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C L A S S I C A
libri |
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Sono documenti che registrano l’altalena fra il debordare di energia espressiva (che a volte ci restituisce un uomo capace di gesti di rara gentilezza)
e, specie negli ultimi anni, il ritirarsi a tratti
Le ultime lettere
di Ludwig van
«Spero di dare ancora al mondo qualche grande opera e poi di concludere il mio corso terreno da qualche parte, come un vecchio bambino»
Ludwig van Beethoven
Epistolario, vol. VI (1825-1827)
Milano-Roma, Skira-Accademia nazionale di Santa Cecilia (coll. L’Arte armonica, Serie III, “Studi e Testi”) 2007, pp. 464, € 49,00
V
olge al termine l’edizione italiana dell’epistolario
beethoveniano
tradotto da Luigi Della Croce, a cura di
Sieghard Brandenburg, cominciata nel 1999 sotto gli auspici del
Beethoven-Haus di Bonn. Il settimo volume, contenente gli indici,
sarà disponibile in Italia all’inizio
del prossimo anno; parallelamente
l’edizione tedesca verrà completata
da un ottavo tomo di cui si prevede
l’uscita a breve. L’opera comprende
le lettere scritte dal compositore e
quelle a lui indirizzate, trascritte in
un’accurata edizione diplomatica.
Le lettere di Beethoven sono una
sorta di oscillografo che registra
l’altalena fra il debordare di energia
espressiva (che a volte ci restituisce
un uomo capace di gesti di rara gentilezza) e, specie negli ultimi anni, il
ritirarsi a tratti di essa. L’apparato di
note, più corpose che nella storica
edizione di Emily Anderson, facilita enormemente lo studio di una
scrittura un po’ caotica, ma senza
censure e pulsante di vita vera. È
difficile avere a che fare con il compositore dopo il 1825, ed è una sorpresa non sempre piacevole scoprire il suo lato umano a volte ruvido.
Reduce dall’insuccesso economico
e dalle liti che seguirono le due
grandi accademie del 1824 (prime
esecuzioni della Nona Sinfonia), che
furono causa della momentanea
uscita di scena di Schindler, Beethoven è intento a organizzare nuovi
concerti. È Karl Holz, primo violino
del quartetto Schuppanzigh, a sostituire il factotum, quanto a numero
di missive ricevute secondo soltanto al nipote Karl, vero protagonista
del sesto tomo dell’epistolario, in
cui fanno capolino anche alcuni
amici di giovinezza: Ferdinand
Ries, Franz Wegeler, Stephan von
Breuning, l’arciduca Rodolfo.
La corrispondenza di poco meno
di tre anni (372 lettere tra il 1825’27) è anche il registro di rapporti
economici: offerte di dediche e trattative per la cessione dei diritti di
pubblicazione delle opere condotte
su uno scacchiere internazionale.
C’è, ovviamente, molto di più.
Da un lato l’artista, non così felice della sua condizione freelance, o
piuttosto di “precario”, come sembra suggerire il 1° gennaio 1825:
«Lei sa che io sono costretto a vivere solo dei prodotti del mio spirito»;
quello che sta scrivendo gli ultimi
Quartetti per il principe Galitzin, il
cui progresso nella composizione si
può seguire passo passo; o, ancora,
colui che cerca di far apparire (un
po’ maldestramente) sulla miglior
piazza possibile la sua Missa Solemnis. I giudizi degli amici sono benevoli: «Le ultime [opere] − scrive
Streicher − superano tutte quelle
che ha scritto in precedenza»; Galitzin lo supplica: «Non tardi, La
prego, a farlo stampare, un capolavoro simile [il Quartetto op. 127] non
deve restare neanche un solo istante nascosto», mentre Ries giura che
la Nona Sinfonia: «È un’opera con la
quale niente può reggere il confronto e se Lei non avesse scritto niente
altro che questo, sarebbe già divenuto immortale».
Dall’altro lato l’uomo, il “padre adottivo” che esercita una crescente pressione sul nipote, con un
misto di eccesso di amore e ricatti
affettivi. Delle reazioni scomposte
nei confronti di Karl, forse causate
dai malanni che più volte in questi
anni costringono Beethoven a letto,
colpisce sia il loro materializzarsi in
un profluvio di lettere, sia l’esiguità
delle risposte: un climax che conduce al tentativo di suicidio; anche se,
passata la tempesta, gli ultimi scambi fra i due contengono espressioni
affettuose. Sono queste “montagne
russe emotive” che non finiscono
mai di stupire il lettore. Del resto
Beethoven non fa nulla per nascondere la sua difficoltà con la comunicazione scritta, cui, non a caso, qui
come nei precedenti volumi, fa da
contrappunto un diffuso ricorso alla
musica: così, ad esempio, la chiusura
della lettera al dottor Braunhofer è
l’occasione il 13 maggio 1825 per il
canone «Doktor sperrt das Tor dem
Tod, Note hilft auch aus der Noth»
[il dottore sbarra la porta alla morte,
la musica aiuta anche nel momento
del bisogno]. Il primo presagio della
fine risale però a qualche mese più
tardi: «La falciatrice − scrive − non
mi concederà in ogni caso molto più
tempo», e diventa certezza in una
commovente missiva rivolta a Wegeler (che non incontrava da 34 anni)
il 17 febbraio 1827: «Il mio motto
continua a essere: Nulla dies sine linea e, se ogni tanto lascio dormire la
musa, è solo perché sia più vigorosa
quando si risveglia. Spero di dare ancora al mondo qualche grande opera
e poi di concludere il mio corso terreno da qualche parte, come un vecchio bambino».
Benedetta Saglietti