EDOARDO PURGATORI: IL TEATRO, PASSIONE TOTALIZZANTE DA COLTIVARE CON IMPEGNO ED UMILTÀ C r e a t o D o m e n i c a , 0 7 L u g l i o 2 0 1 3 2 1 : 0 0 A n d r e a C o v a In molti riconosceranno in Edoardo Purgatori il giovane e impetuoso attore che ha saputo far battere il cuore delle adolescenti italiane recitando nell'ultima serie della fiction "Un medico in famiglia". In realtà la sua più profonda e inderogabile passione è però quella per il teatro, il suo talento ed entusiasmo brillano al massimo della vividezza sulle assi del palcoscenico, dove si confronta con l'impegnativa drammaturgia contemporanea di autori come Labute e Rueff, con l'umiltà di mettersi costantemente in gioco ed un'energia contagiosa. Lo abbiamo incontrato a Roma in una chiacchierata davvero piacevole, per raccontare Edoardo a trecentosessanta gradi, dalla sua formazione internazionale alle sua aspirazioni artistiche, dai prossimi progetti in cantiere all'impatto con l'improvvisa popolarità e affetto del pubblico. Ciao Edoardo e benvenuto sulle pagine di SaltinAria! Mi piacerebbe partire dalle origini della tua passione per la recitazione. Provieni da una famiglia in cui si è sempre respirata arte - madre tedesca attrice, padre italiano sceneggiatore - ma quando hai sentito scattare in te la scintilla e come hai iniziato a coltivare questa passione? Devo confessare che negli ultimi tempi, grazie alla popolarità improvvisamente regalatami dal Medico in Famiglia, molte persone mi hanno posto questa domanda e questo mi ha spinto a rivolgere lo sguardo al passato per cercare di individuare l'origine di questa passione. Fin da quando posso ricordare, ho sempre avuto ben chiaro che questo sarebbe stato il mio percorso; così di recente sono andato da mia madre per chiederle di aiutarmi a ricordare quando è iniziato tutto questo. La sua risposta mi ha fatto un sacco ridere: ho un fratello ed una sorella più piccoli e con loro guardavamo tantissimi film e cartoni animati; un giorno mi sono imbattuto per caso in "Robin Hood" e, appena l'ho visto, sono corso risolutamente da mia mamma, avrò avuto a malapena cinque anni, e lo ho detto con fermezza "Voglio essere come lui!". Poi ero appassionatissimo di Indiana Jones, Star Wars e James Bond, son cresciuto accompagnato da questi film avventurosi e fin dove la mia memoria riesce a tornare indietro mi divertivo enormemente a travestirmi, a trasformarmi in personaggi sempre diversi. Addirittura spesso per i compleanni di mia nonna giravamo dei video con la telecamera a mano, quindi è una passione, un istinto naturale che ho sempre coltivato. Inoltre da bambino italiano, nato e sempre vissuto a Roma ma con una propensione decisamente scarsa per il pallone - tanto che i miei compagni di scuola mi piazzavano sistematicamente in porta - mi sono dedicato con tutte le energie a quest'altra passione, sostenuto dalla costante presenza, generosa e lungimirante, dei miei genitori: mia madre, che è anche storica dell'arte, nel week-end mi accompagnava al Palazzo delle Esposizioni dove organizzavano un laboratorio di sperimentazione riservato ai bambini; mio padre invece mi portava spesso al cinema. Dunque questo interesse, questa inclinazione spontanea, li ho coltivati sin da piccolo, fin quando non sono arrivato ai giorni della scuola. Sin dall'asilo ho frequentato la scuola tedesca a Roma e qui ho colto l'opportunità concreta, al di là dei classici spettacolini di Natale e Pasqua, di frequentare la cosiddetta "Theater AG", ovvero i gruppi di lavoro doposcuola offerti gratuitamente dagli insegnanti che si seguono durante l'anno intero per poi arrivare ad uno spettacolo conclusivo. Si seguivano le lezioni settimanalmente e si partecipava anche a dei viaggi di cinque-sei giorni in un agriturismo in Umbria dove si riuniva solamente il gruppo teatrale per portare avanti le prove, insomma un'organizzazione ben strutturata e stimolante nell'ambito della quale ho avuto l'occasione di cimentarmi con un impegnativo lavoro di gruppo e di coltivare la mia passione per la recitazione. Ho frequentato questi corsi per ben seisette anni, dai tredici ai diciannove anni, quindi si può dire che questo sia stato decisamente un significativo punto di partenza. La tua è stata una formazione decisamente internazionale, dapprima appunto la scuola tedesca frequentata sin dall'asilo a Roma, poi i workshop seguiti con insegnanti dell’ Actors Studio di New York e la Oxford School of Drama. Quanto sono state preziose queste esperienze per fornirti una solida preparazione e allo stesso tempo aprire gli orizzonti della tua mente? In realtà l'Actors Studio in sè non è propriamente una scuola, ma piuttosto un posto dove è possibile recarsi un paio di volte a settimana, in qualità di professionista, per presentare il lavoro che si sta preparando - una volta che se ne è divenuti membri a vita, non è neppure necessario pagare - e provare di fronte a un uditore dalla consolidata esperienza, talvolta anche celebre, che esprime poi il proprio feedback sulla tua scena. Non è un posto concepito per imparare l'arte della recitazione, ma piuttosto offre l'opportunità di condividere il lavoro svolto su di un personaggio, su di una particolare scena, per approfondirlo e ricevere eventualmente delle indicazioni, dei suggerimenti. Molti di coloro che hanno studiato all'Actors Studio e ne sono poi divenuti membri, hanno avuto l'occasione di interagire con insegnanti come Strasberg o altri che provenivano dal Group Theatre come Sanford Meisner o Stella Adler in alcune classi private; io ho sperimentato proprio qualcosa di simile, partecipando ai workshop organizzati da alcuni insegnanti dell'Actors Studio qui in Italia, una sorta di training intensivo della durata di una settimana-dieci giorni per oltre dieci ore al giorno, in cui puoi gettare le basi per coltivare la tua arte, il tuo lavoro. Ho iniziato a 18 anni quando avevo ormai pienamente compreso, verso la fine del mio percorso scolastico, che era ciò che desideravo senza dubbio fare; c'è stato anche un momento in cui ho pensato di frequentare l'università, facendo una fulminea capatina alla facoltà di Scienze Politiche della Luiss, per poi fuggirmene dopo appena tre mesi in Inghilterra a studiare teatro e recitazione. Lì ho frequentato proprio l'accademia, la Oxford School of Drama, presso la quale ho seguito un corso di sei mesi, non il canonico corso triennale. Provai ad accedere anche a quest'ultimo ma gli inglesi sono estremamente rigidi e particolari, accettano solamente diciotto studenti tra qualcosa come duemila aspiranti (un po' come accade anche in talune prestigiose scuole italiane); io mi preparai con questo corso semestrale e poi arrivai tra i finalisti, diciannovesimo in lista sui diciotto che sarebbero stati accolti. Mi hanno tenuto sulle spine per un po' ed inizialmente pensai che fosse un fallimento da cui non mi sarei ripreso facilmente; comunque essere stato apprezzato in un contesto fortemente meritocratico - al contrario di quanto accade in Italia, in cui frequentemente hanno il sopravvento logiche di nepotismo e favoritismi - è stato un indiscutibile motivo di orgoglio. A ben guardare questo apparente passo falso invece è stata forse una fortuna poichè, tornando in Italia, ho iniziato a studiare con Dominique De Fazio, un insegnante membro dell'Actors Studio 'vecchia scuola', che ha un proprio studio qui a Roma ed offre per tutto l'anno corsi rivolti a professionisti, senza imporre stringenti obblighi di frequenza. In questo modo, anche durante il periodo delle riprese del Medico in Famiglia, avevo l'opportunità di continuare questo percorso, portare delle scene, degli esercizi, tutto il materiale su cui stavo lavorando a livello interpretativo; questo lo continuo a fare tuttora, perchè ritengo fermamente - al contrario di coloro i quali concluso un ciclo di studi in accademia pensano di essersi ormai appropriati delle varie tecniche, senza però avere in realtà affondato le radici in nessuna di queste - che nel lavoro dell'attore non si debba mai smettere di imparare, di mettersi alla prova con se stessi e differenti contesti recitativi. L'Inghilterra comunque per me ha rappresentato un terreno fertile dove poter trascorrere un periodo di formazione per poi fare ritorno in Italia; sono rimasto a Londra per due anni e mezzo, seguendo dei corsi presso l'Actors' Temple, gestito da un ex-studente di Sanford Meisner che ne prosegue la linea artistica, ed anche dei corsi privati con altri insegnanti, continuando quindi costantemente a coltivare la mia passione anche al di là del periodo strettamente legato agli studi in accademia. Nel corso di questi anni ti sei dedicato al teatro, al cinema e alla fiction televisiva avendo l'opportunità di lavorare accanto a registi di grande spessore, da Marco Maltauro per la pellicola "Faust chi?" a Claudio Bonivento per la serie tv "Anita Garibaldi", da Alberto Sironi in "Eroi per caso" fino al geniale Woody Allen per una comparsa in "To Rome with love". Che ricordo custodisci di queste esperienze e quali gli insegnamenti più importanti che hai catturato da questi professionisti? Quella con Marco Maltauro è stata una delle mie prime esperienze lavorative al termine della scuola; "Faust chi?" era una sorta di documentario-film sul personaggio del Faust di Goethe. Attraverso il mio insegnante di recitazione sono venuto a conoscenza che la produzione stava ricercando degli attori che fossero in grado di parlare anche tedesco, così mi ritrovai ad interpretare uno degli studenti nella birreria dove si reca Faust in compagnia del diavolo. Ti racconto una curiosità: il ragazzo che interpretò quella parte assieme a me, ai tempi anche lui praticamente sconosciuto, era Domenico Diele che ha recentemente lavorato in "ACAB - All Cops Are Bastards" di Sollima e in numerose altre interessanti pellicole. Non vedo Marco Maltauro da circa sei anni e gli sono senz'altro riconoscente poichè mi ha dato la prima possibilità a livello professionale di fare qualcosa. Anche nella fiction televisiva di Alberto Sironi interpretavo un tedesco, anzi per la precisione un ufficiale austriaco durante la Prima Guerra Mondiale, al fianco dei personaggi principali interpretati da Neri Marcorè, Flavio Insinna e Michele Alhaique; avendo il vantaggio di essere sostanzialmente italo-tedesco, di parlare perfettamente questa lingua e di aver coltivato costantemente l'inglese, anche attualmente lavoro molto come doppiatore in tedesco - ad esempio ho doppiato "Diaz - Don't Clean Up This Blood " di Daniele Vicari e "War Horse" di Steven Spielberg. Conoscere bene le lingue è una gran figata! L'esperienza con Woody Allen è davvero divertente: ormai si è diffusa la voce, comparsa anche sul mio résumé, di questa fantomatica partecipazione al film. Praticamente è andata invece così. Non riuscii a sostenere i provini per la pellicola in quanto non ero sufficientemente famoso nè avevo le conoscenze giuste per accedere a tali opportunità. Un mio amico che lavorava al film come assistente alla produzione mi avvisò che stavano girando sotto casa mia a Roma e mi suggerì di andare a fare una capatina dal momento che c'erano concentrati in un sol posto Woody Allen, Alec Baldwin e Jesse Eisenberg, insomma mi esortò a dare un'occhiata. Così, una volta andato lì, ho conosciuto il ragazzo che si occupava degli extra, che mi ha proposto una giornata di lavoro come comparsa. Hai presente quando passa l'autobus sullo sfondo? Ecco, passo anche io nelle vicinanze, quella è stata la mia partecipazione al film di Woody Allen! E' stata comunque un'esperienza da ricordare, perchè mi ha permesso di passare una giornata accanto a professionisti di questo calibro, già solo veder lavorare Allen è stato qualcosa di memorabile. E' estremamente silenzioso e riservato e in quell'occasione aveva un ottimo primo assistente alla regia italiano che gestiva tutti; la cosa divertente che mi raccontavano è che il copione non era stato consegnato a nessuno, ogni attore riceveva ogni giorno le scene che avrebbe girato e non aveva pertanto l'idea generale di quello che sarebbe accaduto. L'ho trovato abbastanza invecchiato, minuto e ingrigito, ricordandolo per le sue interpretazioni più celebri del passato, ma sapeva perfettamente quello che voleva e bastava una parola rivolta ai suoi collaboratori per indirizzare magistralmente le riprese. Il tuo ultimo lavoro cinematografico è stato "La mossa del pinguino", diretto da Claudio Amendola, che approderà nelle sale italiane nei prossimi mesi. Che ruolo interpreti? Puoi raccontarci qualche aneddoto particolare accaduto durante le riprese? Il film racconta la storia di una combriccola di romani, con una vita tutt'altro che dinamica, che per riscattarsi decidono di creare una squadra di curling e andare a competere alle Olimpiadi di Torino. Il mio ruolo minuscolo è quello di un bulletto incontrato dai protagonisti in una bisca che, appartenendo a una generazione completamente diversa dalla loro, li percepisce ed apostrofa come dei falliti buoni a nulla senza comprendere le loro intime motivazioni. Gli altri ruoli principali, interpretati da Ennio Fantastichini, Edoardo Leo, Antonello Fassari e Ricky Memphis, sono tutti molto più grandi e sfaccettati. Attualmente la pellicola è in post-produzione e dovrebbe approdare nelle sale all'inizio del prossimo anno. Una collaborazione artistica particolarmente importante sembra essere quella con Michele Coggiola, che ti ha diretto in diversi cortometraggi e recentemente anche a teatro. Come è nata questa sinergia? Come ti raccontavo prima, studio ormai con il mio insegnante Dominique De Fazio da quando sono tornato a Roma, quindi tre anni, e quando andai a Los Angeles per un workshop di un mese conobbi Michele, che ha più o meno la mia stessa età e viene da Milano. Essendo coetanei ci siamo trovati subito in sintonia; vedendo come lavoravo in quel contesto mi ha proposto di prendere parte ad un cortometraggio per il quale stava cercando il protagonista. Accettai subito con entusiasmo e da lì è nata una vera e propria amicizia, per cui lui passava del tempo a Roma, io a Milano, e abbiamo girato assieme dapprima "G: The Other Me" e poi "The Fallen Angel", quest'ultimo anche con un altro mio caro amico, Niccolò Rizzini, che ho incontrato a Londra e con cui ho vissuto durante la mia trasferta inglese, prima che lui entrasse alla Lamda (London Academy of Music and Dramatic Art). Quindi abbiamo realizzato assieme questi cortometraggi, dopo di che ci siamo trovati a domandarci...fare teatro è sempre stata la nostra passione...non avendo grandi capitali a disposizione è forse anche più abbordabile dal punto di vista economico...abbiamo il teatro grazie a un'altra persona con cui collaboro da tanto tempo, Maurizio Pepe, e certamente non ci mancano energia e voglia di fare...facciamolo! Abbiamo ricercato un testo giovane, che parlasse in maniera schietta e diretta ai giovani, e l'abbiamo scelto assieme a Maurizio che dirige a Roma il Teatro Abarico nel quartiere di San Lorenzo. Con lui collaboro da tre anni, abbiamo portato in scena "Lo zoo di vetro", lui aveva fatto pure "The woman in black", poi abbiamo lavorato anche al Teatro San Genesio. Lo spettacolo nasceva essenzialmente per le scuole, quindi per matinèe da rappresentare direttamente negli istituti scolastici o con gli studenti che ci raggiungevano a teatro; agli insegnanti era piaciuto particolarmente il nostro lavoro e quindi ci siamo riproposti di individuare il testo ed il linguaggio giusti per avvicinare i giovani, da proporre pertanto non solo ad un pubblico adulto. Io già ad Oxford avevo lavorato su "The shape of things" di Neil Labute e per le tematiche affrontate mi sembrava assolutamente interessante, così è stato concepito questo progetto. "The shape of things" è stato proposto in lingua originale e indubbiamente la drammaturgia di Labute non concede sconti interpretativi, richiedendo una costante tensione emotiva e un meticoloso rispetto dei ritmi della narrazione. Come ti sei confrontato con questa prova recitativa? Proporre uno spettacolo in inglese è stata indubbiamente una sfida coraggiosa, il teatro internazionale a Roma è presente solamente di rado in eventi particolari, per lo più festival. So che c'è una compagnia teatrale vicino Piazza Navona che fa esclusivamente teatro in inglese, ma sono comunque realtà abbastanza poco conosciute. Ci siamo quindi riproposti di adottare questa scelta poco "commerciale", consapevoli di andarci a rinchiudere in una nicchia ben circoscritta di pubblico. Una scelta suggerita dalla precedente esperienza del teatro nelle scuole e anche dall'ambizione di tentare un esperimento che raramente era stato sino ad allora intrapreso, con la curiosità di scoprire come sarebbe andata a finire. Alla fine, nonostante le competenze linguistiche medie dei ragazzi di un liceo italiani non siano ottime, comunque i nostri spettatori sono stati perfettamente in grado di seguire tutto ciò che raccontavamo, superando persino le aspettative che ci eravamo prefissati. Dunque l'esperimento ha funzionato ed anche il pubblico adulto ha apprezzato lo spettacolo. Le tematiche vigorosamente contemporanee di Labute che ci avevano indotto a prendere in considerazione questo testo, hanno catturato l'interesse dei ragazzi parlando con schiettezza dei rapporti interpersonali che contraddistinguono la generazione degli anni Ottanta-Novanta e per immediata trasposizione anche la nostra, grazie all'immediatezza ed universalità di questi concetti ed emozioni. Vengono messi in evidenza la superficialità dei rapporti, l'esteriorità della nostra generazione che si traduce nell'ossessione per un determinato stile di abbigliamento, in comportamenti stereotipati, in atteggiamenti e scelte esistenziali. Poi lo stile di Labute è anche estremamente crudo, focalizzato con decisione nella sua scrittura sulla sfera sessuale, con tinte passionali che inevitabilmente hanno esercitato un forte potere suggestivo sui giovani spettatori. Proprio mentre il tuo Adam Sorenson si muoveva impacciato, timido e insicuro sulle assi del palcoscenico, raggiungevi milioni di spettatori con l'appuntamento che ormai da quindici anni diverte le famiglie italiane la domenica sera, "Un medico in famiglia", dove interpretavi il "bello e impossibile" tatuatore Emiliano Lupi, mandando in visibilio le adolescenti italiane. Senz'altro una sorprendente metamorfosi... La cosa bella è che tutto questo è accaduto parallelamente, perchè feci prima il Medico in Famiglia. Era già iniziato, perchè cominciai a girarne gli episodi ad aprile 2012 e, mentre proseguivano le riprese che si protrassero fino a novembre, mi ero riproposto dopo aver incarnato il personaggio di Emiliano, duro, freddo, sicuro di sè, il figo della situazione, un po' tormentato, tenebroso e dal passato denso di mistero, di lanciarmi in qualcosa di nettamente diverso. Era interessante per me a livello artistico, proprio perchè sono del tutto contrario all'idea di andarsi a racchiudere saldamente in un ruolo. Si tratta di scelte personali, ci sono attori che sostanziano un'intera carriera attorno a una tipologia di personaggio, ad esempio Hugh Grant come protagonista di commedie romantiche, oppure Richard Gere come il belloccio per antonomasia, sebbene con qualche diversa sfumatura nella seconda parte della sua carriera. Io volevo a tutti i costi evitare questo rischio e, proprio come durante la mia formazione negli anni della scuola, mi sono divertito a intraprendere qualcosa di completamente diverso da quanto provato fino ad allora. La cosa divertente è che ad Oxford mi avevano assegnato il ruolo di Phillip, forse quello in apparenza a me più congeniale - bel ragazzo, sicuro di sè - mentre qui in Italia ho voluto cimentarmi con il personaggio di Adam, andare ad esplorare una parte di me diversa. E' iniziato così un percorso, tutto è capitato "a fagiolo" e a febbraio abbiamo finalmente portato in scena "The shape of things". Un giovane attore come te, forse più avvezzo alle atmosfere raccolte offerte dal teatro, cosa prova nel sentirsi sommerso dall'affetto di un pubblico numeroso, calorosissimo e sensibilmente diverso da quello degli estimatori della drammaturgia contemporanea? In generale in passato, forse sbagliando, sono sempre stato un po' schifiltoso nei confronti delle fiction italiane. Alcune però funzionano, sono ben realizzate, amate dal pubblico, non si prefiggono eccessive pretese; tra queste sicuramente annovererei "Un Medico in Famiglia", il motivo per cui questa fiction ha sempre riscosso un così caloroso successo paragonata ad altre è che racconta la quotidianità e le molteplici situazioni che si possono incontrare all'interno di una famiglia e che toccano noi tutti, con l'incontro talora conflittuale tra le diverse generazioni che la compongono, dai bambini agli adolescenti, dai ragazzi in procinto di terminare l'università, sposarsi e affrontare il mondo del lavoro ai genitori, sino ai nonni. Quindi copre veramente l'intera gamma generazionale, con straordinaria semplicità e senza le pretese che invece ritrovo e mi fanno sorridere nel caso di talune fiction di genere poliziesco; certe tipologie di serie in America vengono proposte in maniera originale e credibile, mentre in Italia non si può dire che questo accada sempre...Un caso decisamente isolato da questo punto di vista è rappresentato da "Il commissario Montalbano", che comunque propone un numero di episodi più limitato e si fonda sulla scrittura appassionante di Camilleri e su una meticolosa cura nella realizzazione ed interpretazione. Ora sto vivendo con sorpresa questa improvvisa popolarità, che in definitiva non mi aspettavo, sebbene tutti fossero convinti che da questo punto di vista l'impatto del Medico in Famiglia sarebbe stato abbastanza dirompente. Invece la storia tra Emiliano, il mio personaggio, e Anna (interpretata da Eleonora Cadeddu) ha avuto anche più successo di quello che ci aspettavamo, specialmente tra le ragazze di età tra i 10 e i 16 anni. Però mi è capitato anche di ricevere email e lettere da parte di persone adulte, madri, che mi ringraziano poichè la storia che abbiamo raccontato, pur trattandosi di una fiction, le ha toccate profondamente. Queste manifestazioni di affetto mi fanno davvero immensamente piacere. Nel quotidiano, vivendo a Roma nello stesso quartiere in cui sono cresciuto, le persone che ti conoscono da una vita ritrovandoti sul piccolo schermo ti chiedono con curiosità e simpatia che cosa stai combinando. Oppure quando facevo il cameriere capitava che le persone mi riconoscessero e salutassero, questa visibilità e l'affetto che mi viene dimostrato sono senz'altro una bella cosa. Per quanto si possa essere tormentati, insofferenti alle eccessive attenzioni o alla curiosità morbosa di alcuni giornalisti, se si decide di intraprendere il mestiere di attore anche questo fa parte del gioco e, una volta compresi i meccanismi e le dinamiche che contraddistinguono questo ambiente, si può decidere il modo più appropriato di porsi. Adesso in realtà sto anche sfruttando questa visibilità per mostrare come un attore che partecipa a fiction familiari e di successo possa anche al contempo percorrere altri sentieri artistici, senza fossilizzarsi su un unico tipo di ruolo o di stile recitativo. A questo proposito ti faccio un esempio particolarmente significativo: recentemente abbiamo riproposto in delle matinèe per le scuole "The glass menagerie" ("Lo zoo di vetro") di Tennessee Williams, una pièce certamente non leggera nè di immediata lettura, ma scritta in maniera letteralmente straordinaria; la portiamo in scena già da un paio di anni, quindi possiamo dire di essere abbastanza rodati. All'incirca ad aprile di quest'anno sono venuti a vederlo degli studenti di quarto-quinto liceo, i quali non sapevano che io fossi presente nel cast degli interpreti. Ci ritroviamo alle nove di mattina con un pubblico di un centinaio di ragazzi, entro e mi riconoscono immediatamente come "quello del Medico in Famiglia", così noi attori ci siamo guardati e messi a ridere. Però subito dopo la loro risposta al testo che portavamo in scena è stata entusiastica, densa di attenzione, curiosità e genuino interesse, per cui magari la presenza di un attore da loro conosciuto attraverso il piccolo schermo può aver rappresentato un efficace viatico iniziale. Penso quindi che questo momento di popolarità potrebbe essere l'occasione per portare luce su altri aspetti del mio lavoro, che per quanto mi riguarda assumono un valore artistico ben più rilevante. Sebbene il Medico in Famiglia abbia innumerevoli caratteristiche positive, come artista e attore che ama in maniera totalizzante questa arte, ti dico Tennessee Williams tutta la vita. E quindi ciò che vorrei provare a fare attraverso questa visibilità, nei miei prossimi progetti, è avvicinare un pubblico di ragazzi giovani, visto che la mia generazione - lo vedo ad esempio da mia sorella che ha diciotto anni - è abbastanza refrattaria, povera di interesse per la cultura in generale e in particolar modo per quanto concerne l'ambito teatrale. Adesso grazie ad internet e alle nuove tecnologie invece la possibilità di coltivare interessi e scoprire nuovi stimoli, sarebbe virtualmente infinita; qualche giorno fa ho visto "La grande bellezza" di Sorrentino al cinema Barberini e in quell'occasione presentavano la proiezione di un prestigioso balletto che sarebbe stato trasmesso live in contemporanea nelle sale cinematografiche; oppure di recente ho visto attraverso internet lo spettacolo "Long day's journey into night" di Eugene O'Neill, portato in scena da David Suchet a Londra. Quindi ora non ci sono veramente più scuse, una possibilità infinita di accedere a tesori culturali di questo valore è pienamente a portata di mano di ciascuno di noi, cosa che in passato ovviamente non poteva accadere: sta pertanto al singolo individuo scegliere se avvicinarsi alla cultura oppure no; purtroppo in Italia sembra mancare l'interesse da parte dei giovani di sentirsi parte integrante e attiva della società, una società che non ti deve necessariamente qualcosa ma che invece tu stesso puoi cambiare impegnandoti nel tuo piccolo per renderla migliore, facendo attivamente qualcosa. Anzitutto essere informato, andare a teatro, voler conoscere quello che accade a livello politico e sociale, a trecentosessanta gradi. Più in generale la nostra generazione sta vivendo un disagio sociale e culturale profondissimo che, mentre in altri paesi sta deflagrando in movimenti di protesta più o meno incandescenti, in Italia sembra sconfinare sempre più in amara rassegnazione. Cosa ne pensi? La società è quella che è, il sistema a livello infrastrutturale, politico e sociale vive una profonda e radicale crisi. Guarda quello che sta facendo Grillo - a qualcuno potrà piacere, altri potranno non condividerlo -, comunque il suo messaggio che una persona qualunque, che faccia il comico oppure l'impiegato, può effettivamente divenire parte della vita politica e tentare di cambiare il sistema, lo ritengo di estrema potenza. Evidentemente sta anche molto a noi giovani, il sistema amaramente è quello che è, c'è il nonnismo, ognuno vuole mantenere il proprio posto ed i propri privilegi, ma proprio perchè ormai ne siamo consapevoli, ora possiamo scegliere in prima persona e con decisione di fare qualcosa e impegnarci. Ad esempio Germano recentemente ha letto un discorso di Gramsci sull'indifferenza su La7 a "Servizio Pubblico" e l'ho trovato davvero pazzesco. Dante agli indifferenti non riserva neppure un girone infernale! Questo è un argomento a cui personalmente tengo moltissimo, non significa poi doversi trasformare in un estremista o in chissà cosa ma piuttosto affermare dove sei, chi sei, per cosa sei, avere la possibilità di un confronto. Se però si dimostra un totale disinteresse verso il mondo che ci circonda e il nostro ruolo in esso - vedi ad esempio i giovani che frequentano l'università senza alcun interesse nei confronti di ciò che studiano, collocati in un'orbita di parcheggio e cazzeggio perenni, neanche poi solo vivendo a casa con mamma e papà, anche io vivo ancora coi miei perchè non mi posso permettere di vivere da solo a Roma ma quello è un altro discorso - allora non è possibile lamentarsi, sono finite le scuse ed è anche cessato il momento di vivere nella bambagia e nell'indolenza. Guarda cosa sta succedendo in Brasile o ad Istanbul. Quando ci sveglieremo anche noi? Cosa deve accadere? Noi italiani a livello storico lavoriamo meglio quando "siamo con le pezze al culo". Guarda cosa è accaduto anche con la crisi negli ultimi anni; solamente con l'arrivo di Monti, quando eravamo ormai sprofondati con un piede nella fossa, siamo riusciti a malapena a risollevarci. Perchè dobbiamo sempre ridurci nelle condizioni di avere dinanzi un'unica via, perchè non siamo svegli e sufficientemente consapevoli di poter prevenire, di poter creare fondamenta chiare e non restare nel totale menefreghismo e nella squallida protezione ciascuno del proprio orticello per poi all'ultimo risvegliarsi con l'acqua alla gola? L'Italia poi ha sempre vissuto decisamente al di sopra delle proprie possibilità e prima o poi il prezzo si finisce inevitabilmente per pagarlo; e questo non solo a livello economico, ma anche a livello culturale, sociale e civile. Passiamo a parlare dei tuoi prossimi progetti teatrali. Stai lavorando sul testo "Hospitality Suite" del drammaturgo Roger Rueff, portato in passato anche al cinema da Kevin Spacey e Danny DeVito. Puoi darci qualche indiscrezione su questo progetto? Dove e quando andrà in scena? In realtà non posso ancora rispondere a queste ultime due domande...Il progetto è già chiaro e delineato, sarà sotto la regia di Manrico Gammarota, che ha da poco partecipato nelle vesti di attore al film "Razza bastarda" di Alessandro Gassman; si è formato con lo stesso insegnante con cui sto studiando io, Dominique De Fazio, ed ha fatto moltissimo teatro, anche con lo stesso Gassman. Gli altri attori sono Maurizio Pepe e Pasquale Esposito. Dal testo teatrale di Roger Rueff è stato tratto il film cult "The Big Kahuna" con Danny DeVito, Kevin Spacey e Peter Facinelli e noi lo porteremo in scena in primo luogo sicuramente a Roma, stiamo valutando se a ottobre o a novembre. Stiamo decidendo quindi il periodo esatto e stiamo cercando anche il teatro; da questo punto di vista c'è stato un cambiamento, poichè inizialmente ci orientavamo su un teatro con un centinaio di posti, mentre ora ne vorremmo individuare uno con duecento posti e vedere se riusciamo a riempirlo, questa è la nostra sfida. Questa sarebbe probabilmente la dimensione più congeniale per ospitarci perchè il pezzo in sè è piuttosto intimo, non è "bombastico" direi: racconta la storia di tre venditori di lubrificanti che si ritrovano nella suite di un albergo e l'intera azione scenica si svolge all'interno di questa suite, descrivendo un giorno e mezzo delle loro vite. Non ci sono grandi cambiamenti, il tutto è estremamente intimo; l'ideale sarebbe quindi un teatro con quella capienza per renderlo al meglio. Successivamente molto probabilmente porteremo lo spettacolo anche a Barletta, città natale di Manrico, e il progetto è di arrivare anche ad Amburgo, Zurigo e Londra perchè lì abbiamo degli amici che sarebbero interessati a sostenere questo lavoro. Comunque queste eventuali date all'estero sono ancora tutte da definirsi. Ma lo proporrete in lingua originale o in italiano? In realtà siamo ancora piuttosto combattuti in merito a questa decisione. Siamo coscienti che se portassimo avanti un progetto di questo tipo in inglese, rischieremmo veramente di andare a chiuderci troppo e siccome al contrario stiamo tentando di arrivare ad un pubblico un po' più ampio, per l'Italia stiamo concretamente pensando all'idea di proporre il testo in italiano e poi portarlo all'estero in inglese. Questo è a grandi linee il progetto, stiamo definendo a giorni gli ultimi dettagli. Io interpreterò Bob, il più giovane dei tre protagonisti di questo testo scritto così magnificamente bene da Rueff, capace di descrivere con grande lucidità e intensità tre generazioni diverse accomunate dal medesimo lavoro: Phil simboleggia l'uomo in crisi di mezz'età che svolge questo mestiere da trent'anni e comincia a porsi domande sull'esistenza, sull'amicizia, sul lavoro, su qualsiasi cosa; Larry è un po' più giovane, è sempre sul pezzo, on the top of his game, rampante, autoritario, sa quello che vuole, come lo vuole e perchè lo vuole; infine c'è Bob, il ragazzo che lavorava nel laboratorio scientifico dell'azienda di lubrificanti, lo inviano in qualità di rappresentante del reparto tecnico ed è la prima volta che partecipa ad una di queste convention dove si incontrano tutti i vari venditori e compratori e fannodeal da milioni di dollari. La caratteristica fondamentale di Bob che però mette in crisi gli altri due personaggi - i quali si conoscono molto bene, lavorano assieme ormai da anni e sono amici - è il fatto di credere fermamente in Dio, nella religione, nella Bibbia, frequenta la chiesa pressochè quotidianamente. E' stato cresciuto in una delle tipiche comunità americane rigidamente ortodosse e dunque quando si tratta di vendere scaturiscono naturalmente tematiche quali il cosa sia etico o meno nel rapportarsi con il prossimo, cosa sia sacro e cosa no, cosa significhi vendere la propria anima e i propri principi sull'altare del profitto economico. E' un testo fantastico perchè affronta tematiche molto molto interessanti che riguardano tutti noi ed è scritto con uno stile da commedia, riuscendo a toccare argomenti profondi e nervi scoperti in maniera arguta ed ironica, rifuggendo al contempo da un lato il pericolo della pesantezza eccessiva e dall'altro quello della superficialità o volgarità, raggiungendo quell'equilibrio che contraddistingueva anche alcune commedie italiane di qualche tempo fa. Ad esempio recentemente ho rivisto "I mostri" di Dino Risi e mi torna in mente la scena famosa con padre e figlio in macchina: il bambino gli chiede "Chi sono queste persone sui cartelloni pubblicitari?" e il papà risponde indignato "Quelli sono i politici, che rubano e ne combinano di tutti i colori" per poi chiedere subito dopo al bimbo di far finta di essere malato e svenuto, così da poter superare l'ingorgo in cui sono bloccati. Il gusto del paradosso, geniale! Sarai ancora nel cast della nona serie del Medico in Famiglia, le cui riprese dovrebbero iniziare a breve... Esattamente, le riprese della nuova serie del Medico in Famiglia dovrebbero iniziare a settembre e mi hanno riconfermato nel cast. Non so ancora assolutamente nulla riguardo alle evoluzioni della storia. A breve dovrei avere più novità e scoprire cosa accadrà ad Emiliano! Ad agosto invece girerai in Germania un cortometraggio, in cui interpreterai un ragazzo italiano che si trasferisce in Germania a causa della crisi e va a lavorare in un ospizio per anziani, dove lega con un signore affetto dall’Alzheimer. Raccontaci qualcosa in più di questo progetto... Sono riuscito attraverso il mio agente in Germania a cogliere l'opportunità di recitare in questo cortometraggio che sarà realizzato a Monaco e si intitola "Am wald" (cioè "Al bosco"). E' la storia di un ragazzo italiano che per la crisi economica abbandona il proprio paese, arriva in Germania e trova lavoro in un ospizio per anziani; è il classico romano de Roma, totalmente innamorato dell'Italia, che non sarebbe mai voluto finire all'estero ma, essendo costretto a farlo, porta comunque con sè il proprio stile di vita. Si ritrova nei dintorni di Monaco, in questo ospizio tedesco, immagina lo shock. Lì però incontra un anziano degente, ammalato di demenza senile, che lo mette in difficoltà scompaginando i suoi equilibri; ne scaturirà un rapporto che farà crescere principalmente il ragazzo, Francesco, che interpreterò io e lo fa cambiare profondamente. Non svelo altri dettagli...Questo cortometraggio lo girerò ad agosto a Monaco, insomma si preannunciano mesi decisamente impegnati! Oltre attore ti piacerebbe cimentarti in futuro anche come che come regista? Assolutamente sì! Recentemente sono tornato alla scuola tedesca dove ho studiato teatro per tanti anni perchè la mia insegnante di italiano che è venuta a vederci a teatro e continua a seguirmi con affetto, era impegnata in un progetto che prevedeva l'allestimento di un piccolo spettacolo da presentare in Germania ai festeggiamenti organizzati dal Festival della Scienza in occasione del decennale dell'invio di una sonda tedesca su Marte. Quindi hanno invitato la scuola tedesca di Roma, chiedendo in cambio un piccolo spettacolo sul teorema dei massimi sistemi di Galileo; insomma un argomento alquanto inconsueto! Così per la prima volta ho curato la regia di uno spettacolo. Come attore credo che per crescere sia necessario cimentarsi sempre anche con la scrittura e la regia, che costituiscono una componente essenziale di questo mestiere: secondo me è basilare capire a fondo le dinamiche, più sei consapevole di come funziona il lavoro degli altri e di come sia possibile supportarsi a vicenda e meglio si risolvono i problemi. Fare un buon film è essere bravi a risolvere i problemi che costantemente si presentano. Sicuramente quindi la regia è qualcosa che vorrei continuare a coltivare, perchè stando dall'altra parte si impara un'infinità di cose, si riescono a capire i suggerimenti indirizzati da un regista agli attori, ci si perfeziona enormemente anche a livello recitativo. Da spettatore quale teatro prediligi? Cosa colpisce la tua curiosità e ti emoziona profondamente? Il teatro lo guardo tutto, non ho preclusioni di sorta. Poi ovviamente ho i miei scrittori preferiti, che sono Williams e Miller, per non parlare ovviamente di Shakespeare. Fondamentalmente dipende dalla storia, dal modo in cui viene raccontata, da come è la regia, dalla passione con cui lavorano gli attori: ho visto spettacoli di storie famosissime però fatte male e quindi non mi hanno toccato; così come mi sono imbattuto in storie che non conoscevo e inizialmente mi lasciavano perplesso, ma che poi mi hanno lasciato letteralmente a bocca aperta. L'ultima cosa che sono andato a vedere è stato "The suit" di Peter Brook, uno spettacolo che sposa perfettamente la sua cifra stilistica con l'adozione dell'empty stage, con gli attori che fanno un lavoro molto particolare. Certamente qualcosa che non si vede tutti i giorni sul palcoscenico, però cavolo quanto ti tocca. Una cosa che mi emozionava moltissimo quando vivevo a Londra era la possibilità di veder recitare a teatro attori celebri che ero abituato ad ammirare al cinema e comprendere così la differenza tra la recitazione teatrale e quella cinematografica: il film è un collage, non è facile ma allo stesso tempo non richiede la tua costante presenza su di un palcoscenico per un'ora e mezza; in un'ora e mezza io a teatro da spettatore seguo qualsiasi cosa tu stia facendo e quindi l'attore veramente bravo si vede davvero tutto. Quella è stata per me un'opportunità formativa pazzesca, vedere le produzioni del West End londinese che davvero nulla hanno da invidiare a quelle americane di Broadway. Secondo me il teatro ed il lavoro di fronte alla telecamera - che si tratti di cinema o televisione - sono due mezzi di comunicazione che offrono possibilità diverse tra loro: il teatro ti offre il contatto diretto, ti permette di partecipare ad un'esperienza con gli attori, in quel momento, in quel luogo, ed ogni sera è un'emozione diversa. Allo stesso tempo non è però possibile effettuare il lavoro di rifinitura consentito dal cinema, non c'è la possibilità di close-up o primi piani che sottolineino ogni singolo dettaglio. La telecamera non mente; a teatro se un attore in un determinato momento non è in scena ha la possibilità di recuperare l'interpretazione, la telecamera cattura implacabilmente e per sempre ogni cosa che fai, istante dopo istante, quindi non puoi in alcun modo fingere. Trovo un peccato che in Italia tenda ad erigersi questa cortina di fuoco tra attori cinematografici e teatrali. Qui il teatro viene visto come una sorta di ripiego per attori di cinema ormai avviati sulla via del tramonto; o viceversa ci sono i fanatici puristi del teatro che ritengono il cinema un'arte di minore dignità. Invece in America e in Inghilterra, come anche in altri paesi, non esiste nulla di tutto ciò: recentemente ho letto un'intervista a Ian McKellen, l'interprete del Gandalf del Signore degli Anelli, in cui parlava proprio di questo; quando ero a Londra lo vidi interpretare a teatro "Aspettando Godot" e un mese dopo lui si sarebbe trasformato in Gandalf per girare uno dei capitoli del colossal cinematografico. Che c'è di male? Anzi, tanto di cappello alla bravura e poliedricità di artisti simili. Per concludere, quale sarebbe il progetto che più di ogni altro ti piacerebbe realizzare? Con quale regista teatrale o cinematografico ti piacerebbe lavorare? E al fianco di quale attore vorresti recitare? Al momento i più grandi registi secondo me sono David Fincher e Martin Scorsese, in Italia Sorrentino - ho visto alcuni giorni fa "La grande bellezza" e mi ha colpito moltissimo - ma anche Tornatore, Bellocchio. Personalmente poi mi lego maggiormente alla storia, se la storia che raccontiamo la ritengo di valore, mi trovo immediatamente con il regista. Penso che si possa solo imparare enormemente da questi mostri sacri, penso ad un Francis Ford Coppola o anche a uno Spielberg, a Gus Van Sant. Gli attori che mi eccitano proprio a livello artistico in Italia sono Servillo, Germano, Rossi Stuart, Favino, sino ad arrivare oltreoceano a Sean Penn, Benicio Del Toro, Daniel Day Lewis; poi sono un grande fan dei purtroppo ormai passati a miglior vita Marlon Brando, James Dean e Montgomery Clift. Sono i tre che considero come punti di riferimento. Tra le interpreti femminili mi fanno impazzire Marion Cotillard, oppure Jessica Chastain, l'attrice che ha recitato in "Tree of life" di Terrence Malick; e poi ovviamente l'inimitabile Meryl Streep! Io penso che prima o poi le occasioni capitano a tutti se si creano i giusti presupposti, credo nella fortuna, ma la fortuna bisogna saperla cogliere, quindi con tanto lavoro e dedizione si possono raggiungere i risultati che ci si prefigge di ottenere. Guarda Benigni per esempio, un altro vero genio, quando ha vinto l'Oscar ha pronunciato una frase che mi ha toccato profondamente: "Ringrazio i miei genitori per il più bel regalo che avrebbero mai potuto farmi, la povertà". La povertà implica secondo me il fatto che tu non abbia nulla da perdere, ti rimbocchi le maniche e hai solamente da imparare, svaniscono gli inutili discorsi di compiacimento dell'ego. Impari, impari, impari con umiltà e sbagli, ti permette anche di sbagliare. Spesso sembra che sbagliare sia un'onta che ti marchia come perdente e invece solo sbagliando impari; e allora meno male, sbagliamo di più. Sempre Benigni ha detto poi quest'altra cosa che sento molto vicina a me e con cui vi saluto, ossia che "L'unico modo per raggiungere i propri sogni è smettere di sognare". Intervista Sul web: www.edoardopurgatori.com di: Andrea Cova