IL BALCONE di Jean Genet Traduzione di Dario Bellezza Roma TEATRO VALLE 19 novembre 1971 Compagnia Nuovo Teatro Il Vescovo Il Giudice Il Boia Arturo Il Generale Il Capo della Polizia Il vecchio, uno dei ribelli, il secondo fotografo, il mendicante, lo schiavo Roger L’uomo, il secondo fotografo L’Inviato Il terzo fotografo Irma, la regina La donna, la ragazza La ladra La ragazza Carmen Chantal Roberto Herlitzka Ezio Marano Gabriele Tozzi Enrico Ostermann Mariano Rigillo Sergio Salvi Giancarlo Prete Guglielmo Rotolo Sergio Tofano Gabriele Tozzi Franca Valeri Patrizia Buccella Maria Francesca Siciliani Anita Bartolucci Milena Vukotic Anna Saia Scena e costumi Enrico Job Musiche Domenico Guaccero Regia Antonio Calenda L’Inviato 54 Il bordello è un luogo deputato per Genet, per il quale le esperienze ignominiose del furto, dell’assassinio e della prostituzione, hanno il valore di tutto ciò che è “diverso” e opposto alla norma; e nel bordello di madame Irma, in particolare, si può vivere tutto ciò che viene rifiutato dall’arrogante normalità. Il bordello è il teatro vagheggiato da Genet quando parlò di un “teatro clandestino”, dove si dovrebbe andare in segreto, di notte, mascherati. Nel bordello, il borghesuccio può diventare “Vescovo”, oppure “Giudice”, oppure “Generale”. Insomma nel gioco, o meglio, nel rito si può fingere e assumere i ruoli dei potenti. Il bordello è un riflesso del mondo esterno come il teatro e ne è anche però rigorosamente separato. Dentro il cerchio delle sue mura si celebrano soltanto illusioni. Enrico Job aveva concepito il bordello genettiano come un luogo aperto, dove linee curve disegnavano una scala praticabile in legno. Su questa, e intorno a questa, manichini e oggetti di trovarobato, a suggerire la confusione del “fuori”. L’interno era una sorta di ventre metallico scavato nella forma antropomorfa della scena. I costumi erano carichi d’intenzioni e sottolineature surreali. (n. d. r.) “Si può dire che l’intelligenza scenica e soprattutto la nudità calamitante della scenografia abbiano tentato di attenuare gli sconcertanti convenzionalismi, le cerimonie pedisseque dell’insurrezione di maniera, neanche simboleggiata, del postribolo-reve. Nel fitto degli eventi verbali, verbalizzati e urlati, e quasi inaccessibili, la scenografia, operazione di Enrico Job, porta un suo segno, come fosse una leva, uno strumento caparbio: proprio per rabbiosa, vendicativa presenza di un simbolo energico e ambiguo sì, ma di un’ambiguità che arriva a maturare i suoi termini, a precisare la propria contraddizione, a rendersi essa stessa azione agibile, al tempo medesimo. Come un geroglifico di poteri spaziali, una sigla di intasamento, ènvironnement autorevole, decisivo, una indicazione intimata come immagine e proposizione, un registro affiorato come trama inamovibile, immota, che il testo, urlando, ratifica, usa, abusa, febbrilmente. Non per dire che la sceno- The brothel is a designated area for Genet, in which the ignominious experiences of theft, murder and prostitution take on the value of everything which is “different” and contrary to the norm; and in the brothel of Madame Irma, in particular, it is possible to act out anything which is rejected by arrogant normality. The brothel is the theatre dreamed of by Genet when he spoke of a “clandestine theatre”, where one should go in secret, by night, in disguise. In the brothel, the little bourgeois fellow can become “Bishop”, “Judge”, or “General”. In other words, it is possible to act and assume the roles of powerful figures in the game, or rather, in the ritual.The brothel, like the theatre, is a reflection of the outside world, but it is strictly separated from it.Within the circle of its walls, only illusions are celebrated. Enrico Job conceived Genet’s brothel as an open space, in which curved lines designed a wooden stairway. On this, and around it, dummies and assorted props suggested the confusion of the outside world.The internal part was a sort of metal bowel-like cavity, quarried out of the set’s anthropomorphic form. The costumes were full of surreal intentions and emphases (ed.). “It may be said that in the intelligence of the scenery, and above all in the compelling nakedness of the set, there has been an attempt to attenuate the disconcerting conventionality and the slavish ceremonies of the insurrection of manner of the brothel-rêve, which is not even symbolized. In the stream of verbal events, spoken and screamed, and almost inaccessible, the set design, which is the work of Enrico Job, makes its mark, as if it were a lever, a wilful instrument; this is done precisely through the angry, vindictive presence of an energetic symbol which, while ambiguous, is at the same time of an ambiguity which comes to articulate its terms, to define its own contradiction, rendering itself feasible as an action. Like a hieroglyph of spatial powers, a sign of obstruction, an authoritative, decisive environnement, a guideline intimated as image and proposition, a register surfacing as an irremovable, motionless plot, the screaming text ratifies, uses and abuses it at 55 La ladra 56 Irma Capo della Polizia Irma Il vescovo grafia si attesta come protagonista, ma che certo tende a una prestazione egemonica; e disponibile sì a un flusso metamorfico che la investe, ma senza esplicita duttilità o servilità o dipendenza, anzi; è sempre dentro lo schema e il sistema della propria natura di sigla, di misteriosa alacrità simbolica: come se le rampe salienti, a morsa prima, a botola poi, a fastigio inerte infine, si deponessero impassibili come emblema e dibattito di unità organica al centro della farraginosa azione – l’azione erratica e versatile nella piena di luoghi convulsi, immaginari, stanze e halles citate, cortili e campagne invisibili, campi di battaglia e piazze in ebollizione; il tutto preso in una morsa dialettica artificiale di fantasia-realtà, realtà – fantasia, costretta a immaginare aree e oasi liricamente realizzabili, o reali. Possiamo allora dire di una scenografia non tanto sopraffattrice, ma che esibisce la tensione verso i limiti delle proprie possibilità, e senza concessioni di meccanismi della raffigurazione, o del teatrato. In energico conflitto con le altre radiazioni del testo così come è stato configurato, la scenografia di Enrico Job propone e oppone le sue diciture concettuali: al grottesco e al parodistico, oppone il severo accento dell’interiezione, dello spazio asserito; alle speranze irreali enunciate dal testo come angosciosamente reali oppone la compostezza geometrica del suo spazio-stendardo; contro le ambizioni vacue e ridicole oppone la pregnanza e il peso della propria impalcatura, del proprio palco, distinto dal palcoscenico, distinto anche dalla piattaforma della rappresentazione realistica, o fabulistica; contro l’atmosfera delirante, allucinata, edonica, traccia la spirale dura, sorda, della propria materia povera, del proprio legname, e insieme l’incerta bugiarda anamorfosi della specularità dei metalli, la propria compattezza ossessiva, possessiva, espressiva infine; contro i frammenti di indolente “realismo” e di “vita vissuta”, oppone la proprietà e densità quasi onirica, come un segnale trasognato, o visto in estasi, di un arabesco di assenza, distante; contro la concezione antiquata del cubo spettacolare, stende la sua pianura diagonale; e la sua come crudele, e certo emblematica, diagonalità saliente dal proscenio ai praticabili ai soffitti – e ancora qui mi pareva un’idea da Baudelaire:“Au bord d’un gouffre dont l’odeur/ Trahit l’humide profondeur/ D’éternels escaliers sans rampe/ Où veillent des monstres visqueux” – rende attiva l’operazione scenografica nel senso che essa tenta di saldare gli spazi eterogenei, di tenere le spinte, urtoni, dirompenti del testo, e gli sbilanci, gli squilibri su cui poggia l’ambiguità, la livida bipolarità dell’“evento”-“non evento”, del fatto simbolo o se vogliamo delle “due sorelle”, da Baudelaire: “La Debauche et la Mort son deux aimables filles”; e cupamente la scena ne asseconda, ne attrae e ne smorza il sussulto, la congestione, i clamori. Diremo queste “scene” di Enrico Job molto più prossime, urgenti, a un nostro desiderio del nostro teatro futuro, e non diciamo ancora escatologico, del nostro futuro spazio-idillio, della nostra futura radicale indispensabile arena anarchica, di quanto non lo sia, o almeno non lo sia stata in questa edizione romana di Genet in questa nascita improvvisa, l’irruenza parenetica, frenetica anche, del testo, e lo sparo inaccettabile del recitato” (Emilio Villa, Job e il suo sguardo baudelairiano dal Balcone di Genet, Il Dramma, gennaio 1972). a febrile pitch.This is not to say that the set design establishes itself as a protagonist, but that it certainly tends towards a hegemonic function; it is receptive towards the metamorphic tide which hits it, but without explicit ductility, slavishness or dependence. On the contrary, it is always within the scheme and system of its own nature as a sign, as a mysterious symbolic alacrity: as if the ascending ramps, pincershaped, leading up to a trap-door, stood as an impassive emblem and debate of organic unity, at the centre of the muddled action.The action is erratic and versatile in the flood of convulsed, imaginary places, hinted at rooms and halls, invisible courtyards and landscape, battlefields and squares in tumult; all this is lost in the grip of an artificial dialectic vice of imagination-reality, reality - ie imagination which is obliged to imagine areas and oases which are lyrically feasible or real. We may therefore allude to a set design which does not so much usurp, as exhibit tension towards the limits of its own possibilities. In energetic conflict with the other meanings of the text, as it was configured, Enrico Job proposes and opposes his conceptual wordings: to the grotesque and to the parodic, he opposes a severe accent of interjection, of asserted space; to the unreal hopes enunciated by the text as painfully real, he opposes the geometric solidity of his flagship space; to the vacuous and ridiculous ambitions he opposes the pregnancy and weight of his own construction, his platform, which is distinct from the stage and also distinct from a platform of realist or fabulous representation. In the face of this delirious, hallucinated, hedonistic atmosphere, he traces the hard, deaf spiral of his own humble material, wood, and to match the uncertain, lying anamorphosis of the reflectiveness of metals, there is his own obsessive, possessive and finally expressive compactness. Against the fragments of indolent realism and “true-life experience” he opposes propriety and almost dream-like density, like a pattern of a distant arabesque of absence half-dreamed or glimpsed in ecstasy; against the antiquated conception of three-dimensional representational space, he spreads out his diagonal plane; and his almost cruel, certainly emblematic diagonality rising from the base of the stage to the platforms to the ceiling - and this too reminds me of an idea of Baudelaire’s: “Au bord d’un gouffre dont l’odeur/ Trahit l’humide profondeur/ D’éternels escaliers sans rampe/ Où veillent des monstres visqueux” - renders the set design active in the sense that it attempts to solder together heterogeneous spaces, to contain the text’s explosive violence and the imbalances upon which its ambiguity depends, the livid bipolarity of the “event/non-event”, of the symbolic fact or, if we like, of Baudelaire’s “two sisters” (“la Debauche e la Mort sont deux aimables filles”); and the set darkly favours, attracts and absorbs their spasms, congestion and clamour. This scenery of Enrico Job is much closer, in its urgency, to our desire for a theatre of the future, no longer eschatological, but of our idyll-space future, of our radical future as an indispensable anarchic arena, than the hortatory - frenetic, even - impetuousness of the text, and its unacceptable barked out performances, in this unexpected production in Rome of Genet, at least” (Emilio Villa, Job e il suo sguardo baudelairiano dal Balcone di Genet, Il Dramma, January 1972). 57 Il Balcone. Schema antropomorfo della scena