originario per fare una bella dozzina di passi indietro e sprofondare verso il baratro. Ok, sono fuori tempo massimo, ma non sarebbe niente se le canzoni fossero almeno decenti. Invece no, sembrano accanirsi apposta contro chi come il sottoscritto è costretto ad arrivare in fondo al disco almeno una volta. Chissà cosa avrò fatto di male per meritarmelo.(4.2/10) Luca Barachetti Up, Bustle And Out - Soliloquy (Echo Beach, Marzo 2010) G enere : W orld D ub Tornano dopo tre anni i bristoliani, campioncini e ormai storia (questo è infatti l'undicesimo album per il combo) di un sentire world che nei Novanta spopolava pure in casa Ninja. Da un po' di tempo quelle istanze di rivoluzione e combat non vanno più di moda, ma il produttore Rupert Mould e il DJ Clandestine Ein continuano lo stesso a pescare featuring dagli angoli più disparati del mondo: due membri dei Portishead (Jim Barr e Andy Hague), la percussionista argentina Eugenia Ledesma, la cantate turca Sevval Sam e altri personaggi del loro giro giusto. Il risultato viaggia tra melodie downtempo che ricordano i '90 della band di Beth Gibbons (Satie's Atelier) innestati di elementi turchi (Absent Crowds, Littered Dreams), ricordi arabi (bello il feat. di Amal Murkus in Sho Beto'l Alreh), reggae puro (Popcorn Delights), condimenti colombiani (Beach Combing) e altre spezie global. Un disco piacevole all'ascolto, senza troppe pretese. Gli UB&O continuano la loro contaminazione del suono bristoliano con amici e conoscenti: in barba alle tendenze, si conquistano a buon titolo la rispettabilità, dopo quasi un ventennio di onorata carriera.(6.7/10) Victor Démé - Deli (Naive, Aprile 2010) G enere : world Come fai a dare un seguito a un disco favoloso che ti ha proiettato dal Burkina Faso al successo, prima oltralpe e poi nel resto d'Europa? Dopo che ne hai vendute 40.000 copie in tempi di magra come questi, per di più proponendo un folk acustico che parte dal retaggio griot? Finisce che pubblico e critica si aspettano qualcosa di eclatante e il rischio è che rimangano delusi, per quanto di buono e magari ottimo tu possa proporre. L'impressione è che Victor, al momento di offrire queste quattordici composizioni, abbia voluto essere se stesso e basta: evoluzione Marco Braggion - sotto forma di arrangiamenti più elaborati - inclusa. Se vi interessa, c'è la generosità di una voce che spazia dalla gioia alla malinconia e una produzione arricchita Upsilon Acrux - Radian Futura senza snaturare l'insieme. Ascoltate il blues del Delta (Cuneiform, Marzo 2010) (Maa Gaafora) riallacciarsi per l'ennesima volta - non ci G enere : free - jazz - prog - rock In giro da dieci anni almeno a violentare jazz, prog e rock si stufa mai, però - a una delle sue origini, mentre la dicon propulsione -core, gli Upsilon Acrux non sembra- mensione raccolta dell'esordio giova di un accresciuto no perdere un colpo o cedere di un passo dalle proprie spessore strumentale (batteria e basso affatto invadenintransigenti posizioni. Radian Futura è il sesto album ti, corde acustiche ed elettrice ben intrecciate, violini al e reitera in maniera ancora più corposa il math-free-jazz- posto giusto) gestito dall'abile Sodi, produttore esperto prog-rock strumentale, insano e schizzato che ne è cifra già con Fela Kuti. Ne sortisce una tradizione affrontata caratteristica da quando, nel 1997, il fondatore e leader con l'autorevolezza del maestro (in Ibe Siran Munlea più che altrove) e azzeccate, benvenute deviazioni da essa Paul Lai battezzò la formazione. Molti riferimenti uguale nessun riferimento, si potrà a (come l'afro-funk - benedetto proprio dal sax di Femi ragione obiettare, ma la musica della band di San Die- Kuti - Wolo Baya Guéléma o il morbido soul Keeba Sekougo è realmente un miscuglio ondivago e in continua (ri) ma).Tutto semplice e spontaneo, con un artista autentico definizione/mutazione/fusione dei generi su elencati. nell'accezione più profonda.(7.1/10) Per chi non li conoscesse ancora, come vago riferimenGiancarlo Turra to si può suggerire un arco musical-temporale che da King Crimson, Henry Cow e Magma passando per Virginiana Miller - Il primo lunedì lo Zorn meno dispersivo arrivi fino a mostriciattoli per del mondo (Zahr, Marzo 2010) indie-kids come Ahleuchatistas, Hella, Orthrelm o G enere : pop - rock d ' autore a colti tentativi di rileggere l'indie in chiave sperimentale La vulgata sui Virginiana Miller li vuole songwriters come succede coi label-mates Cheer Accident. Tempi valorosi ma incompresi per troppo spessore musicale e dispari, slanci strumentali, strutture elaborate che sono soprattutto letterario. Non ci opponiamo, giacché segneinsieme delicati origami e massicce cattedrali di suoni, remmo Gelaterie sconsacrate e La verità sul tennis su cui si staglia l'imponente Transparent Seas (Radio Edit): tra gli episodi da avere in un'ideale discoteca dell'italico 28 minuti e passa di "tutto", in cui convivono passaggi rock d'autore degli ultimi quindici anni. Eppure Il primo ambient-jazz e assoli di batteria, interplay matericamente lunedì del mondo non ci convince del tutto, perché prog tra le due chitarre e le tastiere e cerebrali (de)co- cercando una legittima sterzata pop - non che prima i struzioni math, senza mai un secondo di noia. nostri fossero dei carpentieri, s'intenda - traballa a metà Musica cerebrale, quella di Upsilon Acrux, ma che nul- del passo pur arrivando saldo a terra. la ha di artefatto o di accademicamente freddo. Anzi, è I livornesi dal canto loro fanno tutto come deve essere l'(auto)ironia a farla da padrona in titoli-calembour come fatto: rotondità sparse ovunque a calmierare una tensioIn-A-Gadda-DeVito o pittoricamente canzonatori come ne Smiths-Luigi Tenco focale nel precedente Fuochi Landscape With Gun And Chandelier. Consigliatissimo a chi fatui d'artificio, innesti d'archi e fiati ad ingentilire o ama la follia su pentagramma.(7.2/10) inquietare melodie da sempre comode ed evocative, la Stefano Pifferi solita buona sostanza lirica nei testi di Simone Lenzi. A 79 mancare invece sono le canzoni, quelle presenti sparse tra alti senza picchi e bassi senza sfracelli che fatta la media stanno comunque sopra la norma. è che i Virginiana sono quelli di Tutti al mare, Altrove, La verità sul tennis, Uri Geller (chi ignora segni i titoli e scartabelli sul tubo) e qui mancano tracce capaci di simili traiettorie, anche se alcune ballad puntinate di rhodes (La risposta) o gravide di quello spirito pop tra il Franco Battiato anni ottanta (L'inferno sono gli altri) ed un imprevisto scheletro Police (Oggetto piccolo (a)) stanno giusto un passo indietro dai titoli citati prima. Ma noi i Virginiana li vorremmo sempre come quelli di Cruciverba o anche meglio: intellettuali in miscugli d'alto e basso, doloranti e ironici, alteri eppure così gustosamente pop(olari): «resto come 1. Orizzontale / che era stato appeso al chiodo fisso delle sue stesse parole/ quindi deposto dal cruciverba sul giornale quotidiano d'agosto».(6.7/10) Luca Barachetti We Have Band - WHB (Naive, Aprile 2010) G enere : E lectro pop Year Long Disaster - Black Magic: All Mysteries Revealed (Volcom Entertainment, Marzo 2010) G enere : H ard R ock revival La notizia è che il leader dei Year Long Disaster è il figlio di Ray Davies. Non rallegratevi, perché della magnifica capacità di scrittura del leader dei Kinks in Black Magic: All Mysteries Revealed non v'è traccia. Per tutta la scaletta si agitano stanchi e vetusti stilemi hard rock, conditi da piccole incursioni psichedeliche e massaggi cardiaci a canovacci grunge morti da un pezzo. I Led Zeppelin dei poveri, la caricatura degli Audioslave - e già lì c'era poco da stare allegri - e della magia sbandierata dal titolo manco l'ombra. Prescindbile.(4/10) Giampaolo Cristofaro Zeitkratzer - John Cage (Zeitkratzer Records, Marzo 2010) G enere : A vanguardia Zeitkratzer è più di un dubbio, più di un elemento, più di un collettivo o di una label. Zeitkratzer è comunque Reinhold Friedl, e meglio ancora Berlino. Zeitkratzer Apparentemente niente di nuovo, né nel percorso (hype è l'Europa, la presa della Badopo meno di una manciata di canzoni tra singoli e com- stiglia di un AMM contempilation, qualche remix, passaparola sui social network) poranea, il bisogno se non né nel genere (synth-pop anni '80 innervato dagli USA la necessità di un ensemble dei soliti Devo e Talking Heads e rinfrescato da qual- organizzabile sulle ceneri della vecchia Europa imche goccia di electroclash e TV On The Radio). Ma il trio mancuniano con base a Londra ha un suo modo provvisativa non-canonica. di accogliere le influenze, sciogliendole in un amalgama E poiché il contemporache tende a nascondere i sapori originali mediante un neo non ha nemmeno più il approccio all'insegna dell'obliquità: quella che li porta ad tempo di misurarsi col suo dissanguamento, poiché è più aprire un disco da dance-floor con i due "lenti" (i 3/4 anni veloce di un corto circuito e non lascia alcuna possibilità '50 di Piano e la riflessiva Buffet), quella di certe melodie, di pensarsi, avran pensato bene i tipi di Zeitkratzer di ma soprattutto quella che fa loro evitare i tratti più sput- ripensare, non si sa bene se per l'importanza del nome o tanati dei modelli, salvandoli così dalla caduta nel caldero- le soluzioni aleatorie, John Cage, che qui viene ripescato nel tardo periodo (mancavano 6 anni alla sua morte) ne della koiné p-funk anni '00 più manierata. I singoli, reali e potenziali, come detto ci sono, funzionano quando il filo tra indeterminazione e determinazione si e con quella scena condividono ovviamente parecchio, faceva non solo più impreciso ma gli permetteva di vivere tra malinconie Human League, vitalità B-52's e Kraf- su commissioni ed esercitare un grande influsso teorico twerk riciclati via LCD Soundsystem; ma c'è anche sul senso dell'esecuzione della partitura. altro, che se rischia ingiustamente di passare in secondo Tralasciando questi argomenti, che a noi poco interessapiano è proprio per la stratificazione equilibrata dell'amal- no, il punto è che se Zeitkratzer lo si può trovare più in gama messa a punto dalla produzione di Gareth Jones una discografia accanto ai Vibracathedral Orchestra (già con Depeche Mode e Interpol, per rimanere in o Omit più che accanto a Bach, sta nel fatto che l'aleaargomento), ottimo nell'assecondare il gruppo sia sul lato toria di Cage, strafiticata sul ricorso della non-musica e catchy che su quello più elaborato, ma soprattutto nel far del rumore catartico, confluisce qui dentro in una molto sì che, più per spessore e forza che per una cifra stilistica personale e deprecabile avventura da fine dei tempi. Da inconfondibile o particolarmente personale, il disco rie- qui, l'interesse all'ensamble di Friedl da parte di persone assai vicine alla fine del suono come Alva Noto, e da qui sca a spiccare all'interno del genere.(7.1/10) Giulio Pasquali il ricorso del collettivo a ricomposizioni merzbowiane e 80 musicisti rock dediti al rumore ed all'improvvisazione. Così le prime due traccie del disco si rincorrono su soluzioni di non continuità droniche dove i confini tra orchestrale e contemporaneo, visto il mescolamento, quasi si annullano; e l'ultima traccia, a dire il vero quella più interressante, più che richiamare il Cage ultimo, si squaderna tra elementi "rubati" dal Morton Feldman più astratto, e vanno avanti per mezz'ora riescendo a catturare l'ascolto, racchiudendolo in uno spazio quasi esistenzialista. Zeitkratzer è dunque un bivio ancora più di un dubbio: da un lato promettente collettivo di auto-continuazione dialogica di una tradizione europea fortemente dispersa ed impelagata per probabili finanziamenti statali, e dall'altro un collettivo le cui scelte stilistiche in nome degli scheletri celebri della composizione riesce ad infittire ed estendere l'asfissiante musica di ricerca persa da più di venti anni nell'accademismo forzato e senza sbocchi.(5.8/10) Salvatore Borrelli Zeitkratzer - James Tenney (Zeitkratzer Records, Marzo 2010) G enere : A vanguardia Zeitkratzer è come già detto, un dubbio, ancor prima di un collettivo. Zeitkratzer è ora James Tenney, sotto la serie Old School, come nel caso dell'altro tassello dedicato a John Cage. Old School sia chiaro, perché nelle intenzioni del collettivo capitanato da Reinhold Friedl, la causalità, cioé ciò che viene prima e ciò che viene dopo, ha un ruolo perlomeno decisivo nel fare di una serie, appunto la Old School, lo specchietto per le allodole in fieri di un nuovo suono. Un suono che passa da un collettivo sempre in movimento, il cui intento attuale è quello di rivitalizzare, o reinterpretare, con un gusto non si sa fino a che punto puro, l'essenza di quanto di buono c'è stato tra i compositori della vecchia guardia. E di farlo quasi alla stessa maniera dei migliaia di musicisti dronico-sinfonici in giro per il mondo. L'unica differenza è che qui c'è di mezzo la dizione "musica colta" che fa, in parole povere, l'unica differenza... (anche se si tratta di una differenza di pura forma). Bisognerebbe dare un taglio d'articolo non tanto ai suoni contenuti in ogni dischetto di Zeitkratzer, quanto agli intenti da repertorio ed alla necessità di reinterpretare degli autori certamente non-dissimili né unilaterali come Tenney e Cage per comprendere fino a che punto il gioco al ripescaggio sia adeguato e quanto in questo bisogno di contemporanizzare certi autori non vi sia che uno stanco quanto furbo richiamo alla monetizzazione o alla ricerca di crediti per festival internazionali spesso commissionati con cangianti risarcimenti. James Tenney è conosciuto per i suoi celebri crescendo e decrescendo per climax, picchi dinamici, spazializzazioni strumentali e la sua musica perlopiù potrebbe venir letta come l'immanenza stessa, la ricerca di una forma narrativa immanente basata sul bisogno di gravità o di sintesi di opposti bilanciamenti, spesso dettati dal circolo delle quinte, o da overtones strutturati su triadi in C. Quello che più fa pensare in questi casi è che autori come Tenney o Cage, avevano basato tutti gli sforzi sonori ed extra-sonori sul tentativo di fuoriuscire dal soffocante universo accademico con argomentazioni di natura extrasensoriale ed extrateorica contenuta in buon parte già nella loro musica, quantomeno disallineata dall'universo chiuso delle accademie. Stupisce che Zeitkratzer, sia nelle otto pagine di libretto, sia nella linea formale ed informale dei pezzi si ostini ad imprimere con un rigido sistema calligrafico dalla natura quasi ritorsiva. Più che sdoganamento sembra respingimento. Respingimento per una New School molto più pretenziosa, spocchiosa e sterile di quanto gli autori presi in considerazione non siano stati mai.(5.5/10) Salvatore Borrelli Zola Jesus - Stridulum EP (Sacred Bones, Marzo 2010) G enere : G oth P op Dopo il debutto The Spoils dell'anno scorso, Nika Danilova in arte Zola Jesus ritorna con un'uscita che solleverà gli scettici delle precedenti release. Accanto ad un sound ripulito (senza per questo risultare inefficace), i sei brani del mini mostrano il lato più cristallino della tenebra della ragazza del Midwest ora residente a NY. Night e I Can't Stand virano verso lidi radio-friendly quasi new age, mentre il resto gira intorno all'umbratilità della casa: Trust Me è una preghiera raccolta, Run Me Out una tensione struggente, e la conclusiva Manifest Destiny richiama i clamori industriali dei primi singoli. Senz'altro un disco di passaggio nella migliore delle accezioni.(7.2/10) Andrea Napoli 81 — libri — live report Fenomenologia di Battiato E nzo D i M auro (A uditorium E dizioni , 2010) C'è stato un tempo, ero giovane, molto giovane, nel quale anche io facevo parte di quella schiera umana definibile sotto il nome di “fans di Franco Battiato”. Che cosa differenzi un “fan di Franco Battiato” dal mero “ascoltatore di Franco Battiato”, magari anche appassionato, è presto detto. Religiosismi sincretici a parte (eh sì, ognuno ha i suoi scheletri nell'armadio: il mio tutt'oggi tiene l'Adelphi di Siddharta di Herman Hesse sotto il braccio), del cantautore siciliano l'ascoltatore semplicemente ascolta le canzoni, il fan invece si beve tutta d'un fiato qualsiasi cosa egli dica, senza freno. L'introduzione è necessaria per capire il senso di questo volumetto di Enzo Di Mauro, poeta, critico letterario, nonché speaker per tanti anni di Radio Popolare. Il quale traccia in una ventina di capitoletti una Fenomenologia di Battiato che lontana da qualsiasi intento meramente biografico o agiografico (le due solite direzioni di quasi tutti i volumi dedicati al Maestro usciti fino ad oggi) cerca invece di delineare con evidente lucidità e una buona dose di (serio) cazzeggio le molteplici espressioni del rapporto tra Battiato e l'esterno, pubblico e giornalisti in primis. Partendo dal presupposto che l'opera battiatiana si fonda sulla «sineciosi», una figura che «consente agli opposti di convivere e anzi ce ne rimanda, di questo sfrigolare, tutto il bagliore, la mattanza di senso, la disarmonia, l'incipit continuamente rinviato o negato», Di Mauro analizza in passaggi agili e densi (che rendono fondamentale una conoscenza almeno buona dell'argomento trattato) alcuni dei nuclei essenziali della poetica del cantautore, dalla spiritualità sincretica alla Sicilia, passando per lo stile di scrittura e lo sperimentalismo musicale. Quello che ne risulta è una dissertazione in grado di scovare attraverso una serie di intuizioni davvero feconde il significato (filosofico? Sociologico? Addirittura politico?) del nostro negli ultimi quindici anni di cultura e dunque di show-business italiano, con un piglio che a fronte di una certa impudicizia intellettuale (tale solo a causa di una critica sempre troppo bendisposta nei confronti del cantautore) non dimentica mai di illuminare la dialettica in qualche modo tragica tra l'artista e chi lo segue/venera. «Battiato è come una sentinella che, avendo dimenticato la parola d'ordine, alla fine è costretto a far entrare tutti» afferma ad un certo punto l'autore, ed è forse la sintesi più efficace – ma meno comprensibile se non si è letto il libro: e non a caso, bensì come stimolo, la inseriamo – di ciò che Battiato è riuscito ad attuare non del tutto volontariamente in oltre quarant'anni di carriera. Oltre al mini-saggio, un'introduzione di Claudio Chianura, un bel saggio fotografico di Roberto Masotti, un'intervista al cantautore risalente ai tempi de L'Imboscata, una biografia e una discografia completano il volume. Tutto materiale di contorno rispetto all'importanza del testo principale per farsi un'idea un po' meno incantata, ma non per questo negativa, su un personaggio capace di «portare la propria sconfitta sulla scena». Come quella volta, Brescia doveva essere, che a noi quattro o cinque fans in sua attesa terminato il check di un concerto ci salutò con due o tre frasi in tedesco. Nessuno capì nulla ovviamente, ma ci sembrò una specie di benedizione. Sì, proprio così, una benedizione. Anche se in realtà era un'evidente, bonaria, presa per in giro... Calibro 35 I Candelai, Palermo (20 Marzo) Per descrivere cosa sono e cosa fanno i Calibro 35, basta riportare il lancio «Italian jam band performing golden age soundtracks and original compositions». Aggiungi che sono davvero bravi e hai detto praticamente tutto. Gli ingredienti della miscela li conosciamo dai dischi, e ci piacciono assai, la curiosità per il concerto insomma è quella classica del test su palco, vedere se e come una proposta così particolare (leggi vintage funk-rock strumentale), soprattutto nel contesto dell'indie italiano, riesce a coinvolgere e fare atmosfera anche fuori dalle spire ovattate del ciddì. Gabrielli si dichiara febbricitante (e sono queste due delle tre parole che spiccica in tutta la serata), armeg- Gabriele Marino Josephine Foster Bronson, Ravenna (21 Marzo) © Davide Salvato Luca Barachetti 82 gia con tastiere, xilofono, sax e flauto traverso - spesso due strumenti alla volta - e si muove (ondeggia) come farebbe una corista degli anni Sessanta. Martellotta suona la chitarra senza plettro, pulitissimo, un paio di soli spacey eccezionali. Viene fuori lo spirito da jam band del progetto, esercitato su riff hard-funk, poliziottesco-style e ovviamente Morricone (si parte con Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto), con sfoghi praticamente prog. C'è anche qualcosa del Lupin III più ipercinetico. E nei bis fanno capolino anche altri riferimenti: super italo beat e anni Cinquanta tra Ventures e Shadows. Andiamo alle cose che non ci sono piaciute. I frammenti di dialoghi da film usati come intro per alcuni pezzi. L'interazione col pubblico, zero o quasi. Pubblico che invece interagisce alla grande: si finisce con uno spilungone che sale sul palgo inginocchiandosi davanti al batterista e poi si appolipa a Gabrielli chiedendo chissà quale pezzo (degli Afterhours?). Tiriamo le somme. I pezzi spaccano su disco come su palco, loro sono bravissimi e non si discute, padronanza, interplay e tutto. Ma manca la componente "evento" del concerto, il lato propriamente spettacolare, quel dippiù, o comunque quella differenza, uno scarto rispetto al disco. E il set viene impostato in maniera così serrata da sembrare più breve di quanto non sia in realtà. Diciamo, sei e mezzo. Calibro 35 L'ultima volta eravamo al Locomotiv Club di Bologna. Ai tempi si parlava di This Coming Gladness e per farlo, oltre alla Foster, c'erano sul palco a mescolare folk arcaico e inflessioni elettriche Alex Neilson e Victor Herrero. Un set efficace, dedicato a un pubblico estremamente “selezionato” e attento. Lo stesso che ritroviamo al Bronson – si e no sessanta persone sedute sulle comode poltroncine messe a disposizione dall'organizzazione – in religioso silenzio per tutta la durata del concerto. Anche perché questa volta non c'è nessuno ad ac83 compagnare Josephine – come prevede il copione del recente Graphic As A Star -, a parte un pianoforte verticale nero, uno sgabello e la solita chitarra classica: elementi che stabiliscono con largo anticipo i confini di un set che si rivelerà più una questione di sensazioni che un live dall'approccio convenzionale. Con una Foster solitaria e intransigente, lentissima e trasparente, impegnata a impacchettare le naturali fioriture di una voce eterea su qualche accordo abbozzato. L'effetto è curioso, dalle parti di un intimismo domestico che evita i contatti esterni con la variabile “pubblico pagante” preferendo un'autoghettizzazione volontaria. In un luogo fuori dall'ufficialità dell'evento in cui non ci si cura delle imperfezioni e ci si affida esclusivamente a una vocalità estemporanea, catartica, ingovernabile, distante. L'espressione assorta dipinta sul viso dell'artista americana la dice lunga sullo scarto quasi incolmabile che c'è tra chi suona e chi ascolta, tanto che fatichiamo non poco ad andare oltre la semplice ammirazione per il canto virtuoso. Coadiuvati da un impianto strumentale ridotto all'osso che fa un pò rimpiangere l'obliquità strumentale del passato recente. Fabrizio Zampighi Iosonouncane Arterìa, Bologna (12 Marzo) Stando a quanto si dice dalle parti della Trovarobato – l'etichetta che dovrebbe occuparsi della pubblicazione del disco -, per l'esordio ufficiale ci sarà da attendere almeno fino a fine anno. Intanto, però, Jacopo Incani aka Iosonouncane continua a far parlare di sé girando l'Italia con un live-set incentrato sull' EP – anzi, sul pacchetto tematico – che trovate in download gratuito sul My Space dell'artista. Poco male, verrebbe da dire. Anche perché nel caso del musicista sardo più che in altri, il disco e il concerto rimangono due entità separate. Al primo il compito di definire le linee guida di suoni e contenuti stabilendo punti fermi da cui partire e a cui fare riferimento in un live che è anche improvvisazione; al secondo la responsabilità di far passare quella che è forse la parte più importante del progetto, ovvero un Teatro Canzone sotto psicofarmaci, provocatorio, frammentario, situazionista, anarchico. Accostarsi a un concerto di Iosonouncane con la leggerezza di chi cerca un semplice svago, non ha alcun senso. è necessario mettersi in gioco, sottostare all'attrito naturale che si sviluppa tra musicista e spettatore, accettare di vedersi sbattuta in faccia la pochezza della nostra quotidianità accendendo un minimo di pensiero critico. Un magma di illusioni scoperchiato da un tripudio di lo-fi esistenziale e limiti tecnici auto-imposti, 84 violenza uditiva e ingorghi verbali, intensità catartica e antagonismo. Jacopo Incani ci ricorda che siamo tutti polli di allevamento - lui per primo, dipendente di un call center – e lo fa con un sarcasmo che non promette alcuna assoluzione. Magari non indovinando sempre i tempi giusti per i monologhi o cedendo in qualche caso a una certa retorica - stiamo comunque parlando di un musicista agli esordi -, ma sempre con l'obiettivo di scuotere e far riflettere grazie a un peso specifico che evita i luoghi comuni da anni zero. Un pugno di brani che parla delle facezie e dei successi di una società fallimentare: la nostra. Con la barrettiana Il sesto Stato una spanna sopra a tutto il resto e una Macarena su Roma che vedremmo bene come epitaffio per Buona Domenica. Tenetelo d'occhio. Fabrizio Zampighi Adam Green Covo, Bologna (27 Febbraio) Di blasonati cantautori indie americani ritrovatisi con quattro gatti ne abbiamo piene le agende e da questo Covo targato Adam Green non ci si aspettava niente di speciale. A scattare, piuttosto, erano i ragionamenti più bislacchi. Valori reali dati dalla differenza tra i voti ricevuti sulle riviste e il numero degli astanti: quale sarà l'anello mancante tra il successo e un disco di successo o tra il sold-out da spinta mediatica e la fede di un pubblico di profilati intenditori? Pensiamo che a un Adam Green, a cui non manca nulla, inevitabilmente mancherà il pienone. E sarà colpa di Facebook, dei promoter, dei blogger e dell’Italia. Ce la si prende comoda, dato che siamo lontani dai "bulironi" di New York dove il ragazzo miete puntualmente applausi e successo grazie a presenza, stile, canzoni e un certa dose di faccia tosta. Pure con quell’ultimo lavoro che lo consacra come uno di quei cantautori da punti di partenza: Lou Reed, la Blank Generation, il glam, Elvis Presley, l’Iggy Pop francese e, perché no, la stessa Grande Mela. Tutte carte nel mazzo di un quasi trentenne che con Minor Love le canzoni se le firma nome e cognome, e sarebbe come minimo giusto che il pubblico a capirlo ci arrivasse da solo, senza filtri né etere. All’arrivo nel cortile del locale il cancello è chiuso. Sold Out. Il bambolotto americano ha chiuso le porte del locale che non sono neppure le undici e la gente fuori è nervosa come ai grandi eventi. Dentro, nella scatola nera, Adam pulsa, scalpita e in un mix di droghe ed adrenalina è pronto a inondare di sorrisi un posto ben più adatto a truci figuri come El Guapo e Xiu Xiu. Ed è forse davvero la prima volta che vediamo un artista indie, spacciatosi come folk-rocker, atteggiarsi a consumata rockstar e vivere una parodia con così tanto successo. Altro che i dischi. Adam è un tracotante e incontenibile spaccone. Un Ben Stiller terra terra con la voglia di fare casino e soprattutto di andare oltre; di partire dalla rockstar finta e dall’orchestrina da avanspettacolo (che è la band) per arrivare allo show irresistibile che mescola la commedia e il rock, il trash show televisivo e il concerto. Quattro ragazzi che traducono le canzoni originali in pantomime e Green a "crooneggiarci" sopra con quel vocione che mette tutti d’accordo. Pure quando glielo leggi in faccia che di fare il canzoniere proprio non ne ha voglia. Due brani con la chitarra a tracolla, di cui uno lasciato a metà. Un concerto fatto di stage diving che manco i Jesus Lizard, inarrestabile delirio ormonale concluso con una plateale fuga dal palco. In mezzo, un duetto con una ragazza chiamata sul palco giusto per limonare e, a concerto finito, un continuo saliscendi dalla scala del backstage dove ad ogni picchiata piovono altre pominciate a compiacenti groupie noncuranti del sudore colato copioso sul chiodo. Anche il pubblico, eccitato da tanta passione, non si risparmia: brani a memoria e cori di refrains, manco fosse l'ultimo dei dinosauri del rock. E per fortuna che l’ultimo album parlava del fallimento del suo matrimonio. Rock'n'roll. Edoardo Bridda Pontiak, White Hills Bronson, Ravenna (01 Marzo) rispettate ma ci si dimentica di inserirle in una progettualità seria. Per intenderci, quella che nei Black Angels inventa una successione di spaccati lerci ma credibili, nei Dead Meadow raschia il fondo del barile dei Black Sabbath più onirici, nei Pontiak genera fraseggi granitici e inossidabili. Spogliati dai marchingegni illusori dello studio di registrazione, i White Hills si rivelano per quello che sono: un corto circuito lancinante da due accordi a brano lontano dalla sperimentazione e invischiato in un suono che è reiterazione e accatastamento. E che accontenta giusto quel "rocker" col giubbotto di pelle nera e gli stivali che ognuno di noi nasconde segretamente in cuor suo. Il confronto con i Pontiak è impietoso. Dove i newyorkesi sono autoreferenzialità e sovrastruttura il terzetto Carney è interplay, affilatura, pulizia, capacità di offrire all'hard psichedelico una chiave di lettura personale e riconoscibile. Nessuna concessione alla teatralità, nessun vezzo estetico, per un immaginario lisergico che sta tutto in quei tre biondini stempiati e barbuti piegati sui loro strumenti. Del resto se un brano come Laywayed posto a chiusura dei tempi regolamentari ci sconvolge anche dopo un anno di ascolti ci sarà pure un motivo; se l'ultimo Sea Voids rientra ancora nella nostra playlist a tre mesi dall'uscita qualcosa vorrà poi dire. Reinterpretare non è inventare, è vero, ma i Pontiak convincono comunque grazie a un'essenzialità che vive per la sostanza, in un live set impeccabile. Nonostante l'ora scarsa di concerto e nonostante un Bronson del lunedì sera con un tasso di presenze ai minimi storici. Fabrizio Zampighi Hippie fuori tempo massimo lui, col viso dipinto, la camicia a fiori e un paio di pantaloni rosso fuoco; femme fatale lei, con tanto di seconda pelle in latex da maiden dell'heavy metal, stivali viola e lustrini in stile Kiss. Se il rock fosse soltanto una questione di forma, al basso di Ego Sensation e alla chitarra elettrica di Dave W. andrebbe tutta la nostra ammirazione. E invece solo forma non è. Tanto più se ti chiami White Hills, sei una delle formazioni più chiacchierate del momento e te ne esci con una psichedelia hard che invece di trasformarsi in un trip con tutti i crismi - come promesso dall'ultimo, omonimo, album - rimane a tergiversare sulla porta di casa. C'è una batteria possente e animalesca a nobilitare un prodotto altrimenti stereotipato – su disco se ne occupa Kid Millions degli Oneida – e questo è tutto. Nonostante un suono magmatico ai limiti del dolore fisico, un pulsare indistinto di feedback e i soliti wah wah affamati di pose rock'n'roll. Le ultime direttive in fatto di musica acida vengono 85 Gimme Some Inches #4 Stavolta affondiamo gli ascolti nel mondo dello split. Protagonisti in ordine sparso Blessure Grave e On Fillmore, Cold Cave e Satantango, Above The Tree e molti altri ancora. Siore e siori, stavolta a Gimme Some Inches è il mese dello split. Pratica comune da sempre per i formati vinilici, quella di dividersi a metà incombenze e lati di uno stesso supporto fonografico è stata poi traslata a cassette e formati digitali, senza grossi traumi né impacci. In questi ultimi anni, però, la scelta del vinile ha vissuto una seconda giovinezza, spesso e volentieri prediligendo i formati grandi, tanto che esperienze fondamentali per la diffusione del rock in Italia come la Wallace ne hanno fatto personale cavallo di battaglia. Ci riferiamo alla serie che prende il nome dall’interazione con SoundMetak, negozio di strumenti ma anche laboratorio/spazio performativo gestito da Xabier Iriondo: la PhonoMetak Series, 10” con identica cover e splittati tra realtà avantimpro nazionali e non, dopo aver visto transitare sotto il suo vessillo Ovo e Sinistri, Damo Suzuki e 86 Talibam!, Jealousy Party e Zu, aggiunge una nuova perla. Nel vol. 7 è la volta degli On Fillmore, il duo basso batteria formato da Glenn Kotche (già con Wilco e Loose Fur) e Darin Gray (Dazzling Killmen) e già utilizzato da Jim O’ Rourke come sezione ritmica. I due propongono una lunga suite (Fever Dream) che parte da una sorta di blues disidratato alla Bachi Da Pietra per poi ripiegare su panorami jazz-post-rock alieni. Notturni, allucinati e stimolanti. Dall’altro lato si va di impro-jazz con l’estemporaneo trio capeggiato da Massimo Zu Pupillo e i nippos Yoshigaki Yasuhiro e Uchihashi Kazuhisa: è la chitarra sharrockiana di quest’ultimo a tirare le fila di un suono teso, vibrante e, verso la fine del lungo pezzo, decisamente esagitato. I panorami dell’impro non conoscono confini geografici, né tanto meno soste. Gli altri due split italici che girano questo mese qui a Gimme Some Inches sono invece in formato vinilico grande e coinvolgono esperienze giovani ma agguerrite dello stivale. Il primo vede protago- nisti Musica Da Cucina e Above The Tree, al secolo Matteo Bernacchia, disposti a scontrarsi partendo da prospettive a dir poco diversissime: blues catacombale in modalità fingerpicking post-faheyiana per il secondo (splendidamente emotiva l’opener Blues2) e concretezza domestica con una certa predilezione per dilatazioni quasi ambient, per il primo. Egregiamente registrato nelle stanze del castello medievale di Itri (Latina), testimonia la bontà dei progetti e, insieme, la vitalità musicale del basso Lazio. Il secondo 12” invece gioca sull’asse lombardo-marchigiano e mette uno di fronte all’altro il blues deforme dei Satantango e il rock lercio e marcio di Jesus Franco & The Drogas. Tre pezzi per uno più due live in cui i gruppi si fondono nel supergruppo Jesus Tango & The Satan Drogas per dimostrare che il rock più viscerale e malsano ha ancora adepti e grandi esecutori nello stivale. I pezzi in proprio nulla aggiungono al già noto, ma quelli in joint-venture forniscono un ottimo scarto: sul lato A, Crazy Baby (cover dei misconosciuti Steel Tips) con la voce roca e invasata di Massimo Audia (chitarra di Satantango) e sull’altro, Motel Sex, col duetto orgiastico tra i frontmen Refo e Anna Poiani, mostrano ottime prospettive per eventuali dischi lunghi in formazione aperta. Entrambi vedono la luce per un wild bunch di etichette nostrane come Brigadisco, Musica Per Organi Caldi, Bloody Sound Fucktory,Valvolare e altre ancora. Infine, targato Sturmundrugs è invece un cd-r splittato tra il padrone di casa Donato Epiro, nel giro Maisie e reduce da una ottima performance in solo al Kraak festival, e i due berlinesi d’adozione Alberorovesciato. Questi ultimi ripropongono il loro estenuante tour de force tribal-percussivo-concreto in Catapultati Dalle Montagne, Spigoli Di Pietra Nelle Costole, suite che mette a dura prova l’ascoltatore col suo sciamanico procedere; Donato Epiro invece, dopo il bellissimo Sounding The Sun su Stunned, non si discosta dall’ambientazione neo-pagana dei compagni di split e risponde col paesaggio sonoro fluttuante tra psych ossianica e primitivismo abrasivo di La Guerra Dei Fiori. Muovendoci fuori dai patri confini verso il nord Europa, questo mese ci imbattiamo in una serie di succose uscite del famigerato giro Utmarken. In primis, dopo un paio di cassette, i giovani Lust For Youth debuttano ora su Release The Bats con un 7 pollici split con Blessure Grave. Il duo di San Diego continua la sua rilettura dei classici del punk più oscuro: dopo Human Eye dei Cramps sul lato B del singolo uscito per Holidays, è la volta di Skulls dei Misfits, rallentata e narcotizzata a dovere. Gli svedesi dalla loro rilasciano Another Night, un piccolo sunto a base di synth liquidi, riverberi industriali e moribonde melodie simil-pop. Sempre Lust For Youth usciranno a breve su Sound Holes con una tape condivisa con Street Drinkers (Viktor degli Ättestupa) che si preannuncia molto gustosa, se vi è chiaro che qua i canoni di bellezza sono esattamente ribaltati. Ancora, proprio quest’ultimo ha da pochissimo licenziato una cassetta, questa volta in solo, per Goaty Tapes in cui propone il suo materiale più strutturato ad oggi e che farà la gioia dei fan degli Ättestupa: nenie litur- giche, lamenti funebri e traballanti preghiere agli dei della notte. Rimanendo in ambito di collaborazioni estreme, ma spostandoci al di là dell’Atlantico, va segnalata la stampa in vinile per Hospital di Stars Explode, collaborazione niente meno che tra Cold Cave e Prurient, precedentemente uscita solo su nastro, come quella di The History Of Aids, l’album del progetto solista di Dominick Fernow targato 2002. Ancora una volta, il sottobosco di questi atti è sempre più agitato. Stefano Pifferi Andrea Napoli 87 Re-Boot F lussi #3 e riflussi Il domani è dietro le spalle, è più raccolto che ricerca, è un flusso di riflussi che tentano di coniugarsi al futuro e a volte ci riescono. Che dire, siamo un popolo che fatica a chiudere i conti col passato, troppe parentesi lasciate aperte, dimenticate, disperse. Qualcuna magari avremmo potuto evitarcela con la convinzione messa in gioco dagli Zidima nel loro Cobardes (7.2/10).Ad esempio, la sentenza sulla scuola Diaz, che qui diventa un tesissimo atto d'accusa noise tra Marlene Kuntz e Massimo Volume spronati hardcore (“possa il carnefice / strapparvi il cuore e poi mostrarmelo / perché il mio niente ora difende solamente / ciò che meritate: l'odio”). Di rabbia ne hanno un sacco, questi quattro milanesi: rabbia vitale e inferocita come il personaggio nella Giara di Pirandello che fa da moniker, e di compattezza nervosa e lirica pronta a sbottare. Sono inevitabilmente anni novanta, ma ci mettono passione e verità come pochi. Bravi davvero. A proposito di bravura, ma a sproposito di rabbia: parlare bene oggi di un disco di indietronica, 88 Un mese di ascolti emergenti italiani sbilanciata glitch e aspersa di astrazioni folk, può sembrare un esercizio di mera e cocciuta ucrònia. Nel caso di The Winter Season (7.0/10) del padovano Marcello Spolverato AKA Errnois, ce lo concediamo volentieri, perché è un disco che si fa carico eccome dei modelli noti - da Autechre a Dntel passando per Mùm e Boards Of Canada - ma tiene al centro un'idea estetica propria, impressionista e puntigliosa, zeppa di trovate mai fini a se stesse. Un quasi capolavoro uscito con quei 7-8 anni di ritardo. Senso di differita anche per i Lisagenetica da Cuneo, che hanno il non trascurabile pregio di rappresentare un'insolita via di mezzo tra rock anni Novanta in chiave noise e una verve cantautorale che ricorda Ivan Graziani. Melodia e rumore, costruita su un citazionismo Afterhours periodo Non è per sempre (Irreversibile) e pop acustico leggero (Strega), Radiohead prima maniera (Croce) e vaghi richiami dEUS (La tua creatura). Nonostante un approccio tutto sommato convenzionale, i brani di Ex vuoto (Latlantide, 6.9/10) funzionano alla grande, evitando con stile le clas- siche ingenuità da prima prova discografica sulla lunga distanza. Non ingenuità ma calcolo fin dal moniker vagamente poliziottesco per i FilmDaFuga, il cui Calippo Generation (6.8/10) promette fin dal titolo strali al curaro invero un po' spuntati. Friulani, giovanissimi, imbastiscono un funk-pop assai gustoso e perfetto per prepararsi al caldo. Deglitterano Prince, si ricordano di George Clinton, ma soprattutto innestano chitarre, synth e fiati su un'attitudine che è di base melodica assai italiana e spleen piuttosto spensierato (In bici). Vista anche la provenienza, che siano gli eredi dei Carnifull Trio? Staremo a vedere, in particolare l'evoluzione della voce oggi un po' acerba. Quanto a discendenza, deve più di qualcosa al cantautorato rock di Cristina Donà la proposta dei La Materia Strana, trio fiorentino al debutto con l'ep Raptus (6.6/10). Però non fai fatica a scorgere barbagli di qualcos'altro, da un lato frenesie soniche che forse pescano qualcosa tra gli archetipi della gloriosa wave toscana, dall'altro malìe melodiche che guardano al canzonettismo "alto" dei sessanta e settanta, conditi con sovrapposizioni vocali e acuti quasi Matia Bazar. Solo un gustoso antipasto, immagino. Pasto completo invece per i Captain Mantell, a base di frequentazioni elettro-rock ostaggio di synth anni Ottanta tipo quello con cui trafficano formazioni quali Wora Wora Washington. Tra citazioni Daft Punk (A Little Shit) e new wave lancinante (As The Night Decides), post-punk meccanizzato (My Radar) e certi Depeche Mode in salsa Primal Scream (Turn Your Head Around), la band veneta confeziona questo Rest In Space (Irma, 6.9/10) - secondo disco ufficiale - tarato sulle lunghezze di una coolness da dancefloor. Con un occhio al punk e uno a un mercato estero pronto a fagocitare produzioni sul genere. A questo punto però ci chiediamo: cosa ci fa Ivano Fossati in un giardinetto glitch? Tale è l'effetto della traccia d'apertura di E intanto fuori piove EP (6.7/10), seconda prova del duo romano Bon.not. Poi le coordinate si spampanano, la barra del cantautorale piega verso lidi diversi, come la narcosi quasi CSI di Tra i denti o il De Gregori contagiato Offlaga Disco Pax di Dal fango, mentre ne L'indifferenza scorgi echi - addirittura - Radiohead. Tutto ciò ferme restando le grinze sintetiche che un po' straniano e un po' unificano la proposta, cui manca forse un po' di mordente tra le parti, ma intanto è già capace di considerevoli suggestioni. Che sono il pane ed il companatico dei Démodé, il cui mood da orchestrina fuori tempo massimo malcela uno spirito miscelatore che tutto ingoia e rigetta a mo' di strumentale succulento. In Démodé EP (7.0/10) prendono jazz, colta contemporanea, klezmer e tango, tutto a spizzichi, e lo accordano ad un'anima che viene fuori cinematica con perfetti rallentamenti drammatici (Il Teatro dei gatti) se proprio non si pone l'obiettivo di accompagnare, ma per rapirci con violino tagliente alla gola (Tango). Difficile definire le possibilità di espansione di una proposta del genere, però attenzione: questi sanno suonare e, seppur su traiettorie del tutto diverse, i Calibro 35 potrebbero aver insegnato qualcosa. Il cerchio si chiude con i Le Mal D'archive, almeno a giudicare da una formula un po' confusionaria che vorrebbe mettere sullo stesso piano cantautorato e sperimentazione elettronica minimalista. Premesso che il gruppo avrebbe bisogno di un produttore serio e forse anche di una chiarezza progettuale maggiore, resta il fatto che quanto si ascolta nel demo La Chanson De Mai (6.2/10) non dispiace affatto, per una sensibilità che riesce a unire, senza forzare la mano, la musicalità del francese e certe atmosfere ombrose d'oltralpe. A rileggerci il mese prossimo. Fabrizio Zampighi Stefano Solventi Luca Barachetti 89 Rearview Mirror —ristampe highlight Jawbox - For Your Own Special Sweetheart (De Soto, Aprile 2010) G enere : post hc AA.VV. - Brazilian Guitars Fuzz Bananas (World Psychedelic Funk Classics, Marzo 2010) G enere : tropical psych Non si presta mai sufficiente attenzione a quanto e come fosse diffuso, negli anni Sessanta, il fenomeno psichedelia. Che fu sul serio globale come un'epidemia - positiva per cultura e costume, però - e vieppiù stupisce come ciò accadde senza che vi fossero dei media onnipresenti come li intendiamo oggi. Dall'Est Europa al Sudamerica e l'Asia non mancarono emuli dei pionieri del trip chitarristico e dell'impeto garagista, per quanto furono pochissimi a esprimere carattere. Questione di approccio, giacché per aggiungere qualcosa al canone bisogna accostarsi alla materia originale traducendone il significato nel proprio contesto. Cosa che fecero in Brasile i Tropicalisti e per questo uno o più Lp di Os Mutantes non possono mancare in una collezione che si rispetti. Erano e restano i migliori, dunque non ce ne vogliano i loro connazionali qui radunati se non posseggono la medesima caratura. Lo scopo della raccolta è un altro: scoprire Pebbles appartenenti al decennio 1967-1976, le quali si rivelano curiose senza inscenare reali rielaborazioni. Tre quarti d'ora - dal sontuoso apparato iconografico: foto, interviste e un documentario video - che scorrono mediamente godibili tra stramberia e lisergia, rare grooves e passi hard, (easy) pop, funk. Mancano però brani memorabili, e tocca tenerne conto.(6.7/10) Giancarlo Turra Jimi Hendrix - Valleys of Neptune (Legacy, Marzo 2010) G enere : rock blues Dodici pezzi inediti di Jimi - dove inedito va tradotto alla lettera come non pubblicato in questa forma - registrati nel '69 e nel '70 (ce n'è anche uno del '67) tra i Record Plant di NY e gli Olympic di Londra, con l'Experience originale ma anche con Billy Cox al basso (tre brani soltanto, prime avvisaglie di quella che sarà la Band of Gypsys). è l'Hendrix post-Electric Ladyland che cerca nuove vie, poca psichedelia e molto hard blues sporcato ora di negritudine funk ora di appetibilità pop-rock. Il suono è buono, non eccezionale, e le performance - anche queste, non eccezionali - tradiscono spesso la natura di prove in studio rimaneggiate in vario modo: che orrore leggere che ci sono due overdub del 1987. Niente di nuovo su Jimi, pezzi storici suonati con arrangiamenti diversi da quelli stranoti, ma non troppo diversi da alcune rese live (Stone Free, Fire, Red House); esercizi di blues elettrico in scioltezza, con molto autoriciclo (Mr. Bad Luck, Lover Man, Crying Blue Rain, una Hear My Train a Comin che è praticamente un mash con Voodoo Chile); la title track è un pezzo carino che ricorda vagamente la seconda parte di Stairway to Heaven; Bleeding Heart di Elmore James è forse quello più divertente; Lullaby for the Summer quello più interessante. Sunshine of Your Love delude (molto meglio le versioni, cantate, dal vivo), niente fuoco e fiamme. Confermata insomma la sensazione che tutti i dischi postumi (non live) pubblicati a nome di Jimi siano degli apocrifi. Per completisti e nostalgici acritici.(5.9/10) Gabriele Marino 90 Sedici anni dopo l'originale pubblicazione, vede di nuovo la luce uno dei gioielli minori del post-hc. Definizione quest'ultima da prendere con le molle onde evitare fraintendimenti. I quattro Jawbox - Kim Coletta al basso, l'ex Government Issue J. Robbins alla chitarra, Bill Barbot alla chitarra e Zac Barocas alla batteria - infatti, non fecero mai parte di quel calderone hc al limite del metal che caratterizzò la seconda metà degli anni '90, ma piuttosto di quella generazione di hc evoluto (dai Nation Of Ulysses ai Fugazi post-In On The Kill Taker) che cominciò a flirtare con il noise-rock, sul versante dei volumi e delle strutture, e con il pop, su quello delle melodie vocali. A supportare la band nella produzione di questo For Your Own , fu chiamato Ted Nicely, all'epoca produttore di grido per la scena trasversale che dai Fugazi arrivava fino al noise-rock newyorchese dei Girls Against Boys. E la scelta non fu casuale, visto che con questo album i Jawbox riassumevano il riassumibile e mettevano definitivamente la freccia su generi e sottogeneri allora in voga, uscendosene con un album "classico" di rock insieme potente, melodico, dissonante, abrasivo. D'altronde l'uscita per la major Atlantic e il conseguente "tradimento" della indie per antonomasia Dischord, se da un lato evidenziava la facilità post-Nevermind di raccattare contratti a 6 cifre, dall'altro dava la misura delle potenzialità della band di Washington. L'incedere convulso e insieme intricato di FF=66 e Chicago Piano, lo stoppato robotico e disilluso di Savory, le melodie post-grunge di Cooling Card, l'indolenza indie di Green Glass, le caleidoscopiche aperture a gomito di Jackpot Plus! stanno lì a dimostrarla. Non è perciò solo per l'ep Savory posto in coda all'album come bonus che For Your Own va riscoperto, quanto piuttosto per capire da quale calderone presero idealmente le mosse gruppi come, tanto per fare due nomi a caso, At The Drive In o 90 Day Men.(7/10) Stefano Pifferi Phantomband - Phantomband/ Freedom Of Speech (Bureau-b, Aprile 2010) G enere : etnofunk / avant - garde In un periodo di girotondi attorno al mondo stando comodamente in cameretta, rinnovati interessi groove nell'elettronica contaminata (Four Tet e Caribou), imperiture declinazioni PiL e tanta voglia di jazz esotico (Mulatu Astatke), le due ristampe della Phantom Band sembrano quanto mai illuminaanti. Il quartetto, nato dalle ceneri dei Can e forte della rinnovata intesa tra i due principali protagonisti, il batterista Jaki Liebezeit e l'ex bassista dei Traffic Rosko Gee, è quanto di meglio per scoprirne l'origine di certi incastri krauti di black music come il funk e jazz e ripercorre certe strade avantgarde dei primi Ottanta. Tra i due album l'omonimo è senza dubbio quello più ordinario e post-Can giocato com'è sui velluti (You Inspired Me), levare cangiante (For M), ballad tinte pastello (Rolling) afro beat (I'm The One e Latest News), jazz-funk (Absolutely Straight); di tutt'altra pasta invece il successivo Freedom Of Speech nel quale un Gee dimissionario lascia il combo ad una svolta post punk dai tagli dub (da sottolineare che in quei giorni lo stesso Liebezeit pianificava Full Circle con Holger Czukay e Jah Wobble) evidenti fin dall'opener Gravity (monotonia di marca PiL). In pratica sembrano un combo On-U Sound che gioca a fare i Suicide (il cantato di Sheldon Ancel in Brain Police e Dream Machine) ricordandosi nel mentre la propria missione (il dub straniante di Experiments). A distanza di trent'anni (il debutto è del 1980, il successivo del 1981) è Freedom Of Speech a suonare ancora fresco e brillante laddove l'opera omonima, già anacronistica (ma con gusto) ai tempi, ha il merito di inaugurare l'avventura. Tutto rientra nel progetto di ristampe Bureau B, a cui purtroppo, limitandosi al solo catalogo Sky, non è per91 messo il recupero di Tarot di Walter Wegmuller, una reissue che i seguaci kraut attendono quanto attendevano la Phantom Band.(7/10) Gianni Avella Plimsouls - Live! Beg, Borrow & Steal (Alive Naturalsound Records, Marzo 2010) G enere : vintage power Sarebbe riduttivo confinare i Plimsouls nell'angusto ambito della parrocchia power pop losangelina. Senza nulla togliere, essere ricordati come una delle formazioni migliori - qualora non LA migliore - di una nota a piè di pagina del romanzo rock può bastare a chi coltiva gli orticelli e si perde dentro le nicchie. Gli altri hanno bisogno di qualcosa di più: la cerniera tra il dopo '77 e la riscoperta estetica dei "favolosi Sessanta", magari, e saltando a pie pari la new wave. Hai detto niente, e aggiungi per tramite di ciò l'anticipo involontario del Paisley Underground e, di conseguenza, la posa delle prime fondamenta college rock. Non è allora un caso che i Fleshtones al gran completo siano ospiti di un incontrollabile bis rock 'n' soul, e che spesso - lungo un live torrido ed esaltante, eppure ricco di raffinatezze e stile - si colgano i Replacements della maturità con due stagioni d'anticipo. Momenti in cui assapori melodie chitarristiche pop mai scontate che acquistano potenza grazie a un'espressività frutto della rivoluzione punk. Gente dalla calligrafia troppo appuntita per le classifiche, i Plimsouls, nonostante un contratto Geffen che giungerà non molto dopo questa sera di Halloween 1981 trascorsa al Whisky A Go Go. Ancora innocente e beata come quell'epoca riusciva a essere. E niente lacrimuccia, per favore, che qui s'ha da roccare.(7.4/10) Giancarlo Turra Six Minute War Madness - Full Fathom Six (Wallace Records, Marzo 2010) G enere : noise - rock In quest'Italia anni '00 sempre più priva di memoria, le esperienze seminali giacciono laggiù, in fondo al contenitore e bisogna stare molto attenti a non ritirarle fuori, perchè significherebbe fare i conti col proprio passato. Meno male che spiritelli beffardi come il trittico Wallace/ Il Verso del Cinghiale/Santeria si divertono a scombinare 92 la carte in tavola ripescando uno dei dischi (e indirettamente, uno dei gruppi) fondamentali nell'evoluzione di certo out-rock italiano. Andando in ordine Full Fathom Six è l'album, i Six Minute War Madness la band. L'anno di grazia è il 1999 (quasi 2000, in verità), punto di svolta di un secolo e insieme di un millennio, oltre che data della swansong per SMWM, in procinto di rilanciarsi sotto le forme ancor più avant di A Short Apnea (a ben vedere però Illu Ogod Ellat Rhagedia è coevo per gestazione e pubblicazione). Full Fathom Six è l'album che chiude definitivamente i conti con un periodo, storicizzando il primo, reale rock (e dopo-rock) italiano e slanciandosi verso una fase di maturità sbalordente per risultati e prospettive (gli anni '00, appunto). La lussuosa ristampa, oltre l'album, propone ottime note a margine in due cd con live, scampoli di prove, demo, che ci offrono una vista a volo d'uccello sul potenziale del combo tra Novanta e Duemila. Necessario.(7.2/10) Stefano Pifferi Terry Fox - The Labyrinth Scored for 11 Cats (Choose, Dicembre 2009) G enere : S ound A rt Pare che un certo Jean-Yves Gauchet, veterinario e giornalista scientifico di Tolosa, abbia prodotto e messo in vendita su internet un cd contenente il tipico suono delle fusa del suo gatto Rouky, convinto della valenza terapeutica che tali misteriose frequenze, ascoltate in stato di relax, avrebbero sull'equilibrio psichico dell'essere umano. Chissà se il fantasioso Gauchet è a conoscenza di un esperimento molto simile condotto, più di trent'anni fa, da Terry Fox (1943-2008), uno dei protagonisti della scena artistica post-minimalista statunitense a cavallo tra fine '60 e inizio anni '70. Non utopico rimedio da fantamedicina, ma seriosa declinazione di performance art, l'opera di Fox fa parte di quella serie di lavori (perlopiù sculture sonore) che tentarono di fronteggiare una vera e propria ossessione del geniale sound-artist: decriptare le leggi matematiche che regolano la composizione del labirinto di Chartres, figura geometrica circolare inscritta in larghezza sul pavimento della navata centrale della cattedrale. Questo per quanto riguarda l'architettura del brano: il materiale sonoro di partenza essendo, invece, come spiega calligraficamente il titolo della originaria performance, il suono delle fusa di undici differenti felini. Nulla da eccepire sulla bontà dell'operazione filologica, condotta con zelo e passione da Jorg Hiller (aka Konrad Sprenger) e dalla sua Choose Records: in programma la riedizione completa - rigorosamente in vinile - di tutte le opere di sound-art del performer scomparso due anni fa. Il rischio, però - sempre dietro l'angolo in operazioni di riscoperta che sono in grado di riportare in vita solo una parte dell'intera situazione artistica - è che l'ascoltatore non informato finisca ben presto per sviluppare un vero e proprio senso di disgusto per quello che è, in fin dei conti, un angosciante, interminabile susseguirsi di sistole e diastole sonore difettose o - per passare dalla patogenesi alla sessuologia animale, forse più consona - l'equivalente in musica di un maldestro amplesso tra pachidermi. Solo per storici dell'arte e masochisti all'ultimo stadio.(5.8/10) Vincenzo Santarcangelo Triffids (The) - Wide Open Road: The Best Of (Domino, Aprile 2010) G enere : eighties indie A due anni di distanza da un terzetto di ristampe che riportava in qualche modo alla ribalta gli australiani Triffids, la Domino immette adesso sul mercato un "meglio di" sul quale vi è poco da dire e da giudicare. Nel senso che non può e non vuole aggiungere nulla a una vicenda sfortunata che ha lasciato in dote musica meravigliosa, tutt'uno di folk e rock, wave e sixties, blues ed emozione. La storia di un gruppo che andò pian piano soccombendo sotto la ricerca di un successo mai giunto, scivolando dopo gli inizi indipendenti in una seconda metà di carriera su Island di inopportuna e impacciata magniloquenza. Un "la va o la spacca" da immigrati in Inghilterra che fruttò loro la copertina del NME e un pugno di primi dischi indimenticabili, già riediti integralmente e da possedere senza riserve. Cosa che non puoi dire di Wide Open Road, raccolta destinata ai neofiti d'indole pigra e appesantita da un terzo di scaletta posteriore a In The Pines, ultimo LP di David McComb e soci davvero imperdibile. Dall'uscita del quale è trascorso - mamma mia! - un quarto di secolo, portandosi via lo stesso David e un sacco pieno di bei ricordi.(6.8/10) Zu - The Way Of The Animal Powers (Public Guilt, Marzo 2010) G enere : impro - avant - jazz Pochi agli albori della carriera discografica degli Zu avrebbero scommesso che, di lì a un decennio, sarebbero stati storicizzati. Invece rieccoci a magnificare le lodi di una band che per connessioni, collaborazioni e portato musicale si può tranquillamente definire il gruppo italiano più importante del terzo millennio. The Way Of The Animal Powers vide la luce originariamente nel 2005 per la defunta Xeng e, come di consueto, allargava la formazione a quartetto: della partita era il chicagoano Fred Longberg-Holm, impegnato a duettare col violoncello col sax di Luca Mai. Ad un lustro buono dalla pubblicazione, la Public Guilt provvede alla ristampa in vinile gatefold a 180 grammi, con relativa rimasterizzazione per mano di James Plotkin (Old, Khanate e mille altre cose ancora). The Way... è un album concreto, essenziale, che procede "per sottrazione" esponendo il suono di base degli Zu, fino ad allora esplosivo e deragliante, ad una sorta di introspezione/repressione. Un ripiegamento in se stesso che segnò all'epoca, e segna a tutt'oggi, lo spessore caleidoscopico di una grande band dalle infinite possibilità.(7/10) Stefano Pifferi Giancarlo Turra 93 Rearview Mirror —speciale Adi Newton Magiko umanesimo, per sconfiggere gli automi Intellettuale armato di sax e cinismo nei Clock Dva; scienziato del suono coi Tagc. Adi Newton si racconta, in vista di un nuovo progetto e del box rimasterizzato con l'intero catalogo Dva 94 Testo: Filippo Bordignon Benedetta la coscienza che si rallegra Nella grandezza della coscienza altrui (Manly P. Hall) ssieme a Cabaret Voltaire e ai primi Human League i Clock Dva formano un triumvirato made in Sheffield che, agli inizi degli Anni '80, seppe musicare la propria indolenza ridefinendo i generi popolari allora emergenti. Se nei primi due casi il prosieguo di carriera virò verso cadute dance o svolte synth-stupidpop, la storia di Adi Newton, che dei Dva fu fondatore, leader e paroliere, risuona per la fedeltà a un ingegno senza concessioni. Le conseguenze, com'è logico, furono la dimenticanza del mercato e, con esso, la disaffezione dei fan meno perspicaci, convinti che il loro idolo avesse esaurito le frecce al proprio archetto. Oggi Newton torna a parlare e lo fa con la voce salda di chi non nutra dubbi sulla propria onestà intellettuale; l'eredità artistica alle sue spalle gli consentirebbe di crogiolarsi nella facile posa dell'artista maudit: egli preferisce invece, e qui sta una ragione aggiuntiva della sua grandezza rispetto ad altri colleghi, rimettere in gioco la propria reputazione tentando il superamento di quanto finora prodotto con una rischiosa uscita in coppia con la moglie. A ciò si aggiunga la preziosa uscita di un box rimasterizzato per la Mute con l’intera discografia Dva, di cui si anticipa un restyle decisivo nella dinamica sonora dei lavori cyberpunk. Ci sono luoghi che, proprio in virtù del loro anonimato, contengono i presupposti affinché nasca e si sviluppi una leggenda; Sheffield, che nella seconda metà degli Anni ’70 non ha molto da raccontare se non la crisi del fino ad allora trainante settore siderurgico, è uno di questi. Qui un ragazzo matto per il punk assieme a un certo Paul Bower (leader dei fatui 2.3, primo gruppo punk del circondario) decide di fondare Gunrubber, fanzine musicale naufragata dopo poche settimane e prontamente sostituita dalla volontà di suonare in una band. Dopo alcuni tentativi in formazioni votate allo scioglimento, l'irrequieto Adolph ‘Adi’ Newton, sceglie di associarsi agli amici Martyn Ware e Ian Craig Marsh, sperimentando attivamente la passione comune per Kraftwerk e Avanguardie Storiche. Il nome prescelto risponde spocchiosamente a The Future e la formula, ben lontana dal rock-sputacchiera allora in voga, non entusiasma neppure le neonate etichette indipendenti londinesi, tanto che le uniche registrazioni di questa formazione saranno raccolte trent’anni più in là nell’entusiasmante The Golden Hour Of The Future (Black Melody). Adi sceglie perciò una strada diversa, un ibrido elettro-acustico con il bassista Steven 'Judd' Turner, lasciando gli amici al loro destino (e cioè assoldare il bel Philip Oakey in veste A di cantante e originare così gli Human League). Il nuovo progetto si rivela da subito ambizioso:‘Clock’ omaggia l’Arancia Meccanica di Burgess e Kubrick; ‘Dva’ sottolinea in russo (cabala e numerologia a parte) la presenza di due menti unite per un solo scopo, ovvero contribuire al superamento del punk preservandone indole e prepotenza. Tra il '78 e il '79, una serie di registrazioni casalinghe documentano un approccio elettronico diy bagnato nelle acque di un rumorismo cerebrale; ma è la voce di Newton a emergere, strumento monocorde e minaccioso pronto a dimostrare la sua efficacia in un contesto meglio strutturato. L'occasione è offerta da Genesis P-Orridge: l'esordio su musicassetta White Souls In Black Suites (1980, Industrial) asciuga le intuizioni nate in cantina proponendo un funky bianchissimo e distorto, soffiato fuori da un sax malvagio e sostenuto, oltre dal binomio Newton-Turner, da 3 comprimari di relativa importanza (David J. Hammond, Robert Quail e Charlie Collins). Alle improvvisazioni acide di White Souls fa seguito il primo capolavoro Dva: Thirst ('81, Fetish), incanto di nichilismo jazz-rock. Uncertain introduce a una crudeltà intellettuale punteggiata da un divagar di chitarra beefheartiana e un sax a sfiatare vapori tossici su un paesaggio industriale. Il riff di clarinetto in Sensorium omaggia Terry Riley per poi cacciarsi in una cavalcata machista, mentre episodi come White Cell e North Loop pulsano di una sensualità viscosa e prossima al trabocco. Il rumore bianco generato dai nostri in Moments, più che dell’imberbe movimento industrial, è figlio del free jazz balbettante di Coleman e Shepp. Con 4 Hours i Dva riusciranno là dove i concittadini Cabaret Voltaire e Human League hanno fallito: concepire una canzone in perfetto equilibrio tra pop-rock e sperimentazione (poco importa la scarsa diffusione nel circuito alternativo). Il testo di Newton amplifica uno spleen di rara eleganza: Questa potrebbe essere New York o Londra: non m’importa più.Vesto questo completo nero, indosso questa cravatta nera, trascino questa cassa nera (…) un piano precipita dall’alto, fracassandosi ai miei piedi. Di qui le complicazioni: nonostante una serie di concerti entusiasmanti Newton e Turner, al fine di non lasciarsi ingabbiare nel limbo della scena industrial, optano per un cambio di line-up. Ma un'overdose di eroina priva Adi del fidato compagno, al quale dedicherà l'Ep Passion Still Aflame ('82, Polydor), opera di transizione verso uno stile apparentemente più commerciale. Riassestato il gruppo a quintetto la seconda fatica in studio per la Polydor a titolo Advantage ('83) convince solo in parte i fan della prima ora, insospettiti dall’ammorbidimento in odore di major. Meno drasticamente, canzoni come 95 Beautiful Losers, il buon singolo Resistence (con tanto di videoclip) o Eternity In Paris parlano il linguaggio di una new wave elegante e noir, arrangiata con originalità e interpretata a denti stretti da Newton sul quale aleggia funereo lo spettro di Turner. Oltre a ciò, l'insoddisfazione lo attanaglia: al termine del tour europeo scioglie la band per rifugiarsi ad Amsterdam alla ricerca di un nuovo inizio. In Olanda si concretizza così il progetto ideato con il compianto amico, The Anti Group Communications (Tagc). Al di là dei loro intenti le uscite Tagc si dividono prosaicamente in 2 categorie: opere di innegabile valore musicale, persino superiori sotto alcuni aspetti al repertorio Dva, e altre di soporifera indulgenza post-industrial. Alla 96 prima categoria appartengono The Delivery ('85, Atonal), Digitaria ('86, Sweatbox) e la compilation di singoli e rarità Audiophile ('94, Side Effects). Digitaria, in particolare, riassume al meglio le potenzialità del collettivo: si va dalla concrete music per riti esoterici Blood Burns Into Water al jazz paranoico Balag Anti, dal neo-tribalismo Dog Star al no-swing rumorista Pre-Eval. Alla seconda categoria rispondono Meontological Research Recording-Record 2 Teste Tones (’88, Side Effects) e Burning Water (’94, Side Effects). La prevedibile degenerazione di questo percorso raggiungerà lo zenit a nome Psychophysicist e titolo Psychophysicists ('96, Side Effects) in collaborazione con Andrew M. McKenzie, mente di The Hafler Trio: un minimalismo strumentale in bilico tra noia e presunzione scava nella mente dell'ascoltatore, sperando d'inventare una 'suonoterapia' elettronica per tecnomaniaci. Nel frattempo, nella seconda metà degli Anni '80 nascono 2 generi destinati a cambiare la storia: techno a Detroit e acid house a Chicago. L'inghilterra reagisce con entusiasmo preparando la culla per una cultura rave estremizzata nei contenuti e prontamente rinnovata nelle droghe. Il ritorno dei Dva non può che risentirne, bagnato com'è dei ritmi neri rielaborati straordinariamente nel full-lenght Buried Dreams ('89, Interfisch); sintesi innegabilmente bianca in bilico tra letteratura cyberpunk e dance costruttivista, l'album descrive con spietata lucidità un futuro disumanizzato e prossimo al collasso, calciando l'ironia kitch dei Kraftwerk uominimacchina, sostituita dal rigore matematico di un trio (Newton, Paul Browse e Dean Dennis) interamente votato all'elettronica. Nella complessità di un concept che affronta la rivoluzione elettronica nell'epoca della neonata internet, c'è spazio perfino per la glorificazione di Karl Koch (The Hacker): l'hackeraggio viene letto come possibilità aggiuntiva per, citando P-Orridge nel film Decoder, "Distruggere quelli che detengono e tengono nascosta l'Informazione". Per fugare il dubbio che si tratti di un capriccio momentaneo viene dato alle stampe in tutta fretta il live bolognese Transitional Voices ('89, Interfisch), contenete solo pezzi del nuovo corso, estremizzati da un cipiglio ossessivo e glaciale fino alla cristallizzazione. Le 3 opere successive per l'italiana Contempo confermano il perdurare dello stato di grazia, pur stemperando la stupore iniziale riguardo quei 'sogni sepolti' e subito trafugati da una schiera di non indispensabili continuatori. Man-Amplified ('91) focalizza l'attenzione sugli arrangiamenti, complicati da soluzioni di spiccata raffinatezza (la titletrack e Techno Geist) ma pur ricondotti a una drammaticità stilizzata e austera (Dark Attractor e Memories Of Sound). La colonna sonora virtuale Digital Soundtracks ('92) segna una battuta d'arresto, accontentandosi di una serie di schizzi pur godibili ma dall'annacquato valore artistico. Sign ('93), nella commovente Return To Blue, consegna un grido d'amore post-atomico in bilico tra Vangelis e i Suicide di A Way Of Life, dove a prevalere è il versante europeo. Al termine delle collaborazione con McKenzie come Psychophysicist Newton si dilegua. Almeno fino a oggi. Una vita spesa aderendo alle sole etichette della propria genialità; "Per aspera sic itur ad astra", concluderemo, certi che per affrontare le tribolazioni dell’arte il solo rimedio sia continuar a sognare le stelle del proprio cielo. L' intervista Adi, esiste un antidoto contro il lavaggio mentale al quale siamo sottoposti dai media oggigiorno? Nel mio archivio conservo un documentario che tratta la nocività delle radiazioni elettromagnetiche. Affrontando l’inizio degli Anni '60 si menzionano degli studi sugli effetti collaterali provocati dai televisori; il documentario non specifica però la ragione per cui non furono disposte ulteriori indagini, vista la diffusione di quella tecnologia. Se non iniziamo a ribellarci a questa dipendenza dalle varie tecnologie emerse a partire da allora non avremo alcuna possibilità di evitare il lavaggio mentale di cui sopra. Computer, cellulari, lettori mp3, consolle per videogiochi: prodotti messi sul mercato e programmati per distrarre le masse attraverso contenuti labili e spesso fuorvianti. Il fatto è che necessitiamo, citando l’inventore Buckminster Fuller, di un consumismo sostenibile: dobbiamo imparare a conoscere quello che consumiamo anche in relazione al suo processo di produzione. Dobbiamo imparare a costruire prodotti con un'effettiva utilità che non ci rendano loro schiavi. Per Baudrillard, uno dei maggiori teorici marxisti, l'umanità si è emancipata allo stesso tempo da marxismo e capitalismo pervenendo a un sistema economico frammentato dove scopi e modalità sono fuori controllo; vaghiamo così, tra le sue tante facce, senza intendere una chiave di lettura unitaria e comunque senza un codice per poterla eventualmente interpretare. Riesci a distinguere un messaggio specifico, analizzando la tua opera nella sua completezza? Auspico in una serie di contenuti diversificati, legati assieme da una qualità comune che riguardi sia i concetti espressi che le musiche. Non credo sia possibile ricondurre la totalità del mio lavoro a un unico messaggio ma mi auguro che le mie idee riescano a trascendere i ge- neri nei quali sono espresse, significando qualcosa anche per le nuove generazioni. Qualcuno sostiene che "Una barca non va lontano se il mare è calmo"; hai mai necessitato una tempesta per rinvigorire la tua creatività? C'è un innegabile elemento di verità in questo; i turbamenti che affrontiamo durante periodi di esaltazione o di depressione ci cambiano, permettendoci di osservare le cose da un'angolazione spesso impensabile. Erich Fromm ha detto "L'incertezza è la condizione ideale per incitare l’uomo a scoprire il suo potenziale". In quei momenti di estrema sensibilità dobbiamo approfittarne per esplorare noi stessi; quando tutto si fa incerto è allora che, agendo secondo le nostre intuizioni, possiamo scovare modi inediti di creare e nuovi livelli per essere, azioni queste che sono la forma ideale per esprimere ciò che è trascendentale. Che ricordi delle registrazioni di Thirst? Jacobs Studio, nello Surrey: ho degli sprazzi, tipo quando registrai il pianoforte per Piano Pain e i momenti magici in cui improvvisammo Moment. Eppoi il basso dirompente di Steve in White Cell e 4 Hours e ancora le session per Uncertain nelle quali non riuscivo a trovare l’intonazione per il clarinetto. Una volta capitarono lì anche gli U2 a dare un’occhiata: in tutta onestà non sapevamo chi diavolo fossero ma ricordo la poderosa stretta di mano di Bono. Fu un bel periodo; c'erano poche discussioni di carattere tecnico anche se si delineava una divisione tra Charlie, Roger e Paul da una parte e Steve e me dall’altra. Non importa quanto comprensivo ti dimostri o quanta libertà venga concessa nell'esecuzione: gli antagonismi sembrano inevitabili in un gruppo. Arrivi sempre a un punto in cui pretendi di essere il regista del film piuttosto che un semplice attore. A controllare la realizzazione della maggior parte dei progetti artistici di una certa importanza è la visione forte di un solo artista. Anche se è impossibile pensare a un equivalente visivo di Thirst, l’immagine elaborata insieme a Neville Brody oggi mi sembra l’unica possibile per rappresentare quelle canzoni. Anche l’introduzione scritta da P-Orridge per molti aspetti riassume bene il nostro discorso sonoro. Nietzsche sosteneva, e a ragione, che la vera amicizia è possibile solo tra persone che si somigliano. Come vuoi ricordare Steven 'Judd' Turner? Come Neil Cassidy nella sua autobiografia "I vagabondi". Come Dean Moriarty, Jacques Vaché, Jacques Rigaut: uno spirito dionisiaco che resterà sempre giovane nel ricordo di chi l'ha conosciuto. Era un ragazzo snello ma nervoso, affascinante, una sorta di Iggy Pop che, bruciando da ambo i lati, si spense prima degli altri. Era il mio migliore amico e niente potrà mai rimpiazzare il 97 vuoto che ha lasciato. C'è qualcosa che ti rimproveri? A posteriori c'è sempre qualcosa che vorremo aver fatto diversamente. Per me vale in particolar modo per il periodo di Advantage, in cui mi sarei dovuto comportare con maggiore avvedutezza. Di tutta la gente con cui collaboravo allora solo uno si è dimostrato un vero amico e, ovviamente, come tutti i migliori, è mancato prematuramente. Mi riferisco al batterista Nick Sanderson, morto nel 2008. I giorni successivi alla tragica overdose di Steve furono per me drammatici. Dopo alcuni mesi finì anche la relazione con la mia compagna e cominciò una stagione nella quale non pensavo che a fuggire da tutto. Non so come spiegarlo, mi sentivo svuotato e, in un certo qual modo, è ancora così: anche se lo spirito non muore quelli che restano non possono dimenticare le perdite che hanno subito. A conti fatti siamo veramente artefici della nostra fortuna? Non abbiamo un effettivo controllo sugli eventi, a partire dalla nostra stessa nascita e perciò siamo soggetti a circostanze al di fuori della nostra portata. Pensa alla differenza che intercorre, a esempio, nel nascere da genitori intelligenti abbastanza da incoraggiare i nostri interessi 98 o, al contrario, da gente ottusa. Jane Radion Newton, tua moglie. Una collaboratrice preziosa, tua partner nei rinati Dva... Una donna indipendente e molto acuta; le interessa venire percepita nella sua individualità, evitando quella situazione di fama riflessa di cui soffrì inizialmente Yoko Ono durante il matrimonio con Lennon. Come artista può vantare su di un intuito estetico di alta caratura, oltre a una profonda conoscenza sia delle implicazioni simboliche che psicologiche/filosofiche insite nell’atto artistico. Sono suoi gli ansimi nel brano Buried Dreams? No, ma il suo contributo sia per le musiche che per certe scelte visive è stato determinante nell’esperienza Dva e anche per quella Tagc. A breve uscirà finalmente tutta la discografia rimasterizzata dei Dva... Ci sono voluti 4 anni per portare a termine la faccenda. Un problema di non poco conto è stato venire a patti con alcuni ex membri della band: solo questo mi ha rubato un anno affinché tutti fossero convinti che la proposta della Mute era la migliore sul tavolo. A essere onesti ci sono stati momenti nei quali, a causa di certi problemi burocratici, sono stato tentato di considerare quegli album come parte del mio passato e di lasciar perdere, per evitarmi stress e frustrazioni. Io e Jane abbiamo anche dovuto difenderci da una serie di accuse assolutamente false emerse su internet. Alla fine però, l’abbiamo spuntata con questo box che contiene gli 8 album rimasterizzati, veste grafica perfezionata, un libretto di 120 pagine e, soprattutto, un album inedito dal titolo Horology che testimonia le nostre sperimentazioni negli anni ‘77-’79. Da queste registrazioni inedite emerge un sound ben diverso da quello industrial di White Souls. Ci sono delle sperimentazioni più vicine a Buried Dreams nelle quali abbiamo fatto largo uso di drum machine, synth, campionamenti ecc.. Spuntano così alcune delle nostre prime influenze: in ambito performativo l’azionismo di Otto Muehl, Günter Brus, Rudolf Schwarzkogler e Kurt Kren; l’arte figurativa con De Chirico, Bacon, Kubin, Dix, Paul Delvaux come pure gli esperimenti di Duchamp, Man Ray e Beuys; per la letteratura Beckett, Rabelais, Artaud. E poi ci sono i pionieri dell’elettronica: Schaeffer, Cage, Earle Brown e via dicendo. Al di la di tutto questi pezzi incarnano per me il sound originale dei Dva e, oltre a ciò, evidenziano il prezioso apporto di Judd. Recentemente ho letto in un libro scritto poco dopo la sua morte una frase attribuita al nostro primo chitarrista, Paul Widger, il quale mette in discussione l’abilità di Judd. Egli dimentica però, come la maggior parte dei musicisti, che per un vero artista non è tanto importante il livello di tecnica raggiunto quanto piuttosto l’ingegno e l’anima trasmessi con le proprie esecuzioni/composizioni. è imminente l’uscita del nuovo album a nome Dva... Per me creare significa reinventarmi: non trovo soddisfazione nel riproporre ciò che ho già fatto. Inventare oggi è davvero una sfida: ormai ognuno, con un pc, può generare un pattern e comporre un brano. Quella che può sembrare l’abilità di un individuo nella maggior parte di questi casi però è attribuibile alla capacità della macchina. Il nostro intento deve essere dunque quello di individuare nuove strade, aprirsi al possibile. Secondo il maestro Shunryu Suzuki la mente di un principiante è come uno spazio illimitato che possiamo esplorare, mentre quella dell’esperto è limitata da scelte ben precise. La musica che accetta la sfida dell’imprevedibilità è ovviamente più difficile e conseguentemente di non facile 'appeal' commerciale. Henri L. Bergson sostiene che utilizzando un metodo prettamente razionale si riduce la comprensione di un oggetto a elementi già noti mentre affidandosi all'intuizione riusciamo a venire in contatto con la sua parte più indefinibile. Concordo inoltre, sotto questo profilo, con Coleridge, il quale evidenziava la necessità di un elemento incomprensibile per dare efficacia all’opera. Ho trascorso gli ultimi 10 anni lontano dalla musica poiché volevo reimmergermi nell'esplorazione del mio primo medium, l'arte. Ora è una vera sfida tornare nell'arena. Diciamo che avevo bisogno di ritrovare la mia voce più vera per dare nuova autenticità a questa nuova fase creativa. In cosa si differenzia concettualmente il progetto Tagc rispetto all'esperienza Dva? Tagc venne concepito da me e Steve verso la fine del '78 come un progetto collettivo multimediale di cui sono stato il 'direttore'. Il primo lavoro che pianificammo fu una serie di nastri terapeutici; questi esperimenti verranno distribuiti solo quando avrò individuato un formato adatto che li sappia rappresentare nella loro complessità. Alla base di tutto c'è la ricerca sistematica in merito all'esplorazione delle potenzialità concernenti la composizione del suono, sue possibilità e sviluppi. Per espandere la Co(no)scienza abbiamo utilizzato computer, tecnologie audiovisive e sistemi arcani derivati dalla tradizione magica o da altre scienze occulte. Le ultime registrazioni hanno investigato la stimolazione cerebrale sonora e in lavori come Meontological Recordings-Record 2 Teste Tones ci siamo spinti ancora più profondamente nell'analisi del ruolo di frequenze e ritmi, con particolare interesse nella codifica delle strutture ritmiche utilizzate nei rituali Voodoo per indurre la trance. Il fulcro principale del lavoro comunque, si basa sugli esperimenti pioneristici condotti dall'occultista Michael Bertiaux dell'ordine iniziatico Otoa (Ordo Templi Orientis Antiqua) e del Couleuvre Noire. Cosa ti schifa nel mondo della musica? Il doppiogiochismo e la falsità della maggior parte di quelli che ne fanno parte: gente genuina ce n'è, ma sono eccezioni che confermano la regola. Nella mia carriera ho incontrato anche case discografiche interessate, oltre al proprio guadagno, a promuovere al meglio delle loro possibilità gli artisti che rappresentano ma, triste a dirsi, restano una sparuta minoranza. Tornando a Nietzsche: "Il visionario mente a se stesso, il bugiardo solo agli altri". La tentazione è di considerarci alla stregua di una menzogna... Arduo rispondere. Meglio di me avrebbe detto Baudrillard che, nel saggio "Sul mondo nella sua profonda illusorietà", definisce l’idea filosofica come un concetto semplice e radicale nella sua impossibilità, confutabile nella non-esistenza di un mondo oggettivo. Noi siamo parte di questa rappresentazione e sua immagine riflessa, al contempo. Non esiste solo l'illusione oggettiva dunque ma anche quella speculare-soggettiva. Ecco il fulcro del mistero: il mondo non esiste per essere conosciuto, non è concepito per sottostare alla nostra conoscenza anche se essa 99 è parte del mondo per quanto concerne l’illusorietà del tutto e cioè il fatto che non ci sia necessariamente una spiegazione. Poi c'è questo miracolo: che un frammento di questo Tutto, la mente dell’uomo, decide di arrogarsi il privilegio di divenire Sua rappresentazione. Ciò non porterà certo a una soluzione oggettiva, almeno fino a quando lo specchio continuerà a essere parte di ciò che riflette. Oggi le microscienze hanno svelato l'illusione in maniera definitiva, il che non riguarda solo l'inganno di un'oggettiva verità mancata, ma l’inestricabile complicità delle due, le quali vanificano ogni pensiero metafisico teorizzabile. Questa è la trappola che la natura ci riserva. Internet ci condurrà verso un'insperabile forma di liberazione o saranno nuove catene? è un'arma a doppio taglio: da una parte puoi accedere a informazioni altrimenti di ardua reperibilità; dall’altra questa democratizzazione del mezzo informativo può diffondere notizie non vere, plagiando chi non sa scegliere fonti attendibili. Aggiungici anche che internet attua una sorta di separazione dalla realtà: oggi abbiamo persone che vivono esistenze virtuali dove possono far accadere le proprie fantasie. Tutti a volte necessitiamo di una sorta di rifugio mentale, un po’ come nei sogni: il problema emerge quando il mondo virtuale prende il sopravvento sulla propria esistenza, sul genere dei romanzi di Ballard. Con la diffusione esponenziale di questa tecnologia il fenomeno è destinato a espandersi. È una situazione 'faustiana': preferendo la finzione alla realtà perdiamo il controllo su quest'ultima. Mi preoccupa inoltre che la quasi totalità delle risorse e delle attività nella nostra società passi attraverso un cavo elettrico. Qual è la tua paura più grande rispetto al futuro del mondo? Per risponderti mi rifaccio a "Psicanalisi della società contemporanea" di Fromm; stiamo andando incontro a un processo nel quale creiamo macchine che fanno il lavoro degli uomini e, di per contro, uomini che si comportano come perfetti automi. In breve questa alienazione porterà a un graduale indebolimento delle nostre facoltà mentali: la vita perde significato e parole come 'fede', 'felicità' o 'realtà' finiscono per non significare nulla. Tutti si dicono felici pur avendo scordato cosa significhi provare questa sensazione. Nel diciannovesimo secolo fu teorizzata la morte di Dio: il ventesimo secolo ha testimoniato la morte dell’uomo. Prima l’uomo veniva visto come un’entità crudele e pericolosa; oggi egli è sinonimo di una schizoide auto-alienazione. Il pericolo del futuro non sarà più la schiavitù ma l’automazione di chi non sarà capace di rivoltarsi contro questo processo. Il residuo di umanità in questi automi impedirà loro di vivere pacificamente: si trasformeranno in delle specie di golem e tenteranno 100 di distruggere il mondo, come risposta alle loro empie esistenze. L'unica alternativa che ha l'uomo per evitare automazione e guerre è di abbandonare in blocco questa tendenza e mettersi in cammino verso la propria autorealizzazione. Puoi menzionare un artista che ti ha influenzato quand'eri giovane ma che neanche il tuo fan più acceso potrebbe sospettare? Negli anni della mia formazione, prima di approcciarmi attivamente alla musica, leggevo moltissimo Eugène Ionesco, membro del Collegio della Patafisica e unanimemente considerato come uno dei fondatori del Teatro dell'assurdo. La tua risaputa cinefilia mi spinge a chiederti quali siano le tue preferenze rispetto ai maestri italiani... Sono un gran culture dell'opera di Pasolini anche in virtù della sua ecletticità, decisamente un artista imprevedibile e controverso. Un intellettuale dai tanti paradossi. Il tema dominante nella sua opera, così come nelle sue esperienze personali, è il Potere, del quale analizzò le forme più oscure. Tra libri e film collezionò più di 30 denunce per blasfemia e oscenità. Il suo confronto col Potere lo portò ai margini della società così come al centro della vita pubblica in Italia. Un dissidente del mainstream contro la cui convenzionalità e ortodossia si scagliò impetuosamente. Omosessuale, comunista, ateo: rifiutando la maggior parte dei dogmi che altri accettavano, poté votarsi alla ricerca di una verità che finì col plasmarne vita, opere e convinzioni politiche. Ebbe a dire che si può comprendere una persona solo dopo la sua morte. Promosse nella sua opera il concetto di 'sacralità naturale', l’idea cioè che tutto fosse sacro di per se stesso, senza bisogno di una legittimazione soprannaturale. Amo anche Visconti e, naturalmente Fellini e Antonioni. Te ne frega delle nuove leve dell'elettronica? Per essere onesti mi interessano altre aree sonore e, sebbene per alcuni anni abbia abbracciato un modus legato all’evoluzione tecnologica di questo medium, non mi ci sono mai calato completamente, pur venendo a contatto con questa o quella situazione interessante. Ci sono artisti che mi piacciono ma non sono famosi; sto considerando la possibilità di collaborarci per farli conoscere a un pubblico più vasto. Qual è il limite principale dell'atto improvvisativo? Va compresa, la necessità dell'improvvisazione. Determina un processo che può ridefinire una forma conosciuta o generarne nuove. Per i surrealisti si trattava di automatismo psichico allo stato puro, una situazione nella quale corpo e mente si esprimono in totale libertà. Le informazioni fluiscono liberamente e allora diventiamo loro tramite. Quando funziona può consegnarci risultati brillanti, come nel caso di Thirst o Digitaria, ma le va riconosciuta una misura e una corretta collocazione. Forse si tratta del bisogno di organizzare, in opposizione al caos di altre forme di creazione che non possiamo determinare. Ho annotato una dichiarazione di Jello Biafra: "Se ami Dio brucia la chiesa". La tua posizione in proposito a religioni e questioni dogmatiche? In un modo o nell'altro la religione ha sempre diviso le persole. È stata causa di immensi spargimenti di sangue, perpetrando e permettendo crimini atroci, fin dai tempi in cui gli sciamani persero il controllo sui loro poteri e sulla dottrina della magia. Avvenne perciò che il significato originario delle scienze occulte fu pervertito. Ricordo, a proposito, uno stralcio di una lettera dello scienziato e occultista Jack Parsons indirizzata alla moglie, la sua 'Donna Scarlatta', Marjorie Cameron: "Duecento anni fa, alla base della vittoria del cristianesimo sullo gnosticismo, troviamo il fatto che il primo, pur nella sua falsità, era 'diretto', comprensibile da persone semplici. La 'semplicità' è un concetto chiave per assicurarsi la vittoria in ogni forma di guerra e, ancor oggi, la Magia, non possiede questo requisito". Qual è la tua opinione su Crowley? Non è che 'l'uomo più cattivo del mondo' fosse un abile ciarlatano o poco più? Era, secondo il suo sistema magico, un 'magus', un grado iniziatico conseguibile da pochi individui. Si trattò di un pensatore originale in anticipo sui tempi per alcune questioni. Sicuramente fu un pioniere che schiuse molte porte poi attraversate, dopo di lui, da altri pensatori e occultisti. La gente da sempre esprime giudizi negativi su Crowley: era un personaggio dotato di grandi ascendente sugli altri e una figura indubbiamente ambigua. Puoi dirti un uomo sereno? Il più delle volte sì ma ci sono alcune occasioni che mi fanno andare il sangue alla testa. A parte questo ultimamente sembra che le ore di una giornata non bastino mai: sono diviso tra l'amministrazione dei miei progetti e il lavoro artistico. L'ideale sarebbe non doversi accollare anche la parte gestionale ma il fatto è che ora siamo solo io e Jane, non abbiamo collaboratori e c'è una mole infinita di lavoro da sbrigare. Qual è l'aspetto più straordinario dell'essere un artista? Realizzi che ogni cosa è transitoria e che creiamo al di là di noi stessi esprimendo, nel migliore dei casi, qualcosa di altrimenti inesprimibile, qualcosa di straordinario che, di volta in volta, cattura l'immagine di ciò che deve essere stato, il rigenerarsi degli atavismi, della gnosi, così come la consapevolezza che non porteremo nulla con noi dopo la morte. È solo l'artefatto di questa esistenza che rimarrà, imbevuto con lo spirito e le motivazioni di chi l'ha generato. Si perpetua così una connessione tra quelli che furono e quelli che saranno e che potranno percepire la trascendenza del tutto. 101 (GI)Ant Steps #37 classic album rev Sun Ra Godflesh The Heliocentric Worlds of Sun Ra, Volume Two (ESP Disk, Gennaio 1966) Streetcleaner (Earache, Novembre 1989) Sun Ra come Michael Jackson: un vero mistero e uno dei musicisti più influenti di sempre. Per Wu Ming 1 (Roberto Bui), il maestro della new thing più influente, persino più di Ornette Coleman e di John Coltrane. Forse perché, oltre alla musica, tradotta in una discografia sterminata e disordinata (e pluridecennale, 1956-1993), Herman "Sonny" Blount aveva dalla sua anche un immaginario - immagine e pensiero - assolutamente unico. E ingombrante. Sun Ra è l'epicentro di quello che sarebbe diventato l'afrofuturismo, un'eredità raccolta da George Clinton prima, dalla techno detroitiana poi, per giungere fino alla scena new hip hop anni Duemila. La musica di Sun Ra aveva preso avvio con la swing era, lui cresciuto nel culto della big band di Duke Ellington, e aveva attraversato le più importanti ondate stilistiche del jazz per trovare poi una via personale basata sull'improvvisazione, l'uso insistito delle percussioni e la sperimentazione con tastiere elettriche ed elettroniche (suonate con uno stile che catapulta la lezione di Thelonious Monk, che peraltro avrà modo di esplicitare il proprio apprezzamento per la musica di Ra, nell'universo free/impro). Quale istantanea scegliere allora, tra le tante possibili, per dare un'immagine chiara - e quindi opportunamente ambigua e misteriosa - dell'uomo e della sua phre e space music? Il club elegante di Jazz In Silhouette (1958), non privo di chiare anticipazioni delle eccentricità di là da venire; il camerismo sghembo per tastiere (il clavinet) e percussioni, da una parte, e l'orgia a tratti quasi noise, dall'altra, dell'esotico ed esoterico Atlantis (1969); l'apoteosi afrofuturista del film e del disco blax Space Is The Place (1972; titolo divenuto un vero motto); il flirt fusion col languido funk di Lanquidity (1978); l'incontro/scontro con un altro maestro dell'improvvisazione come John Cage (1986); l'azzeccatissimo remake della psichedelia grottesca de La danza degli elefanti rosa 102 di Dumbo (nell'omaggio alle musiche disneyane coordinato da Hal Willner e intitolato Stay Awake; 1988)? Tanto vale non scegliere affatto e abbandonarsi alla montagna di 28 cd che testimoniano i concerti per il capodanno 1981 al Detroit Jazz Center (2007)? Vince il buon senso e vince pure ai punti il secondo volume della saga dei Mondi Eliocentrici (secondo album registrato per la ESP Disk di Bernard Stollman). è uno dei titoli più rappresentativi del periodo newyorkese di Ra, caratterizzato dall'esplorazione delle possibilità dell'improvvisazione eterodiretta (quella che Butch Morris codificherà come conduction) ed è una delle sue performance in studio migliori (e meglio registrate; si senta di contro l'impasto da bootleg di Atlantis), in compagnia di alcuni dei suoi più fidati accompagnatori (i fiatisti Marshall Allen, John Gilmore, Pat Patrick e il contrabbassista Ronnie Boykins). Sono tre pezzi errabondi che tracciano vie sbilenche a metà tra il free jazz e la musica cameristica-contemporanea, animati dalla dialettica tra i vuoti e i pieni, il discreto e il continuo, coi classici momenti esclusivamente percussivi e quelle tastiere dai suoni bizzarri (qui il clavioline, un proto-sintetizzatore monofonico). Quella che ne viene fuori è l'immagine più appropriata per descrivere un'estetica in fondo ancora tutta da decifrare: il pezzo conclusivo, un flusso continuo che si fa avanti per blocchi distinti, si chiama Cosmic Chaos. Caos cosmico ma anche caso ordinato e organizzato, un qualcosa di drammatico e giocoso allo stesso tempo. Come la vita e l'arte tutta di Sun Ra. Ed è solo una goccia nel mare. Anzi, un granello di polvere nello spazio. è innegabile che l'importanza del Pop Group fu capitale quanto il lascito dei progetti paralleli, così che parlare del dopo Napalm Death comporta ragionamenti non troppo dissimili. Il triumvirato Harris, Dorian e Broadrick forgiò nomi il cui peso non fu meno rilevante di Pigbag, Rip Rig & Panic o del più famoso Mark Stewart & Maffia. Scorn fu la creatura horror dub del primo, Cathedral la bestia nera del secondo e Godflesh l'incubo del terzo, Justin Broadrick, un ragazzo che dopo la presenza nei fondamentali Head of David di Dustbowl fondò la band nel 1988 chiamando a sé l’amico G. C. Green, compagnone ultra navigato e conosciuto ai tempi dei Fall Of Because (epiteto di Killing Joke-iana memoria). A pigliarli fu la fida Earache che già aveva nelle sue fila gli stessi Napalm e maturava direzioni innovative. In particolare, il manager Digby Pearson voleva scollarsi di dosso la nomea di uomo del grind (o del death) e Streetcleaner era la risposta. Con iconografia raffigurante delle crocifissioni su di uno sfondo in fiamme, ovvero una delle prime allucinazioni del professore Eddie Jessup (William Hurt) protagonista di Stati Di Allucinazione di Ken Russell; e still di Eraserhead di David Lynch e un altro cut up preso dal corto Hold Me While I’m Naked di George Kuchar, la creatura Godflesh si apre con cadenze marziali e muri malsani di chitarre di Broadrick sorrette dal basso perfido di Green (Like Rats). Entrambi alle macchine, i due subiscono il mood plumbeo di Birmingham come vent’anni prima fu per i Black Sabbath, eppure nei Godflesh il doom si fa white noise monocorde e disperato e Swans-iano (Devastator), tra vedute Killing Joke (Christbait Rising) e rimandi ad una formazione che sottotraccia stava, nello stesso periodo, ridisegnando le geografie rock albioniche: i Loop di Robert Hampson (seppur meccaniche e chirurgiche, Dream Long Dead e Pulp lì vanno a parare). Dialettica wave, asperità noise, la cifra dei Godflesh scorre come un intenso e martellante stream of consciousness che annulla la distinzione tra i singoli episodi: è l’insieme a spaventare, come il ritrovarsi spalle al muro mentre un magma lavico si avvicina. Come la Title Track, episodio claustrofobico dove il growl di Broadrick, storpiato e assistito dalla chitarra del guest Paul Neville, pare proferito da una creatura Lovercraft-iana. Corre l’anno 1989, e per la prima volta la parola metal viene accostata al suffisso industrial. Tutto quello che verrà dopo in ambiti heavy - Fear Factory in testa - acuirà la componente cyber lasciando spazio ad una facciata tanto perfetta da risultare artefatta. Semmai occorrano eredi, li si cerchi nei Neurosis di Through Silver in Blood. Gianni Avella Gabriele Marino 103 la sera della prima Alice In Wonderland T im B urton (USA, 2010) Il nuovo film di Tim Burton è insipido. Sa troppo poco di Tim Burton e troppo di mamma Disney. L’universo carrolliano potenzialmente infinito non viene percorso in profondità: dopo la caduta nella tana del Bianconiglio, ci si attesta su una scelta di comodo piena di spunti, ma priva di slanci effettivi che vadano a percorrere e sviluppare una delle funamboliche e pazze possibilità offerte dall’universo del romanzo. Da Tim Burton mi sarei aspettato un riadattamento mo’ di American McGee’s Alice, videogame che ha saputo conferire a pieno al ritorno adolescenziale di Alice (Mia Wasikowska) nella terra incantata sfumature gotiche, plasmare felini incubi anoressici, lepidotteri narcolettici e beniamine con tanto di benzodiazepine e mannaia. Freaks veri. Invece. Servono a ben poco le intuizioni visise, le raffinatezze con cui vengono cesellate le scenografie in computer grafica, i costumi ed il trucco di una grossa masquerada di corte che ricorda le caricature di strada o i più gaudenti effetti cazzari da Photoshop. Burton gioca con il corpus carrolliano, compie un salto triplo letterario tra i romanzi con la beniamina dal capello sauro, e fino a questo punto si lamenterebbero solo i talebani della filologia romanza. Poco importa. La cosa che proprio non si può digerire è l’inspiegabile virata fantasy. Potrei capire se il testo di partenza fosse povero. Ma è il Paese delle meraviglie! Stiamo parlando 104 laio Depp che Burton ricalca mo’ di cartoon vivente dal suo Beetlejuice (1988). Spartaco di una clinica a cielo aperto, il melanconico malpelo guida la rivolta di umiliati e offesi contro la Regina Rossa (Helena Bonham Carter), irresistibile Villain della storia. L’outsider è la acida e deforme sorella maggiore dell’ebete e accidiosa Regina Bianca (Anne Hathaway) per movenze controfigura fiabesca della Norma Desmond di Wilder, per atteggiamenti figalessa pleistocenica dal trucco dark cadaverico. Qui lo dico e qui lo nego: a questo punto avrei preferito vedere un’Alice del genio inconcludente di Terry Gilliam, perché se non altro la lente psichedelica, i funghi allucinogeni, gli oppiacei ci sarebbero stati. Eccome. E non avremmo necessitato di una stereoscopia tra l’altro pleonastica per il 70% del film, ormai semplice ammennicolo commerciale. —recensioni di una cosmogonia. Chi se ne frega dei draghi, dei paladini, delle spade e delle armature, quelle lasciamole agli ortodossi di Tolkien, ai ciccioni panzoni dei tornei di D&D che si eccitano con gli item dei loro elfi silvani. Invece il sentore evidente è che la signora Linda Woolverton, già sceneggiatrice di alcuni must disneyani come La Bella e la Bestia (1991) e Il re Leone (1994), abbia consegnato un copione blindato che ammicca a La Bussola d’oro (P. Pullman, 1995) con la sua galoppata urside – e già si dovrebbe cercare di capire perché mai rievocare anche lontanamente uno dei più grossi flop del cinema recente - e i vari Narnia di C.S. Lewis, che per l’appunto con Carroll ha solo il Lewis in comune. Non solo si attinge ad un universo completante differente, ad un bacino semantico che con quello lisergico di Carroll non ha niente in comune, ma si scelgono anche gli stereotipi più scontati ed esautorati della scuola di Propp applicata alla deriva del mythos in veste fantasy: la lotta tra consanguinei per il trono con tanto di profezia, l’aiutante e l’oggetto magico, il dragone sigfridiano. La follia che diventava genio anarchico di matrice nietzchiana per Carroll, l’azzeramento dell’intelletto e il cedimento al fascino illogico della volontà primigenia, qui si vestono di un’inutilissima quanto fiacca verve che fanno del Cappellaio (l’istrionico Johnny Depp) un crociato e che sembrerebbe autorizzare la pericolosa triangolazione sillogistica in cui la follia diventa termine medio tra genialità e melanconia. Perché «i migliori sono sempre mat- Luca Colnaghi Invictus - L’invincibile C lint E astwood (USA, 2010) ti» come diceva il papà di Alice e perché la melanconia dell’uomo di genio aristotelica sembra il tratto saliente della personalità del cappellaio e degli altri protorivoluzionari. Ma la pazzia che ne deriva è una schizofrenia compulsiva che impedisce al film di essere sottoscritto ad un universo di riferimento e ad Alice di riconoscersi e di essere riconosciuta come tale. E le cose non sembrano di certo migliorare nel finale con lo slancio brianzolo da giovane imprenditrice, che fanno della nostra beniamina prima una Giovanna d’Arco in difesa dello status-quo, poi una femminista ante-litteram e una socia onoraria di Confindustria. Come in una vecchia canzone: «Alice non abita più qui». Una schizofrenia che modella il film in continuazione senza interruzione e senza meta, vittima di un’ossessiva bulimia di pozioni astringenti e biscottini nandrolonici che se sottolineano alcune piacevoli parentesi come la sequenza della scacchiera, non evitano interminabili parentesi trash come quella d’appendice della deliranza (forse il punto più basso del cinema di Burton e Depp), che vezzeggiano sulle partiture orchestrali di Danny Elfman (garanzia di casa Burton) per tutto il film per poi chiudere con Avril Lavigne. Nonostante l’esergo da giovane forzista in odore di quote rosa, il vero protagonista morale del film è il Cappel- In una scena di Invictus il capitano della nazionale Francois Pienaar, interpretato da Matt Damon, guarda all’imbrunire dalla finestra della sua camera; è la sera che precede la giornata dell’incontro con gli All Blacks e il suo pensiero, presumibilmente, corre in avanti per cercare la giusta concentrazione. La battuta successiva, invece, ci dimostra che siamo in errore: sta pensando al passato di un altro uomo, un suo nemico, che ora sta facendo il tifo per lui. Che importanza ha, quindi, quella partita di rugby che si deve disputare il giorno dopo di fronte alla forza portentosa della vita di quell’uomo? Il suo perdono, dopo 27 anni di carcere? Nessuna impresa sportiva può eguagliare la forza di quella vita che spinge in avanti, imperterrita, intrepida. Allo stesso modo dovremmo intendere questo film: ben lungi dall’essere cinema sportivo, questo è un film sulla salvezza e sulla riconciliazione rappresentate dalla vita di un uomo. Il suo insegnamento, radicalmente rivoluzionario, di “porgere al nemico l’altra guancia“ - ovvero playing the enemy – è, prima ancora che astuto e sottile, anticonformista e scandaloso. Lo scandalo del suo pensiero lo si vede dipinto sulle facce dei suoi stessi sostenitori quando Nelson Mandela irrompe, con la consueta gentilezza, alla riunione della confederazione sportiva dei neri. Mettere da parte la rabbia, le offese, le intolleranze, la misera strategia della “tifoseria contro“ ha la forza rivoluzionaria di abbattere una barriera. Utilizzare strategicamente lo sport per fare una rivoluzione equivale a spezzare una catena e astutamente lavorare al fianco il nemico. Le armi sono la ferocia della gentilezza e il potere carismatico della calma. Non è, for105 se, questo, un insegnamento da cui dovremmo tutti trarre giovamento, soprattutto oggi? Non è, forse, molto più rivoluzionaria questa lotta? Così stupisce la fiducia che Mandela nutre nella forza e nell’unione del suo popolo da lui definito “famiglia“. E come è attraente e carismatica la sua compostezza quando, per esempio, all’inizio del film ci aspettiamo che il furgoncino che si muove concitato nasconda un pericolo. Invece il furgoncino porta solo giornali i cui titoli, in prima pagina, echeggiano i repentini cambi d’opinione cui è sottoposto un leader (in questo caso il pensiero vola all’America di Obama, prima osannato poi già criticato). Smart lad, to slip betimes away/ from fields where glory does not stay/ and early though the laurel grows/ it withers quicker than the rose scriveva A. E. Housman per consolare dalla morte prematura di un giovane atleta che poteva così risparmiarsi il destino di perdere altrettanto velocemente la fama che si era procurato. Del resto l’America attuale sembra essere invocata anche dai riferimenti alla situazione economica e sociale stagnante nella quale Mandela si trova ad operare all’inizio degli anni 90. I parallelismi – lo sappiamo - spesso portano ad una visione troppo superficiale della Storia, si limitano agli effetti e, quel che è peggio, diventano ideologia. Ma non credo che Clint Eastwood abbia ceduto a questo meccanismo. Così mi sembra che, in 106 fondo, il nostro regista – aiutato da Morgan Freeman – abbia voluto soprattutto, umilmente, raccontare la storia di un Uomo più che la Storia. Una figura che possa funzionare come un punto di riferimento e una speranza in un contesto storico soffocato da paure (ecco il riferimento ai possibili attentati) e cedimenti, debolezze e atti di forza tanto arroganti quanto inutili. Dopo Gran Torino una poetica del genere spiazza e nello stesso tempo, paradossalmente, porta a compimento, si fa segno di un percorso registico che continuamente ci sorprende e non finisce mai di evolvere. Non confondiamo umiltà (classicismo, rigore) con senilità. Invictus non manca di scelte forti di regia: nella prima scena, per esempio, vediamo i due campi sportivi divisi dalla strada dove passa l’auto con a bordo Mandela, appena uscito di prigione. Basta un solo, dolce e sinuoso movimento di macchina per scoprire due mondi completamente opposti che andranno lentamente a fondersi l’uno nell’altro nel corso del film. Le note musicali sottili e cadenzate rappresentano perfettamente questo gentile lavoro di continua ispirazione. Il ralenti finale che dilata il tempo prima sincopato. La scenografia luminosamente bianca come a ribadire la superiorità di un colore; quella luce che nelle scene finali è quella del sole che illumina la partita e la coppa sollevata. Riusciamo ancora a distinguere il nero dal bianco, o è solo luce? …but the Horror of the shade/ and yet the menace of the years/ finds, and shall find me, unafraid (William Ernest Henley). Costanza Salvi Shutter Island M artin S corsese (USA, 2010) Attenzione: chi ha già visto il film può leggere la recensione, chi, invece, non l’ha visto – e ha in progetto di farlo - farebbe meglio a passare ad un’altra lettura perché il bello di questo film è proprio saperne il meno possibile. Dai commenti carpiti en passant dalle persone all’uscita del cinema dovrei, in realtà, arrivare all’opposta conclusione: “Ma allora, alla fine, è un pazzo o è il più saggio di tutti?!” oppure: “Ma che vuol dire la frase finale meglio vivere da mostro o morire da brava persona?!”; in sostanza non ci si capisce molto e siccome il problema principale di uno spettatore è capire la storia e lo sviluppo degli eventi si dovrà pur trovare un punto finale, una conclusione dirimente del problema. Eh sì, perché, nonostante tutto, siamo ancora attaccati a quel vecchio, stantio finché si vuole ma osservato con una certa nostalgia, problema della verità. È proprio questo il tema del film. Dove sta la verità? Chi ha la ragione? Non è forse più assurdo di qualunque tipo di comportamento deviato quel progetto di legittimazione dell’omici- dio che è la guerra? Come riuscire a giudicare insano un certo comportamento? Che metro di giudizio abbiamo la pretesa di formulare per giudicare i comportamenti degli altri se a molte delle nostre manifestazioni insane (violenze, soprusi, ingiustizie) abbiamo dato parvenza di rettitudine morale e legittimità? Il tema che solleva questo film è, in un certo modo, il lato anarchico delle più profonde e personali convinzioni di un individuo. "La verità non è che un esercito mobile di metafore, metonimie e antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane…" diceva quel mattacchione di Nietzsche. Chi sono i veri pazzi? È un tema kafkiano, dice ad un certo punto la psichiatra Rachel Solando che lui trova, attraverso una serie di segni premonitori, nella caverna a riscaldarsi al calore del fuoco (temi archetipici entrambi). Le tue paure giustificate appaiono, agli occhi degli altri, ossessioni di una mente malata, i tuoi dolori saranno traumi insanabili, le ragioni più profonde, farneticazioni. Che poi, alla fine, tutto si ribalti e quelli che sembravano scienziati votati alla pratica della lobotomia e fascistoidi (gli americani fascisti?! Che fanno peggior cose dei loro nemici?! Martin Scorsese azzarda questo parallelo con l’attualità e accenna alle opposizioni di potere politico…) siano in realtà psicanalisti giocherelloni che inscenano cure all’avanguardia come il role play che cosa cambia? La mezz’ora finale - che è fin esagerata nella sua lunghezzanon cambia nulla della tesi centrale: difficile e doloroso rimane il rapporto tra l’individuo e l’istituzione sociale. Più che una parabola su un uomo che deve accettare il suo dolore, il film sembra una denuncia dell’inadeguatezza – o responsabilità - della società rispetto a quel dolore. Impossibile, spesso, il compromesso. Mostri o brave persone? Finita la parte seria avrei da dire qualcosa sul film: mi sembra che Scorsese si sia fin troppo innamorato del suo lavoro, mette troppa carne al fuoco e finisce per essere deludente. Ci sono scene girate con maestria: la prima apparizione del battello nella nebbia (calma piatta, bianca, lattea, nauseante più di una tempesta), la panoramica della fucilazione dei fascisti a Dachau. Ci sono le scenografie di Dante Ferretti e Lo Schiavo, i contrasti di luce e ombra (Orson Welles), l’ambientazione claustrofobia dei corridoi e dei padiglioni (infiniti, labirintici, cangianti come la mente umana), la natura selvaggia e archetipica fuori, i soprassalti al fulmicotone, i buchi neri (la chiesetta gotica, l’incontro con George Noise, la caverna). Eppure si esce dal cinema intossicati: Scorsese strafà. Poi mi irritano i riferimenti cinephile: passi Vertigine di Otto Preminger, vada anche Jacques Tourneur (l’isoletta misteriosa e l’ambientazione gotica, Le catene della colpa) ma non stonano le vagonate di riferimenti alla storia del cinema spesso citate a sproposito? Commenti che s’addicono al film: il troppo stroppia. Sono d’accordo con Giona Nazzaro (Film Tv n.9): Il processo di Welles è il suo (taciuto) più diretto riferimento. Costanza Salvi 107 La casa editrice Odoya e SentireAscoltare presentano: PJ HARVEY Musica.Maschere.Vita Un libro di Stefano Solventi La sua musica è una sferzata misteriosa e misteriosamente liberatoria. Un’ossessione blues sbocciata nella culla del Dorset, cresciuta tra inquietudini adolescenziali e una incontenibile brama di mondo. Quando infine è esplosa, lo ha fatto col piglio travolgente dei predestinati. Dei suoi primi quaranta anni, Polly Jean Harvey ne ha dedicati venti a tracciare una parabola fatta di musica, maschere e vita. 240 pagine Volume illustrato euro 15,00 CONCEPT ALBUM Un libro di Daniele Follero Introduzione Franco Fabbri Nata sull’onda della rivoluzione musicale di fine anni Sessanta, la pratica del concept album ha accompagnato la maturità del rock, scrivendo un capitolo importantissimo nella storia della popular music. I dischi “a tema” continuano ancora oggi a rappresentare un affascinante mezzo espressivo, anche negli ambienti del pop da classifica. I recenti concept album dei Green Day sono la testimonianza più lampante di un filo rosso che, partendo da Frank Sinatra, tiene insieme Sgt. Pepper’s dei Beatles, Tommy degli Who, The Dark Side of the Moon e The Wall dei Pink Floyd, le storie d’amore di Claudio Baglioni arrivando fino ai Dream Theater e al brit-pop. 226 pagine Volume illustrato euro 15,00 www.odoya.it www.sentireascoltare.com In tutte le librerie