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MI - PERIODICO D’INFORMAZIONE E CULTURA MUSICALE - N. 4 /2016
Poste Italiane SpA. Spedizione in abbonamento postale 70% – CN/BO – Bimestrale n. 4/2016 – anno XXV/BO - € 2,00
ottobre/novembre 2016
Da Martin Fröst
all’Emerson Quartet:
autunno in festa
per i trent’anni
di Musica Insieme
Cederna, Lucchesini
e il Lyskamm danno
nuova voce ai
Canti di Leopardi
Due leggende: DeJohnette e Krakauer
per la I edizione di Bologna Modern
Il 17 ottobre
Musica Insieme
porta al Comunale
per Bologna Modern
il clarinetto virtuoso
di David Krakauer
SOMMARIO n. 4 ottobre - novembre 2016
Musica a Bologna - I programmi di Musica Insieme
Editoriale
Oltre i numeri di Fabrizio Festa
L’intervista
Francesco Ubertini di Fulvia de Colle
Bologna Modern
Prime assolute di Nicola Sani
Musica e poesia
Giacomo Leopardi: Canti
Profili
(Ri)conoscere Beethoven di Roberto Verti
I luoghi della musica
La nuova Arena Pasolini di Maria Pace Marzocchi
I concerti ottobre/novembre 2016
Articoli e interviste
Amsterdam Sinfonietta, Martin Fröst
Quartetto di Cremona, Enrico Bronzi,
Riccardo Donati, Gloria Campaner
Emerson String Quartet
St. Paul Chamber Orchestra, Patricia Kopatchinskaja
Per leggere
Musica assoluta: Brunello / Zagrebelsky,
Mioli e Dahlhaus di Chiara Sirk
Da ascoltare
Le sfumature di DeJohnette,
Quartetto di Cremona e Fröst di Piero Mioli
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MI
MUSICA INSIEME
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Amsterdam Sinfonietta
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Giuseppe Cederna
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Trio DeJohnette
Enrico Bronzi
Emerson String Quartet
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In copertina: Jack DeJohnette (foto di James Adams)
Patricia Kopatchinskaja
EDITORIALE
OLTRE i numeri
Siamo inclini a considerare i numeri come una
misura della quantità. Una pietruzza dopo l’altra: calculi appunto. Più raramente pensiamo
ai numeri come indicatori della e delle qualità.
Eppure i numeri molto spesso esprimono con
chiarezza e determinazione proprio la misura
della qualità, di un fattore cioè che saremmo
piuttosto tendenti a lasciare nel regno opinabile, e perciò sostanzialmente privo di dirimenti certezze, dell’opinione. Quando pensiamo alla nostra trentesima stagione non
vediamo un lungo elenco di quantità: quanti
concerti abbiamo realizzato, quanti artisti abbiamo ospitato, quante composizioni abbiamo
presentato in prima esecuzione assoluta e/o
commissionato, quanti progetti speciali e
quante produzioni abbiamo presentato al nostro pubblico. E non vediamo neanche il ‘tutto
esaurito’, gli abbonamenti che non bastano
più, gli autobus che vengono dai comuni della
provincia bolognese e gli studenti delle scuole
medie superiori, che partecipano da anni alle
nostre iniziative assieme ai loro colleghi dell’università. Tutto questo, del resto, lo potrete
trovare nel volume, che abbiamo or ora pubblicato proprio per fornire a chi ci segue dati e
informazioni sulla nostra attività in questi trent’anni. Quelle tre decine, invece, per noi rappresentano sostanzialmente la misura di un
impegno, sia morale, sia culturale. Vorremmo,
cioè, che dicessero a tutti qualcosa che non sta
nella quantità, ma che è altrettanto e forse più
importante: che dicessero come abbiamo lavorato, come abbiamo progettato, come abbiamo fatto le nostre scelte e quindi spiegassero come e perché siamo arrivati oggi a
festeggiare un risultato così importante. Il
‘come’ non è riducibile, però, ad un mucchio
di sassolini, piccolo o grande che sia. Sta, invece, nel modo in cui abbiamo preso uno ad
uno quei sassolini, quelle pietruzze. Nel modo
in cui abbiamo composto quello che oggi appare un complesso, ma coerente, mosaico. Soprattutto sta nelle convinzioni e nelle idee, che
ci hanno spinto ad agire, a scegliere, a costruire. Di tutto ciò vuole essere testimonianza
la stagione che ora comincia, alla quale del resto si affianca subito la partecipazione a Bologna Modern, il primo Festival per le musiche
contemporanee della nostra città, che ci vede
al fianco del Teatro Comunale. Qui Musica Insieme affronta il grande jazz, operando quindi
ancora una scelta nel contesto della qualità e
della diversificazione, che la qualità impone
per mantenersi al livello che in questi trent’anni abbiamo appunto raggiunto. Una sorta
di doppia inaugurazione, nella convinzione
consolidata che chi opera per la cultura e per
le arti debba sempre aver presente la centralità
del come agisce e delle sue ragioni. Ci vuole
cuore in questo ‘mestiere’. Ci vuole quel sentimento che non si esaurisce, quell’emozione
che non si spegne. Tutto ciò, insomma, che anche i numeri potrebbero dirci se li leggessimo
in trasparenza, andando a guardare ciò che sta
al di là dei numeri stessi.
Fabrizio Festa
MI
MUSICA INSIEME
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L’intervista
BONONIA docet
Illuminanti le riflessioni sulla città e sulla
cultura di Francesco Ubertini, Magnifico
Rettore dell’Alma Mater Studiorum
Università di Bologna dal novembre 2015
D
al suo osservatorio, come ‘fotograferebbe’ lo studente medio che oggi frequenta l’Ateneo felsineo? Ha notato
cambiamenti in questi anni, sulla base della
sua esperienza come docente e ora Rettore, nel
livello culturale o nel modo di affrontare i programmi curricolari, nei rapporti con i docenti,
nell’impegno sociale degli studenti stessi?
«È difficile fare un discorso unitario che riesca a
fotografare una popolazione di quasi 80.000 studenti. In effetti, se dovessi far riferimento alla mia
esperienza di docente ancora prima che a quella di
Rettore, dovrei dire che negli ultimi anni, forse anche per ragioni legate alle modifiche del nostro sistema didattico, ci sono stati cambiamenti notevoli,
soprattutto per il modo con cui gli studenti si
stanno adattando ai tempi richiesti per arrivare
alla laurea. Un altro fatto per me interessante è che
molti studenti, di aree diverse, sentono la necessità
di allargare le prospettive di studio magari attra-
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MI
MUSICA INSIEME
verso incontri, dibattiti, seminari che possono essere di natura anche molto diversa rispetto alle
materie ufficiali dei loro corsi. Questa curiosità è
un dato positivo, forse Bologna si caratterizza per
la ricchezza di offerte culturali che Università e
città riescono ad offrire».
L’Università è strettamente connessa alla città
in cui ‘vive’, entrambe antiche, entrambe gloriose, ma certo con le problematiche di cui si
legge quotidianamente, come il degrado nella
zona di Via Zamboni. Qual è la strategia per
combattere questa non facile battaglia?
«Il degrado è un fenomeno che caratterizza tutte le
città, il problema è che a Bologna il cuore della vita
universitaria coincide con luoghi storici che vanno
valorizzati e tutelati. Insieme ad alcuni architetti e
urbanisti stiamo pensando a un progetto di riqualificazione molto ampio, che condividiamo con
l’amministrazione cittadina. Per ora, il primo passo
è stato quello di rendere vivibile e visitabile via
Zamboni attraverso aperture straordinarie, visite
nei palazzi universitari, programmazione di eventi
per tutta l’estate».
Quali ritiene siano le principali criticità di Bologna città universitaria e quali le caratteristiche che invece la rendono unica rispetto alle altre realtà italiane?
“Musica Insieme è per noi un
partner prestigioso, tramite il
quale riusciamo a rendere più
intensi i rapporti con la città”
«L’unicità consiste, come ho detto, nell’ampiezza
di offerte formative e culturali che lo studente
trova a Bologna. La criticità sta nel rendere sempre più organiche, razionalizzate, strutturate queste offerte. Unibo è la risorsa principale di questa
città, è un luogo dove si trasmettono saperi e si sperimentano ogni giorno decine di nuovi progetti, è
un multicampus che si diffonde per tutta la Romagna, toccando città che hanno vissuto mutamenti profondi proprio grazie alla presenza di
corsi di laurea e sedi accademiche. Credo che nessuna università italiana possieda oggi queste caratteristiche, che noi consideriamo un tesoro da
rendere sempre più vivo».
A proposito del legame culturale e sociale fra
l’Università e il tessuto cittadino dove essa agisce, come vorrebbe (ri-)disegnare il rapporto
fra l’istituzione universitaria e la città, anche in
termini di relazioni fra le attività universitarie
e le iniziative culturali cittadine?
«Importante è dialogare, collaborare, mettere sul
piatto la creatività dei due interlocutori. Unibo è un
laboratorio di idee, che vengono offerte alla città,
che la città deve ricevere come un dono di cui andar orgogliosa. Dal mio insediamento, i rapporti
con il sindaco Merola e con la sua giunta sono diventati un fatto imprescindibile, si tratta di un confronto che considero essenziale. Non è un caso che
molti dei festeggiamenti per il nono centenario
del Comune siano avvenuti nell’Aula magna di
Santa Lucia, cioè nello spazio che contiene i momenti più alti della vita dell’Alma Mater. Ricordo
poi la presenza di Merola, pochi giorni dopo la sua
vittoria, alla cerimonia dei dottori di ricerca, in un
momento emozionante e molto alto».
A tale proposito, ormai vent’anni fa, grazie alla
illuminata lungimiranza dell’allora Rettore Pier
Ugo Calzolari, nasceva Musica Insieme in Ateneo, che per la prima volta vedeva collaborare
l’Università bolognese con una fondazione privata per offrire agli studenti felsinei un’occasione di incontro con la musica: non soltanto
con il concerto, che veniva e viene sempre offerto loro gratuitamente, ma anche con interventi di musicologi e degli stessi artisti sul palco,
a preparare l’ascolto con apposite conversazioni introduttive. Qual è la sua ‘politica cultu-
rale’, in particolare rispetto alle arti, come Rettore dell’Università di Bologna?
«L’incontro con la musica e con le arti è un bene
prezioso che dobbiamo assolutamente incentivare.
Musica Insieme è per noi un partner prestigioso,
tramite il quale riusciamo a rendere più intensi i
rapporti con la città. Se posso permettermi un riferimento personale, è per me un motivo di orgoglio continuare nella direzione aperta da un ingegnere illuminato e colto come il Rettore Calzolari».
Ricerca e lavoro: sono temi di scottante attualità, se da decenni si discute di cervelli in fuga
e finanziamenti alla ricerca, come pure di agevolazioni per l’accesso al mondo del lavoro da
parte dei neolaureati: quali azioni intende portare avanti per questa ‘buona causa’ durante il
suo mandato?
«Gli investimenti sulla ricerca da parte di Unibo
sono sempre stati e continueranno a essere fondamentali. Il problema della cosiddetta fuga dei cervelli è molte volte mal posto, quello a cui si deve
arrivare è un continuo processo di scambi tra intelligenze italiane e intelligenze che vengono da
fuori. Del resto i laureati italiani risultano sempre
ai primi posti quando partecipano a selezioni in territori stranieri, e questo deve essere un motivo di
vanto per il nostro sistema universitario».
Il Cortile d’Ercole
di Palazzo Poggi,
sede del rettorato
dell’Università
di Bologna
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MUSICA INSIEME
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Bologna Modern
PRIME assolute
Il nuovo Festival dedicato all’attualità musicale riunisce le forze del
Teatro Comunale e di Musica Insieme – che presenterà due leggende
come Krakauer e DeJohnette – per offrire alla città una panoramica
delle migliori esperienze compositive dell’oggi di Nicola Sani
A
Bologna, capitale della musica moderna, non
poteva mancare un festival di respiro internazionale dedicato al grande repertorio sinfonico
del nostro tempo e alle nuove proposte del panorama attuale. Bologna Modern esplora i diversi linguaggi sonori
di oggi e la scrittura sinfonica contemporanea. Teatro
Comunale e Musica Insieme aprono all’attualità con i
protagonisti dell’avanguardia, del nuovo jazz, della
scena multimediale. Un festival, ma anche un think-tank
sul rapporto musica/cultura/società, grazie all’alleanza
con TEDx Bologna, che per la prima volta si svolgerà
al Teatro Comunale proprio nel quadro del Festival (il
22 ottobre dalle ore 10 alle ore 18), nonché alla partnership con la Fondazione Golinelli. Quattro concerti
sinfonici presentano importanti autori di oggi, tra i quali
Kurtág, Scelsi, Hosokawa, Haas, Cerha, Sciarrino, Oppo,
Adams, Rihm, Roqué Alsina. Di quest’ultimo sarà eseguita in prima assoluta una nuova composizione com-
missionata dalla Regia Accademia Filarmonica di Bologna; prime assolute anche per gli italiani Caprioli, Perezzani e Traversa. I concerti sono diretti da Nikolaj
Znaider (14 ottobre, inaugurazione), con la straordinaria
violinista Arabella Steinbacher per il Concerto “Alla
memoria di un angelo” di Berg; Marco Angius (15 e 19
ottobre) e Tonino Battista (22 ottobre).
Nel programma di Bologna Modern due straordinari
eventi curati da Musica Insieme: il 17 ottobre David
Krakauer, grande clarinettista klezmer e sperimentatore delle nuove vie del clarinetto contemporaneo con il
suo gruppo Krakauer’s Ancestral Groove; il 23 ottobre
il trio di all-star con Jack DeJohnette (batteria, pianoforte) e due figli d’arte: Ravi Coltrane (sassofono) e
Matthew Garrison (basso elettrico). Per il teatro musicale del nostro tempo: Conversazioni con Chomsky 2.0
del catanese Emanuele Casale (20 e 21 ottobre, all’Arena del Sole) è un lavoro multimediale con la regia
e i video di Fabio Scacchioli, la direzione d’orchestra di
Yoichi Sugiyama e la straordinaria e poliedrica voce di
Diana Torto.
Altre iniziative collaterali sono in corso di definizione
con Fondazione Golinelli e Università di Bologna. I
concerti avranno luogo al Teatro Comunale, Conversazioni con Chomsky 2.0 all'Arena del Sole. Bologna Modern si realizza con il contributo di Paola e Marino Golinelli per la Fondazione Golinelli.
I biglietti (da 10 a 40 euro) sono in vendita sia online sul
sito www.tcbo.it sia presso la biglietteria del Teatro Comunale di Bologna. Per i due concerti organizzati da
Musica Insieme è previsto uno sconto del 20% per tutti
i settori (tranne quelli con biglietto a 10 euro) per gli
abbonati di Musica Insieme e del Teatro Comunale di
Bologna, i possessori della Card Musei Metropolitani
e della Bologna Jazz Card.
I biglietti per l’opera multimediale Conversazioni con
Chomsky 2.0 vanno da 15 a 20 euro.
Informazioni su www.tcbo.it, www.musicainsiemebologna.it e www.tedxbologna.com
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MI
MUSICA INSIEME
Foto Lars Gundersen
venerdì 14 ottobre
Il Festival Bologna Modern porterà
per la prima volta in città una full
immersion nella contemporanea:
un repertorio ancora tutt’altro che
familiare, specie in Italia…
«Credo sia un problema universale: ricordiamoci che ogni artista è stato ‘contemporaneo’, o ‘moderno’ ai propri
tempi; inoltre, circa un secolo fa è successo qualcosa. Due autori in particolare
ne sono stati i protagonisti: Schoenberg,
e a suo modo anche Stravinskij, hanno
contribuito a sviluppare il linguaggio (anche l’ultimo Mahler lo ha fatto) sino ad un
tale limite armonico, strutturale, concettuale che non vi era modo di andare oltre. Il passo successivo, come fecero Stravinskij e Schoenberg, era la creazione di
un nuovo linguaggio. Certo c’erano autori come Richard Strauss o Elgar o Sibelius che componevano come un tempo,
Marco Angius
ma chiunque fosse nato dopo quel momento doveva fare i conti con un mondo
nuovo, dove è cresciuta una grande generazione di compositori che scrivevano
in forme predefinite, come il serialismo,
portando spesso ad esercizi intellettuali
che hanno causato uno scollamento con
il pubblico. Credo che negli ultimi anni ci
sia stato un cambiamento: personaggi
come Boulez – peraltro un oratore affascinante – o Carter, la cui musica va in
una direzione che dà grande soddisfazione nel suonarla, ma è di difficile
ascolto, hanno lasciato il posto a compositori che ‘si fanno ascoltare’, e anche
chi non conosce la classica può apprezzarli. Penso a Guillaume Connesson o a
James MacMillan: la loro musica ti tocca
al primo ascolto. È molto positivo quando
la composizione possiede la facoltà di
connettersi all’aspetto emotivo dell’arte».
Accanto a una prima assoluta di
Roqué Alsina, dirigerà anche un
‘classico’ come Mendelssohn: una
combinazione che accontenterà
tutti i palati?
«Credo che accostare pezzi moderni e ‘familiari’ faccia bene ad entrambi: io stesso
penso di non avere mai compreso Beethoven finché non ho suonato Schoenberg. Abbiamo bisogno di un contesto.
Accostando i brani con intelligenza, credo
che questo sia il modo più attraente per
proporre la contemporanea. Dobbiamo
sedurre il pubblico… e credo sia una
buona cosa anche per Mendelssohn,
che ascolteremo a fine programma, e
suonerà sicuramente diverso».
sabato 15 ottobre, mercoledì 19 ottobre
Due concerti, i suoi, ricchi di prime
assolute commissionate appositamente per Bologna Modern. Dirigendo musica di autori viventi, è
prassi l’approfondimento delle partiture con i rispettivi autori?
«Con autori come Alberto Caprioli o Martino Traversa ci conosciamo da diversi
anni, quindi il lavoro procede in maniera
parallela: vengo aggiornato via via che il
pezzo viene elaborato, e posso averne
un’idea progressiva. Nel caso in cui questo non accada, affronto il pezzo come
una novità assoluta, e con la curiosità e
lo spirito d’esplorazione che contraddistingue la contemporanea – che poi è
sempre un’incognita anche per chi la
esegue, non solo per il pubblico…»
Fra le prime italiane spicca un lavoro di Salvatore Sciarrino: curioso
che proprio un autore come lui
veda solo ora una prima esecuzione nel suo paese…
«È vero. Con il Teatro Comunale abbiamo
recentemente presentato Luci mie traditrici, io stesso ne avevo diretto la prima italiana nel 2010. È un paradosso, che però
è anche significativo e sintomatico del
fatto che un autore italiano venga eseguito prima all’estero e poi torni in Italia in
prima esecuzione nazionale. Per questo
il fatto che un Teatro come quello di Bologna voglia inaugurare un nuovo festival tutto dedicato a musiche d’oggi è secondo me molto importante e va visto
come un punto di riferimento, perché siFoto Silvia Lelli
Nikolaj Znaider
gnifica che c’è chi investe per mettersi al
passo con gli altri paesi europei, che programmano la musica contemporanea.
D’altro canto, questo fatto va visto come
un’urgenza di scoperta e di aggiornamento che dovrebbe essere sicuramente
più frequente e più sentita in Italia».
Che cos’è per lei la “contemporaneità” in musica?
«È un linguaggio che parla agli esseri
presenti, non è legata tanto a un fattore
stilistico, ma al fatto che individua degli interlocutori nelle persone che vivono ora,
il che è il fatto più problematico; ma chiedersi “a chi parlo, quali sono i miei interlocutori?” è un dato fondamentale per i
giovani compositori. È importante che
un linguaggio, al di là di quanto sia sperimentale – e questo vale anche per la
musica del Novecento – venga guardato
con l’ottica del tempo in cui siamo».
MI
MUSICA INSIEME
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Foto Jean Marc Lubrano
Perché ha scelto il nome di Krakauer’s Ancestral Groove?
«La mia band si chiamava Klezmer Madness: ma negli anni la mia musica si è
evoluta, avvicinandosi a una dimensione
‘groove’ che attinge alle mie esperienze
di americano del XXI secolo. Mi è sembrato quindi logico dare alla band un
nome che riflettesse questi cambiamenti,
pur mantenendo un richiamo ai miei
antenati dell’Europa orientale».
Come collocherebbe la sua esperienza all’interno del panorama
musicale attuale?
«È sempre stato difficile categorizzare la
mia musica, e collocarla in uno ‘scomparto discografico’ preciso. Ognuno può
David Krakauer
guardare al mio lavoro da prospettive
differenti, il che è estremamente interessante. Il magazine Downbeat ha assegnato 5 stelle al mio ultimo cd con Ancestral Groove, Checkpoint. La mia
musica è considerata da sempre una diramazione del jazz, ma la nomination al
Grammy che ho ricevuto l’anno passato
era nella categoria “musica classica”! È
una questione di prospettive…».
Che peso ha la grande tradizione
clarinettistica per lei?
«Il suono del clarinetto è affine alla voce
umana, perciò sono sempre stato attratto da stili dove questo aspetto viene
enfatizzato. Ad esempio, reputo i maestri
di New Orleans come Dodds, Bechet e
Bigard molto più interessanti di altri,
come Shaw o Goodman, per i colori e i
timbri che usano. Suonare ‘semplicemente’ il clarinetto, seppure con una tecnica impeccabile, non mi entusiasma.
Traggo invece grande ispirazione dalle
Conversazioni con Chomsky 2.0
Pubblichiamo qui di seguito una breve
presentazione dell’opera multimediale
composta da Emanuele Casale, Conversazioni con Chomsky 2.0, unico spettacolo in cartellone che avrà luogo all’Arena del Sole anziché al Teatro
Comunale di Bologna
Conversazioni con Chomsky 2.0 è
un’opera audiovisiva che prende spunto
dal pensiero sociopolitico del noto linguista e attivista americano Noam
Chomsky. Inizialmente ispirato all’opera lirica, questo lavoro ha poi assunto una fisionomia propria, con molti elementi di
forte divergenza rispetto al teatro musicale convenzionale.
Le parti visive e testuali mirano a comporre un mosaico di messaggi, opinioni
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MI
MUSICA INSIEME
lunedì 17 ottobre
tradizioni folk di tutto il mondo, dall’Albania alla Grecia e, certamente, dalle
vecchie registrazioni dei maestri del klezmer dell’Europa orientale. A partire da
queste influenze, il mio obiettivo è creare
un suono distintivo con più colori e timbri possibili».
Il 17 ottobre sarà la sua prima apparizione a Bologna con l’Ancestral
Groove: che messaggio vorrebbe
diffondere con questo nuovo progetto?
«Penso che riunire vari stili rappresenti
una metafora dell’unire persone e culture, e al giorno d’oggi questo è essenziale. Certo, non si tratta solo di fare un
collage, il processo deve essere organico, e deve esaltare le caratteristiche
comuni. Ancestral Groove riunisce gli
ambiti klezmer, jazz, funk, hip-hop e la
nuova musica classica. La sfida sta nel
creare con questi elementi qualcosa di
totalmente nuovo e inaspettato».
giovedì 20 ottobre, venerdì 21 ottobre
e discorsi che sfiorano temi tipici dell’attivismo chomskyano o fanno qualche allusione a essi: linguaggio, propaganda,
mass media e politica.
L’impostazione dello spazio scenico è
semplice ed essenziale: uno schermo
proietta video sincronizzati con un
gruppo di musicisti dal vivo e una cantante (la splendida voce di Diana Torto).
Non vi sono scenografie e attori in
scena, perché i “personaggi” di quest’opera appaiono soltanto sul maxischermo: Margaret Thatcher, Milton
Friedman, Ronald Reagan, Salvador Allende, lo stesso Noam Chomsky e altri.
La componente sonora è guidata da
un direttore d’orchestra (Yoichi Sugiyama) ed è arricchita da suoni elaborati
al computer. Le musiche sono di Ema-
Emanuele Casale
nuele Casale, i video di Fabio Scacchioli.
Le idee visive nascono dalla collaborazione tra il videomaker e il compositore.
Tonino Battista
sabato 22 ottobre
Nel programma da lei diretto,
Oppo, Perezzani e Hosokawa sono
incorniciati da due ‘classici’ come
Scelsi e Adams. C’è qualche relazione fra di loro?
«Questo programma parte da presupposti di affinità e di interesse per identità
linguistico-espressive pur diverse tra loro.
Se prendo ad esempio i brani di Scelsi,
Hosokawa e Adams, nessuna evidente
matrice linguistica, tecnico-musicale o stilistica li accomuna; eppure ciascuno si
fonda sul principio della fascinazione del
suono, sulla possibilità di creare emozioni sensoriali che attengono alla percezione più istintuale. Franco Oppo mi
interessa per il suo legame con le tradizioni musicali della sua terra e per come
lui le legga attraverso la complessità del
linguaggio colto, senza rinunciare alla
visceralità del suono e dell’elemento melodico ancestrale. Paolo Perezzani è un
autore che ammiro per la sua capacità di
Jack DeJohnette
Foto Carlos Pericás
La formazione che ascolteremo è
un trio un po’ atipico, formato da
batteria, basso e sassofono.
«Oltre alla batteria, suonerò anche il pianoforte, in più l’elettronica ci permette di
creare un paesaggio sonoro quasi orchestrale. Ciò che cambia, rispetto al tradizionale trio di piano, batteria e contrabbasso, è il colore».
A proposito di colore: l’ultima incisione di Coltrane, Interstellar Space,
è per soli sax e batteria. Nel vostro
ultimo cd In Movement sembra di
porre la sua ricerca espressiva al servizio
della comunicazione: i suoni dell’orchestra di Perezzani agiscono come personaggi, situazioni drammatiche di una
scrittura teatrale».
Come si può rendere più familiare
il linguaggio musicale dell’oggi?
«Il pubblico delle nostre sale da concerto è capace di trovare la propria modalità di relazione con l’opera, anche se
si tratti di linguaggi non familiari, che
presentino complessità stilistiche poco
indulgenti con l’ascoltatore. Il problema
della difficoltà di taluni linguaggi della
contemporaneità a trovare favore, ed
anche solo a incuriosire il pubblico, risiede proprio, a mio parere, nel grado di
consapevolezza degli interpreti (nel caso
dell’orchestra, dei direttori) e nella loro
capacità di riuscire a rendere semplice
quello che all’apparenza è difficile, di fornire la giusta chiave di lettura alla complessità per permettere al pubblico di
ascoltare e “intendere” lingue diverse».
Che cos’è per lei la “contemporaneità” in musica?
«La contemporaneità siamo noi, è la nostra stessa esistenza, ci appartiene perché
ne siamo parte e la sua complessità risiede proprio in questo. Non arriveremo
mai a conoscerci abbastanza e le pieghe
del nostro tempo non ancora decodificate ci spaventano: a volte siamo incuriositi e cerchiamo delle spiegazioni più o
meno convincenti, a volte ci sentiamo a
disagio per questa imponderabilità e ci rifugiamo, mistificandolo, nel passato».
domenica 23 ottobre
coglierne qualche suggestione…
«Sì, nell’album c’è un brano dal titolo “Rashied”, per batteria e sax sopranino, che
è dedicato proprio al batterista con il
quale John Coltrane ha inciso Interstellar
Space: Rashied Ali».
Il programma che presenterete riprenderà brani dell’ultimo album?
«Di certo ci saranno alcuni brani del cd,
ma noi suoniamo ogni volta in maniera
differente, la nostra musica è sempre
‘nuova’: l’album si chiama In Movement,
e noi suoneremo proprio così, all’impronta, in movimento continuo. Ci sarà
anche molta improvvisazione, il risultato
di dieci anni di concerti insieme».
Il trio è al suo debutto a Bologna:
come presenterebbe i suoi due colleghi?
«Ravi e Matt non sono soltanto i figli di
John Coltrane e di Jimmy Garrison, che
a loro volta hanno suonato molto insieme nella vita: entrambi possiedono
una voce caratteristica e riconoscibile,
sono innovatori e hanno a loro volta
qualcosa da dire, come già i loro padri».
Ha definito la sua musica “multidimensionale”, alludendo alla diversità di stili e di culture che essa accoglie: quale funzione ascrive alla
sua musica?
«La nostra intenzione è di infondere
un’energia quasi terapeutica in chi ci
ascolta. Penso che, in un momento come
il presente, così stimolante ma anche turbolento e tragico, la musica dovrebbe
dare alle persone vibrazioni positive per affrontare i problemi di ogni giorno».
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MUSICA INSIEME
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Foto Johannes Gellner
Musica e poesia
GIACOMO
LEOPARDI
Canti
Musica Insieme e Gruppo Unipol offrono in
quattro serate la lettura integrale dei versi di
uno dei massimi poeti italiani, grazie alla voce
di Giuseppe Cederna e alle note di Schubert
S
ulla scorta dello straordinario successo che
nelle scorse stagioni ha salutato Baudelaire: I fiori del male e «Vorrei essere scrittore di musica»: Pier Paolo Pasolini poeta dei
suoni, Musica Insieme e Gruppo Unipol propongono per il prossimo autunno una nuova rassegna
di poesia e musica, incentrata su una delle figure
più significative della letteratura italiana, Giacomo
Leopardi, e sulla lettura integrale della sua più
importante raccolta poetica: i Canti, trentasei componimenti scritti durante l’arco di tutta la vita, in
cui, con una voce ancora attualissima e capace di
parlare all’uomo di ogni tempo, egli coglie i più urgenti interrogativi dell’umanità, l’ineffabilità dell’immateriale, la disperazione del dolore, l’amore,
il senso della morte. L’Unipol Auditorium di Via
Stalingrado, già teatro delle due precedenti rassegne, ospiterà dunque tra ottobre e novembre 2016
i quattro appuntamenti di Giacomo Leopardi:
Canti - Musicali accordi e sovrumani silenzi, durante i quali la lettura delle poesie sarà accostata
24
MI
MUSICA INSIEME
alla musica. Nelle sue pagine Leopardi ha infatti
dedicato ampio spazio a profonde riflessioni sul significato di questa arte, la «più universale delle bellezze». Nello Zibaldone dei pensieri scrive che
essa «produce nell’animo un ricreamento, l’innalza, o l’intenerisce secondo le disposizioni relative o dell’animo o della musica, immerge l’ascoltante in un abisso confuso di innumerabili e
indefinite sensazioni». Nell’attribuire una veste
musicale alle sue poesie è inevitabile pensare a
Franz Schubert, cui lo accomuna già la biografia:
nati a distanza di un anno, rispettivamente nel
1798 e nel 1797, furono entrambi enfant prodige
imprigionati in un contesto provinciale soffocante
per i loro aneliti di grandezza, per raggiungere
una morte precoce che non ha impedito loro di lasciare una prolifica produzione, imprescindibile
testamento per le generazioni future. «Le mie creazioni – scriveva Schubert – sono il frutto della conoscenza della musica e della mia conoscenza del
dolore». Come non udire in queste parole l’eco dei
versi di Leopardi? La lettura delle poesie sarà affidata a Giuseppe Cederna, uno dei più affermati
attori italiani dei nostri giorni, con quasi quarant’anni di carriera sul palcoscenico come sul
grande schermo. Premio Oscar con il film Mediterraneo di Salvatores nel 1991, ha lavorato con
Scola, Monicelli, Lavia e i fratelli Taviani, parte-
cipando a film e fiction di successo, come Marrakech Express, El Alamein e K2 - La montagna degli Italiani. A eseguire la musica di Schubert nella
serata inaugurale (18 ottobre), dedicata all’antichità quale faro di luminosa ispirazione, attraverso
le figure immortali di Bruto Minore, Leonida e di
Dante, sarà il Quartetto Lyskamm, uno dei più richiesti e premiati ensemble italiani, che ascolteremo anche nel terzo appuntamento (10 novembre)
con l’ultimo Quartetto del compositore austriaco a
cornice dei versi più intimi, quelli degli affetti e dell’innocenza perduta, che risuonano ne Il sabato
del villaggio e A Silvia. Il pianista Andrea Lucchesini, straordinario interprete al fianco di Claudio Abbado, Riccardo Chailly, Daniele Gatti e Daniel Harding, e unico italiano ad aver ricevuto il
prestigioso Premio Internazionale Accademia Chigiana, accosterà invece il 25 ottobre le più celebri
pagine pianistiche di Schubert a L’infinito e alle atmosfere intime e campestri de Il passero solitario
e La sera del dì di festa, e, nella serata conclusiva
del 24 novembre, agli appassionati versi d’amore
per la donna celata sotto lo pseudonimo di Aspasia e a quelli disincantati de La ginestra, in cui la
“pianta gentile” continua imperterrita a fiorire,
come un estremo messaggio di dignità e solidarietà
umana davanti alla vastità dell’Universo e alla
crudele forza di una Natura “matrigna”.
GIACOMO LEOPARDI: CANTI
Musicali accordi e sovrumani silenzi
Unipol Auditorium – ore 21
(Via Stalingrado, 37 – Bologna)
ottobre - martedì
18 All’Italia
Giuseppe Cederna voce / Quartetto Lyskamm
ottobre - martedì
25 La vita solitaria
Giuseppe Cederna voce / Andrea Lucchesini pianoforte
novembre - giovedì
10 Le ricordanze
Giuseppe Cederna voce / Quartetto Lyskamm
novembre - giovedì
24 Il fiore del deserto
Giuseppe Cederna voce / Andrea Lucchesini pianoforte
Musiche di Franz Schubert
L’ingresso ai concerti è gratuito, fino a esaurimento dei posti disponibili.
Non è consentito l’accesso in sala a concerto iniziato.
LA POESIA DI UNA VITA
I Canti di Leopardi non sono solamente una raccolta di poesie. Ci sono modi diversi di leggerli e di avvicinare un’opera che rappresenta uno dei veri grandi capolavori dell’Ottocento. Innanzitutto i Canti sono il
racconto in versi dei modi con cui Leopardi ha dato forma ai temi fondamentali del suo pensiero: l’amore,
la passione vitale, la malinconia che deriva quando la giovinezza è finita, gli ideali della gloria umana, la forza della natura e
la debolezza dell’uomo, il senso della storia, la visione negativa del presente. A questo, bisogna aggiungere che nei Canti si
ritrovano, spesso trasfigurate, tutte le fasi della vita del poeta: la poesia giovanile, più vicina ai classici e interamente dedicata
a temi eroici, la scoperta di un modo nuovo di esprimere l’interiorità negli Idilli, l’esaurirsi della vena poetica e il suo ritorno
improvviso, nei canti composti a Pisa, il ciclo amoroso ispirato al soggiorno fiorentino, la scoperta dell’ironia e di un tono sarcastico che matura negli ultimi anni a Napoli. Dunque i Canti sono anche il libro dell’intera vita di Leopardi, il libro al quale il
poeta lavora senza interruzione dall’adolescenza alla morte. Sono il libro dentro al quale possiamo leggere lo sviluppo della
concezione poetica di Leopardi, e il modo con cui passando da uno all’altro Leopardi sperimenta sempre nuove soluzioni,
senza mai arrendersi o cadere nelle abitudini. Ogni canto è un capolavoro, e ogni canto acquista valore se letto insieme a
quelli che lo precedono e lo seguono. Per questo, una vera immagine del poeta oggi può darsi solamente se i Canti vengono letti nel loro insieme, così come sono stati costruiti, con grande attenzione ma anche con enorme fatica, dal loro autore. Se dividiamo i Canti in quattro sezioni, possiamo addirittura renderci conto di come questa costruzione sia perfetta, calibrata, calcolata, come se si trattasse di un organismo che palpita grazie alle voci di cui è fatto. Questo è il terzo aspetto con
cui il libro si presenta a noi, a centonovant’anni da quando Leopardi decise di pubblicare la prima forma del libro, proprio a
Bologna, con il titolo molto dimesso di Versi. I Canti sono un coro di voci, una specie di partitura composta di decine di voci
diverse insieme alle quali sentiamo anche quella dell’autore: Saffo, il pastore errante, Bruto, Silvia, Consalvo, sono solo alcuni
dei personaggi che parlano nei versi leopardiani. I Canti sono dunque un teatro del pensiero, un palcoscenico dove vengono
messe in scena le passioni e le idee di un uomo che ha previsto, in un’altra epoca, tutto quello che i suoi posteri avrebbero
poi sentito, immaginato, pensato intorno alla vita e alla morte.
Marco Antonio Bazzocchi, Professore Ordinario di Letteratura Italiana Contemporanea, Università di Bologna
MI
MUSICA INSIEME
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Profili
(RI)CONOSCERE
Beethoven
Dieci anni fa ci lasciava troppo presto Roberto Verti: musicologo,
autore di libri e saggi, dal 1980 critico musicale del Carlino e di molti
periodici, Roberto Verti per Musica Insieme era soprattutto un amico.
Appassionato e appassionante il modo in cui sapeva ‘parlar di
musica’, proprio con lui inaugurammo, nell’ottobre 2004, questa rubrica che si proponeva di raccontare con taglio divulgativo
i compositori in cartellone. Ripubblichiamo oggi il primo dei suoi contributi, dedicato a Beethoven (che l’Emerson Quartet
eseguirà il 7 novembre); altri ne seguiranno, testimoniando ancora una volta l’attualità e luminosità del suo pensiero
N
on molti musicisti culti sono divenuti
icone pop destinate alle t-shirt. Uno tra
essi è Beethoven, il cui bicentenario della
nascita cadeva nel 1970, in pieno tramonto beatlesiano, in tempo di autunni caldi e di rivolte, con
Schroeder assatanato sul pianoforte giocattolo nelle
strisce dei Peanuts, con Kubrick che stava per fare
uscire Arancia meccanica, film ossessionato da
Beethoven e dall’allucinata “cura Ludwig”. Andava
di moda, Beethoven, negli anni Settanta. Se sfogliate le cronologie dei teatri italiani – in primis
quella del Comunale di Bologna, che allora era la
punta di diamante del “decentramento”, dell’idea
cioè, partorita dalla forte sinistra di allora, di portare la musica colta al popolo, nelle biblioteche e
nei centri civici e nelle fabbriche (a Milano con
Nono, Abbado e Pollini) – se sfogliate quei repertori di Beethoven ne trovate parecchio. Ora, trent’anni dopo, molti frequentatori italiani delle sale da
concerto non hanno mai ascoltato una Quinta Sinfonia dal vivo. Forse, Beethoven non è più di moda;
forse, Beethoven sta ritornando.
Probabilmente nessun autore attrae nella storia
della musica tanta passione ideologica: a Beethoven, la giacchetta la tirano un po’ tutti, da sempre.
Nei suoi saggi di fine anni Settanta, quando s’occupava della Krisis della cultura viennese, Massimo
Cacciari (ma con lui tutti gli esegeti della seconda
Joseph Karl Stieler,
ritratto di Ludwig van
Beethoven, 1820
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MUSICA INSIEME
Scuola di Vienna) per esempio buttava lì l’idea di
uno sconvolgente “salto nella modernità” da parte
dell’ultimo Beethoven. Il quale sarebbe stato un autore capace di prevedere e premonire, uno insomma
che scriveva da novecentista, che immaginava la
musica ante litteram, che, senza saperlo, era intento
a preparare la strada maestra del Moderno viennese:
Beethoven-Brahms-Schoenberg, come se un ineluttabile destino dovesse portare alla dodecafonia e
poi allo strutturalismo del secondo dopoguerra.
Questi anni passati dopo i Settanta sono serviti via
via a sfumare, correggere e rivedere queste iperboli,
e Beethoven sta tornando lentamente al suo posto.
Ed è un posto unico, che appartiene solo a lui.
Beethoven rappresentò un grande problema per i
Romantici, che ne fecero un monumento ma ne furono pure schiacciati: sapevano della sua grandezza, ma per molto tempo non seppero se e come
proseguire quella via.
Beethoven fu un uomo molto serio e un artista
profondamente etico (chissà se qui, nell’etica, si
trova una delle ragioni recondite di quell’incessante esercizio di ideologia intorno alla sua opera).
La sua musica – fatte poche eccezioni – trasuda
“necessità”: hai sempre l’impressione che quella
pagina “debba” essere così; la sua musica non conosce il disimpegno, ogni minimo inciso ritmico o
melodico è lì per portare da qualche parte, ogni sua
opera sinfonica, cameristica, pianistica è un piccolo
grande “teatro” drammatico, è gravida di azione, di
movimento. Rispetto ai predecessori scrisse poco:
scriveva solo ciò che gli pareva di dovere dire.
Beethoven mostra in modo esemplare la continuità
senza soluzione tra il classicismo viennese e i linguaggi romantici. L’esercizio del contrappunto e
della variazione, della scrittura colta e sapiente,
innerva tutto il suo percorso e alla fine, nell’alveo
di quello che Lenz definì a metà Ottocento come
l’ultimo dei suoi “trois styles”, irrompe veemente
dando vita alle pagine più “costruite” e anche, magicamente, più profondamente poetiche, espressive e “individuali” che Beethoven abbia concepito.
(Roberto Verti, ottobre 2004)
I luoghi della musica
LA NUOVA
Arena Pasolini
Le celebrazioni dei cinquant’anni del Pilastro, con l’inaugurazione della
nuova Arena Pasolini, confermano come il quartiere bolognese sia diventato
una delle aree più vive e stimolanti della città di Maria Pace Marzocchi
I
Foto Mario Carlini, courtesy Laminarie/DOM la cupola del Pilastro
l via per le celebrazioni dei cinquant’anni del
Pilastro, e insieme per l’inaugurazione della
nuova Arena Pasolini situata all’interno del
Parco Pier Paolo Pasolini, era previsto per il 2 luglio, ma la pioggia ha fatto slittare al 19 il concerto
straordinario “… in una notte di mezza estate” del
Teatro Comunale al gran completo, orchestra e
coro: Verdi e Rossini con le arie più famose, Mozart e Mendelssohn, entro un programma per un
pubblico numerosissimo e variegato.
Ma frattanto il 9 luglio, il vero compleanno del Pilastro – nello stesso giorno del 1966 avvenne infatti
la posa della prima pietra per la costruzione del
nuovo rione alla periferia di Bologna – c’è stata la
spettacolare illuminazione delle quattro torri del Pilastro che affacciano sul Parco Pasolini, con installazioni audiovisive e la proiezione di materiali
inediti relativi alla storia del quartiere tratti dall’Archivio digitale di Comunità. Entrambi gli eventi
si sono svolti all’interno della rassegna estiva Vocazione al contatto – nell’ambito di bè Bolognaestate 2016 – progettata e curata da Laminarie/DOM
la cupola del Pilastro, che in venti giorni ha portato
sul nuovo palcoscenico i più svariati spettacoli:
musica classica e rock, teatro, sport, arte visuale,
confermando la rinascita del Pilastro, non più alienante “quartiere-dormitorio”, ma al presente una
delle aree più vive e stimolanti della città.
I lunghi anni di degrado ed abbandono avevano
corroso anche il “cratere” teatro su cui ora insiste
la nuova arena, per il quale circa 40 anni fa lo scultore Nicola Zamboni, chiamato a popolare di statue la zona del Virgolone ancora allo stato di pre-
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MUSICA INSIEME
fabbricato, aveva realizzato i sedili fatti di tronchi
di legno come se il pubblico prendesse posto in
mezzo ad un bosco appena tagliato. E finalmente i
recentissimi interventi artistico-architettonici che
rientrano nel “Progetto Pilastro 2016” hanno consegnato alla città un nuovo spazio per la cultura
nelle più svariate espressioni, in grado di richiamare
pubblico da vari luoghi della città, e dal centro alla
periferia che si fa centro.
Luogo della cultura, ma anche luogo del sociale: i
lavori sono stati infatti realizzati dall’Associazione
O.N.L.U.S. Terra Verde e dall’Istituto Professionale
Edile insieme ad un gruppo di allievi della Scuola
Cantiere, giovani in situazioni di disagio inseriti in
un percorso formativo e lavorativo.
L’Arena Pasolini è costituita in realtà da quattro
arene, che possono ospitare 850 spettatori, in mezzo
alle quali il palco costituisce un elemento cerniera,
mentre le gradinate sono collocate in modo da formare una sorta di teatro greco. Anche alcune delle
statue realizzate da Nicola Zamboni negli anni Settanta concorrono a questa rievocazione del teatro
antico: sono state infatti collocate nel foyer, nelle ali
acustiche e intorno agli ingressi dell’Arena, quasi
a rievocare la frons scaenae dei teatri antichi.
In un momento di forte dibattito ideologico sulle
periferie che coinvolge gli architetti più impegnati
nel sociale, che ne ripensano il ruolo anche in
chiave culturale ed artistica, il rinnovato quartiere
del Pilastro, con il suo Parco e la nuova Arena, può
davvero indicare una strada che val la pena percorrere. E quanto agli spettacoli, è già in cantiere la
prossima stagione estiva.
Foto Marco Borggreve
Patricia Kopatchinskaja
di scena il 21 novembre 2016
con la St. Paul Chamber Orchestra
I CONCERTI ottobre/novembre 2016
Lunedì 10 ottobre 2016
AUDITORIUM MANZONI ore 20.30
AMSTERDAM SINFONIETTA
MARTIN FRÖST....................................................clarinetto
CANDIDA THOMPSON.................................maestro concertatore
Bruckner, Weber, Janáček, Brahms, tradizionale/Fröst, Bartók
Il concerto fa parte degli abbonamenti: “I Concerti di Musica Insieme”
e “Invito alla Musica” – per i Comuni della Città metropolitana di Bologna
Lunedì 24 ottobre 2016
AUDITORIUM MANZONI ore 20.30
QUARTETTO DI CREMONA
ENRICO BRONZI.................................................violoncello
RICCARDO DONATI........................................contrabbasso
GLORIA CAMPANER.......................................pianoforte
Schubert
Il concerto fa parte degli abbonamenti: “I Concerti di Musica Insieme”
e “Invito alla Musica” – per i Comuni della Città metropolitana di Bologna
Lunedì 7 novembre 2016
AUDITORIUM MANZONI ore 20.30
EMERSON STRING QUARTET
Beethoven
Il concerto fa parte degli abbonamenti:
“I Concerti di Musica Insieme” e “Musica per le Scuole”
Lunedì 21 novembre 2016
ST. PAUL CHAMBER ORCHESTRA
PATRICIA KOPATCHINSKAJA............ violino
AUDITORIUM MANZONI ore 20.30
Klein, Mendelssohn, Schubert, Dowland, Kurtág
Il concerto fa parte degli abbonamenti: “I Concerti di Musica Insieme”
e “Invito alla Musica” – per i Comuni della Città metropolitana di Bologna
Per ulteriori informazioni rivolgersi alla Segreteria di Musica Insieme:
Galleria Cavour, 2 - 40124 Bologna - tel. 051.271932 - fax 051.279278
[email protected] - www.musicainsiemebologna.it
Lunedì 10 ottobre 2016
PER UN’EUROPA
senza confini
Si alza il sipario con uno straordinario
debutto: quello dell’Amsterdam Sinfonietta
e del clarinetto di Martin Fröst,
in un viaggio alle radici della musica,
tra suoni popolari e grande repertorio
Foto Marco Borggreve
di Luca Baccolini
Lunedì 10 ottobre 2016
I
l fulminante e cosmopolita attacco de La lingua salvata di Elias Canetti vale una lezione
di convivenza e forse anche di musica. «Rustschuk, sul basso Danubio, dove sono venuto al
mondo, era per un bambino una città meravigliosa,
e quando dico che si trova in Bulgaria ne do un’immagine insufficiente, perché nella stessa Rustschuk
vivevano persone di origine diversissima. In un
solo giorno si potevano sentire sette o otto lingue.
Oltre ai bulgari, che spesso venivano dalla campagna, c’erano molti turchi, che abitavano in un
quartiere tutto per loro, che confinava col quartiere
degli “spagnoli”, dove stavamo noi. C’erano greci,
albanesi, armeni, zingari. Dalla riva opposta del
fiume venivano i rumeni. C’era anche qualche
russo, ma erano casi isolati». Le sette lingue rievocate da Canetti, all’alba del Novecento, sono le
note di una Mitteleuropa che conosceva meno
confini di quanti oggi si tenda a voler riedificare.
Era l’Europa degli Imperi l’un contro l’altro armati, ma anche quella che, con poche ore di navigazione, portava architetti da Vienna fin quasi alle
foci danubiane sul Mar Nero e, con percorso inverso, giovani rampanti della provincia, tal Gustav
Mahler per esempio, verso il Teatro dell’Opera di
Corte. La musica colta ha sempre rielaborato, corteggiato e talvolta inglobato i linguaggi che provenivano dai quattro lati delle periferie europee:
Spagna, Scandinavia, Africa e Russia. Ma solo
l’inizio del Novecento ha messo le basi per una lettura non solo coloristica ed esotica dell’enorme patrimonio popolare che il riemergere dei nazionalismi aveva fatto affiorare in superficie. Il risultato
di questa irruzione non fece soltanto progredire gli
studi di etnomusicologia, ma fornì anche agli stessi
I PROTAGONISTI
Amsterdam Sinfonietta, fondata nel 1988, ha calcato i palchi più prestigiosi, dalla Barbican Hall di Londra
alla Konzerthaus di Berlino. Guidata dal primo violino
e direttore artistico Candida Thompson, si esibisce
senza direttore, una scelta che la distingue dalla maggioranza delle altre orchestre da camera, collaborando
con solisti di fama internazionale, come David Fray, Janine Jansen, Dejan Lazic, Steven Isserlis. Martin Fröst
è oggi uno dei clarinettisti più richiesti nel panorama internazionale. Attivo al fianco della Gewandhausorchester di Lipsia, come dell’Academy of St.-Martin-in-theFields, è Artista Residente al Concertgebouw di Amsterdam. Nel 2014 ha ricevuto il prestigioso “Léonie Sonning Prize”, assegnato negli anni a personalità quali
Sviatoslav Richter, Cecilia Bartoli, Daniel Barenboim.
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MUSICA INSIEME
LUNEDÌ 10 OTTOBRE 2016
AUDITORIUM MANZONI ORE 20.30
AMSTERDAM SINFONIETTA
MARTIN FRÖST clarinetto
CANDIDA THOMPSON maestro concertatore
Adagio dal Quintetto per archi
in fa maggiore WAB 112
Anton Bruckner
Carl Maria von Weber
Concerto n.1 in fa minore-maggiore op. 73
per clarinetto e archi
Leoš Janáček
Suite JW 6/2 per archi
Johannes Brahms
Danza ungherese n.14 (trascrizione
per clarinetto e archi di Roland Pöntinen)
Tradizionale/Göran Fröst
Danza klezmer n. 2 per clarinetto e archi
Béla Bartók
Danze popolari rumene Sz. 68 (trascrizione
per clarinetto e archi di Jonas Dominique)
Tradizionale/Göran Fröst
Danza klezmer n. 3 per clarinetto e archi
Introduce Sandro Cappelletto, scrittore, storico
della musica, giornalista de La Stampa
compositori nuovi strumenti creativi, rivelando
l’urgenza di affrancarsi (o semplicemente di prender respiro) dai modelli ottocenteschi tedeschi.
«Lo studio di questa musica contadina – confessava Bartók – era per me di decisiva importanza,
perché esso mi ha reso possibile la liberazione
dalla tirannia dei sistemi maggiore e minore fino
allora in vigore. Infatti la più gran parte e la più
pregevole del materiale raccolto si basava sugli antichi modi ecclesiastici o greci o anche su scale più
primitive. Mi resi conto allora che i modi antichi
ed ormai fuori uso nella nostra musica d’autore
non hanno perduto nulla della loro vitalità. Il loro
reimpiego ha permesso combinazioni armoniche di
nuovo tipo. L’impiego siffatto della scala diatonica
ha condotto alla liberazione dal rigido esclusivismo
delle scale maggiore e minore ed ebbe per ultima
conseguenza la possibilità di impiegare ormai liberamente e indipendentemente tutti e dodici i
suoni della scala cromatica». Ben prima degli approdi dodecafonici, insomma, fu il materiale popolare rumeno, ungherese e tzigano a fornire
nuove possibilità espressive, accresciute poi dalla
vivace porosità della musica klezmer, l’immenso
crocevia presidiato dalla cultura ebraica quando
questa venne a contatto con i popoli dell’Est Europa. In questo formidabile esercizio di sintesi,
prima ancora che di stile, s’era buttato anche Johannes Brahms. Ma le sue Danze ungheresi (così
come i Zigeunerlieder – Canti tzigani per coro e
pianoforte), pur denotando forte curiosità verso
quel versante, non costituivano che un fugace diversivo rispetto alla sua attività creativa principale.
In Brahms, poi, il mondo tzigano spesso coincideva con il folklore magiaro: una confusione veniale, ma sintomatica del bisogno di chiarezza che
avrebbe portato negli anni a seguire il contributo
etnomusicologico di Janáček e Bartók. La simultaneità tra ricerca di suoni popolari e tradizione, in
ogni caso, non smette mai di sorprendere. Due
anni soltanto separano il Quintetto per archi in fa
maggiore di Anton Bruckner (1879) dalla Suite per
archi di Janáček (1877). Su di loro aleggia sempre
il cromatismo wagneriano, spiccato nel primo (a tal
punto che sembra quasi di sentirne già le estreme
conseguenze della Scuola di Vienna), più soffuso
nel secondo. Ma al di là di questa inevitabile influenza, siamo su due pianeti lontanissimi. Nella
Suite, infatti, il giovane Janáček (ancora studente)
riprende elementi della viva tradizione popolare
morava, con una libertà rapsodica
(e armonica) sideralmente distante
Lo sapevate che
dalla scuola tedesca. Quello che
Martin Fröst è direttore
Brahms, insomma, giudicava un
curioso passatempo, per la nuova
artistico del Vinterfest
generazione ‘di periferia’ diventa
di Mora in Svezia e
palestra formativa e poi esigenza
dell’International
creativa. Di questo passaggio, che
tra Brahms e Janáček avviene nelChamber Music Festival
l’arco di una generazione e mezzo,
di Stavanger in Norvegia
si ha più ampia visione attraverso la
gittata epocale che compie il clarinetto dalle mani di Carl Maria von Weber (17861826) a quelle di Stravinskij. Un secolo separa il
Concerto per clarinetto n. 1 del primo dai Tre
pezzi per clarinetto solo dell’altro. Al di là della libertà espressiva che si prende Stravinskij nel 1919,
ciò che affiora è la progressiva acquisizione di
linguaggi multiculturali dentro lo stesso strumento.
Quella che per Weber, agli inizi dell’Ottocento, poteva essere una fascinazione popolaresca (filtrata
dal contributo del primo romanticismo tedesco),
nei compositori d’un secolo dopo diventa una lingua vera e propria, o più lingue contemporaneamente, padroneggiate per giunta con disinvoltura. Il merito è da attribuirsi senz’altro al
repertorio delle periferie, e al contributo klezmer
alla musica colta, che in Mahler trova il suo più sublime rappresentante. Ma che oggi, da Göran Fröst
a Osvaldo Golijov, sembra non aver mai smesso di
tacere il suo enorme potenziale. Canetti il poliglotta, col suo sfaccettato Danubio, insegna ancora oggi un linguaggio universale dei popoli.
DISCOGRAFIA
L’Amsterdam Sinfonietta non solo vanta una straordinaria carriera concertistica, ma anche un’importante attività discografica. Con Martin Fröst ha registrato, ad esempio,
già nel 2003, un Concerto di Mozart (etichetta BIS). Solo un
esempio appunto, che non dice però della vastità del catalogo e della varietà del medesimo. Solo per restare all’oggi,
Schubert nel 2015 (i quintetti), un album tutto argentino, l’anno precedente Šostakovič, e Weinberg nel 2013. E prima Britten, Mahler, i Boemi (tutto Channel Classics), non potendo
non citare la registrazione di Quasi parlando di Tigran Mansurian, realizzata nel 2014 per la prestigiosa ECM.
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MUSICA INSIEME
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Alla ricerca delle radici
> Intervista doppia > Candida Thompson e Martin Fröst
ono ormai trascorsi dodici anni dal fortunato incontro fra Martin Fröst e la Amsterdam Sinfonietta, un incontro che ha dato vita ad almeno
quattro tournée internazionali, l’ultima delle quali, il prossimo ottobre, toccherà per la prima volta in assoluto la
nostra città, per proseguire poi verso Roma (Bologna e
la capitale le uniche due date italiane del tour) e riattraversare i confini verso Gran Bretagna e Paesi Bassi.
È lo stesso Martin Fröst, a due voci con Candida Thompson, maestro concertatore della compagine olandese, a
raccontarci il loro incontro e l’originale progetto “The Roots”, che li vedrà esplorare letteralmente le origini del repertorio clarinettistico, ma anche di quel ‘popolare’ in
musica che tanto ha affascinato – e continua ad affascinare – i compositori.
S
Signora Thompson, ci parlerebbe del ruolo del
‘Maestro concertatore’ in un’orchestra che si esibisce senza direttore?
Thompson: «Ho assunto il ruolo di Maestro concertatore
della Amsterdam Sinfonietta nel 2001. Quando si suona
senza direttore, com’è il caso della Sinfonietta, per i musicisti l’esperienza diventa più assimilabile a quella della
musica da camera. In ogni caso, il mio compito è quello
di avere una visione generale molto chiara e onnicomprensiva di ciò che stiamo suonando, ma al contempo di
ascoltare e rispettare tutti coloro che sono accanto a
me, interagendo con loro costantemente. Si tratta in sostanza di mantenere sempre aperta, durante l’intero processo esecutivo, la comunicazione fra tutti gli aspetti e gli
elementi in gioco».
Come è nata la collaborazione con Martin Fröst?
Come definirebbe questo straordinario artista?
Thompson: «Abbiamo lavorato spessissimo con Martin. È
senza dubbio un clarinettista incredibile: la sua tecnica e
la sua espressività non conoscono limiti, quindi Martin
può trasmettere le sue idee musicali senza la minima difficoltà. È anche molto creativo e ama infrangere la tradizione, ma solo per infonderle nuova vita».
“I concerti più belli sono
quelli in cui tutti siamo ‘lì’,
insieme nel medesimo istante,
la musica si libera, e tutte le
voci si completano tra loro”
Un’amicizia di lunga data, non una collaborazione occasionale: che ne pensa Martin Fröst?
Fröst: «Credo che quando si continua a lavorare insieme così a lungo sia davvero un buon segno: i musicisti dell’Amsterdam Sinfonietta sono estremamente ricettivi e
aperti, ed hanno un particolare
entusiasmo per il ‘fare musica
insieme’, il che è tutt’altro che
ran Fröst, che le versioni per clarinetto e archi
delle danze di Brahms e di Bartók, sono quindi
delle ‘nuove’ letture di quelle musiche?
«Sì, una conseguenza di queste libere trasformazioni è
proprio il fatto che gli arrangiamenti, sia quelli del cd
Roots che quelli che ascolterete a Bologna, non sono
pure e semplici trascrizioni per clarinetto e orchestra. Il
concetto è ben più ampio, e lo abbiamo pensato con la
massima libertà. In fondo, tutta la musica che noi eseguiamo è sottoposta a una trasformazione, nel momento
stesso in cui viene ri-suonata, nel presente e nel futuro
“Tutta la musica che eseguiamo
è sottoposta a una trasformazione
nel momento stesso in cui viene
ri-suonata, nel presente e nel
futuro delle sue esecuzioni”
Foto Marco Borggreve
scontato. La loro reattività, la comunicazione costante, lo
scambio reciproco di idee e stimoli fanno sì che non si
tratti mai di ‘me e l’orchestra’, bensì di una vera e propria
interpretazione condivisa. Ed è stato così fin dalla prima
nota, dodici anni fa: tutto quello che abbiamo prodotto
lo abbiamo creato noi, insieme. Amo davvero questo
aspetto del far musica, e per l’Amsterdam Sinfonietta è
semplicemente il loro modus operandi abituale. Si comportano esattamente come una band rock, o come un
quartetto d’archi…».
Signora Thompson, ha qualcosa da aggiungere?
«Ne siamo lusingati! In effetti devo dire che fra le tantissime esperienze interessanti di questi anni, i concerti più
belli sono quelli in cui tutti siamo ‘lì’, insieme nel medesimo istante, e la musica si libera, l’orchestra diventa un
organismo estremamente flessibile, e tutte le voci si completano tra loro».
Nel programma ideato per Bologna, la tradizione folk, con la voce solista del clarinetto, è alternata a due brani per archi. Ci parlereste del
vostro approccio verso due opere così diverse
come l’Adagio di Bruckner e la Suite di Janáček,
e di come si leghino all’intero programma?
Thompson: «Janáček è noto per la sua attenzione alla musica popolare, e così la sua musica e il suo pensiero si adattano perfettamente al programma. L’Adagio del Quintetto
di Bruckner è un’opera incredibilmente bella e raccolta di
un compositore molto più conosciuto per le sue sinfonie
che non per la musica da camera. In questa versione per
archi è possibile bilanciare la voce intima di Bruckner con
la sonorità meravigliosa che si può creare con un ensemble d’archi. Non necessariamente e non sempre amo
le trascrizioni per orchestra dei brani cameristici, ma in
questo caso credo che la riuscita sia splendida».
Maestro Fröst, da dove viene l’idea di questo programma?
«Tutta la musica che conosciamo trae origine dalle tradizioni popolari, come pure dal repertorio sacro. Pochi
mesi fa ho inciso un cd, dal titolo Roots [recensito in queste pagine nella rubrica Da ascoltare, ndr], che prende
il via proprio da questa idea. Nel cd ero accompagnato
dal coro e dagli strumenti della Royal Stockholm
Philharmonic Orchestra, ma nel concerto per Bologna
abbiamo voluto sperimentare un’altra formazione, inventandoci una versione ‘da viaggio’, forse ancor più interessante di quella più pomposa, a orchestra piena, del
cd. Un ensemble come la Amsterdam Sinfonietta, del resto, è ben più flessibile di un’orchestra sinfonica in senso
stretto. La musica gipsy del programma va dalle Danze
rumene di Bartók a quelle ungheresi di Brahms, al klezmer ebraico: tutti repertori che suonano assai più affascinanti e briosi se interpretati da un ensemble contenuto
di archi. Insomma, abbiamo trasformato la ‘versione di
Stoccolma’ in un ‘format Amsterdam Sinfonietta’, e con
fantastici risultati!».
Sia le danze klezmer trascritte da suo fratello Gö-
delle sue esecuzioni. Ad esempio, io interpreto alcune
delle melodie klezmer rese famose da Giora Feidman.
Credo che Giora (il celeberrimo clarinettista klezmer di
origini argentino-israeliane) sia assolutamente eccezionale, tuttavia quando sono io ad eseguire il
‘suo’ klezmer, i brani ne escono reincarnati in qualcosa di completamente diverso, qualcosa che parla
di me: è un processo naturale».
Quindi, possiamo parlare anche in questo
caso di una musica antica e contemporanea insieme?
Fröst: «Noi musicisti ambiamo in definitiva ad una
sola cosa: scoprire e ricreare la musica in modo
che sia ogni volta fresca e nuova. Se ascoltiamo
oggi un brano musicale, e subito dopo ne ascoltiamo l’esecuzione da parte di un artista o di un ensemble di cinquant’anni fa, lo stesso brano suona
come qualcosa di completamente diverso. Probabilmente non ascoltiamo nemmeno la stessa melodia
che sentiva Beethoven quando l’ha composta. Nel
contempo, stiamo trasformando la musica in
qualcosa che appartiene a noi, qui e oggi.
È proprio questo il concetto che sta alla
base di Roots: in che modo veniamo
influenzati dal passato, e come noi lo
influenziamo a nostra volta. Per me
è di estrema importanza la consapevolezza di quel passato, la
consapevolezza delle fonti».
(si ringrazia Agnes
van der Horst per il
contributo di Martin Fröst)
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MUSICA INSIEME
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Lunedì 24 ottobre 2016
SCHUBERT
mon amour
Il Quartetto italiano più acclamato al mondo con
tre colleghi d’eccezione per immergerci nella
produzione cameristica schubertiana, con il suo
più emblematico quartetto e gli unici due quintetti
della sua produzione di Maria Chiara Mazzi
Lunedì 24 ottobre 2016
LUNEDÌ 24 OTTOBRE 2016
AUDITORIUM MANZONI ORE 20.30
QUARTETTO DI CREMONA
CRISTIANO GUALCO violino
PAOLO ANDREOLI violino
SIMONE GRAMAGLIA viola
GIOVANNI SCAGLIONE violoncello
ENRICO BRONZI violoncello
RICCARDO DONATI contrabbasso
GLORIA CAMPANER pianoforte
Franz Schubert
Quartetto n.14 in re minore D 810
La morte e la fanciulla
Quintetto in do maggiore D 956
per due violini, viola e due violoncelli
Quintetto in la maggiore D 667
per pianoforte, violino, viola,
violoncello e contrabbasso – La trota
Introduce Simone Gramaglia
V
ienna, tra 1815 e 1828: siamo nel pieno
di quella Restaurazione che proprio dal
Congresso di Vienna viene sancita e organizzata. In città l’aria è cambiata. Basta guerre
e basta confusione: ciascuno a casa propria, nel
proprio salotto, con la famiglia o con gli amici più
I PROTAGONISTI
Universalmente considerato l’erede del Quartetto Italiano, il Quartetto di Cremona è ospite delle principali sale e festival: dalla Konzerthaus di Berlino, al
Coliseum di Buenos Aires, dal Bozar di Bruxelles, alla
Wigmore Hall di Londra. Enrico Bronzi, violoncellista e direttore d’orchestra, ha calcato i più importanti
palcoscenici internazionali, ricevendo nel 2001 il
“Premio Abbiati” della critica musicale italiana.
Riccardo Donati, primo contrabbasso dell’Orchestra
del Maggio Musicale Fiorentino, è vincitore nel 2005
del Primo Premio Assoluto al Concorso internazionale
“Valentino Bucchi” di Roma. Gloria Campaner,
prima pianista italiana ad aggiudicarsi il prestigioso
“Premio Borletti-Buitoni Fellowship” nel 2014, si esibisce in Italia, Europa, Asia, Africa e Sud America.
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MI
MUSICA INSIEME
cari, a leggere, suonare o semplicemente conversare. Non è più il tempo dei grandi ideali della Rivoluzione, ma quello delle piccole aspirazioni casalinghe incarnate dal Biedermeier. Da una parte
tuttavia sta Beethoven, che qui vive e opera, i cui
lavori sono ‘classici’ e a cui tutti devono fare riferimento, mentre lui sta già percorrendo strade fuori
da ogni territorio conosciuto. Dall’altra, nella
stessa città, abita Franz Schubert, del quale i concittadini apprezzano solo la Hausmusik, mentre i
lavori più impegnativi, nei quali egli propone una
visione dell’arte opposta a quella del suo illustre
concittadino, sono quasi totalmente ignorati. Su
questo sfondo storico e sociale si inquadra il viaggio, proposto dal concerto, nella grande produzione cameristica schubertiana, quella che, con
ogni probabilità, i viennesi non conobbero nemmeno. Gli anni tra il 1824 e il 1826 sono quelli nei
quali Beethoven compone gli ultimi quartetti, nei
quali egli trasforma la dialettica della forma-sonata
in un crogiolo di contrasti psicologici, caricandola di significati filosofici oltre che musicali, ma
sono gli stessi nei quali Schubert stravolge quell’ideale, muovendosi verso la progressiva e totale
dissoluzione della forma. Nei quindici quartetti
del suo catalogo (scritti tra il 1812 e il 1828) assistiamo infatti ad un mutamento delle motivazioni
e delle prospettive interiori: se i primi sono soprattutto esercizi stilistici ancora legati all’idea
del fare musica in un ambito ristretto e familiare,
successivamente l’idealità delle sonate e delle sinfonie comincia a far sentire il suo peso anche e in
particolare sulle forme cameristiche che non prevedono il pianoforte, mentre negli ultimi capolavori per archi è definitiva la dicotomia tra Schubert
e i contemporanei. In particolare, come afferma
Einstein: «Mai egli si mostrò più indifferente verso
Beethoven, come pure verso ogni altro modello, di
quanto non lo sia stato in questi pezzi, i quali spiccano con grande rilievo nel panorama della musica
romantica a causa che non hanno bisogno di pubblico e nemmeno, quasi, di un ascoltatore». L’edificio architettonico tradizionale, accettato esteriormente, viene dissolto dall’interno; la struttura,
che pare solida, si frantuma in una serie di immagini che si susseguono per giustapposizione, nate
dall’impossibilità dell’autore di resistere al fascino
di un’idea o di una invenzione melodica che gli appaia alla mente. Con questa disposizione va ascoltato il Quartetto D 810 La morte e la fanciulla, del
1824, ma pubblicato postumo nel 1831, che nasce,
come anche altre composizioni schubertiane, dalla
germinazione di un Lied con lo stesso titolo. Un
tema la cui scansione ritmica dattilico-spondaica –
una lunga-due brevi/due lunghe – che caratterizza
anche altre composizioni del musicista non determina solo l’Adagio, ma aleggia opportunamente
trasformata fra le note di ciascun movimento della
composizione. Quattro anni separano questo lavoro dal Quintetto D 956 che, composto nell’agosto e settembre 1828, fu completato solo due mesi
prima della scomparsa del compositore. Nel marzo
1828 Schubert, benché malato e amareggiato per
l’incomprensione del pubblico e l’opportunismo di
editori che puntavano solo sulle opere più commerciali, riesce ad organizzare a Vienna un concerto per gli Amici della Musica interamente dedicato a proprie musiche. L’appuntamento riscuote
un successo tale da convincerlo a dedicarsi con
nuova lena all’attività compositiva: nascono così
alcune opere di portata artistica straordinaria, tra
cui le ultime tre sonate per pianoforte e, appunto,
il Quintetto in do maggiore, che sarà eseguito in
pubblico per la prima volta nel 1853 e pubblicato
in partitura nel 1871. Questa, che è l’ultima composizione cameristica del Viennese e quasi un ‘testamento spirituale’, nulla ha a che fare infatti con
i numerosi quintetti con lo stesso organico che
Boccherini aveva composto agli inizi del secolo.
Diverse erano le motivazioni e le intenzioni compositive, estetiche e sociali, e il raddoppio del vio-
loncello, che in Boccherini è impiegato in senso armonico e strutturale, in Schubert dà invece un ‘colore’ cupo all’intera composizione, la quale si lega
quindi alla profondità concettuale ed emotiva degli ulLo sapevate che
timi quartetti. Il viaggio nel
Gloria Campaner è
camerismo di Schubert prostata protagonista del
posto dal programma si conclude tornando cronologicadocumentario Heart of
mente indietro, all’estate del
Stone con la partecipazione
1819, durante la quale il
dell’artista sardo Pinuccio
compositore con un gruppo
Sciola, conosciuto per
di amici è in vacanza a
Steyr. Presso la famiglia
le sue sculture sonore
Schellmann passa le serate a
suonare e a cantare, e qui
uno degli amici (Sylvester
Paumgartner) gli chiede una composizione da suonare tutti insieme. Nasce così il Quintetto D 667,
La trota, il cui organico strampalato (non l’unione
fra pianoforte e quartetto d’archi, ma la presenza
di un contrabbasso) è frutto appunto della richiesta del committente, affascinato dall’organico di
un’analoga composizione di Hummel molto popolare all’epoca. Committente al quale si deve anche la richiesta dell’uso del Lied Die Forelle (La
trota, appunto), che Schubert aveva composto due
anni prima, come tema per le variazioni del movimento centrale. È questo lo spirito da cui nasce il
Forellenquintett (pubblicato postumo nel 1829),
affine a quello delle composizioni cameristiche
per pianoforte a quattro mani, nelle quali Schubert,
come raramente accade, sembra uscire dal suo
isolamento culturale e si esprime invece con un
senso di felice e spensierata conversazione.
DA ASCOLTARE
Quante incisioni esistono de La morte e la fanciulla? Difficile dirlo. E l’elenco pure per La trota non è meno lungo. Il Quartetto
D 810 lo hanno registrato (lp poi riversato su cd, cd) tutti o quasi: Quartetto Italiano, Amadeus, Tokyo, Alban Berg, Emerson,
Guarneri, e via così fino ai più recenti, a cominciare dallo Hagen. Inutile persino tentare di fare una sorta di classifica. Ancor
più difficile discutere d’interpretazione. Negli ultimi ottant’anni
è cambiato non solo il modo di registrare la musica, ma anche
quello di interpretarla. Analogo il discorso per La trota. Fra le
incisioni storiche segnaliamo, comunque, quella di Emil Gilels
con l’Amadeus Quartet (su cd DGG dal 1995) e quella di Sviatoslav Richter con il Quartetto Borodin (su cd EMI dal 2010).
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MUSICA INSIEME
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Musica è vita
> Intervista doppia > Quartetto di Cremona e Gloria Campaner
Simone Gramaglia e Gloria Campaner insieme il 24 ottobre sul palcoscenico di Musica Insieme per farci ascoltare quello che entrambi definiscono un unicum nella
produzione di Schubert. Dalle parole di entrambi traspare
un grande entusiasmo e una grande passione per la
compagna di vita che hanno scelto: la Musica. Simone
Gramaglia, violista del Quartetto di Cremona e la pianista Gloria Campaner si raccontano tra grandi soddisfazioni, incontri prestigiosi e sogni ancora da realizzare.
Nel corso della vostra carriera avete avuto modo
di incontrare artisti di fama internazionale, che
fino a pochi anni fa pensavate irraggiungibili. Ci
parlate di qualche incontro che ricordate con
particolare affetto?
Simone Gramaglia: «Quando sei ragazzino e studi, ascolti
spesso molte registrazioni di artisti affermati e sogni di incontrarli. Suonare insieme ad alcuni di loro e diventarne
amici è però qualcosa di entusiasmante. E inimmaginabile. Uno degli incontri più belli è stato quello con
Lawrence Dutton, violista del Quartetto Emerson. Insieme
a lui abbiamo passato giornate memorabili, registrando
Beethoven, eseguendolo in concerto, anche da voi [il 25
novembre 2014 per Musica Insieme in Ateneo ndr], e
condividendo esperienze, idee, ottimo cibo e buon vino!».
Gloria Campaner: «Mi sento fortunatissima e privilegiata
ad aver incontrato e conosciuto degli artisti incredibili,
spesso anche miei stessi idoli pianistici, come ad esempio
Martha Argerich, Grigory Sokolov o Mitsuko Uchida, la
quale mi telefonò personalmente dopo la mia recente vittoria di uno dei premi del Borletti-Buitoni Trust di Londra:
rimasi così sbalordita da pensare a uno scherzo telefonico!!! Ma la mia continua ricerca sperimentale in altri ge-
neri musicali, dal jazz al rock all’elettronica mi ha portato
anche a molte nuove memorabili collaborazioni artistiche
con personaggi ineguagliabili, ad esempio Stefano Bollani, Leszek Mozdzer, Franco D’Andrea, Piero Pelù, i Daft
Punk, Maurice Bejart, ecc.».
Il programma che suonerete il 24 ottobre per Musica Insieme sarà dedicato alle più emblematiche
composizioni di Franz Schubert. In che modo secondo voi la sua figura ha influito sulla storia
della musica da camera?
Simone Gramaglia: «Franz Schubert fa parte di quell’esiguo numero di compositori che hanno avuto il merito di
aver reso la musica classica occidentale e, soprattutto, il
genere cameristico e del quartetto per archi, immortale.
Il periodo che va dal Settecento a metà Ottocento ha visto la nascita e la convivenza dei più grandi compositori
che il nostro genere musicale annoveri. Un’età dell’oro:
Haydn, Mozart, Beethoven, Schubert, Brahms, Mendelssohn... Un fil rouge ha unito questi artisti che hanno saputo scrivere e passarsi l’un l’altro la scienza della composizione e l’amore per il quartetto d’archi, disciplina in cui
sono riusciti a dare il massimo di se stessi. Schubert con La
morte e la fanciulla, il Quintetto con due violoncelli e La
trota ha raggiunto vette indescrivibili a parole, contribuendo a rendere immortale questo genere di musica».
Gloria Campaner: «Qualunque mia risposta sarebbe riduttiva o troppo spiccia di fronte allo sconfinato universo
musicale schubertiano. Il lucente e brioso Quintetto La
trota rappresenta un unicum nella produzione di Schubert, nonché una rarità, come organico strumentale, anche tra le opere di altri compositori. Il pianoforte si trova
a contatto musicale con un anomalo quartetto di archi
che si estende fino al contrabbasso, quasi ad emulare una
mini orchestra da camera, diciamo la più essenziale. Allo
stesso tempo, non si percepisce però un grande distacco
tra i due, ma una perfetta fusione cameristica».
Volete descrivere in due parole i vostri compagni
di palcoscenico in questa avventura?
Simone Gramaglia: «Gloria Campaner: una giovane, brillante e sensibile artista con cui è un piacere collaborare.
Enrico Bronzi: musicista raffinato, grande violoncellista e
uomo di cultura. È sempre un piacere collaborare con lui.
Riccardo Donati: senza dubbio uno dei migliori contrabbassisti italiani!».
Gloria Campaner: «Questa meravigliosa avventura musicale monografica vedrà sul palco dei musicisti raffinatissimi, che ammiro anche sotto il profilo umano. In particolare, con il Quartetto di Cremona c’è anche una
grande amicizia: ricordo quando ci incontrammo per la
prima volta per un concerto in diretta dal Quirinale su Radio 3. Pensai: “Ragazzi, questo sì che è far Musica!!!”».
Maestro Gramaglia, abbiamo avuto più volte il
piacere di ascoltarvi nella nostra Stagione, come
ricordate il nostro pubblico?
Simone Gramaglia: «Suonare per Musica Insieme è sem-
pre bello, ed una delle ragioni che rendono bello il farlo
è proprio il pubblico. Elegante, colto, attento, appassionato e generoso negli applausi se ha amato il concerto».
Signora Campaner, lei è al suo esordio nella Stagione di Musica Insieme; cosa si aspetta dal pubblico bolognese?
Gloria Campaner: «Mi aspetto quello che spero di condividere con qualunque pubblico: cioè l’amore per la musica e la possibilità di far ascoltare dal vivo i capolavori del
passato».
Ci illustrate i vostri progetti per il futuro e, se lo
avete, ci confidate qualche sogno che sperate di
riuscire a realizzare?
Simone Gramaglia: «Dopo le integrali di Beethoven e Mozart, concerti in tutto il mondo e bellissime collaborazioni,
vorremmo semplicemente continuare a crescere come artisti, concentrandoci anche su qualche grande compositore del Novecento storico. Torneremo per la seconda
volta in Cina, una terra dove c’è un grande entusiasmo
per il quartetto d’archi. Saremo poi in Sudamerica e ancora negli Stati Uniti, e nel 2018 ad Amsterdam per la
Biennale del Quartetto, uno degli eventi più prestigiosi in
Europa. Abbiamo un paio di grosse collaborazioni in
ballo, ma preferiamo non rivelarle per scaramanzia…».
“Con La morte e la fanciulla,
il Quintetto con due violoncelli e
La trota, Schubert ha raggiunto
vette indescrivibili, rendendo
immortale questo genere di musica”
Gloria Campaner: «Adoro poter portare la musica classica
anche a chi non ha mai occasione di sentirla, a bimbi
che non hanno mai visto un pianoforte o mai ascoltato
un brano musicale: mi riempie il cuore di gioia e di energia vitale e sicuramente uno dei miei sogni è quello di
non perdere mai il contatto con queste realtà e di trovare
sempre il tempo per questi incontri. In ambito musicale, mi piacerebbe suonare in tanti bellissimi teatri dove
non ho avuto ancora l’opportunità di esibirmi, per esempio in Italia, alla Scala. Tra i progetti futuri guardo con particolare emozione al mio debutto a Venezia con la Filarmonica della Fenice nel teatro che considero quindi
‘di casa’, all’uscita dei miei nuovi prossimi due dischi per
Warner Classics, a nuovi tour da solista e con orchestre
internazionali, a tante nuove collaborazioni cameristiche
tra cui quella con una star del violoncello come Johannes Moser, e alla mia partecipazione al Festival di
Marlboro l’estate prossima, a contatto con artisti come
Mitsuko Uchida, Yo-Yo Ma…». (di Cristina Fossati)
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MUSICA INSIEME
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VERSO
il futuro
L’Emerson String Quartet festeggia a
Musica Insieme i suoi quarant’anni
di attività con un programma tutto
dedicato agli ultimi capolavori
di Beethoven di Valentina De Ieso
EMERSON STRING QUARTET
L’Emerson String Quartet vanta una carriera coronata da oltre trenta incisioni discografiche e prestigiosi
premi, tra cui nove Grammy, tre Gramophone Awards,
oltre al Premio Avery Fisher, e il Premio come “Ensemble dell’anno” della rivista Musical America. L’intensa
attività concertistica ha portato il Quartetto a calcare
i palcoscenici più prestigiosi, con un progetto speciale,
nel 2006/2007, per la Carnegie Hall: Perspectives,
una serie di nove concerti intitolata Beethoven in Context, che rappresenta un riconoscimento mai tributato
prima a un quartetto d’archi. Nel maggio 2013 il
gruppo ha dato il benvenuto al violoncellista Paul
Watkins, già attivo come solista e direttore.
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MUSICA INSIEME
N
el 1826, tra maggio e giugno, Ludwig
van Beethoven offriva a tre diverse case
editrici il suo nuovo Quartetto in do diesis minore, quello che sarebbe stato poi pubblicato
come opera 131. Le lettere tradiscono una certa ansia di concludere l’accordo e rispecchiano lo stato
di salute fortemente minato del compositore, che
sarebbe scomparso l’anno successivo. Fu solo la
B. Schott Söhne a rispondere, aggiudicandosi il
più misterioso e controverso dei quartetti di Beethoven. Il carteggio tra il musicista e l’editore rivela però una storia di reciproche accuse, sospetti
di scorrettezze ed edizioni non autorizzate: il compositore, che si era sentito offeso dalla richiesta di
un’opera originale, aveva ironicamente scritto
sulla partitura inviata che si trattava di un’opera
“rattoppata”, destando le ansie dell’editore. Per risolvere l’impasse servirono le scuse di Beethoven
e dodici bottiglie di buon vino renano a carico di
Schott. Queste difficoltà non fecero che acuire un
momento già disperato a causa del tentativo di suicidio di Karl, l’amatissimo nipote di cui Beethoven era tutore. Soffocato dalle aspirazioni dello
zio, il ragazzo, strappato alla madre e inadatto
alla vita di studente, lottò a lungo tra la vita e la
morte, dopo essersi sparato alla tempia. Fu uno de-
Lunedì 7 novembre 2016
LUNEDÌ 7 NOVEMBRE 2016
AUDITORIUM MANZONI ORE 20.30
EMERSON STRING QUARTET
EUGENE DRUCKER violino
PHILIP SETZER violino
LAWRENCE DUTTON viola
PAUL WATKINS violoncello
Ludwig van Beethoven
Quartetto n.14 in do diesis minore op.131
Quartetto n.13 in si bemolle maggiore op.130
Grande Fuga in si bemolle maggiore op.133
Introduce Fulvia de Colle. A Musica Insieme dal 1999,
scrive di musica e traduce per Einaudi Editore
gli amici all’epoca più vicini a Beethoven, il barone Joseph von Stutterheim, a interessarsi affinché Karl fosse avviato alla carriera militare, a lui
più congeniale. Proprio al barone è dedicato il
Quartetto, in segno di profonda riconoscenza. Fulgido esempio di quello che è stato definito il Terzo
Stile, il Quartetto manifesta la sua peculiarità già
dalla sua struttura formale, articolata in sette movimenti che si succedono senza soluzione di continuità, in un allucinato monologo di cui l’ascoltatore diviene solo attonito spettatore. I temi si
frammentano, si interrompono dopo pochissime
battute, tra repentini cambi di ritmo e armonie ardite. Il primo movimento è articolato come una
fuga, in cui le voci fanno il loro ingresso in ordine,
dalla più acuta alla più grave, intrecciandosi severamente fino a risolversi nel movimento seguente. Il fulcro della composizione è però l’Andante ma non troppo e molto cantabile centrale:
un tema con variazioni costruito sulla delicata
melodia di una ninna nanna che muove da una delicata atmosfera idilliaca per esplorare multiformi
stati emotivi, approdando all’estasi dionisiaca tra
continui crescendo e sforzando. Un brevissimo sesto movimento, l’unico a presentare la classica
struttura della forma-sonata, collega il bisbigliato
Presto al finale, una sorta di rievocazione dell’intera composizione, che parte proprio dal tema
della fuga iniziale, ma riproposto con una carica
enfatica a sostituzione del pensoso atteggiamento
precedente. L’anno prima Beethoven aveva ultimato un altro caposaldo della sua produzione cameristica, il Quartetto in si bemolle maggiore op.
130, il prediletto del compositore, che confessava
di provare una forte commozione ogni volta che
ripensava a quelle note che però non poté mai
udire eseguite. Il Principe Nikolaus Galitzin, a
cui fu dedicato, scrisse a Beethoven in una lettera:
«Il vostro genio ha superato i secoli, e non vi
sono forse ascoltatori abbastanza illuminati per
gustare la bellezza di questa musica: ma saranno
i posteri a renderle omaggio e a benedire la vostra
memoria». Come accade negli altri suoi quartetti
coevi, i movimenti non sono i quattro canonici,
ma sei, alternati a seconda del mutare dell’inarrestabile flusso creativo secondo il quale sono stati
concepiti. L’Adagio ma non troppo è una delle pagine più enigmatiche mai scritte da Beethoven:
corposo e carico di mistero, si dissolve nel silenzio per lasciare posto al frenetico Allegro. Il Quartetto procede ispezionando le cellule tematiche,
esasperandone le tensioni latenti e rientrando improvvisamente all’interno di una apparente atmosfera galante, per inabissarsi nuovamente nelle
profondità della mente. Nel movimento Alla
danza tedesca riecheggiano Lieder popolari, ma la
grazia idilliaca viene presto dimenticata nella Cavatina, doLo sapevate che
loroso e poetico ripiegamento
su se stesso. A conclusione del
l’Emerson è stato il
Quartetto, Beethoven aveva
primo quartetto d’archi
composto la Grande Fuga in
della nostra epoca ad
si bemolle maggiore, successivamente pubblicata come
alternare i due violini nella
Opera 133. Fu l’editore Artaria
posizione di prime parti
a convincere il compositore a
sostituirla con un finale più dimesso, preoccupato di come il pubblico avrebbe
accolto una pagina ta<nto insolita e dura. Tre fughe introdotte da una “Overtura” si alternano nel
movimento, in un sinistro esercizio di contrappunto, forzato oltre i confini delle regole compositive. Non stupisce quindi lo sconcerto con cui fu
accolta l’opera dai contemporanei, trovatisi improvvisamente ad assistere a uno scorcio di Novecento, apertosi misteriosamente nel 1827.
DA ASCOLTARE
Gli ormai quarant’anni di attività dell’Emerson, discograficamente parlando, sono stati quasi tutti trascorsi sotto l’etichetta
DGG. Così non stupisce che la prestigiosa editrice tedesca abbia deciso nel giugno scorso di festeggiare l’Emerson pubblicando l’integrale di quanto l’ensemble americano aveva appunto inciso per i suoi tipi. Ne è sortita una collezione di dimensioni e vastità enciclopediche: 52 cd. Dall’Arte della fuga
fino all’integrale di Bartók, è possibile trovarvi tutto (o quasi)
sia stato composto o trascritto per due violini, viola e violoncello, oltre ai quintetti (con ospiti sempre eccellenti) e a molte rarità sia tratte dal repertorio classico, sia da quello più moderno.
MI
MUSICA INSIEME
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Nozze di smeraldo
> Intervista > EMERSON STRING QUARTET – Eugene Drucker
Foto Liza Mazzucco
Eugene Drucker, violinista del celebre quartetto americano, ce ne svela i segreti, fatti – come in un buon matrimonio – di rispetto reciproco e disciplina, esprit e umiltà.
La vostra prima apparizione per Musica Insieme
risale al 1997, l’ultima al 2013. Che ricordi avete
di quei concerti?
«Siamo rimasti molto colpiti dalla bellezza architettonica e
dai tesori artistici di Bologna, e siamo impazienti di tornare. Ricordo in particolare il concerto del novembre
2013 perché erano i primi mesi con il nostro nuovo violoncellista, Paul Watkins. Abbiamo sempre apprezzato
l’organizzazione di Musica Insieme. L’acustica della sala e
un pubblico attento hanno contribuito a lasciarci un piacevole ricordo».
“Le interpretazioni dell’Emerson rappresentano
una straordinaria fusione, dove esperienza e autorevolezza incontrano audacia e freschezza”. Così
il Boston Globe. Qual è il segreto di un’unione così
longeva?
«Il rispetto e il coinvolgimento emotivo per il nostro repertorio sono stati una costante per tutta la nostra carriera,
come dovrebbe essere per ogni quartetto. Ulteriore segreto di questa “longevità” è la stima reciproca e la consapevolezza che le nostre differenze, come persone e
come musicisti, contribuiscano al successo del
gruppo. È importante mantenere un certo sense
of humor (senza mancare di umiltà)».
Come definirebbe la personalità e il
suono caratteristico dell’Emerson?
«Apprezziamo l’andamento delle singole linee,
e non solo nella musica contrappuntistica: i
ruoli e gli intrecci delle voci si alternano continuamente nei grandi quartetti per archi. È importante ottenere la fusione del suono, ma l’eterogeneità deve bilanciare l’omogeneità al fine di
servire la musica nella sua complessità, e mantenere vivo l’interesse del pubblico. Il vigore ritmico, un’articolazione precisa e una tavolozza
timbrica varia sono essenziali. Non so se esista un
suono caratteristico dell’Emerson, ma mi auguro che siamo
capaci di produrre sonorità piene e robuste, o dolci ed eteree, a seconda di quel che richiede la partitura».
La scorsa Stagione si è aperta con la pubblicazione
di un cd, eletto “Best Classical Album of 2015”, insieme alla celebre soprano Renée Fleming. Come
ricorda questa collaborazione?
«In quanto quartetto d’archi, impariamo molto dalla collaborazione coi grandi cantanti sul fraseggio, i colori e la proiezione della voce. È stato un onore lavorare al fianco di Re48
MI
MUSICA INSIEME
née Fleming, sia in studio sia in concerto. Ci auguriamo di
continuare questa collaborazione, e stiamo già discutendo
un secondo possibile repertorio da preparare insieme».
Come costruite i programmi dei vostri concerti?
«Sono molti i fattori che influiscono sulla scelta di un programma: il raffronto tra compositori con personalità e stili
diversi, o tra diversi periodi storici, assicurano un’ampia varietà timbrica, armonica e melodica. Se ci concentriamo
su un solo autore, viceversa, è spesso per illustrarne la ricchezza di espressioni ed emozioni. È interessante anche
indagare le sottili affinità fra compositori apparentemente
molto lontani (per esempio il tardo Beethoven e Šostakovič, o Bartók). Ma spesso ci soffermiamo anche su un
solo decennio, per mostrare la varietà di musica prodotta
in un così breve lasso di tempo».
“Siamo molto affascinati dagli
ultimi quartetti di Beethoven,
lavori seminali e pionieristici,
che guardano al futuro e allo
stesso tempo all’antico”
Per Musica Insieme vi concentrerete sui capolavori dell’ultimo Beethoven…
«Siamo affascinati dagli ultimi quartetti di Beethoven, lavori
seminali e pionieristici, che guardano al futuro e allo
stesso tempo all’antico. Nelle opere 131 e 130 Beethoven
ha rivoluzionato sia il contrappunto, sia la tecnica della variazione. Un quartetto si apre con una fuga introversa,
dalla sonorità antica; l’altro termina con un’audace fuga
a più sezioni che ha disorientato i contemporanei, e che
Stravinskij considerava il primo pezzo di musica moderna.
I sette movimenti dell’opera 131 scorrono senza soluzione di continuità, in una sorta di ben strutturato flusso
di coscienza. I sei distinti movimenti dell’opera 130 sembrano suggerire una suite neo-barocca. Credo che entrambi questi capolavori esplorino regni della psiche e
dello spirito umano mai investigati prima, specie nell’ambito della cameristica. Sembra che la sordità di Beethoven
abbia liberato la sua immaginazione; non era più condizionato dai suoni del mondo reale, e si è lasciato guidare
solo dal suo orecchio interiore, sviluppando strutture che
hanno cambiato il corso della storia della musica».
(di Lavinia Sardelli)
L’acclamatissimo ensemble
americano, con una vulcanica
Patricia Kopatchinskaja in veste
di solista e arrangiatrice, propone
un affascinante percorso intorno
alla Morte e la fanciulla, complici
le partiture ‘ritrovate’ di Klein e
Mendelssohn di Francesco Corasaniti
di vita
Foto Marco Borggreve
MESSAGGI
Lunedì 21 novembre 2016
LUNEDÌ 21 NOVEMBRE 2016
AUDITORIUM MANZONI ORE 20.30
ST. PAUL CHAMBER ORCHESTRA
PATRICIA KOPATCHINSKAJA violino
Gideon Klein
Partita per archi (arr. di V. Saudek)
Felix Mendelssohn-Bartholdy
Concerto in re minore op. post. per violino e archi
Anonimo
Canto Bizantino sul Salmo 140
(arr. per archi di P. Kopatchinskaja)
Franz Schubert
Lied La morte e la fanciulla in re minore D 531
(arr. per archi di M. Wiancko)
John Dowland
Lachrimae Antiquae Novae per quintetto dÊarchi
György Kurtág
Ligatura - Message to Frances-Marie (The Answered
Unanswered Question) op. 31b per celesta e archi
Da Kafka Fragments op.24: Ruhelos per violino solo
Franz Schubert
Quartetto in re minore D810 - La morte e la fanciulla
(arr. per violino e archi di P. Kopatchinskaja)
Introduce Maria Chiara Mazzi, docente al Conservatorio
di Pesaro e autrice di libri di educazione e storia musicale
L
a vita di Gideon Klein, pianista e compositore moravo, è un filo che si è drammaticamente intrecciato con una delle più
crudeli tragedie del ventesimo secolo, la persecuzione nazista. Trasferitosi giovanissimo a Praga per
studiare pianoforte, fu costretto a lasciare gli studi
a causa dell’occupazione tedesca. Aveva vinto una
borsa di studio per la Royal Academy of Music di
Londra, ma gli fu impedito di lasciare il paese e a
causa del divieto di esibirsi, in quanto ebreo, dovette adottare vari pseudonimi per lavorare in piccoli teatri d’avanguardia. Nel dicembre del ’41 fu
deportato nel ghetto di Terezín, dove, nei suoi tre
anni di permanenza, divenne il responsabile delle
attività artistiche, incentivate dal regime che pensava di utilizzarle per controllare i prigionieri.
Prima di trovare la morte, in circostanze mai chiarite, Klein aveva nascosto le sue composizioni in
una valigia che al termine della guerra fu restituita
alla sorella Eliska. L’ultima delle sue composizioni, il Trio per archi (che nella trascrizione per
violino e orchestra di Vojtesk Saudek porta il titolo
di Partita per archi) risale al 1944. Le sonorità popolari morave emergono nell’impianto ritmico,
ma sono mediate da un linguaggio colto, contaminato dai linguaggi più diversi, dal jazz al serialismo: idee che si inanellano come un flusso di co-
scienza, creando un nuovo e originale materiale sonoro. Il dolente secondo movimento riassume tutta
la tragica situazione in cui l’opera ha visto la luce,
ed è il fulcro di un brano tanto autobiografico da
sembrare il testamento dell’artista.
Come le note di Klein, anche il Concerto in re minore op. post. per violino e archi di Mendelssohn
rimase dimenticato per decenni prima di rivedere
la luce nel 1951, dopo quasi 130 anni di oblio, grazie a Yehudi Menuhin. Composto nel 1822 da un
Mendelssohn tredicenne, era destinato ad allietare
amici e familiari durante le serate musicali nella dimora berlinese della famiglia. La singolare storia
di questo Concerto ha inizio nel 1853, quando la
vedova di Mendelssohn regalò il manoscritto all’amico Ferdinand David, finché dalle mani del libraio Albi Rosenthal passò a quelle di Menuhin. In
tre movimenti, il Concerto mostra il precocissimo
genio compositivo del suo autore che, tra atmosfere eleganti e passaggi virtuosistici, riesce ad
inserire temi popolari di struggente bellezza.
Vita, morte, nuova vita: il tema della resurrezione,
della reincarnazione, o comunque della ricerca di
qualcosa di altro fa parte dell’uomo dalla notte dei
tempi, ma in momenti particolarmente drammatici
la riflessione su questo tema ha avuto un impatto
profondo sulla cultura. La peste nera del Trecento
e la famosa peste dei Promessi sposi hanno visto
il fiorire di temi iconografici e letterari dove la
morte entra nel quotidiano con prepotenza: nascono così le celebri e lugubri danze macabre, di
cui le due composizioni di Schubert che portano il
nome di La morte e la fanciulla sono un fulgido
esempio musicale. La storia della giovinetta minacciata dalla personificazione della morte è in
fondo di vecchia data: nella mitologia greca ha
I PROTAGONISTI
Riconosciuta come una delle migliori orchestre da camera
al mondo, la St. Paul Chamber Orchestra, da quasi 60
anni sulle scene, suona per scelta senza direttore, collaborando con moltissimi partner artistici, da Roberto Abbado a
Joshua Bell, da Pekka Kuusisto a Christian Zacharias. Patricia Kopatchinskaja vanta una carriera coronata da numerosi premi, dal Concorso internazionale “Szerying” in Messico al prestigioso “International Credit Suisse Group Young
Artist Award”, e collaborazioni con compagini quali Wiener
Philharmoniker, Mahler Chamber Orchestra, Orchestre des
Champs-Elysées, nelle più importanti sale concertistiche, dalla Carnegie Hall di New York alla Wigmore Hall di Londra,
dalla Sydney Opera House alla Berliner Philharmonie.
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MUSICA INSIEME
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Lunedì 21 novembre 2016
luogo la vicenda di Persefone, rapita dal dio Ade,
divenuta nel Rinascimento un topos indipendente,
per approdare a Matthias Claudius, che scrisse il
testo musicato da Schubert nel 1817 nel Lied La
morte e la fanciulla D 531. Il tema del Lied verrà
ripreso dal compositore, inglobandolo nel secondo
movimento del Quartetto D 810, rinominato anch’esso La morte e la fanciulla. Intenso e commovente, il Quartetto traspone in musica il dialogo
tra le due figure: agitate sono le note della fanciulla
spaventata, suadenti quelle della Morte, giocando
su un’ambiguità enigmatica, in cui la giovane pare
allo stesso tempo terrorizzata e attratta. Come ‘antifona’ al Quartetto – che in questo concerto non
verrà eseguito in un’unica soluzione, ma alternandone i movimenti a quattro diverse composizioni –
è posta una trascrizione del Canto bizantino sul
DISCOGRAFIA
Potremmo cominciare da una rara incisione del ciclo vocale
Open House, composto da William Bolcom. A dirigere la
St. Paul Chamber Orchestra (SPCO) c’è Dennis Russell Davies,
l’anno della pubblicazione è il 1976, l’etichetta la Nonesuch.
Registrazione esemplare: dice molto della SPCO anche in sala
d’incisione. 4 anni dopo vinse il Grammy per l’incisione della
versione completa di Appalachian Spring di Copland, disco oggi
ripubblicato dalla Sound 80 e che contiene anche il poco frequentato Ives di Three Places in New England. Non manca nella
discografia della SPCO neppure il repertorio. Ci sono persino
le Quattro stagioni vivaldiane, con Pinchas Zukerman, e via così
fino al Novecento storico e più recente, a dimostrazione di una
curiosa versatilità e del lungo percorso che la compagine del
Minnesota ha compiuto dalla sua fondazione, nel 1959, a oggi.
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MUSICA INSIEME
Lo sapevate che prima di un
concerto, Patricia Kopatchinskaja
si è accorta di aver dimenticato
le scarpe in albergo e si è
esibita scalza: da allora ha deciso
di suonare sempre a piedi nudi
Salmo 140, che nella liturgia bizantina ha una valenza simbolica: viene intonato durante il Vespro,
alternato a versetti che celebrano la Resurrezione di
Cristo e la vita che vince sulla morte. A preludio
dello Scherzo è posta una trascrizione delle Lachrimae Antiquae Novae di Dowland. Le sette pavane, pubblicate a Londra nel 1604, scandagliano
la profondità del dolore in tutte le sfaccettature: un
percorso dentro il lutto che si riflette all’interno del
movimento schubertiano, costruito su un ritmo di
danza. L’ultimo movimento è introdotto da Ligatura – Message to Frances-Marie (The Answered
Unanswered Question) op. 31b di György Kurtág,
nella versione per archi e celesta. Composta per la
violoncellista Frances-Marie Uitti, Ligatura ‘risponde’ all’opera di Charles Ives La domanda
senza risposta e alla sua “eterna domanda”. Nel
brano l’orchestra si pone come il punto di domanda a questo interrogativo e la celesta ha invece
il compito di fornire la risposta/non risposta. Sorta
di compendio musicale del disagio esistenziale
dell’uomo moderno è Kafka Fragments op. 24.
Ispirata a pagine di diario e lettere di Kafka, si manifesta come un evocativo periplo attraverso le
varie dimensioni dell’emotività, un affresco della
rassegnazione e della debolezza umana.
Un’intima risonanza
> Intervista > Patricia Kopatchinskaja
“Penso che il centro ipnotico di un
concerto non sia il palcoscenico,
ma il forte legame che si viene a
creare tra interpreti e ascoltatori”
ha competenza e gusti molto raffinati: parlare con gli
ascoltatori dopo un concerto è una vera gioia. Inoltre,
grazie alla tradizione lirica che rende unico il Bel Paese,
gli italiani hanno un grande senso drammatico e dell’umorismo».
Quali sono stati i modelli che più hanno influito
sulla sua maturazione musicale?
«Imparo ogni giorno, non solo dai musicisti, ma da tutto
ciò che mi circonda, e spero di continuare a farlo sino alla
fine dei miei giorni. Soprattutto, cerco di guardarmi dentro e di leggere le note, più che sulla carta, direttamente
nella mia anima. Non posso tuttavia non menzionare Cecilia Bartoli, non solo per il suo virtuosismo e la sua creatività straordinari, ma soprattutto come esempio di una
grande persona, sempre entusiasta di quello che fa. Noi
musicisti, una volta sul palco, ci dimentichiamo spesso di
divertirci: tutti i compiti più seri devono predominare
nella fase di studio, ma un concerto dovrebbe essere
coinvolgente e divertente perfino per un bambino».
In questo concerto presenterà anche alcuni suoi
arrangiamenti per archi. Come li ha costruiti?
«L’arrangiamento per orchestra d’archi della Partita di Gideon Klein risale a molto tempo fa. Il primo arrangiamento de La morte e la fanciulla fu opera di Mahler. Mi
inserisco in una lunga tradizione. Durante le prove ho
avuto l’idea di suonare alcuni episodi solistici per mantenere flessibilità e trasparenza all’interno del programma.
Ma naturalmente anche l’orchestra è stata fondamentale
nella ricerca di colori, equilibri, sfumature. Sono sempre
molto felice di provare in modo comunicativo, tanto che
ognuno diviene parte di un grande flusso creativo».
I movimenti de La morte e la fanciulla di Schubert
saranno intercalati da altri brani, che vanno da
Dowland a Kurtág. Perché questa scelta?
«Abbiamo cercato di esplorare il significato dei diversi movimenti de La morte e la fanciulla combinandoli con altri brani. Tanto per fare un esempio: il movimento lento
del quartetto di Schubert (un tema con variazioni) è in
forma di pavana, che era una danza di corte. Nell’omonimo Lied schubertiano, il ritmo della pavana si percepisce quando appare la morte, a significare il suo potere assoluto sulla vita. Abbiamo scelto di suonare anche una
Pavana di Dowland per mostrare questo legame. La
morte in Schubert ha molte facce: è scioccante,
brutale, oscura, ma allo stesso tempo gentile, seducente, consolatoria; è la nostra ombra permanente, ed è affascinante scoprirne i vari volti e
portarli alla luce».
In questo programma, passato e presente
s’intrecciano in una sorta di dialogo. Cos’è per lei il contemporaneo in musica?
«La musica ha senso solo se dialoga con l’oggi;
che si tratti di musica antica o contemporanea,
non fa differenza. Non c’è ragione di suonare un
brano a ripetizione, sempre allo stesso modo,
cercando di renderlo ‘giusto’ per tutti: la musica
è troppo soggettiva, quello che serve semmai è
personalità, interpretazione. Beethoven o Schubert, Kurtág o Gesualdo, Galina Ustvol’skaja, Michael
Hersch, per fare solo qualche nome: per me tutta
la musica è contemporanea, e si manifesta nel
momento del concerto. La sua casa non
sono i dizionari o gli spartiti, ma i nostri
cuori». (di Anastasia Miro)
Foto Marco Borggreve
Il riconoscimento che più conta per la geniale artista
moldava è «la ‘risonanza’ che si crea con il pubblico, con
i partner musicali, e con il mio stesso cuore». In queste righe, Patricia Kopatchinskaja racconta anche com’è nato
l’originale programma che la vedrà calcare il palco dell’Auditorium Manzoni.
Il nuovo progetto con la St. Paul Chamber Orchestra segna il suo attesissimo ritorno a Musica
Insieme dopo il debutto, nel 2010, al fianco di un
eccentrico Fazil Say.
«Ricordo con piacere il mio debutto a Bologna, per Musica Insieme, con un pubblico aperto, interessato e caloroso. Penso che il ‘centro ipnotico’ di ogni concerto non
sia il palcoscenico, ma il legame che si crea tra interpreti
e ascoltatori. È un legame di grande importanza, perché
le immagini, le emozioni, e tutto ciò che la musica è capace di evocare, dovrebbero materializzarsi nella fantasia
di ciascuna persona presente in sala. In Italia il pubblico
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MUSICA INSIEME
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Per leggere / di Chiara Sirk
Carl Dahlhaus (traduzione
a cura di Laura Dallapiccola)
L’idea di musica assoluta
(Astrolabio, 2016)
La casa editrice Astrolabio, nata
nel 1944 ad opera di Mario
Ubaldini, che ne fu il fondatore e, finché visse (1984), il direttore, ha inserito nel proprio catalogo solo in
tempi recenti (2006) una collana dedicata agli studi musicali: Adagio. Essa ha segnato l’ingresso
in un’area nuova per la casa editrice e nel volgere
di una decina d’anni annovera già un più che discreto numero di titoli. Tra i sedici saggi alcuni
compaiono per la prima volta in italiano, altre volte vengono ristampati libri già apparsi in Italia,
ma ormai introvabili. Come il noto L’idea di musica assoluta di Carl Dahlhaus. Uscito in Germania nel 1978, pubblicato in Italia da La Nuova Italia nel 1988 ed ora ripubblicato, nella medesima traduzione di Laura Dallapiccola, da
Astrolabio. Trattandosi di un testo che ha segnato
la storia dell’estetica musicale, l’editore romano
ha fatto un grande regalo agli interessati agli argomenti trattati in questo fondamentale saggio,
destinato ad un pubblico con una buona cultura
filosofica. La trattazione del concetto di “musica assoluta”, infatti, attraversa la riflessione dei
filosofi degli ultimi due secoli.
Piero Mioli (a cura di)
Per un Mahler cisalpino
Un secolo di Sprechgesang
(Pàtron, 2016)
La Regia Accademia Filarmonica di Bologna pubblica un nuovo titolo nella sua preziosa collana
“Volumi filarmonici” edita da
Pàtron. Come di consueto il curatore è Piero Mioli, la novità è che per la prima volta sono raccolti
in un unico libro due titoli afferenti ad altrettanti convegni. Il primo, svoltosi nel 2011, centenario della morte del compositore, s’intitola Per un Mahler
cisalpino e indaga le fortune del compositore in Italia; il secondo, Un secolo di Sprechgesang, risale
al 2012 e ricorda il particolarissimo stile di canto
inaugurato, un secolo prima, nel Pierrot Lunaire di
Arnold Schoenberg. La messe di contributi, in queste 226 pagine, è ricca e di qualità. Ricordiamo solo
alcuni tra i nomi presenti: Aldo Nicastro, Gherardo Ghirardini, Antonio Castronuovo, il compianto Ermanno Comuzio. Il contributo di quest’ultimo s’intitola “Mahler nel cinema italiano? Dopo
Morte a Venezia”. Per rimanere in tema, ecco Sergio Miceli (“Oltre i dialoghi. Relazione tra musica e voce nel cinema”), e ancora Giovanni Guanti, Marco Montaguti, Paolo Petazzi e altri. L’opera porta al lettore che s’interessi di musica molteplici e interessanti collegamenti e riflessioni su temi
poco esplorati, facendo, al contempo, con rigore il
punto su argomenti più rivolti agli studiosi.
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MUSICA INSIEME
MUSICA
assoluta
Un volume che indaga il
rapporto tra musica e leggi,
un testo che ha segnato la storia
dell’estetica musicale e i tributi
dell’Accademia Filarmonica
a Mahler e allo Sprechgesang
Da tempo sappiamo che Mario Brunello non è solo un ottimo violoncellista, impegnato in una carriera internazionale, ma è molto di più. Fa
progetti, riflette, parla e, come raramente accade tra i musicisti, ha voluto
offrire le proprie riflessioni in due libri. Risale al 2011 Fuori con la musica, nel 2015 uscì Silenzio, per Il Mulino, che ora pubblica anche Interpretare. Dialogo tra un musicista e un
giurista. Un testo prezioso in cui
Brunello si confronta con Gustavo Zagrebelsky, già Presidente della Corte
costituzionale, Professore emerito di
Diritto costituzionale all’Università di
Torino. Cosa accomuna l’esecutore all’uomo di legge? Forse, se non fosse
che Zagrebelsky è anche un discreto
pianista ‘dilettante’ nessuno si sarebbe
mai posto questa domanda. Invece,
quando il Maestro Brunello ha scoperto le competenze musicali dello
studioso, è subito arrivata l’idea di
suonare insieme. Preparando una comune esecuzione sono scaturite varie
riflessioni. Ne è nato questo libretto
contenuto (144 pagine), eppure ricchissimo. È il dialogo fruttuoso fra
due giganti nel loro rispettivo campo,
per cui il lettore non resterà deluso.
Certo, si mette bene in chiaro che musica e legge hanno leggi diverse, eppure hanno anche tanti punti in comune. A tutti verrà in mente l’interpretazione della musica e quella delle leggi. Ma chi si aspetterebbe una
convergenza sul tema del “virtuosi-
smo”? Invece esiste il virtuoso della
tastiera (o dell’archetto) e quello della giurisprudenza. Del primo facilmente s’intuisce l’abilità a muoversi
fra brani impervi, il secondo è rappresentato da legulei in grado di produrre concetti giuridici assai complessi e, in ogni caso, mai in contatto con la realtà. In entrambi i casi il
biasimo supera l’apprezzamento, anche quando si tratta di un esecutore
monstre. È un libro che intriga, avvincente, ironico perfino. Un esempio:
si parla di leggi e Zagrebelsky ricorda la legge di stabilità del 2014,
composta da 735 commi, «un mostro
incomprensibile se non agli iniziati,
che spostava denaro, dando o tagliando a destra e a manca. Ogni anno
si approva poi un altro mostro, detto
“decreto Milleproroghe […]». E Brunello risponde: «Anche nella musica
contemporanea, soprattutto, ma anche
in quella del passato, ci sono composizioni che potremmo in modo
molto superficiale avvicinare al decreto Milleproroghe: sono variazioni
di variazioni talvolta cervellotiche dello stesso materiale musicale». È solo
un esempio della leggerezza con cui
i due conversano di tutti i massimi
problemi che si pongono al musicista
come al giurista.
Mario Brunello, Gustavo Zagrebelsky
Interpretare. Dialogo tra
un musicista e un giurista
(Il Mulino, 2016)
Da ascoltare / di Piero Mioli
SFUMATURE
di classico
Lezione di jazz con il Trio DeJohnette, lo
straordinario Beethoven del Quartetto di Cremona
e la ricerca delle radici di Martin Fröst
Quartetto di Cremona
Beethoven, Complete String Quartets vol. VI
(Audite, 2016)
Avanti con i quartetti di Beethoven, avanti con una
distribuzione del corpus più comoda che altro,
avanti con la bravura di un gruppo italiano che non
ha un bel niente da invidiare all’Oltralpe. Il
Quartetto in la maggiore op. 18 n. 5 è considerato il più mozartiano dei sei?
Il Quartetto di Cremona non fa una grinza, fra i trilli del primo Allegro, i
pianissimi e i fortissimi del Minuetto con Trio, un Andante cantabile da sussurrare quasi tutto, un Allegro finale invece da “sforzare”. Mille volte più
difficile il Quartetto in si bemolle maggiore op. 130, beethoveniano e stravagante quant’altro mai: ma i signori Cristiano Gualco, Paolo Andreoli,
Simone Gramaglia e Giovanni Scaglione sanno essere di volta in volta misteriosi, frenetici, scherzosi, ‘tedeschi’, raccolti nei movimenti primo, secondo, terzo, quarto e sesto di quei quasi 43 minuti. Il quinto movimento? È l’ineffabile cavatina, un Adagio molto espressivo che dell’Andante
di prima deve essere ancora più soft, con indicazioni come “sottovoce” e
“sempre pianissimo”. Lo è, anche se per i cremonesi suono basso non significa virtuosismo tecnico bensì intensità d’eloquio.
The Royal Stockholm Philharmonic Orchestra
Martin Fröst
Roots
(Sony, 2015)
Penderecki era il primo disco: bene, classicocontemporaneo; e French Beauties and Swedisch
Beasts il secondo. Dunque il clarinettista Martin
Fröst, nato a Uppsala nel 1970 ed esperto di ‘bestie svedesi’, doveva essere un tipetto un po’ anomalo. Oggi, parli la copertina di un cd dove la
sua esile figura è tutta angolare, busto rispetto a gambe, una gamba rispetto
all’altra, lo strumento rispetto alle braccia. E si imponga la musica relativa, una scorribanda attraverso 21 pezzi colti o popolari, firmati o anonimi, solo suonati o anche cantati, per clarinetto ma anche per violino, flauto, cimbalom. Tra i firmatari, i maggiori maestri del clarinettismo; se no,
trascrizioni e canti tradizionali scandinavi, svedesi in particolare. Da ammirare la corsa del concerto di Telemann, la commozione del salmo svedese, la legatissima danza ungherese di Brahms, il lirismo del Langsam
di Schumann, tutta la paletta espressiva delle danze rumene di Bartók, e
poi una canzone, un blues, una polka. Fröst ha inciso anche Mozart e Weber, s’intende; ma spesso ne esce, da artista maturo qual è, si sbizzarrisce così, oltremodo sicuro delle sue Radici musicali.
In movimento, perché? Tranne il gregoriano, forse, tutta la musica è motoria, e anzi fra le teorie
sulle origini della musica ce n’è una, fra le più
affidabili, che mette suono e canto in relazione
a fatti ritmici come il camminare, il pascolare,
il seminare, il cadenzare regolarmente qualcosa. Ma di movimento il jazz se ne intende assai,
da sempre; per cui è possibile che il nuovo cd
del nostro astuto trio voglia dire dell’altro, per
esempio che quando si suona così bene, così intonati, così contrappuntati, così riccamente timbrati, il movimento, indubitabile, può anche sembrare un falso movimento, una colata di magnifiche note che non va da nessuna parte e diffonde, quasi dissipa, in ogni dove i suoi umori
sonori per la delizia delle orecchie ascoltanti.
Quando John Coltrane morì, a quarant’anni, nel
1967, Jack DeJohnette aveva 24 anni, e il figlio
Ravi ne aveva appena due. L’eredità andava colta, e lo fu variamente negli anni: ma stavolta lo
è precisamente e amorosamente, anche se non
passivamente. Dunque Jack alla batteria, Ravi
al sax, Matt Garrison (ancora più giovane,
nuovayorkese del 1970) suonano ora liquidi e
melodici, ora pimpanti e scattanti, ora incastrandosi ora alternandosi, ora commuovendosi ora sorridendo, tenendo quel tipo di basso profilo che discende direttamente dalla scienza e dall’esperienza musicale più alta. Nato a Chicago
nel 1942 e allievo di quel Conservatorio, il vecchio DeJohnette è la mente, anzi il mentore del
trio (anche perché oltre a battere sa anche tastare,
ovviamente il piano), bravo a suonare da solo e
in quartetto, capace di puntare l’occhio verso la
musica africana e quella sudamericana, ‘sirena’
irresistibile per legioni di giovani jazzmen (com’era stato, in precedenza, a contatto con i più
efficienti seniores), padrone di una discografia
quanto meno invidiabile. Quando ha compiuto
settant’anni, s’è beccato il National Endowement
for the Arts Jazz Master Fellowship. I settantacinque sono imminenti: basta aspettare.
Jack DeJohnette, Ravi Coltrane, Matthew Garrison
In Movement
(ECM, 2016)
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