TEATRO ARGENTINA
4 - 6 - 8 giugno 2014
4 giugno 2014 ore 21
la notte poco prima della foresta
di
Bernard-Marie Koltès
studio
con
Pippo Delbono
6 giugno 2014 ore 21
thérèse e isabelle
dal romanzo di
Violette Leduc
studio
Isabella Ragonese
con
e Roberta Lanave
adattamento e regia di Valter
Malosti
8 giugno 2014 0re 21
caro george
di
Federico Bellini
mise en espace
con
Giovanni Franzoni
Antonio Latella
regia di
proiezione del film di
Jean Genet
un chant d’amour
Altri Amori
ANTEPRIMA “GAROFANO VERDE”
SCENARI DI TEATRO OMOSESSUALE
RASSEGNA A CURA DI RODOLFO DI GIAMMARCO
La notte poco prima della foresta
di
Bernard-Marie Koltès
studio
con
U
Pippo Delbono
na sola frase di quaranta pagine, emessa quasi d’un solo fiato, senza quei punti fermi che
minacciano d’interrompere il bisogno lucido e poetico di un getto di parole. Nella sua partitura
senza soste, La nuit juste avant les forêts affermava un teatro riconducibile a una musica ininterrotta.
Jean-Luc Boutté racconta lo choc emotivo che provò dando un’occhiata al copione. Decise lì per lì di
metterlo in scena, affidandolo a Richard Fontana. Era il 1977, e Avignone riservò a Koltès un ingresso
clamoroso nel mondo della scena francese. Da quel momento all’aprile dell’89, data della prematura
scomparsa dell’autore a soli quarant’anni, questo testo affermerà, documenterà una voce lancinante
e vertiginosa nella scrittura drammatica contemporanea, uno stato di grazia emarginato, tutt’uno con
una cultura da Linea dell’Ombra. «Il mio reale milieu è una via di mezzo tra l’hotel per immigrati e
l’hotel a ore. Le mie radici non esistono. A un dato momento, uno si sente bene nella propria pelle»
confidò Koltès. E disse anche «Amo il crepuscolo, dove figura e immagini si distinguono di meno».
Crudele e generoso, lucido e ricco di utopia, con addosso la maschera appena matura di un
adolescente di taglia forte pasoliniana, Koltès coltivò avidamente un gusto forsennato per il lirismo, fu
nomade come Conrad, Melville e London, perseguì la costante dell’identità straniera, e questa Nuit...
è un monologo che fila nervoso, complice, digressivo, ipotattico, visionario come una ballata. Vi si
cantano “le vecchie, gli arabi, i mendicanti, i controllori, i poliziotti, i teppistelli tirati a lucido, lo schifo
di odori, lo schifo di rumori, i litri di birra, la voglia di una stanza”, mentre incessantemente e
stupidamente piove su una casbah metropolitana, sulle ronde degli uomini soli a piedi. Ed ecco
distinguersi “le zone di lavoro, le zone per rimorchiare, le zone per le donne e quelle degli uomini, le
zone per i froci, le zone della tristezza, le zone delle chiacchiere e quelle del venerdì sera”, e in questi
apartheid aleggia la parabola del Nicaragua e di un vecchio generale i cui soldati prendono di mira
“tutto quello che vola al di sopra del fogliame, che compare ai margini della foresta”. E con questa
preghiera profana, con questo diario di un abbordatore di sbandati e inermi, con questo manifesto
della solidarietà e del cameratismo, con questo inno alla latitanza e all’amore per ombre materne, e
per compagni sotto la pioggia, con questo appello alle umane genti che si sanno, si fanno sapere e
sentire, la passione errante di un Pippo Delbono ci sta tutta. A costo di metabolizzare, di delbonizzare
il canto, il testo, l’inno, il flusso della Nuit... E per la prima volta Delbono affronta la voce di Koltès,
accreditato dalla fiducia totale che gli tributa da anni François Koltès, il fratello anch’egli scrittore di
Bernard-Marie, che ha scoperto l’arte libera di Pippo assistendo ai suoi spettacoli al Théâtre du RondPoint di Parigi, dandogli assoluta carta bianca d’intervenire sulle opere del fratello scomparso, perché
Delbono si avvicina alla verità che Bernard-Marie cercava. Una verità che sfugge sempre, che non è
dicibile, che sta nascosta in un mare di parole di chi non è disposto a integrarsi e a emulare.
Altri Amori
ANTEPRIMA “GAROFANO VERDE”
SCENARI DI TEATRO OMOSESSUALE
RASSEGNA A CURA DI RODOLFO DI GIAMMARCO
Thérèse e Isabelle
dal romanzo di
Violette Leduc
studio
con
Isabella Ragonese
e
Roberta Lanave
adattamento e regia di
Valter Malosti
una produzione Teatro di Dioniso con il sostegno del Sistema Teatro Torino
N
el maggio del 1954 Simone de Beauvoir presentò a Gallimard, dove aveva un grande
potere, il manoscritto di un'opera intitolata Ravages, cioè Devastazioni. Era il primo vero
romanzo di una scrittrice né giovane, né inserita nell'establishment letterario, la
quarantasettenne Violette Leduc, amata da Cocteau e Genet, la quale aveva già dato alle
stampe due romanzi brevi con un successo più di stima che di pubblico. Come i due precedenti
e tutti quelli che seguiranno, anche questo libro incendia la propria materia autobiografica. In
particolare all'inizio del romanzo si trovava un lungo capitolo, poi censurato, sulla reciproca
iniziazione sessuale di due ragazzine in un collegio femminile, una passione erotica deflagrante
che dura lo spazio di pochi giorni, esaltati e crudeli: una storia cruda e senza reticenze come
quelle di Genet. La storia di piacere tutto al femminile della Leduc fu giudicata, diremmo oggi,
sessualmente scorretta e suscitò lo sgomento dei suoi editori. Smembrata, riscritta,
soprattutto castigata, la passione delle due collegiali avrebbe avuto una storia letteraria
tormentata e mutila per quasi cinquant'anni, fino a quando cioè, nel Duemila, Gallimard è
tornato sui suoi antichi passi tirando fuori la versione integrale di Thérèse et Isabelle: Thèrése
non è nient’altro che il primo nome di battesimo di Violette Leduc, e l’autrice con grande
tenerezza poetica e uno stile visionario e febbrile traduce in parole, come un funambolo,
l’erotismo: “cerco di tradurre nella maniera più esatta... le sensazioni dell’amore... Spero che
questo non sembrerà più scandaloso delle riflessioni di Molly Bloom alla fine di Ulysse...”.
Sorprende e incanta nelle due protagoniste femminili l’assenza di qualsiasi sentimento di colpa
e l’estrema libertà di tono. L’omosessualità femminile qui non diventa né dramma, né oggetto
di rivendicazione. La passione delle due adolescenti è semplicemente messa in scena per
mezzo di una scrittura vibrante, originale e audace. Dal romanzo viene presentato un primo
studio in cui Thérèse/Violette rivive nella memoria (anche del corpo) e a distanza di tempo,
l’incandescente scheggia autobiografica.
Altri Amori
ANTEPRIMA “GAROFANO VERDE”
SCENARI DI TEATRO OMOSESSUALE
RASSEGNA A CURA DI RODOLFO DI GIAMMARCO
Caro George
di
Federico Bellini
mise en espace
con
Giovanni Franzoni
regia di
Antonio Latella
stabilemobile Compagnia Antonio Latella
Nell'ottobre del 1971, a Parigi, una retrospettiva consacra Francis Bacon come uno dei più
grandi pittori del suo tempo. Alla vigilia della mostra, George Dyer, amante e modello
dell'artista irlandese, si suicida nella stanza d'albergo che ospitava entrambi.
Davanti ai dipinti che raffigurano George, Bacon rivive la relazione con il compagno, in un
momento in cui trionfo artistico e fallimento esistenziale si confondono, diventando anch'essi,
inevitabilmente, materia del dipingere.
Federico Bellini
Qui la cosa forte è la potenza del canto, un canto-testamento che ricorda il film Un chant d’amour
di Jean Genet. C’è un rapporto diretto con la morte, sembra di stare davanti a una roulette
russa, non sai se e quando il proiettile verrà sparato. E di genettiano, in Caro George, c’è il
gusto del monologo santo e assassino, col protagonista che si scinde in due ruoli, e prima è
Francis Bacon e poi s’identifica con la figura del suo amante. Con in più, direi, il senso del
rischio e l’aura di fascinazione del poema Il funambolo scritto da Genet nel 1957, dedicato ad
Abdallah Bentaga, giovane artista di circo che l’autore aveva conosciuto sul finire dell’anno
prima, sottoponendo l’acrobata a uno spietato allenamento da funambolo nel corso delle loro
interminabili peregrinazioni per l’Europa. Più tardi, nel 1959, nonostante una rovinosa caduta
che richiese un intervento al ginocchio, Abdallah presentò il numero che Genet aveva ideato
per lui al Circo Orfei e fu scritturato per una tournée in Kuwait, dove una nuova caduta segnò
la fine della sua carriera, facendo dire tempo dopo a Genet «Tutto è andato in malora», tanto
che il giovane nel 1964 inghiottì un flacone di Nembutal e si tagliò le vene. Anche George Dyer,
partner e modello di Francis Bacon, considerò una “caduta” il fatto che l’artista amante non lo
portasse con sé alla vernice della sua retrospettiva parigina, lasciandolo in albergo. E quando
Bacon tornò nella stanza dell’hotel lo trovò morto suicida. Questione di ego, di ossessione
artistica. Genet dipinge con la penna, Bacon dipinge coi colori, e le loro opere hanno in
comune visceralità e intellettualità. Con esiti emozionanti, impressionanti, tragici.
Antonio Latella
Altri Amori
ANTEPRIMA “GAROFANO VERDE”
SCENARI DI TEATRO OMOSESSUALE
RASSEGNA A CURA DI RODOLFO DI GIAMMARCO
PROIEZIONE DEL FILM DI
Jean Genet
Un chant d’amour
Un chant d'amour (“Un canto d'amore”) è in assoluto uno dei capisaldi del cinema gay. Colpito
più volte da forti tagli censori, perché tacciato di pornografia, e circolato solo in proiezioni
private o alternative, il film è definitivamente uscito dal suo oblio solo nel 1971 a Londra.
Prodotto grazie a Nikos Papatakis (il regista de Les equilibristes), è l'unico film di Jean Genet, lo
scrittore maledetto autore di Querelle de Brest.
La vita di Genet, omosessuale e ladro, si è svolta al di fuori di ogni canone usuale e quando nel
1950 girò questo film era uscito di prigione (dove aveva trascorso molto tempo) da due anni,
grazie all'interessamento di alcuni scrittori, come Cocteau o Sartre. Per lui la prigione era il
luogo privilegiato del desiderio, dove la presenza di carnefici e vittime, di segregazione e di
violenza, acuisce i sensi appagando come non mai ogni fantasia sessuale.
Muto ed in bianco e nero, il film è stato girato in economia e con discrezione (gli stessi nomi
dei personaggi e degli attori sono particolarmente vaghi). Il fatto che sia ambientato in una
prigione lo rende più che mai autobiografico (come del resto tutta la sua opera), una lirica e
sensuale proiezione dell'immaginario fantastico di Genet. Ma è altresì, il trionfo visivo di ogni
immaginario omosessuale, in cui amore e violenza, sesso e poesia si mescolano potentemente,
in un insieme di immagini riunite analogicamente (e talvolta alogicamente) con grande libertà,
quasi un universo simbolico a sé stante.
È un amore lirico nel sogno del tunisino, la sua fuga nei campi con il suo oggetto del desiderio,
o i fiori di melo finalmente ghermiti; ma è un amore che si confronta con la violenza - il
secondino che frusta e forse violenta il tunisino - e con il sesso, mai esplicito ma evidente in
tanti simboli (la pistola nella bocca o la cannuccia con il fumo alludono ad una fellatio) e nella
nudità dei personaggi, i cui corpi sono sfolgoranti di sensualità.
Il film si realizza in realtà soprattutto sul piano delle immagini e degli sguardi: immagini di corpi
avvinghiati in marcati controluce, che ricordano le foto di Platt Lynes, e di sguardi rubati
all'intimità dei prigionieri che lo spettatore, più voyeur dello stesso secondino, riesce a spiare.
fonte web: www.culturagay.it - recensione di Vincenzo Patanè
info: 06.684000346 • [email protected]
vendita on-line: www.teatrodiroma.net
orario spettacoli: ore 21 • biglietti € 15,00 - 10,00
ufficio stampa
Margherita Fusi 338 7488465 [email protected]
Paola Rotunno 339 3429716 [email protected]
ufficio stampa Teatro di Roma
Amelia Realino 06.684.000.308 I 345.4465117 [email protected]