Paola Appetito Realtà e apparenza nel teatro di Jean Genet Copyright © MMX ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Raffaele Garofalo, 133/A–B 00173 Roma (06) 93781065 isbn 978–88–548–3492–7 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: ottobre 2010 Indice 7 Introduzione 11 Capitolo I Il ‘caso Genet’: le ragioni della differenza 1.1. Sartre e Genet: le dialogue infernal, 15 – 1.2. Genet e la comunicazione ‘possibile’, 18 – 1.3. Esslin e Genet: il teatro oltre l’assurdo, 26 33 Capitolo II La fuga dalla realtà vers l’au-delà du vrai 2.1. Les Bonnes o la verità del falso, 38 – 2.2. Haute Surveillance: la scena come metafora del reale, 46 53 Capitolo III Il teatro come festa funebre: une apparence qui montre le vide 3.1. Il gioco della realtà e della finzione ne Le Balcon, 56 – 3.2. La tragedia dell’inconciliabilità degli opposti: Les Nègres, 68 – 3.3. Les Paravents o la celebrazione del nulla, 79 93 Conclusioni 97 Bibliografia Introduzione La vita e le opere di Jean Genet hanno rappresentato un affascinante oggetto di studio per un gran numero di critici che, dal dopoguerra ad oggi, hanno tentato di comprendere e di svelare la vera identità di questo scrittore fuorilegge, al fine di restituire un’immagine il più possibile fedele alla realtà. Tuttavia, questa operazione, se può essere ritenuta valida e costruttiva applicata ad altri autori, al contrario pone una serie di difficoltà nel caso di Genet, la cui opera sembra resistere a qualsiasi tentativo teorico di cattura. Il procedimento comune a molti studiosi consiste, infatti, nel penetrare, spesso in maniera troppo fredda, intellettualistica, dentro il proprio oggetto di ricerca per cogliere una verità che si pretende assoluta ma che, nella maggior parte dei casi, si colloca ai margini e non nel cuore dell’esperienza letteraria, e non fa altro che affermare la personalità e il sistema di idee e di valori degli stessi critici e non dello scrittore. I paradossi che il ‘caso Genet’ sottopone all’attenzione del lettore, l’ambiguità, l’incessante metamorfosi, i giochi dell’immagine e dei suoi infiniti riflessi, le atmosfere oniriche dell’universo genettiano reale e immaginario, suggeriscono un approccio diverso e invitano ad abbandonare ogni rassicurante punto di riferimento per poter ‘attraversare’ liberamente questi testi e ‘lasciarsi attraversare’ da loro, sfuggendo così al pericolo di proclamare delle verità che si rivelano parziali o del tutto illusorie. Furtif. C’est le mot qui s’impose d’abord.1 1. J.Genet, Comment jouer Les Bonnes, Œuvres Complètes, vol.IV, Gallimard, 1997, p.267. 7 8 Realtà e apparenza nel teatro di Jean Genet Questa è la raccomandazione alle attrici che Genet si preoccupa subito di fare, all’inizio della didascalia esplicativa di Les Bonnes. In realtà, tutto il teatro di Genet è furtivo, anzi esplicitamente furtivo, e come tale irraccontabile, come del resto è irraccontabile qualsiasi sua opera, e ‘illeggibile’ da chi non sappia andare oltre la lettura. D’altra parte, Genet sogna […] un art qui serait un enchevêtrement profond de symboles actifs, capables de parler au public un langage où rien ne serait dit mais tout pressenti.2 Bisogna ascoltarli o leggerli attentamente questi testi, poiché la loro ‘trama’ è qualcosa di totalmente diverso rispetto a qualsiasi altro tipo di scrittura e, soprattutto, ad altri modi di concepire il teatro: si tratta di un susseguirsi di finzioni proiettate dal segreto dell’animo come verità fino a divenirlo veramente, ma senza alcuna credibilità realistica. Furtivo, dunque, poiché rappresentante visioni, incubi, invenzioni di verità. I personaggi di Genet sono immersi in cerimonie sospese che procedono secondo un loro misterioso e mistico rituale; non sono immagini di personaggi reali ma piuttosto di personaggi riflettenti la parte più inconscia e celata dell’essere umano e dei suoi spazi interiori. Attraverso le vicende della sua vita e la loro traduzione nelle diverse forme della sua opera (la poesia, il romanzo, il saggio, il teatro, il balletto, il cinema), lo scrittore, che ha stupito e fatto indignare un’intera generazione di lettori occasionali e di studiosi con le sue gesta di ladro, pederasta e traditore, obbliga a vedere un mondo che si preferisce ignorare, turba e provoca il lettore trascinandolo verso zone proibite, facendo della trasgressione delle leggi giuridiche o morali un valore assoluto e poeticamente elevato: Il éclaire le fond bourbeux qu’on veut cacher3 afferma Jean-Paul Sartre alla fine del suo monumentale saggio su Genet, e aggiunge: 2. J.Genet, Lettre à Jean-Jacques Pauvert, in Les Nègres au port de la lune, Bordeaux, La Différence, 1988, p.161. 3. J.P.Sartre, Saint Genet comédien et martyr, Gallimard, 1970, p.647. Introduzione 9 Sa voix est de celles que nous souhaitions ne jamais entendre.4 L’uomo e lo scrittore Genet ha consapevolmente deciso di vivere un’esistenza ‘maledetta’, sperimentando quindi di persona tutto quello che la morale comune, portatrice dei valori positivi legati alla nozione di Bene, ha sempre rifiutato e vietato: De la planète Uranus, paraît-il, l’atmosphère serait si lourde que les fougères sont rampantes; les bêtes se traînent écrasées par le poids des gaz. A ces humiliés toujours sur le ventre, je me veux mêlé. Si la métempsycose m’accorde une nouvelle demeure, je choisis cette planète maudite, je l’habite avec les bagnards de ma race.5 C’è molto di romantico in questa compiaciuta contemplazione della propria condizione di emarginato, di ‘diverso’, che trova il suo più naturale coronamento nel progetto di una scrittura autobiografica liricamente trasposta che si esprime dapprima attraverso la poesia, in seguito nei romanzi e infine nel teatro. Il giovane trovatello, ladruncolo occasionale, messo ferocemente e irrimediabilmente di fronte alla realtà del suo furto da una società che non perdona, andrà fino in fondo nel crimine, e accetterà la sua condizione di reietto, di asociale: Abandonné par ma famille il me semblait déjà naturel d’aggraver cela par l’amour des garçons et cet amour par le vol, et le vol par le crime ou la complaisance au crime. Ainsi refusai-je décidément un monde qui m’avait refusé.6 Si noterà la connotazione fortemente individualistica della ribellione genettiana, in cui tutto si risolve in un accanimento nella degradazione, in un’accettazione paradossalmente edonistica del proprio destino di emarginazione: […] je vais continuer jusqu’à la fin du monde à me pourrir pour pourrir le monde […].7 4. Ivi, cit., p.649. 5. J.Genet, Journal du voleur, Gallimard, coll. Folio, 1999, p.49. 6. J.Genet, Journal du voleur, ed. cit., p.97. 7. J.Genet, Les Paravents, Œuvres Complètes, vol.V, Gallimard, 1979, p.267. 10 Realtà e apparenza nel teatro di Jean Genet Ne Les Paravents, Genet fa pronunciare a Saïd, il più povero e il più rassegnato dei suoi eroi, queste parole rivelatrici dell’atteggiamento di rivolta e di sfida dell’autore nei confronti della società. E in un’altra delle sue pièces l’autore afferma: Nous sommes ce qu’on veut que nous soyons, nous le serons donc jusqu’au bout absurdement.8 Nelle parole di un personaggio de Les Nègres c’è tutta questa ascesi verso l’infimo, questa ostinata e toccante dedizione al male in cui Sartre ha ravvisato gli estremi della santità e attraverso la quale Genet ha deciso […] de vivre tête baissée, et de poursuivre mon destin dans le sens de la nuit, à l’inverse de vous-même, et d’exploiter l’envers de votre beauté.9 Rivoltarsi contro la realtà di questa sorta di mondo alla rovescia in cui regnano le categorie dell’orribile e dell’abietto, e negare l’esistenza di una sua bellezza segreta, oscura, malefica, significa rinunciare a comprendere non solo l’universo genettiano ma soprattutto i molteplici e a volte terrificanti volti della natura umana. L’uomo è anche «pédéraste, voleur et traître», oltre che «hétérosexuel, honnête et fidèle». E Sartre avverte: Si vous le niez, renoncez à vos plus beaux lauriers.10 Comprendere e accettare, quindi, o assomigliare e scoprirsi uno di loro: davanti agli eroi negativi di Genet, riflessi evocatori della sua esperienza interiore, non c’è altra scelta: Genet, c’est nous; voilà pourquoi nous devons le lire […]. Aujourd’hui il s’agit de faire apparaître le sujet, le coupable, cette bête monstrueuse et misérable que nous risquons à tout moment de devenir; Genet nous tend le miroir: il faut nous y regarder.11 8. J.Genet, Les Nègres, Œuvres Complètes, vol.V, Gallimard, 1979, p.155. 9. J.Genet, Journal du voleur, ed. cit., p.110. 10. J.P.Sartre, Saint Genet comédien et martyr, cit., p.649. 11. J.P.Sartre, Saint Genet comédien et martyr, cit., pp.661-2. Capitolo I Il ‘caso Genet’: le ragioni della differenza Non c’è da stupirsi se di fronte a questo moderno e originale poète maudit la critica abbia espresso posizioni radicali e, spesso, contraddittorie. Il ‘caso Genet’ non sfugge alla regola di tutti i casi letterari, che da sempre si rivelano tanto più effimeri quanto più sono violenti e artificiosamente legati a contingenze sociali e morali. L’immediata beatificazione decretata da Sartre col suo poderoso Saint Genet comédien et martyr e la secca condanna all’inferno con cui Mauriac bollava tanto il nuovo santo quanto il suo appassionato difensore, non sono che gli episodi più clamorosi di una battaglia che ha visto impegnati notevoli rappresentanti della letteratura francese, ora accomunati nel sottoscrivere petizioni di grazia, ora ferocemente divisi di fronte al loro scomodo confrère. Uno dei metodi più ricorrenti che è stato utilizzato per entrare nel mondo poetico di Genet è stato quello di ricostruire minuziosamente la sua vita per poi stabilire uno stretto legame di dipendenza (proprio come auspicava Sainte-Beuve) fra la persona e l’opera dello scrittore. La critica biografica cade spesso nell’errore, o meglio nella pretesa, di voler a tutti costi separare ciò che è vero, realmente accaduto, da ciò che è falso, ciò che è esistito solo nell’immaginazione dello scrittore. Ma tra la vita e le opere di Jean Genet si stabiliscono continue interferenze indistricabili, nelle quali è difficile individuare il vero e il falso, l’accaduto e l’inventato. Nel suo caso, ricondurre l’opera all’uomo non avrebbe altro effetto se non quello di confondere le piste, dato che l’autore si rivela e si nasconde nella sua opera e in quella leggenda che si è dato come missione di realizzare, poeticamente, a partire da «éléments transposés, sublimés» della sua «vie de condamné»: 11 12 Realtà e apparenza nel teatro di Jean Genet Par l’écriture j’ai obtenu ce que je cherchais. Ce qui, m’étant un enseignement, me guidera, ce n’est pas ce que j’ai vécu mais le ton sur lequel je le rapporte. Non les anecdotes mais l’œuvre d’art. Non ma vie mais son interprétation. C’est ce que m’offre le langage pour l’évoquer, pour parler d’elle, la traduire. Réussir ma légende.1 Le vicende della critica genettiana sono state, quindi, un po’ ovunque caratterizzate da ambiguità, irrigidimenti, forzature, e da tutti i condizionamenti possibili causati dalla leggenda e dallo scandalo. In Francia alle opere di Jean Genet è stato riservato il destino di tutte le avanguardie: di apparire scandalosa e provocatoria per il lettore medio e per la critica moralista, a causa dei pregiudizi e dei luoghi comuni che impediscono la reale comprensione di qualsiasi esperienza letteraria; e di risultare, al tempo stesso, alla critica militante molto meno sorprendente e desacralizzante, inserita anzi in un contesto storico che la spiega e la neutralizza, accostata ad altre manifestazioni che recuperano quest’opera ‘maledetta’ e la spiegano alla luce di un concetto non di singolarità ma di coralità. D’altra parte, è nota la capacità che la cultura francese ha sempre dimostrato di riconoscere ed accettare il nuovo, l’‘inaudito’: odio, abiezione, invito al crimine, se sono ben scritti acquistano alla fine dignità; l’ignobile e l’immondo possono assumere incanti infiniti grazie alla forza del linguaggio, e il passo dallo scandalo alla consacrazione ufficiale è più che mai breve. L’avvicinamento di Jean Genet da parte della cultura italiana è avvenuto e ha continuato a svilupparsi nel tempo sotto il segno dell’approssimazione, se non dell’equivoco. Lo scandalo Genet, invece di attenuarsi è stato alimentato e salvaguardato nel corso degli anni grazie, per esempio, ad un rovesciamento cronologico nella diffusione dell’opera: prima è stato pubblicato e rappresentato il teatro; poi, verso la metà degli anni Settanta solamente, hanno visto la luce i romanzi. Ma, nonostante Strehler abbia promosso Genet a ‘classico’ portando le sue pièces al Piccolo Teatro di Milano, indignazioni, processi e censure hanno sempre accompagnato la fruizione della sua opera presso il pubblico e la critica italiana, tenendo lontano, quasi irraggiungibile, il mondo dell’autore. In realtà, non avrebbe potuto essere altrimenti: la celebrazione del male e del peccato presente in Genet, uomo e scrittore, è facil1. J.Genet, Journal du voleur, ed. cit., pp.232-3. I. Il ‘caso Genet’: le ragioni della differenza 13 mente riconducibile ad una linea di letteratura francese che va da Villon a Rimbaud a Céline. Dietro Genet spiccano le tracce nere di una tradizione, di una lunga scia di ‘dannati’ della letteratura che, se non lo ha influenzato direttamente e se non ha in fondo favorito un’immediata comprensione neppure da parte della cultura francese, quanto meno costituiva un precedente significativo. In Italia, tranne qualche caso isolato, non si è mai sviluppata questa linea letteraria: il gusto per la ricerca di linguaggi nuovi, il satanismo, la poesia nera, sono sempre stati estranei ai nostri autori. Tuttavia, il tempestivo riconoscimento di Genet da parte della cultura ufficiale francese non ha dispensato la critica dal cadere in valutazioni molto discutibili, che in ambito italiano sono riconducibili al ritardo con il quale la sua opera è giunta fino a noi e alla cattiva conoscenza che ne è derivata. In particolare, il teatro francese nato intorno agli anni Cinquanta si è visto attribuire un numero notevole di etichette: teatro «nouveau», teatro d’avanguardia, teatro dell’assurdo, dell’insolito, della derisione, della rivolta; ma l’opera di Genet si presta meno di altre a qualsiasi tipo di classificazione. Per penetrare la sua opera teatrale è necessario evitare di cedere alla tentazione di volerla situare nella storia e nell’estetica di questo genere letterario, dato che si tratta soprattutto della trasposizione in parole di un pensiero solitario e originale. Il teatro è per Genet il supporto adeguato per trasmettere un esperienza interiore, quella della differenza, dell’assenza e della solitudine. A questo proposito, Claude Roy, in un articolo in cui stabilisce un’analogia fra due autori apparentemente tanto diversi come Jean Genet e Marguerite Duras, sottolinea la particolarità e l’interesse artistico di questi due mondi poetici, individuando ciò che li distingue rispetto ad altri scrittori della stessa epoca, in particolare alla scuola della rivolta e dell’ ‘engagement’. La vera differenza che separa una buona pièce da una cattiva: […] se situe à ce point précis qui sépare la pièce ‘d’idées’ dans laquelle l’auteur ne s’engage pas, de l’œuvre dans laquelle l’écrivain se sent concerné, mis en question et mis en jeu. […] La mauvaise littérature dite ‘engagée’ est caractérisée par le total dégagement de ceux qui la font […].2 2. C.Roy, Sur Genet et Duras, «La Nouvelle Revue Française », n.104, août 1961, p.313. 14 Realtà e apparenza nel teatro di Jean Genet Una volta chiarito questo malinteso di base, lo studioso afferma che Genet e Duras non si limitano a constatare la realtà, a guardarla dall’esterno, dal punto di vista della società o della morale comune, ma sperimentano in prima persona il peso della solitudine, del silenzio, dell’umiliazione che portano sulla scena, facendo così del teatro una delle molteplici forme in cui hanno scelto di esprimere il loro destino personale, la loro biografia individuale: […] ni Jean Genet, ni Marguerite Duras ne sont objectifs. […] Les idéologues froids blâment éloquemment les misères qu’on fait aux pauvres, aux Noirs, […] aux êtres emprisonnés de solitude. Les poètes se sentent eux-même pauvres, nègres, […] humiliés, brimés, captifs, isolés. On ne fait pas une œuvre d’art avec des bons arguments, mais avec ses vieilles blessures.3 Alla luce di queste considerazioni, non è quindi di grande interesse cercare di situare l’opera di un autore riferendosi alle coordinate a volte troppo rigide della storia letteraria, o a delle categorie artistiche, sociali, morali, imposte dall’esterno e in maniera arbitraria. Questo tipo di operazione, infatti, se può rivelarsi utile in un primo momento, al fine di individuare più facilmente le caratteristiche comuni e il clima generale di un’epoca, rischia tuttavia di generare una visione troppo superficiale e riduttiva dell’esperienza artistica, oscurando in questo modo la sua natura di evento unico ed irripetibile: On ne peut rattacher Genet à aucun mouvement, ni aucune école. Il est seul de son espèce, et nous oserons même dire qu’il domine le théâtre contemporain par l’originalité de ses pièces et surtout par la subtilité avec laquelle il manipule l’essence du théâtre.4 Questi aspetti fondamentali di cui parla Raymond Federman sono stati spesso ingiustamente trascurati e il teatro di Genet è stato soggetto ad una classificazione troppo rigida, a formule e codificazioni fortemente riduttive, ed è stato vittima di vere e proprie operazioni di ‘colonizzazione’ culturale da parte di importanti personalità critiche che hanno letteralmente ‘invaso’ l’universo personale dello scrittore. 3. C.Roy, op. cit., pp.313-4. 4. R.Federmann, Jean Genet ou le théâtre de la haine, « Esprit », 4, 1970, pp.697-8. I. Il ‘caso Genet’: le ragioni della differenza 15 Parentele forzate con la ‘Crudeltà’ e con l’ ‘Assurdo’; vicinanze di comodo con le prime commedie di Ionesco e di Adamov, con le visioni di Beckett; eredità pirandelliane, ecc., non rendono giustizia all’estrema ricchezza ed originalità di questo tipo di scrittura e di linguaggio, fatti di immagini che non tendono a definire una sola realtà, un’unica verità, ma ne suggeriscono molteplici. 1.1. Sartre e Genet: le dialogue infernal Jean-Paul Sartre dedica una delle sue biografie critiche a Jean Genet: si tratta del Saint Genet, comédien et martyr, precedentemente citato, un saggio di circa settecento pagine, che inizialmente doveva costituire l’introduzione alla prima edizione delle opere complete dell’autore, e che fa da garante intellettuale e morale di quest’opera scandalosa, consacrando Genet come uno dei grandi scrittori francesi del dopoguerra. L’impostazione dell’opera sartriana è tale da considerare un recupero del vecchio metodo di Sainte-Beuve, il quale privilegiava la psicologia degli scrittori più che le loro opere, si interessava al loro ‘io’ sociale più che al loro ‘io’ letterario. In questo senso, tutte le opere critiche di Sartre possono essere lette come dei saggi di psicologia applicata, come delle ‘psicografie’. Indubbiamente il filosofo non rinnega l’approccio classico o psicologico, ma lo arricchisce del suo genio analitico, che fa leggere le sue biografie come se fossero romanzi. Larga parte del suo procedimento critico mira ad opporre alla psicanalisi freudiana, a Proust («l’œuvre, rien que l’œuvre»), allo strutturalismo, un approccio esistenziale del processo creativo che afferma il primato della coscienza e del subcosciente sull’inconscio, rifiutato in nome della nozione fondamentale di libertà. E’, infatti, nella coscienza dell’artista, nelle sue scelte consapevoli, che nasce il progetto creatore. Si tratta di una critica ‘in situazione’, che considera l’artista come la somma di un’epoca e di una storia particolare, e in cui Sartre tenta la creazione di una ‘psicanalisi’ liberata dal concetto di inconscio che minaccia più direttamente quello di libertà, e contro l’inconscio, contro la struttura, inventa un metodo biografico unico: 16 Realtà e apparenza nel teatro di Jean Genet Montrer les limites de l’interprétation psychanalytique et de l’explication marxiste et que seule la liberté peut rendre compte d’une personne en sa totalité, faire voir cette liberté aux prises avec le destin, […] prouver que le génie n’est pas un don mais l’issue qu’on invente dans les cas désespérés, […] retracer en détail l’histoire d’une libération: voilà ce que j’ai voulu.5 Nel Saint Genet Sartre racconta come Genet è diventato Genet; ma per raggiungere questo obiettivo prende intero possesso della vita, della psicologia e delle opere dello scrittore (fino alle Bonnes e al Journal), e ne fa l’oggetto di una minuziosa dimostrazione di fenomenologia esistenzialista in atto. Il risultato è che Genet scompare, mentre emerge tutta la filosofia sartriana, in particolare le categorie espresse ne L’Etre et le Néant. La vita di quest’uomo diventa in Sartre l’esempio di una coscienza che si libera e si individualizza scegliendo quello che gli altri hanno scelto per lui: Afin de survivre à ma désolation, […], j’élaborais sans y prendre garde une rigoureuse discipline. […] je sentais le besoin de devenir ce qu’on m’avait accusé d’être. […] Je me reconnaissais le lâche, le traître, le voleur, le pédé qu’on voyait en moi. […] en moi-même, avec un peu de patience, par la réflexion je découvrais assez de raisons d’être nommé de ces noms.6 È su questo brano che Sartre basa tutta la sua interpretazione, secondo la quale Genet rappresenta prima un’esistenza gratuita, poi un’essenza negativa, e sceglie e progetta il proprio destino assumendosi il male come mezzo di individuazione e di promozione da oggetto a soggetto. In questo senso, il Saint Genet appare come uno dei più evidenti casi di ‘colonizzazione’ culturale: l’ideologo prende possesso della vita di un altro, un caso eccezionale di galeotto-scrittore, di un caso limite delle umane capacità di nascondersi, di sottoporsi a metamorfosi soprattutto sociali, e vi proietta, come su uno schermo bianco, le proprie tesi. Con criteri sostanzialmente analoghi a quelli contemporaneamente usati per Baudelaire, ma con la non lieve differenza che l’edizione delle opere complete usciva essendo Genet ancora vivo, 5. J.P.Sartre, Saint Genet comédien et martyr, cit., p.645. 6. J.Genet, Journal du voleur, ed. cit., p.198. I. Il ‘caso Genet’: le ragioni della differenza 17 Sartre fa coincidere il suo saggio con una simbolica morte letteraria dello scrittore, ovvero spiega chi era questo straordinario caso umano, e non chi è e continua ad essere. L’effetto su Genet è simile a quello di un omicidio psichico: negli anni immediatamente successivi alla pubblicazione del Saint Genet, lo scrittore attraversa una grave crisi depressiva e creativa che coinciderà con un lungo periodo di silenzio, dato che dopo il Journal non riuscirà a scrivere per molto tempo. Genet stesso darà la colpa di questo silenzio all’opera di Sartre, che lo aveva esposto ‘nudo’, lui così costituzionalmente ‘travestito’, al pubblico: Dans tous mes livres je me mets nu et en même temps je me travestis par des mots, des choses, des attitudes, par la féerie. Je m’arrange pour ne pas être trop endommagé. Par Sartre, j’étais mis à nu sans complaisance.7 E anche Sartre parlerà della reazione di Genet di fronte al suo libro: […] d’abord il ne s’en est pas beaucoup occupé, il m’en a parlé un peu, il m’a raconté quelques petites choses. Quand j’ai eu fini, je lui ai donné le manuscrit, il l’a lu, et une nuit, il s’est levé, il est allé jusqu’à la cheminée, et il a pensé le jeter au feu. […] Ça le dégoûtait parce qu’il se sentait bien tel que je l’avais décrit […].8 La pubblicazione del Saint Genet trasforma il rapporto di amicizia e il clima di serenità fra i due scrittori, e provoca un lungo periodo di tensione e di diffidenza. Genet si sente prigioniero delle immagini scandalose della sua stessa leggenda e di quelle che il libro di Sartre propaga; è diventato un personaggio di Sartre, una sua creatura. Dandogli la gloria, questo libro gli ruba la sua leggenda, cioè la sua vittoria. L’opera di Genet è sepolta sotto il monumento sartriano: […] j’ai mis un certain temps à m’en remettre. J’ai été presque incapable de continuer d’écrire. […] Le livre de Sartre a créé un vide qui a permis une espèce de détérioration psychologique. Cette détérioration a permis la méditation qui m’a conduit à mon théâtre.9 7. J.Genet, Entretien avec Madeleine Gobeil, in L’Ennemi Déclaré, Œuvres Complètes, Vol.VI, Gallimard, 1991, p.22. 8. S.de Beauvoir, Entretiens avec Sartre, Gallimard, 1974, p.350. 9. J.Genet, Entretien avec Madeleine Gobeil, in L’Ennemi Déclaré, ed. cit., p.22. 18 Realtà e apparenza nel teatro di Jean Genet Lo scrittore ricomincerà col teatro una nuova carriera, probabilmente motivata, tra l’altro, da una precisa intenzione di ‘decolonizzare’ se stesso dal suo amico-nemico Sartre e di liberarsi una volta per tutte dall’uso che il filosofo aveva fatto della sua eccezionale vita e della sua eccezionale esperienza letteraria. Nelle sue pièces, Genet non solo canalizzerà nella loro forma istituzionale la gestualità, l’esibizionismo, il gusto del falso e del travestimento che i romanzi già contenevano; ma porterà avanti un lavoro specifico sul ‘linguaggio’ del teatro, in primo luogo sulla verbalità, ma insieme sull’organizzazione dello spazio scenico, sulla scenografia, i costumi, gli oggetti, le luci. Genet creerà così un teatro in cui «toutes les libertés sont possibles»10 e, scegliendo di percorrere un tragitto assolutamente autonomo, farà del palcoscenico il luogo di un’originale messa in scena del suo mondo immaginario e reale. 1.2. Genet e la comunicazione ‘possibile’ Se la vita e l’esperienza letteraria di Genet sono diventate nelle mani di Sartre una sorta di schermo bianco su cui il filosofo ha potuto proiettare le proprie tesi e sperimentare il suo metodo critico, altri studiosi hanno ceduto alla medesima tentazione. Basterà citare, accanto all’interpretazione esistenzialista di Sartre, quella sacrale-moralistica di Georges Bataille, o quella sociologica di Lucien Goldmann, che vi scorge intenti didattici e una costante omologia strutturale con le contemporanee situazioni storiche e coi gruppi intellettuali della sinistra francese; basterà pensare all’interpretazione di Martin Esslin, che colloca Genet accanto ai drammaturghi dell’assurdo, o a quella di Lionel Abel, che utilizza le sue pièces per spiegare i concetti fondamentali su cui si regge la sua nuova interpretazione dell’arte drammatica, quella del ‘metateatro’. Si tratta di interpretazioni critiche molto diverse, in gran parte autorizzate dall’interno travestimento e dalla metamorfosi dei temi e delle forme genettiane, ma certo rivelanti anche una sorta di ‘prepotenza’ culturale sull’oggetto Genet. Bataille affronta il ‘caso Genet’ en moraliste sminuendo fortemente il valore umano e letterario dei romanzi e dell’intera leg10. J.Genet, Lettres à Roger Blin, Œuvres Complètes, vol.IV, Gallimard, 1979, p.222. I. Il ‘caso Genet’: le ragioni della differenza 19 genda creata dallo scrittore stesso e propagata da Sartre, fino ad arrivare all’affermazione di un vero e proprio «échec» di Genet. Il critico incentra il suo saggio , pubblicato nel 1957 ne La littérature et le mal, su ciò che, secondo Sartre, costituiva la problematica filosofica - metafisica e morale - dell’opera di Genet: la sovranità nel e attraverso il male, l’abiezione, il tradimento; la santità attraverso la trasgressione di tutti i divieti che sono alla base del Bene. Le attitudini dello scrittore, che erano state già rilevate ed esaltate da Sartre, vengono ora da Bataille ricondotte alla sua infantile estetica del male, che sfugge alla dialettica dell’interdizione e trasgressione; la sovranità attraverso il male, secondo Bataille, non fa crescere e non libera Genet, non ne fa né un ‘santo’ né un ‘creatore sovrano’ ma, al contrario, lo trasforma in schiavo: Le Mal est devenu un devoir, ce qu’est le Bien. Un affaiblissement illimité commence; il ira du crime désintéressé au calcul le plus bas, au cynisme ouvert de la trahison. Nul interdit ne lui donne plus le sentiment de l’interdit […]. Rien ne lui resterait s’il ne mentait, si un artifice littéraire ne lui permettait de faire valoir à d’autres yeux ce dont il a reconnu le mensonge.11 Perciò la letteratura fallisce il principale scopo di ogni letteratura, cioè la comunicazione. Infatti, perché vi sia creazione letteraria è necessario che autore e lettori comunichino, cioè che attraverso le parole dell’uno si stabilisca una corrente che fa vivere gli altri nel mondo del primo, che li obbliga a credere alle sue finzioni, che li trascina, volenti o nolenti, a vivere temporaneamente secondo la sua lunghezza d’onda. Si può dire che l’autore penetra nella vita del lettore, nella sua mente, sommuove e scardina vecchie convinzioni, vi sovrappone idee ed immagini scaturite dal suo mondo, ma, a sua volta, si lascia anche possedere, fa partecipare il lettore alla sua creazione, insomma si apre e si lascia penetrare. Bataille nega a Genet questa capacità di apertura agli altri e questa volontà di comunicazione, e quindi priva la sua opera di qualsiasi valore artistico: Genet, qui écrit, n’a ni le pouvoir ni l’intention de communiquer avec ses lecteurs. L’élaboration de son œuvre a le sens d’une négation de ceux qui la lisent. […] l’opération sacrale, ou la poésie, est communication 11. G.Bataille, La Littérature et le mal, Gallimard, 1957, p.219. 20 Realtà e apparenza nel teatro di Jean Genet ou rien. L’œuvre de Genet, quoi qu’on puisse en dire qui en montre le sens, n’est immédiatement ni sacrale ni poétique parce que l’auteur la refuse à la communication.12 Il rifiuto alla comunicazione impedisce a Genet di raggiungere il ‘momento sovrano’ e fa della sua opera un fallimento: La vie de Genet est un échec et, sous les apparences d’une réussite, il en est ainsi de ses œuvres. […] L’œuvre de Genet est l’agitation d’un homme ombrageux […].13 Per Sartre, il genere di dialogo che si stabilisce fra Genet e i suoi lettori è di un tipo molto particolare, scaturito proprio dalla sua indifferenza a cercare contatti con gli altri, ed esiste quasi contro la stessa volontà dell’autore: En écrivant pour son plaisir les songes incommunicables de sa singularité, Genet les a transformés en exigences de communication. […] Genet a d’abord écrit pour affirmer sa solitude, pour se suffire; et c’est l’écriture elle-même qui, par ses problèmes, l’a conduit insensiblement à chercher des lecteurs. […] Mais son art ressentira toujours de ses origines et la ‘communication’ qu’il se propose sera d’un type très singulier.14 Indubbiamente, il mondo in cui si muove Genet è un labirinto di immagini, in cui pare che l’autore abbia moltiplicato di proposito i giochi di specchi per confondere il lettore, per impedirgli di proseguire. Genet mette fra sé e gli altri una serie di porte a saracinesca dietro le quali si nasconde e dietro le quali si sente tanto più al sicuro quanto più pensa difficile e ripugnante alla morale comune l’abbattimento di queste barriere. La volgarità del linguaggio, la tendenza al mito, alla deformazione fantastica del dato reale, la volontà di scandalizzare continuamente il lettore, sono mezzi per prendere distanza e, in un certo senso, per difendersi. Una volta entrati, dunque, nel labirinto del mondo genettiano, è necessario attraversarlo fino in fondo, accettando tutto ciò che si può trovare sul cammino, lo scandalo, la volgarità, le situazioni scabrose, e andare oltre. Visti sotto questa nuova luce i suoi romanzi e il 12. G.Bataille, op. cit., pp.219; 222. 13. Ivi, p.226. 14. J.P.Sartre, Saint Genet comédien et martyr, cit., pp.534-5. I. Il ‘caso Genet’: le ragioni della differenza 21 suo teatro, acquistano il valore di una testimonianza preziosa, che permette al lettore di seguire il difficile cammino intrapreso da Genet alla ricerca della verità. Dopo aver oltrepassato la barriera della rispettabilità e dell’onestà, del rispetto umano e del buon gusto, si potrà così apprezzare il valore della sua poesia. Solo così la comunicazione si può stabilire; solo a questo prezzo il mondo poetico dell’autore si aprirà anche ai lettori. Se Bataille non può fare a meno di riversare sul ‘caso Genet’ i suoi schemi moralistici, che d’altra parte gli impediscono di entrare nell’universo genettiano, allo stesso modo, ma in ambito più specificatamente teatrale e da un punto di vista sociologico, Lucien Goldmann legge e interpreta le opere dello scrittore, con la stessa freddezza e (presunta) obiettività, applicando il suo metodo specifico e le sue categorie di pensiero e facendo di Genet un autore ‘impegnato’. Constatando che ne Le Balcon […] nombreux thèmes traditionnels de Genet, le double, le miroir, la sexualité et surtout la supériorité du rêve ‘pur et stérile’ et à la limite de la mort sur la réalité efficace mais ‘impure et entachée de compromis’ […]15 sono in realtà confinati al livello di elementi di secondaria importanza, lo studioso sostiene che […] la pièce a, dans l’ensemble, une structure réaliste et ‘didactique’ (dans le sens brechtien du mot) […].16 Secondo lui, il soggetto del dramma è costituito […] par les transformations essentielles de la société industrielle de la première moitié du XXe siècle.17 Le Balcon sarebbe pertanto una vasta parabola realistica nella quale Genet avrebbe (coscientemente o meno) trasposto sul piano letterario […] les grands bouleversements politiques et sociaux du XXe siècle et notamment, pour la société occidentale, […] l’avortement de l’immen15. L.Goldmann, Une pièce réaliste: Le Balcon de Genet, Les Temps Modernes, XV, n.171, juin 1960, p.1888-9. 16. Ivi, p.1889. 17. L.Goldmann, Une pièce réaliste: Le Balcon de Genet, cit., p.1889. 22 Realtà e apparenza nel teatro di Jean Genet se espoir révolutionnaire qui a caractérisé les premières décennies du siècle.18 Questa interpretazione è certo assai ingegnosa, ma non può, tuttavia, non suscitare gravi obiezioni. In primo luogo, essa riduce l’opera a uno schema storico-sociologico troppo vasto e impreciso per poter affermare che ci troviamo di fronte, con Le Balcon, alla «première grande pièce brechtienne de la littérature française»19, a un esempio di «théâtre épique et ‘didactique’»20. A differenza di Brecht, infatti, Genet non ci mostra le cause delle trasformazioni, accontentandosi, al limite, di enumerarne gli effetti. Ma soprattutto, nel suo tentativo di decifrazione di Genet, Goldmann trascura degli elementi fondamentali della struttura drammatica della sua opera, come per esempio il carattere rituale e l’uso costante del teatro nel teatro. In Genet troviamo il netto rifiuto di assumere la scena come copia fedele del mondo, come rappresentazione puramente realistica di avvenimenti storici e di problematiche sociali. Il maggior assillo di Genet è proprio quello di privare il suo teatro di ogni banale accenno di denuncia sociale o di allusione satirica. A dispetto dei temi della sua ispirazione, che sono di volta in volta il mondo del carcere e dell’omosessualità (Haute Surveillance), la condizione servile (Les Bonnes), la prostituzione (Le Balcon), la negritudine (Les Nègres), il colonialismo (Les Paravents), Genet non si stanca di raccomandare una recitazione e una scenografia aliene da ogni allettamento naturalistico. Su questo punto lo scrittore è perentorio e, lontano da ogni tentazione realistica, definisce la pièce presa in considerazione da Goldmann come «la glorification de l’Image et du Reflet»21. A proposito de Les Bonnes avverte che […] il faut que les actrices ne jouent pas selon un mode réaliste. Sacrées ou non, ces bonnes sont des monstres, comme nous-même quand nous nous rêvons ceci ou cela. Sans pouvoir dire au juste ce qu’est le théâtre, je sais ce que je lui refuse d’être: la description de gestes quotidiens vus de l’extérieur.22 18. Ivi, p.1893. 19. Ivi, p.1896. 20. Ibidem. 21. J.Genet, Comment jouer Le Balcon, ed. cit., p.276. 22. J.Genet, Comment jouer Les Bonnes, ed. cit., p.269. I. Il ‘caso Genet’: le ragioni della differenza 23 E, più avanti, precisa che […] il ne s’agit pas d’un plaidoyer sur le sort des domestiques. Je suppose qu’il existe un syndicat des gens de maison – cela ne nous regarde pas.23 La lista delle citazioni potrebbe essere molto lunga, dato che Genet in diverse occasioni ribadisce la sua concezione di un teatro liberato dal peso del reale, in cui le azioni, i personaggi e il décor hanno la consistenza evanescente dei sogni. In particolare, l’idea del teatro nel teatro, che si colloca senz’altro nel contesto antipositivista del primo novecento, e dunque riflette la crisi della coscienza come entità statica e ben definita, dà luogo ad uno scambio senza soste di verità e di finzione, e viene utilizzata da Genet in maniera consapevole e nella sua forma estrema: […] déjà ému par la morne tristesse d’un théâtre qui reflète trop exactement le monde visible, les actions des hommes, et non les Dieux, je tâchai d’obtenir un décalage qui, permettant un ton déclamatoire, porterait le théâtre sur le théâtre.24 L’intento di Genet non è quello di avvicinarsi al reale ma, semmai, di allontanarsene il più possibile. Sartre, mette in evidenza questo originale aspetto del teatro di Genet che lo differenzia da tutti gli altri: Normalement, le spectateur doit osciller entre l’imaginaire, le fictif et le réel, le présent; il sait et il oublie en même temps que tout est inventé et joué. Genet s’emploie, lui, à démontrer que rien de ce qui est et se passe sur scène n’est réel; tout bascule dans l’imaginaire.25 Il teatro, secondo Genet, non può e non deve ridursi a finzione realistica; al contrario, consiste nel mettere in scena l’invisibile, l’altra faccia della realtà, attraverso un vertiginoso gioco di specchi e di metafore, e tramite il ricorso alla sacralità e al simbolismo 23. Ibidem. 24. J.Genet, Lettre à Jean-Jacques Pauvert, in Les Nègres au port de la lune, ed. cit., p.162. 25. J.P.Sartre, Entretien avec Bernard Dort, in Un théâtre de situations, Gallimard, coll. Folio/Essais, 1998, p.254. 24 Realtà e apparenza nel teatro di Jean Genet del rito. Il suo è, nel senso proprio del termine, teatro della rappresentazione: non soltanto teatro nel teatro ma anche teatro sul teatro; due volte teatrale, quindi. Questo è il motivo per cui agli antipodi della interpretazione sociologica di Goldmann se ne colloca un’altra, che scorge nell’opera di Genet la perfetta realizzazione del ‘teatro metafisico’ sognato da Antonin Artaud. Genet e Artaud hanno effettivamente in comune l’ammirazione per il teatro orientale, oltre che l’insofferenza nei confronti dell’arte drammatica occidentale e delle sue caratteristiche ormai ‘datate’: verosimiglianza, bienséances, concatenazione di avvenimenti, leggibilità, rimozione del mistero, ecc. Per entrambi, è necessario ridare alla rappresentazione teatrale il suo carattere rituale, ricostituirla come atto puro, restituire dignità alla scena. Tuttavia, il metodo di Genet resta fondamentalmente diverso, in quanto non respinge l’intera drammaturgia occidentale, ma semmai l’oltrepassa e, spingendola ai suoi limiti estremi, la demoltiplica e ci gioca fino all’esaurimento. Genet, infatti, non vuole mostrare personaggi e situazioni copiati dalla realtà ma, per fare questo, esibisce sulla scena un insieme di maschere, di travestimenti, di apparenze illusorie. Opportunamente Bernard Dort ha fatto notare che Artaud, per una singolare inversione cronologica, comincia dove Genet finisce, dato che la cerimonia di quest’ultimo mira a costruire apparenze, mentre quella del teorico della crudeltà a cogliere essenze26. Inoltre, Genet inventa una realtà ‘altra’ in cui il linguaggio assume un ruolo di fondamentale importanza: mentre per Artaud il teatro si rigenererà soltanto se riuscirà ad evadere dalla prigione della lingua, per Genet, al contrario, è la lingua e il suo immenso potere di teatralizzazione che dà vita al suo universo immaginario. Pur trovando, dunque, in Genet, caratteristiche e tendenze letterarie comuni ad altri scrittori, una lettura del suo teatro in senso esclusivamente artaudiano o pirandelliano, per esempio, risulta inevitabilmente parziale, poiché non illumina la totalità degli aspetti dell’opera genettiana, che in realtà costituisce un vero e proprio ‘unicum’ nel panorama teatrale contemporaneo. 26. Cfr. B.Dort, Genet ou le combat avec le théâtre, in Le Théâtre moderne II, Paris, Editions CNRS, 1967; poi in Théâtre réel, 1971. I. Il ‘caso Genet’: le ragioni della differenza 25 Tuttavia, Lionel Abel cede a questa tentazione e, prendendo in considerazione la stessa pièce che Goldmann aveva interpretato in chiave realistica e sociologica, e mettendo in rilievo soltanto l’aspetto del teatro nel teatro, racchiude Genet all’interno di una tradizione ben precisa: Le Balcon è sì un’opera nuova, ma non è molto dissimile da certune piuttosto vecchie, è originale ma appartiene a una tradizione: la grande tradizione della drammarturgia occidentale. Le Balcon è un metadramma che ha occupato l’immaginazione drammatica dell’Occidente nella stessa misura che l’immaginazione drammatica dei greci era occupata dalla tragedia.27 Abel sostiene che Shakespeare e Calderón, attraverso la messa in scena del principio secondo il quale ‘la vita è sogno, il mondo è un teatro’, crearono un nuovo genere di dramma che si regge su postulati diversi da quelli che sostenevano la tragedia greca, e che ottiene effetti del tutto originali. Tanto per il poeta spagnolo quanto per quello inglese, infatti, nella realtà non poteva esserci altro che un’essenziale illusorietà. La realtà rappresentata nel metadramma moderno non è obiettiva, come quella della tragedia classica, ma soggettiva e illusoria, fino al punto in cui l’illusione diventa inseparabile dalla realtà: Nel metadramma ci sarà sempre un elemento fantastico. La fantasia è infatti essenziale a questo tipo di lavoro teatrale ed è quel che si trova nel cuore della realtà.28 Dopo aver elencato le caratteristiche principali di questo tipo di teatro, costituite dalla celebrazione dell’immaginazione che non accetta nessuna immagine del mondo come definitiva, e dalla possibilità di improvvisare continuamente l’ordine e di dare preminenza alla meraviglia, Abel afferma che Genet è uno dei migliori rappresentanti di questo tipo di dramma. Effettivamente Genet soddisfa tutte queste esigenze e il merito di Abel è proprio quello di mettere in rilievo la capacità che lo scrittore possiede di sublimare il reale, l’umano, attraverso l’illusione; ma sarebbe pericoloso inserire la sua originale esperienza 27. L. Abel, Metateatro, Milano, Rizzoli, 1965, p.101. 28. Ivi, p.103. 26 Realtà e apparenza nel teatro di Jean Genet creativa in una tradizione letteraria preesistente e ridurre la sua singolarità all’espediente del teatro nel teatro. Il teatro di Genet sfugge dunque a qualsiasi definizione proprio a causa della sua essenza ‘furtiva’, inafferrabile. È un teatro ‘altro’, un teatro ‘contro’, un teatro che mette in scena l’eccesso, sia estetico che morale, per esaltare l’apparenza, e quindi il vuoto e l’assenza. È un teatro che rappresenta un atto cerimoniale, con la sua valenza sacrale e con il suo significato di ripetizione magica di un’azione privata dalla sua realtà. È un gioco di specchi, nel quale, secondo la felice intuizione di Esslin […] ogni realtà apparente si rivela un’illusione che a sua volta è parte di un sogno o di un’illusione, e così via all’infinito.29 1.3.Esslin e Genet: il teatro oltre l’assurdo Martin Esslin affronta in termini teatrali il problema, posto precedentemente da Bataille e, d’altra parte, tipico della letteratura novecentesca, della ‘comunicazione impossibile’ fra il lettore e lo scrittore. L’autore de Il Teatro dell’Assurdo, pubblicato nel 1961, vuole dimostrare come le opere di alcuni drammaturghi attivi fra gli anni Quaranta e Sessanta possano essere lette e interpretate alla luce di caratteristiche comuni, che trovano il loro punto di convergenza nella nozione di ‘assurdo’, definito come un «sentimento di angoscia metafisica» di fronte al non-senso della vita. Esslin stabilisce prima di tutto una differenza fondamentale fra scrittori come Giraudoux, Anouilh, Salacrou, Sartre, Camus, e il gruppo di drammaturghi che costituiscono il suo oggetto di studio, in cui compare anche il nome di Genet, oltre naturalmente a quelli di Ionesco, Beckett e Adamov. I primi, infatti: […] differiscono da quelli dell’Assurdo in un aspetto rilevante: essi manifestano il loro senso dell’irrazionalità della condizione umana sotto forma di un ragionamento lucido e logicamente costruito, mentre il Teatro dell’Assurdo […] ha cessato di discutere circa l’assurdità della 29. M. Esslin, Il Teatro dell’Assurdo, Roma, Abete, 1990, p.205. I. Il ‘caso Genet’: le ragioni della differenza 27 condizione umana; esso la presenta semplicemente in essere; cioè in termini di concrete immagini sceniche.30 Quindi, ciò che caratterizza fortemente questo tipo di teatro e lo distingue dalle altre numerose manifestazioni della cosiddetta ‘crisi della coscienza’ che ha segnato l’uomo e l’artista di questo secolo, sembra essere la forma attraverso la quale questa crisi viene espressa. In particolare, Esslin si riferisce a un differente atteggiamento di fronte al linguaggio: Il Teatro dell’Assurdo […] tende verso un radicale deprezzamento del linguaggio, verso una poesia che risulti da concrete ed immediate immagini sceniche. […] Ciò che appare sulla scena supera, e spesso contraddice, le parole pronunciate dai personaggi.31 Prendendo in considerazione e analizzando le pièces di questi scrittori, Esslin afferma che queste tendono tutte ad esprimere il ‘fallimento’, la ‘disintegrazione’ del linguaggio, ormai privo di significati ‘comunicabili’. Il linguaggio si svuota di senso e perde la sua funzione di veicolo di pensiero e di strumento di comunicazione, lasciando il posto alla manifestazione scenica dell’assurdo, dell’illogico o addirittura del silenzio. Pur riconoscendo una certa originalità dell’universo teatrale genettiano, tuttavia Esslin non esita ad inserire l’opera dello scrittore all’interno del filone dell’Assurdo, neutralizzando così le pur rilevanti particolarità che distinguono questo autore dagli altri drammaturghi. Deciso a provare la validità della sua teoria, infatti, il critico sottovaluta la singolarità della vita e dell’opera di Genet, preoccupandosi soltanto di farle rientrare nel quadro generale della nostra epoca e di farle partecipare dei temi, delle tecniche e dei linguaggi appartenenti in realtà ad altre, e quindi differenti, esperienze teatrali. È necessario precisare che le affermazioni di Esslin sono solo parzialmente valide, dato che, se è vero che Genet condivide con gli autori dell’Assurdo, così come con altri scrittori dello stesso periodo, il sentimento di solitudine e di estraneità dell’uomo di fronte alla perdita delle antiche e rassicuranti certezze e di fronte alla scoperta dell’inutilità, della disarmante gratuità dell’esistenza, tuttavia queste problematiche non racchiudono l’intero universo genettia30. M. Esslin, op. cit., p.20. 31. Ivi, p.22. 28 Realtà e apparenza nel teatro di Jean Genet no, non ne restituiscono la vera essenza ma, al contrario, rischiano di limitare fortemente una sua reale e profonda comprensione. In realtà, Genet si differenzia da un Beckett e da un Ionesco per varie e fondamentali ragioni. In primo luogo, tutta l’opera di Genet, ed in particolare il teatro, tende verso una sublimazione della condizione dell’uomo, mentre Beckett e Ionesco la descrivono senza superarla, dato che la dimensione dell’ assurdità costituisce tutta la loro proccupazione, e scatena un sentimento di angoscia metafisica tutta umana. Genet disumanizza il suo teatro proponendo una visione disincarnata dell’uomo, che non è niente altro che una maschera che ricopre il vuoto: Mais enfin le drame? S’il a, chez l’auteur, sa fulgurante origine, c’est à lui de capter cette foudre et d’organiser, à partir de l’illumination qui montre le vide, une architecture verbale - c’est-à-dire grammaticale et cérémoniale – indiquant sournoisement que de ce vide s’arrache une apparence qui montre le vide.32 Paradossalmente, disumanizzando l’uomo, Genet lo rende grande: i sogni, le illusioni, le immagini che porta sulla scena, esaltano, invece di ridicolarizzare e sminuire, la grandezza gratuita dell’essere che risiede in un puro nulla. Di qui, l’enorme varietà di artifici che si trovano nel suo teatro: le maschere, le caricature, i costumi eccentrici, esagerati, i giochi di specchi, le scene ricche di oggetti simbolici e costruite su vari piani e livelli, il numero elevato di personaggi, assumono un’importanza estrema e la loro presenza invadente sul palcoscenico testimonia la completa insignificanza e vacuità del reale. Il teatro di Beckett sottintende una diversa concezione dello spazio e del décor: Beckett preferisce ‘mostrare’ di meno per ‘dire’, o ‘non dire’, di più; alleggerisce, semplifica, restringe, epura; sostituisce il ‘pieno’, anzi il ‘troppo pieno’, con il vuoto. Basta leggere le sue didascalie: la maniera sintetica, minimalista, in cui sono scritte è significativa di uno spazio e di un linguaggio determinati; l’assenza di indicazioni sceniche precise suggerisce la presenza di un luogo anonimo, di un altrove in cui i personaggi, che si scambiano parole vane durante interminabili attese, si sentono irrimediabilmente perduti e annientati. 32. J.Genet, L’étrange mot d’…, in Œuvres Complètes, Gallimard, vol.IV, 1979, p.13. I. Il ‘caso Genet’: le ragioni della differenza 29 In Genet troviamo la stessa esigenza di esprimere il vuoto, ma per raggiungere il suo scopo utilizza proprio il ‘troppo pieno’ rifiutato, evitato da Beckett, sia dal punto di vista dello spazio scenico che da quello del linguaggio in tutte le sue forme e i suoi usi: le didascalie sono ricche di precisazioni di ogni genere e indicano minuziosamente quale deve essere il lavoro del regista, dello scenografo, dei costumisti e degli attori; la scena, con le sue presenze invadenti e inquietanti immerse in atmosfere reali e oniriche allo stesso tempo, è il luogo dove tutto diventa possibile; il linguaggio acquista un potere magico, incantatore, poiché possiede la capacità di convertire l’universo profano, umano, in universo sacro, che non conosce angoscia, disperazione, demoralizzazione, davanti al vuoto, bensì una piena accettazione e una vera e propria celebrazione del nulla. Diversamente da quanto afferma Esslin, questo tipo di teatro non può fare a meno della parola. Genet, fatta eccezione per il balletto ’Adame miroir, non scrive come Beckett ‘atti senza parole’, né tende a ridurre la parola, ancora come Beckett, al limite della sua estrema scarnificazione. In Genet, la parola continua una sua vita fastosa, ed è parola lirica: quella cioè che si trova per sua stessa natura in più stretto rapporto con l’intuizione profonda. In Genet, dunque, il linguaggio conserva la sua capacità di imprigionare il reale, di esprimerlo e di sublimarlo; riesce a ‘dire’ qualcosa di più elevato e di più profondo dei silenzi di Beckett o dei giochi di parole di Ionesco che, proclamando verità incomprensibili e, quindi, incomunicabili, restano relegati nel mondo chiuso dell’assurdità della situazione umana. Il linguaggio è per Genet il mezzo per trascinare il lettore-spettatore nel suo mondo ai confini fra il reale e l’immaginario; non è una barriera o uno schermo che impediscono o limitano l’umano, ma una sorta di codice attraverso il quale viene celebrato un rito e grazie al quale il teatro diventa un luogo sacro, simbolo per eccellenza di comunicazione e di comunione. A questo proposito è significativo citare un brano della Lettre à Jean-Jacques Pauvert, in cui Genet descrive il suo ideale dell’unione del rituale con il drammatico: […] le plus haut drame moderne s’est exprimé pendant deux mille ans et tous les jours dans le sacrifice de la messe. […] Sous les apparences les plus familières – une croûte de pain – on y dévore un dieu. Théâtra- 30 Realtà e apparenza nel teatro di Jean Genet lement, je ne sais rien de plus efficace que l’élévation […]. Une représentation qui n’agirait pas sur mon âme est vaine.33 Niente di più ‘drammatico’, quindi, del momento dell’eucarestia durante la celebrazione della messa, che unisce i fedeli attraverso un legame che simbolizza il pane consumato al momento del pasto sacro. Genet suggerisce che il teatro deve essere dello stesso ordine, dato che il suo scopo principale deve essere quello di risvegliare questo sentimento di ‘comunione’ e di partecipazione fra gli spettatori per dare loro una coscienza più acuta e più profonda della loro esistenza. Nessun sentimento del genere è riscontrabile nel teatro di Ionesco, il quale si differenzia da quello di Genet per il suo gusto per il gioco verbale, che utilizza la parola al fine di disintegrarla, di mostrare il suo non-senso, la sua inconsistenza. Il linguaggio non comunica nulla, è semplicemente lì per testimoniare l’alienazione e la presenza-assenza dei personaggi senza identità che lo manipolano e lo aggrediscono di continuo, come un oggetto in mezzo ad altri oggetti , inutile e insignificante. Il personaggio genettiano si definisce invece come «un signe chargé de signes»34, non è privo di identità ma ne ha molteplici: è se stesso e tutte le immagini (reali o sognate) di se stesso, rappresenta l’essere e l’apparire, la realtà e l’illusione, la maschera e il nulla. È come se il personaggio teatrale fosse spinto ai confini vertiginosi della sua etimologia: la ‘persona’ è la ‘maschera’ che ricopre i molteplici e inafferrabili volti del vuoto. In questo senso, è possibile leggere Le Funambule, uno dei testi di Genet sull’estetica, pubblicato nel 1958, come una vera e propria parabola dell’arte del comédien, il cui unico obiettivo consiste nel disfarsi di: […] toute sollicitation qui tâcheraient d’incliner son œuvre vers le monde.35 L’artista deve allontanarsi il più possibile dal ‘suolo’, dal reale, per correre sul filo teso verso un’immagine che sfugge incessantemente. Egli è poeticamente descritto da Genet come 33. J.Genet, Lettre à Jean-Jacques Pauvert, in Les Nègres au port de la lune, ed. cit., pp.163-4. 34. J.Genet, Lettre à Jean-Jacques Pauvert, in Les Nègres au port de la lune, ed. cit., p.162. 35. J.Genet, Le Funambule, in Œuvres Complètes, vol.V, Gallimard, 1979, p.16. I. Il ‘caso Genet’: le ragioni della differenza 31 […] un amant solitaire à la poursuite de son image qui se sauve et s’évanouit sur un fil de fer.36 Senza questa quête dell’immagine, che si pone al centro dell’estetica di Genet e che eleva l’artista al di sopra dell’umano attraverso il suo volto truccato in modo «excessif, outré»37 e il suo costume «à la fois chaste et provocant»38, il funambolo sarebbe ridotto a non essere nulla: Où étais-tu donc avant d’entrer en scène? Tristement épars dans tes gestes quotidiens, tu n’existais pas.39 Questo è anche il destino dei personaggi del teatro di Genet ai quali lo scrittore presta l’apparenza di un’immagine folgorante: Que sa personne se réduise de plus en plus pour laisser scintiller, toujours plus éclatante, cette image dont je parle, qu’un mort habite. Qu’il n’existe enfin que dans son apparition.40 Questi stessi termini, che mettono in rilievo il duplice valore di ‘apparenza’ e di ‘apparizione’ del personaggio genettiano, vengono utilizzati anche in una delle Lettres à Roger Blin, in cui Genet fornisce al regista delle indicazioni precise sulla messa in scena de Les Paravents: L’acteur doit agir vite, même dans sa lenteur, mais sa vitesse, fulgurante, étonnera. Elle et son jeu le rendront si beau que lorsqu’il sera happé par le vide des coulisses, les spectateurs éprouveront une grande tristesse, une sorte de regret: ils auront vu surgir et passer une météore. Un pareil jeu fera vivre l’acteur et la pièce. Donc: apparaître, scintiller, et comme mourir.41 Anche Esslin sottolinea la natura ambigua, inafferrabile dei personaggi genettiani, affermando che essi 36. Ivi, p.19. 37. Ivi, p.16. 38. J.Genet, Le Funambule, ed. cit., p.17. 39. Ivi, p.20. 40. Ivi, p.14. 41. J.Genet, Lettres à Roger Blin, ed. cit., p.248. 32 Realtà e apparenza nel teatro di Jean Genet […] sono tali solo in apparenza; in realtà sono simboli, riflessi in uno specchio, sogni in un sogno.42 Le creature della sua immaginazione sono segni, simboli, metafore di quello che viene rappresentato sulla scena, ed esprimono perfettamente l’idea di un teatro che si definisce […] dans la ‘réflexion’ de comédie de comédie, de reflet de reflet qu’un jeu cérémonieux pourrait rendre exquis et proche de l’invisibilité.43 Utilizzando dei materiali nuovi, Genet modella lo spazio alla maniera dello scultore che coglie, nella forma fissa, l’essenza dell’essere, creando così dei personaggi ieratici, dotati di una imponente forza verbale e gestuale, costituiti da una enorme varietà di segni visivi e dalla parola, che, a differenza degli altri drammaturghi ‘dell’Assurdo’, è strumento di comunicazione e di partecipazione, può raggiungere alti livelli di liricità e conferisce ai suoi eroi una dimensione tragica. Ionesco, attraverso la sua concezione di un teatro completamente irrazionale, fondato su giochi di antitesi, di contraddizioni e di antagonismi che si annullano a vicenda, raggiunge effetti non lirici ma ‘tragicomici’, facendo allo stesso tempo ridere e inquietare lo spettatore. Si tratta di un teatro tutto sommato ‘oggettivo’; le sue pièces sono caratterizzate da una fredda lucidità che ricopre come una patina il riso, l’orrore, la perversione, il delirio, la follia che l’autore porta sulla scena. Ionesco, non fa altro che girare intorno a queste categorie per lui astratte, perché non vissute in prima persona, e le rappresenta attraverso una visione derisoria, ironica della realtà, traducendo così il distacco e l’estraneità generate dall’Assurdo. Contrariamente a quello di Ionesco, il teatro di Genet è tutt’altro che lucido e oggettivo: i sogni, le illusioni, le perversioni che i suoi personaggi incarnano sono il prodotto della vita e dell’immaginazione di un ribelle e di un visionario, che ha vissuto una realtà ‘altra’ e che ha scelto di trasporla e di sublimarla sulla scena. Una realtà che va oltre le possibilità e i limiti dell’umano, aldilà della zona compresa tra il verosimile e l’irrazionale, e quindi anche oltre l’assurdo. 42. M. Esslin, op. cit., p.206. 43. J.Genet, Lettre à Jean-Jacques Pauvert, in Les Nègres au port de la lune, ed. cit., p.164.