EDOARDO PURGATORI: IL TEATRO, PASSIONE TOTALIZZANTE

EDOARDO PURGATORI: IL TEATRO, PASSIONE
TOTALIZZANTE DA COLTIVARE CON IMPEGNO ED
UMILTÀ
C r e a t o
D o m e n i c a ,
0 7
L u g l i o
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2 1 : 0 0
A n d r e a
C o v a
In molti riconosceranno in Edoardo Purgatori il giovane e impetuoso
attore che ha saputo far battere il cuore delle adolescenti italiane recitando nell'ultima serie della fiction "Un medico in
famiglia". In realtà la sua più profonda e inderogabile passione è però quella per il teatro, il suo talento ed entusiasmo
brillano al massimo della vividezza sulle assi del palcoscenico, dove si confronta con l'impegnativa drammaturgia
contemporanea di autori come Labute e Rueff, con l'umiltà di mettersi costantemente in gioco ed un'energia contagiosa.
Lo abbiamo incontrato a Roma in una chiacchierata davvero piacevole, per raccontare Edoardo a trecentosessanta
gradi, dalla sua formazione internazionale alle sua aspirazioni artistiche, dai prossimi progetti in cantiere all'impatto con
l'improvvisa popolarità e affetto del pubblico.
Ciao Edoardo e benvenuto sulle pagine di SaltinAria! Mi piacerebbe partire dalle origini della tua passione per la
recitazione. Provieni da una famiglia in cui si è sempre respirata arte - madre tedesca attrice, padre italiano
sceneggiatore - ma quando hai sentito scattare in te la scintilla e come hai iniziato a coltivare questa passione?
Devo confessare che negli ultimi tempi, grazie alla
popolarità improvvisamente regalatami dal Medico in Famiglia, molte persone mi hanno posto questa domanda e questo
mi ha spinto a rivolgere lo sguardo al passato per cercare di individuare l'origine di questa passione. Fin da quando
posso ricordare, ho sempre avuto ben chiaro che questo sarebbe stato il mio percorso; così di recente sono andato da
mia madre per chiederle di aiutarmi a ricordare quando è iniziato tutto questo. La sua risposta mi ha fatto un sacco
ridere: ho un fratello ed una sorella più piccoli e con loro guardavamo tantissimi film e cartoni animati; un giorno mi sono
imbattuto per caso in "Robin Hood" e, appena l'ho visto, sono corso risolutamente da mia mamma, avrò avuto a
malapena cinque anni, e lo ho detto con fermezza "Voglio essere come lui!". Poi ero appassionatissimo di Indiana
Jones, Star Wars e James Bond, son cresciuto accompagnato da questi film avventurosi e fin dove la mia memoria
riesce a tornare indietro mi divertivo enormemente a travestirmi, a trasformarmi in personaggi sempre diversi. Addirittura
spesso per i compleanni di mia nonna giravamo dei video con la telecamera a mano, quindi è una passione, un istinto
naturale che ho sempre coltivato. Inoltre da bambino italiano, nato e sempre vissuto a Roma ma con una propensione
decisamente scarsa per il pallone - tanto che i miei compagni di scuola mi piazzavano sistematicamente in porta - mi
sono dedicato con tutte le energie a quest'altra passione, sostenuto dalla costante presenza, generosa e lungimirante,
dei miei genitori: mia madre, che è anche storica dell'arte, nel week-end mi accompagnava al Palazzo delle Esposizioni
dove organizzavano un laboratorio di sperimentazione riservato ai bambini; mio padre invece mi portava spesso al
cinema. Dunque questo interesse, questa inclinazione spontanea, li ho coltivati sin da piccolo, fin quando non sono
arrivato ai giorni della scuola. Sin dall'asilo ho frequentato la scuola tedesca a Roma e qui ho colto l'opportunità
concreta, al di là dei classici spettacolini di Natale e Pasqua, di frequentare la cosiddetta "Theater AG", ovvero i gruppi di
lavoro doposcuola offerti gratuitamente dagli insegnanti che si seguono durante l'anno intero per poi arrivare ad uno
spettacolo conclusivo. Si seguivano le lezioni settimanalmente e si partecipava anche a dei viaggi di cinque-sei giorni in
un agriturismo in Umbria dove si riuniva solamente il gruppo teatrale per portare avanti le prove, insomma
un'organizzazione ben strutturata e stimolante nell'ambito della quale ho avuto l'occasione di cimentarmi con un
impegnativo lavoro di gruppo e di coltivare la mia passione per la recitazione. Ho frequentato questi corsi per ben seisette anni, dai tredici ai diciannove anni, quindi si può dire che questo sia stato decisamente un significativo punto di
partenza.
La tua è stata una formazione decisamente internazionale, dapprima appunto la scuola tedesca frequentata sin
dall'asilo a Roma, poi i workshop seguiti con insegnanti dell’ Actors Studio di New York e la Oxford School of
Drama. Quanto sono state preziose queste esperienze per fornirti una solida preparazione e allo stesso tempo
aprire
gli
orizzonti
della
tua
mente?
In realtà l'Actors Studio in sè non è propriamente una scuola, ma piuttosto un posto dove è possibile recarsi un paio di
volte a settimana, in qualità di professionista, per presentare il lavoro che si sta preparando - una volta che se ne è
divenuti membri a vita, non è neppure necessario pagare - e provare di fronte a un uditore dalla consolidata esperienza,
talvolta anche celebre, che esprime poi il proprio feedback sulla tua scena. Non è un posto concepito per imparare l'arte
della recitazione, ma piuttosto offre l'opportunità di condividere il lavoro svolto su di un personaggio, su di una particolare
scena, per approfondirlo e ricevere eventualmente delle indicazioni, dei suggerimenti. Molti di coloro che hanno studiato
all'Actors Studio e ne sono poi divenuti membri, hanno avuto l'occasione di interagire con insegnanti come Strasberg o
altri che provenivano dal Group Theatre come Sanford Meisner o Stella Adler in alcune classi private; io ho sperimentato
proprio qualcosa di simile, partecipando ai workshop organizzati da alcuni insegnanti dell'Actors Studio qui in Italia, una
sorta di training intensivo della durata di una settimana-dieci giorni per oltre dieci ore al giorno, in cui puoi gettare le basi
per coltivare la tua arte, il tuo lavoro. Ho iniziato a 18 anni quando avevo ormai pienamente compreso, verso la fine del
mio percorso scolastico, che era ciò che desideravo senza dubbio fare; c'è stato anche un momento in cui ho pensato di
frequentare l'università, facendo una fulminea capatina alla facoltà di Scienze Politiche della Luiss, per poi fuggirmene
dopo appena tre mesi in Inghilterra a studiare teatro e recitazione. Lì ho frequentato proprio l'accademia, la Oxford
School of Drama, presso la quale ho seguito un corso di sei mesi, non il canonico corso triennale. Provai ad accedere
anche a quest'ultimo ma gli inglesi sono estremamente rigidi e particolari, accettano solamente diciotto studenti tra
qualcosa come duemila aspiranti (un po' come accade anche in talune prestigiose scuole italiane); io mi preparai con
questo corso semestrale e poi arrivai tra i finalisti, diciannovesimo in lista sui diciotto che sarebbero stati accolti. Mi
hanno tenuto sulle spine per un po' ed inizialmente pensai che fosse un fallimento da cui non mi sarei ripreso facilmente;
comunque essere stato apprezzato in un contesto fortemente meritocratico - al contrario di quanto accade in Italia, in cui
frequentemente hanno il sopravvento logiche di nepotismo e favoritismi - è stato un indiscutibile motivo di orgoglio. A
ben guardare questo apparente passo falso invece è stata forse una fortuna poichè, tornando in Italia, ho iniziato a
studiare con Dominique De Fazio, un insegnante membro dell'Actors Studio 'vecchia scuola', che ha un proprio studio
qui a Roma ed offre per tutto l'anno corsi rivolti a professionisti, senza imporre stringenti obblighi di frequenza. In questo
modo, anche durante il periodo delle riprese del Medico in Famiglia, avevo l'opportunità di continuare questo percorso,
portare delle scene, degli esercizi, tutto il materiale su cui stavo lavorando a livello interpretativo; questo lo continuo a
fare tuttora, perchè ritengo fermamente - al contrario di coloro i quali concluso un ciclo di studi in accademia pensano di
essersi ormai appropriati delle varie tecniche, senza però avere in realtà affondato le radici in nessuna di queste - che
nel lavoro dell'attore non si debba mai smettere di imparare, di mettersi alla prova con se stessi e differenti contesti
recitativi. L'Inghilterra comunque per me ha rappresentato un terreno fertile dove poter trascorrere un periodo di
formazione per poi fare ritorno in Italia; sono rimasto a Londra per due anni e mezzo, seguendo dei corsi presso l'Actors'
Temple, gestito da un ex-studente di Sanford Meisner che ne prosegue la linea artistica, ed anche dei corsi privati con
altri insegnanti, continuando quindi costantemente a coltivare la mia passione anche al di là del periodo strettamente
legato agli studi in accademia.
Nel corso di questi anni ti sei dedicato al teatro, al
cinema e alla fiction televisiva avendo l'opportunità di lavorare accanto a registi di grande spessore, da Marco
Maltauro per la pellicola "Faust chi?" a Claudio Bonivento per la serie tv "Anita Garibaldi", da Alberto Sironi in
"Eroi per caso" fino al geniale Woody Allen per una comparsa in "To Rome with love". Che ricordo custodisci di
queste esperienze e quali gli insegnamenti più importanti che hai catturato da questi professionisti?
Quella con Marco Maltauro è stata una delle mie prime esperienze lavorative al termine della scuola; "Faust chi?" era
una sorta di documentario-film sul personaggio del Faust di Goethe. Attraverso il mio insegnante di recitazione sono
venuto a conoscenza che la produzione stava ricercando degli attori che fossero in grado di parlare anche tedesco, così
mi ritrovai ad interpretare uno degli studenti nella birreria dove si reca Faust in compagnia del diavolo. Ti racconto una
curiosità: il ragazzo che interpretò quella parte assieme a me, ai tempi anche lui praticamente sconosciuto, era
Domenico Diele che ha recentemente lavorato in "ACAB - All Cops Are Bastards" di Sollima e in numerose altre
interessanti pellicole. Non vedo Marco Maltauro da circa sei anni e gli sono senz'altro riconoscente poichè mi ha dato la
prima
possibilità
a
livello
professionale
di
fare
qualcosa.
Anche nella fiction televisiva di Alberto Sironi interpretavo un tedesco, anzi per la precisione un ufficiale austriaco
durante la Prima Guerra Mondiale, al fianco dei personaggi principali interpretati da Neri Marcorè, Flavio Insinna e
Michele Alhaique; avendo il vantaggio di essere sostanzialmente italo-tedesco, di parlare perfettamente questa lingua e
di aver coltivato costantemente l'inglese, anche attualmente lavoro molto come doppiatore in tedesco - ad esempio ho
doppiato "Diaz - Don't Clean Up This Blood " di Daniele Vicari e "War Horse" di Steven Spielberg. Conoscere bene le
lingue
è
una
gran
figata!
L'esperienza con Woody Allen è davvero divertente: ormai si è diffusa la voce, comparsa anche sul mio résumé, di
questa fantomatica partecipazione al film. Praticamente è andata invece così. Non riuscii a sostenere i provini per la
pellicola in quanto non ero sufficientemente famoso nè avevo le conoscenze giuste per accedere a tali opportunità. Un
mio amico che lavorava al film come assistente alla produzione mi avvisò che stavano girando sotto casa mia a Roma e
mi suggerì di andare a fare una capatina dal momento che c'erano concentrati in un sol posto Woody Allen, Alec Baldwin
e Jesse Eisenberg, insomma mi esortò a dare un'occhiata. Così, una volta andato lì, ho conosciuto il ragazzo che si
occupava degli extra, che mi ha proposto una giornata di lavoro come comparsa. Hai presente quando passa l'autobus
sullo sfondo? Ecco, passo anche io nelle vicinanze, quella è stata la mia partecipazione al film di Woody Allen! E' stata
comunque un'esperienza da ricordare, perchè mi ha permesso di passare una giornata accanto a professionisti di
questo calibro, già solo veder lavorare Allen è stato qualcosa di memorabile. E' estremamente silenzioso e riservato e in
quell'occasione aveva un ottimo primo assistente alla regia italiano che gestiva tutti; la cosa divertente che mi
raccontavano è che il copione non era stato consegnato a nessuno, ogni attore riceveva ogni giorno le scene che
avrebbe girato e non aveva pertanto l'idea generale di quello che sarebbe accaduto. L'ho trovato abbastanza
invecchiato, minuto e ingrigito, ricordandolo per le sue interpretazioni più celebri del passato, ma sapeva perfettamente
quello che voleva e bastava una parola rivolta ai suoi collaboratori per indirizzare magistralmente le riprese.
Il tuo ultimo lavoro cinematografico è stato "La mossa del pinguino", diretto da Claudio Amendola, che
approderà nelle sale italiane nei prossimi mesi. Che ruolo interpreti? Puoi raccontarci qualche aneddoto
particolare
accaduto
durante
le
riprese?
Il film racconta la storia di una combriccola di romani, con una vita tutt'altro che dinamica, che per riscattarsi decidono di
creare una squadra di curling e andare a competere alle Olimpiadi di Torino. Il mio ruolo minuscolo è quello di un bulletto
incontrato dai protagonisti in una bisca che, appartenendo a una generazione completamente diversa dalla loro, li
percepisce ed apostrofa come dei falliti buoni a nulla senza comprendere le loro intime motivazioni. Gli altri ruoli
principali, interpretati da Ennio Fantastichini, Edoardo Leo, Antonello Fassari e Ricky Memphis, sono tutti molto più
grandi e sfaccettati. Attualmente la pellicola è in post-produzione e dovrebbe approdare nelle sale all'inizio del prossimo
anno.
Una
collaborazione
artistica
particolarmente
importante sembra essere quella con Michele Coggiola, che ti ha diretto in diversi cortometraggi e recentemente
anche
a
teatro.
Come
è
nata
questa
sinergia?
Come ti raccontavo prima, studio ormai con il mio insegnante Dominique De Fazio da quando sono tornato a Roma,
quindi tre anni, e quando andai a Los Angeles per un workshop di un mese conobbi Michele, che ha più o meno la mia
stessa età e viene da Milano. Essendo coetanei ci siamo trovati subito in sintonia; vedendo come lavoravo in quel
contesto mi ha proposto di prendere parte ad un cortometraggio per il quale stava cercando il protagonista. Accettai
subito con entusiasmo e da lì è nata una vera e propria amicizia, per cui lui passava del tempo a Roma, io a Milano, e
abbiamo girato assieme dapprima "G: The Other Me" e poi "The Fallen Angel", quest'ultimo anche con un altro mio caro
amico, Niccolò Rizzini, che ho incontrato a Londra e con cui ho vissuto durante la mia trasferta inglese, prima che lui
entrasse alla Lamda (London Academy of Music and Dramatic Art). Quindi abbiamo realizzato assieme questi
cortometraggi, dopo di che ci siamo trovati a domandarci...fare teatro è sempre stata la nostra passione...non avendo
grandi capitali a disposizione è forse anche più abbordabile dal punto di vista economico...abbiamo il teatro grazie a
un'altra persona con cui collaboro da tanto tempo, Maurizio Pepe, e certamente non ci mancano energia e voglia di
fare...facciamolo! Abbiamo ricercato un testo giovane, che parlasse in maniera schietta e diretta ai giovani, e l'abbiamo
scelto assieme a Maurizio che dirige a Roma il Teatro Abarico nel quartiere di San Lorenzo. Con lui collaboro da tre
anni, abbiamo portato in scena "Lo zoo di vetro", lui aveva fatto pure "The woman in black", poi abbiamo lavorato anche
al Teatro San Genesio. Lo spettacolo nasceva essenzialmente per le scuole, quindi per matinèe da rappresentare
direttamente negli istituti scolastici o con gli studenti che ci raggiungevano a teatro; agli insegnanti era piaciuto
particolarmente il nostro lavoro e quindi ci siamo riproposti di individuare il testo ed il linguaggio giusti per avvicinare i
giovani, da proporre pertanto non solo ad un pubblico adulto. Io già ad Oxford avevo lavorato su "The shape of things" di
Neil Labute e per le tematiche affrontate mi sembrava assolutamente interessante, così è stato concepito questo
progetto.
"The shape of things" è stato proposto in lingua originale e indubbiamente la drammaturgia di Labute non
concede sconti interpretativi, richiedendo una costante tensione emotiva e un meticoloso rispetto dei ritmi della
narrazione.
Come
ti
sei
confrontato
con
questa
prova
recitativa?
Proporre uno spettacolo in inglese è stata indubbiamente una sfida coraggiosa, il teatro internazionale a Roma è
presente solamente di rado in eventi particolari, per lo più festival. So che c'è una compagnia teatrale vicino Piazza
Navona che fa esclusivamente teatro in inglese, ma sono comunque realtà abbastanza poco conosciute. Ci siamo quindi
riproposti di adottare questa scelta poco "commerciale", consapevoli di andarci a rinchiudere in una nicchia ben
circoscritta di pubblico. Una scelta suggerita dalla precedente esperienza del teatro nelle scuole e anche dall'ambizione
di tentare un esperimento che raramente era stato sino ad allora intrapreso, con la curiosità di scoprire come sarebbe
andata a finire. Alla fine, nonostante le competenze linguistiche medie dei ragazzi di un liceo italiani non siano ottime,
comunque i nostri spettatori sono stati perfettamente in grado di seguire tutto ciò che raccontavamo, superando persino
le aspettative che ci eravamo prefissati. Dunque l'esperimento ha funzionato ed anche il pubblico adulto ha apprezzato
lo
spettacolo.
Le tematiche vigorosamente contemporanee di Labute che ci avevano indotto a prendere in considerazione questo
testo, hanno catturato l'interesse dei ragazzi parlando con schiettezza dei rapporti interpersonali che contraddistinguono
la generazione degli anni Ottanta-Novanta e per immediata trasposizione anche la nostra, grazie all'immediatezza ed
universalità di questi concetti ed emozioni. Vengono messi in evidenza la superficialità dei rapporti, l'esteriorità della
nostra generazione che si traduce nell'ossessione per un determinato stile di abbigliamento, in comportamenti
stereotipati, in atteggiamenti e scelte esistenziali. Poi lo stile di Labute è anche estremamente crudo, focalizzato con
decisione nella sua scrittura sulla sfera sessuale, con tinte passionali che inevitabilmente hanno esercitato un forte
potere suggestivo sui giovani spettatori.
Proprio mentre il tuo Adam Sorenson si muoveva
impacciato, timido e insicuro sulle assi del palcoscenico, raggiungevi milioni di spettatori con l'appuntamento
che ormai da quindici anni diverte le famiglie italiane la domenica sera, "Un medico in famiglia", dove
interpretavi il "bello e impossibile" tatuatore Emiliano Lupi, mandando in visibilio le adolescenti italiane.
Senz'altro
una
sorprendente
metamorfosi...
La cosa bella è che tutto questo è accaduto parallelamente, perchè feci prima il Medico in Famiglia. Era già iniziato,
perchè cominciai a girarne gli episodi ad aprile 2012 e, mentre proseguivano le riprese che si protrassero fino a
novembre, mi ero riproposto dopo aver incarnato il personaggio di Emiliano, duro, freddo, sicuro di sè, il figo della
situazione, un po' tormentato, tenebroso e dal passato denso di mistero, di lanciarmi in qualcosa di nettamente diverso.
Era interessante per me a livello artistico, proprio perchè sono del tutto contrario all'idea di andarsi a racchiudere
saldamente in un ruolo. Si tratta di scelte personali, ci sono attori che sostanziano un'intera carriera attorno a una
tipologia di personaggio, ad esempio Hugh Grant come protagonista di commedie romantiche, oppure Richard Gere
come il belloccio per antonomasia, sebbene con qualche diversa sfumatura nella seconda parte della sua carriera.
Io volevo a tutti i costi evitare questo rischio e, proprio come durante la mia formazione negli anni della scuola, mi sono
divertito a intraprendere qualcosa di completamente diverso da quanto provato fino ad allora. La cosa divertente è che
ad Oxford mi avevano assegnato il ruolo di Phillip, forse quello in apparenza a me più congeniale - bel ragazzo, sicuro di
sè - mentre qui in Italia ho voluto cimentarmi con il personaggio di Adam, andare ad esplorare una parte di me diversa.
E' iniziato così un percorso, tutto è capitato "a fagiolo" e a febbraio abbiamo finalmente portato in scena "The shape of
things".
Un giovane attore come te, forse più avvezzo alle atmosfere raccolte offerte dal teatro, cosa prova nel sentirsi
sommerso dall'affetto di un pubblico numeroso, calorosissimo e sensibilmente diverso da quello degli
estimatori
della
drammaturgia
contemporanea?
In generale in passato, forse sbagliando, sono sempre stato un po' schifiltoso nei confronti delle fiction italiane. Alcune
però funzionano, sono ben realizzate, amate dal pubblico, non si prefiggono eccessive pretese; tra queste sicuramente
annovererei "Un Medico in Famiglia", il motivo per cui questa fiction ha sempre riscosso un così caloroso successo
paragonata ad altre è che racconta la quotidianità e le molteplici situazioni che si possono incontrare all'interno di una
famiglia e che toccano noi tutti, con l'incontro talora conflittuale tra le diverse generazioni che la compongono, dai
bambini agli adolescenti, dai ragazzi in procinto di terminare l'università, sposarsi e affrontare il mondo del lavoro ai
genitori, sino ai nonni. Quindi copre veramente l'intera gamma generazionale, con straordinaria semplicità e senza le
pretese che invece ritrovo e mi fanno sorridere nel caso di talune fiction di genere poliziesco; certe tipologie di serie in
America vengono proposte in maniera originale e credibile, mentre in Italia non si può dire che questo accada
sempre...Un caso decisamente isolato da questo punto di vista è rappresentato da "Il commissario Montalbano", che
comunque propone un numero di episodi più limitato e si fonda sulla scrittura appassionante di Camilleri e su una
meticolosa
cura
nella
realizzazione
ed
interpretazione.
Ora sto vivendo con sorpresa questa improvvisa popolarità, che in definitiva non mi aspettavo, sebbene tutti fossero
convinti che da questo punto di vista l'impatto del Medico in Famiglia sarebbe stato abbastanza dirompente. Invece la
storia tra Emiliano, il mio personaggio, e Anna (interpretata da Eleonora Cadeddu) ha avuto anche più successo di
quello che ci aspettavamo, specialmente tra le ragazze di età tra i 10 e i 16 anni. Però mi è capitato anche di ricevere email e lettere da parte di persone adulte, madri, che mi ringraziano poichè la storia che abbiamo raccontato, pur
trattandosi di una fiction, le ha toccate profondamente. Queste manifestazioni di affetto mi fanno davvero immensamente
piacere. Nel quotidiano, vivendo a Roma nello stesso quartiere in cui sono cresciuto, le persone che ti conoscono da una
vita ritrovandoti sul piccolo schermo ti chiedono con curiosità e simpatia che cosa stai combinando. Oppure quando
facevo il cameriere capitava che le persone mi riconoscessero e salutassero, questa visibilità e l'affetto che mi viene
dimostrato sono senz'altro una bella cosa. Per quanto si possa essere tormentati, insofferenti alle eccessive attenzioni o
alla curiosità morbosa di alcuni giornalisti, se si decide di intraprendere il mestiere di attore anche questo fa parte del
gioco e, una volta compresi i meccanismi e le dinamiche che contraddistinguono questo ambiente, si può decidere il
modo più appropriato di porsi. Adesso in realtà sto anche sfruttando questa visibilità per mostrare come un attore che
partecipa a fiction familiari e di successo possa anche al contempo percorrere altri sentieri artistici, senza fossilizzarsi su
un unico tipo di ruolo o di stile recitativo. A questo proposito ti faccio un esempio particolarmente significativo:
recentemente abbiamo riproposto in delle matinèe per le scuole "The glass menagerie" ("Lo zoo di vetro") di Tennessee
Williams, una pièce certamente non leggera nè di immediata lettura, ma scritta in maniera letteralmente straordinaria; la
portiamo in scena già da un paio di anni, quindi possiamo dire di essere abbastanza rodati. All'incirca ad aprile di
quest'anno sono venuti a vederlo degli studenti di quarto-quinto liceo, i quali non sapevano che io fossi presente nel cast
degli interpreti. Ci ritroviamo alle nove di mattina con un pubblico di un centinaio di ragazzi, entro e mi riconoscono
immediatamente come "quello del Medico in Famiglia", così noi attori ci siamo guardati e messi a ridere. Però subito
dopo la loro risposta al testo che portavamo in scena è stata entusiastica, densa di attenzione, curiosità e genuino
interesse, per cui magari la presenza di un attore da loro conosciuto attraverso il piccolo schermo può aver
rappresentato un efficace viatico iniziale. Penso quindi che questo momento di popolarità potrebbe essere l'occasione
per portare luce su altri aspetti del mio lavoro, che per quanto mi riguarda assumono un valore artistico ben più rilevante.
Sebbene il Medico in Famiglia abbia innumerevoli caratteristiche positive, come artista e attore che ama in maniera
totalizzante questa arte, ti dico Tennessee Williams tutta la vita. E quindi ciò che vorrei provare a fare attraverso questa
visibilità, nei miei prossimi progetti, è avvicinare un pubblico di ragazzi giovani, visto che la mia generazione - lo vedo ad
esempio da mia sorella che ha diciotto anni - è abbastanza refrattaria, povera di interesse per la cultura in generale e in
particolar modo per quanto concerne l'ambito teatrale. Adesso grazie ad internet e alle nuove tecnologie invece la
possibilità di coltivare interessi e scoprire nuovi stimoli, sarebbe virtualmente infinita; qualche giorno fa ho visto "La
grande bellezza" di Sorrentino al cinema Barberini e in quell'occasione presentavano la proiezione di un prestigioso
balletto che sarebbe stato trasmesso live in contemporanea nelle sale cinematografiche; oppure di recente ho visto
attraverso internet lo spettacolo "Long day's journey into night" di Eugene O'Neill, portato in scena da David Suchet a
Londra. Quindi ora non ci sono veramente più scuse, una possibilità infinita di accedere a tesori culturali di questo valore
è pienamente a portata di mano di ciascuno di noi, cosa che in passato ovviamente non poteva accadere: sta pertanto al
singolo individuo scegliere se avvicinarsi alla cultura oppure no; purtroppo in Italia sembra mancare l'interesse da parte
dei giovani di sentirsi parte integrante e attiva della società, una società che non ti deve necessariamente qualcosa ma
che invece tu stesso puoi cambiare impegnandoti nel tuo piccolo per renderla migliore, facendo attivamente qualcosa.
Anzitutto essere informato, andare a teatro, voler conoscere quello che accade a livello politico e sociale, a
trecentosessanta gradi.
Più in generale la nostra generazione sta vivendo un
disagio sociale e culturale profondissimo che, mentre in altri paesi sta deflagrando in movimenti di protesta più
o meno incandescenti, in Italia sembra sconfinare sempre più in amara rassegnazione. Cosa ne pensi?
La società è quella che è, il sistema a livello infrastrutturale, politico e sociale vive una profonda e radicale crisi. Guarda
quello che sta facendo Grillo - a qualcuno potrà piacere, altri potranno non condividerlo -, comunque il suo messaggio
che una persona qualunque, che faccia il comico oppure l'impiegato, può effettivamente divenire parte della vita politica
e tentare di cambiare il sistema, lo ritengo di estrema potenza. Evidentemente sta anche molto a noi giovani, il sistema
amaramente è quello che è, c'è il nonnismo, ognuno vuole mantenere il proprio posto ed i propri privilegi, ma proprio
perchè ormai ne siamo consapevoli, ora possiamo scegliere in prima persona e con decisione di fare qualcosa e
impegnarci. Ad esempio Germano recentemente ha letto un discorso di Gramsci sull'indifferenza su La7 a "Servizio
Pubblico" e l'ho trovato davvero pazzesco. Dante agli indifferenti non riserva neppure un girone infernale! Questo è un
argomento a cui personalmente tengo moltissimo, non significa poi doversi trasformare in un estremista o in chissà cosa
ma piuttosto affermare dove sei, chi sei, per cosa sei, avere la possibilità di un confronto. Se però si dimostra un totale
disinteresse verso il mondo che ci circonda e il nostro ruolo in esso - vedi ad esempio i giovani che frequentano
l'università senza alcun interesse nei confronti di ciò che studiano, collocati in un'orbita di parcheggio e cazzeggio
perenni, neanche poi solo vivendo a casa con mamma e papà, anche io vivo ancora coi miei perchè non mi posso
permettere di vivere da solo a Roma ma quello è un altro discorso - allora non è possibile lamentarsi, sono finite le scuse
ed
è
anche
cessato
il
momento
di
vivere
nella
bambagia
e
nell'indolenza.
Guarda cosa sta succedendo in Brasile o ad Istanbul. Quando ci sveglieremo anche noi? Cosa deve accadere? Noi
italiani a livello storico lavoriamo meglio quando "siamo con le pezze al culo". Guarda cosa è accaduto anche con la crisi
negli ultimi anni; solamente con l'arrivo di Monti, quando eravamo ormai sprofondati con un piede nella fossa, siamo
riusciti a malapena a risollevarci. Perchè dobbiamo sempre ridurci nelle condizioni di avere dinanzi un'unica via, perchè
non siamo svegli e sufficientemente consapevoli di poter prevenire, di poter creare fondamenta chiare e non restare nel
totale menefreghismo e nella squallida protezione ciascuno del proprio orticello per poi all'ultimo risvegliarsi con l'acqua
alla gola? L'Italia poi ha sempre vissuto decisamente al di sopra delle proprie possibilità e prima o poi il prezzo si finisce
inevitabilmente per pagarlo; e questo non solo a livello economico, ma anche a livello culturale, sociale e civile.
Passiamo a parlare dei tuoi prossimi progetti teatrali. Stai lavorando sul testo "Hospitality Suite" del
drammaturgo Roger Rueff, portato in passato anche al cinema da Kevin Spacey e Danny DeVito. Puoi darci
qualche
indiscrezione
su
questo
progetto?
Dove
e
quando
andrà
in
scena?
In realtà non posso ancora rispondere a queste ultime due domande...Il progetto è già chiaro e delineato, sarà sotto la
regia di Manrico Gammarota, che ha da poco partecipato nelle vesti di attore al film "Razza bastarda" di Alessandro
Gassman; si è formato con lo stesso insegnante con cui sto studiando io, Dominique De Fazio, ed ha fatto moltissimo
teatro, anche con lo stesso Gassman. Gli altri attori sono Maurizio Pepe e Pasquale Esposito. Dal testo teatrale di Roger
Rueff è stato tratto il film cult "The Big Kahuna" con Danny DeVito, Kevin Spacey e Peter Facinelli e noi lo porteremo in
scena in primo luogo sicuramente a Roma, stiamo valutando se a ottobre o a novembre. Stiamo decidendo quindi il
periodo esatto e stiamo cercando anche il teatro; da questo punto di vista c'è stato un cambiamento, poichè inizialmente
ci orientavamo su un teatro con un centinaio di posti, mentre ora ne vorremmo individuare uno con duecento posti e
vedere se riusciamo a riempirlo, questa è la nostra sfida. Questa sarebbe probabilmente la dimensione più congeniale
per ospitarci perchè il pezzo in sè è piuttosto intimo, non è "bombastico" direi: racconta la storia di tre venditori di
lubrificanti che si ritrovano nella suite di un albergo e l'intera azione scenica si svolge all'interno di questa suite,
descrivendo un giorno e mezzo delle loro vite. Non ci sono grandi cambiamenti, il tutto è estremamente intimo; l'ideale
sarebbe quindi un teatro con quella capienza per renderlo al meglio. Successivamente molto probabilmente porteremo lo
spettacolo anche a Barletta, città natale di Manrico, e il progetto è di arrivare anche ad Amburgo, Zurigo e Londra perchè
lì abbiamo degli amici che sarebbero interessati a sostenere questo lavoro. Comunque queste eventuali date all'estero
sono ancora tutte da definirsi.
Ma lo proporrete in lingua originale o in italiano?
In realtà siamo ancora piuttosto combattuti in merito a questa decisione. Siamo coscienti che se portassimo avanti un
progetto di questo tipo in inglese, rischieremmo veramente di andare a chiuderci troppo e siccome al contrario stiamo
tentando di arrivare ad un pubblico un po' più ampio, per l'Italia stiamo concretamente pensando all'idea di proporre il
testo in italiano e poi portarlo all'estero in inglese. Questo è a grandi linee il progetto, stiamo definendo a giorni gli ultimi
dettagli. Io interpreterò Bob, il più giovane dei tre protagonisti di questo testo scritto così magnificamente bene da Rueff,
capace di descrivere con grande lucidità e intensità tre generazioni diverse accomunate dal medesimo lavoro: Phil
simboleggia l'uomo in crisi di mezz'età che svolge questo mestiere da trent'anni e comincia a porsi domande
sull'esistenza, sull'amicizia, sul lavoro, su qualsiasi cosa; Larry è un po' più giovane, è sempre sul pezzo, on the top of
his game, rampante, autoritario, sa quello che vuole, come lo vuole e perchè lo vuole; infine c'è Bob, il ragazzo che
lavorava nel laboratorio scientifico dell'azienda di lubrificanti, lo inviano in qualità di rappresentante del reparto tecnico ed
è la prima volta che partecipa ad una di queste convention dove si incontrano tutti i vari venditori e compratori e
fannodeal da milioni di dollari. La caratteristica fondamentale di Bob che però mette in crisi gli altri due personaggi - i
quali si conoscono molto bene, lavorano assieme ormai da anni e sono amici - è il fatto di credere fermamente in Dio,
nella religione, nella Bibbia, frequenta la chiesa pressochè quotidianamente. E' stato cresciuto in una delle tipiche
comunità americane rigidamente ortodosse e dunque quando si tratta di vendere scaturiscono naturalmente tematiche
quali il cosa sia etico o meno nel rapportarsi con il prossimo, cosa sia sacro e cosa no, cosa significhi vendere la propria
anima e i propri principi sull'altare del profitto economico. E' un testo fantastico perchè affronta tematiche molto molto
interessanti che riguardano tutti noi ed è scritto con uno stile da commedia, riuscendo a toccare argomenti profondi e
nervi scoperti in maniera arguta ed ironica, rifuggendo al contempo da un lato il pericolo della pesantezza eccessiva e
dall'altro quello della superficialità o volgarità, raggiungendo quell'equilibrio che contraddistingueva anche alcune
commedie italiane di qualche tempo fa. Ad esempio recentemente ho rivisto "I mostri" di Dino Risi e mi torna in mente la
scena famosa con padre e figlio in macchina: il bambino gli chiede "Chi sono queste persone sui cartelloni pubblicitari?"
e il papà risponde indignato "Quelli sono i politici, che rubano e ne combinano di tutti i colori" per poi chiedere subito
dopo al bimbo di far finta di essere malato e svenuto, così da poter superare l'ingorgo in cui sono bloccati. Il gusto del
paradosso, geniale!
Sarai ancora nel cast della nona serie del Medico in Famiglia, le cui riprese dovrebbero iniziare a breve...
Esattamente, le riprese della nuova serie del Medico in Famiglia dovrebbero iniziare a settembre e mi hanno
riconfermato nel cast. Non so ancora assolutamente nulla riguardo alle evoluzioni della storia. A breve dovrei avere più
novità e scoprire cosa accadrà ad Emiliano!
Ad agosto invece girerai in Germania un cortometraggio, in cui interpreterai un ragazzo italiano che si
trasferisce in Germania a causa della crisi e va a lavorare in un ospizio per anziani, dove lega con un signore
affetto
dall’Alzheimer.
Raccontaci
qualcosa
in
più
di
questo
progetto...
Sono riuscito attraverso il mio agente in Germania a cogliere l'opportunità di recitare in questo cortometraggio che sarà
realizzato a Monaco e si intitola "Am wald" (cioè "Al bosco"). E' la storia di un ragazzo italiano che per la crisi economica
abbandona il proprio paese, arriva in Germania e trova lavoro in un ospizio per anziani; è il classico romano de Roma,
totalmente innamorato dell'Italia, che non sarebbe mai voluto finire all'estero ma, essendo costretto a farlo, porta
comunque con sè il proprio stile di vita. Si ritrova nei dintorni di Monaco, in questo ospizio tedesco, immagina lo shock.
Lì però incontra un anziano degente, ammalato di demenza senile, che lo mette in difficoltà scompaginando i suoi
equilibri; ne scaturirà un rapporto che farà crescere principalmente il ragazzo, Francesco, che interpreterò io e lo fa
cambiare profondamente. Non svelo altri dettagli...Questo cortometraggio lo girerò ad agosto a Monaco, insomma si
preannunciano mesi decisamente impegnati!
Oltre
attore
ti
piacerebbe
cimentarti
in
futuro
anche
come
che
come
regista?
Assolutamente sì! Recentemente sono tornato alla scuola tedesca dove ho studiato teatro per tanti anni perchè la mia
insegnante di italiano che è venuta a vederci a teatro e continua a seguirmi con affetto, era impegnata in un progetto che
prevedeva l'allestimento di un piccolo spettacolo da presentare in Germania ai festeggiamenti organizzati dal Festival
della Scienza in occasione del decennale dell'invio di una sonda tedesca su Marte. Quindi hanno invitato la scuola
tedesca di Roma, chiedendo in cambio un piccolo spettacolo sul teorema dei massimi sistemi di Galileo; insomma un
argomento alquanto inconsueto! Così per la prima volta ho curato la regia di uno spettacolo. Come attore credo che per
crescere sia necessario cimentarsi sempre anche con la scrittura e la regia, che costituiscono una componente
essenziale di questo mestiere: secondo me è basilare capire a fondo le dinamiche, più sei consapevole di come funziona
il lavoro degli altri e di come sia possibile supportarsi a vicenda e meglio si risolvono i problemi. Fare un buon film è
essere bravi a risolvere i problemi che costantemente si presentano. Sicuramente quindi la regia è qualcosa che vorrei
continuare a coltivare, perchè stando dall'altra parte si impara un'infinità di cose, si riescono a capire i suggerimenti
indirizzati da un regista agli attori, ci si perfeziona enormemente anche a livello recitativo.
Da spettatore quale teatro prediligi? Cosa colpisce la tua curiosità e ti emoziona profondamente?
Il teatro lo guardo tutto, non ho preclusioni di sorta. Poi ovviamente ho i miei scrittori preferiti, che sono Williams e Miller,
per non parlare ovviamente di Shakespeare. Fondamentalmente dipende dalla storia, dal modo in cui viene raccontata,
da come è la regia, dalla passione con cui lavorano gli attori: ho visto spettacoli di storie famosissime però fatte male e
quindi non mi hanno toccato; così come mi sono imbattuto in storie che non conoscevo e inizialmente mi lasciavano
perplesso, ma che poi mi hanno lasciato letteralmente a bocca aperta. L'ultima cosa che sono andato a vedere è stato
"The suit" di Peter Brook, uno spettacolo che sposa perfettamente la sua cifra stilistica con l'adozione dell'empty stage,
con gli attori che fanno un lavoro molto particolare. Certamente qualcosa che non si vede tutti i giorni sul palcoscenico,
però cavolo quanto ti tocca. Una cosa che mi emozionava moltissimo quando vivevo a Londra era la possibilità di veder
recitare a teatro attori celebri che ero abituato ad ammirare al cinema e comprendere così la differenza tra la recitazione
teatrale e quella cinematografica: il film è un collage, non è facile ma allo stesso tempo non richiede la tua costante
presenza su di un palcoscenico per un'ora e mezza; in un'ora e mezza io a teatro da spettatore seguo qualsiasi cosa tu
stia facendo e quindi l'attore veramente bravo si vede davvero tutto. Quella è stata per me un'opportunità formativa
pazzesca, vedere le produzioni del West End londinese che davvero nulla hanno da invidiare a quelle americane di
Broadway. Secondo me il teatro ed il lavoro di fronte alla telecamera - che si tratti di cinema o televisione - sono due
mezzi di comunicazione che offrono possibilità diverse tra loro: il teatro ti offre il contatto diretto, ti permette di
partecipare ad un'esperienza con gli attori, in quel momento, in quel luogo, ed ogni sera è un'emozione diversa. Allo
stesso tempo non è però possibile effettuare il lavoro di rifinitura consentito dal cinema, non c'è la possibilità di close-up
o primi piani che sottolineino ogni singolo dettaglio. La telecamera non mente; a teatro se un attore in un determinato
momento non è in scena ha la possibilità di recuperare l'interpretazione, la telecamera cattura implacabilmente e per
sempre ogni cosa che fai, istante dopo istante, quindi non puoi in alcun modo fingere. Trovo un peccato che in Italia
tenda ad erigersi questa cortina di fuoco tra attori cinematografici e teatrali. Qui il teatro viene visto come una sorta di
ripiego per attori di cinema ormai avviati sulla via del tramonto; o viceversa ci sono i fanatici puristi del teatro che
ritengono il cinema un'arte di minore dignità. Invece in America e in Inghilterra, come anche in altri paesi, non esiste
nulla di tutto ciò: recentemente ho letto un'intervista a Ian McKellen, l'interprete del Gandalf del Signore degli Anelli, in
cui parlava proprio di questo; quando ero a Londra lo vidi interpretare a teatro "Aspettando Godot" e un mese dopo lui si
sarebbe trasformato in Gandalf per girare uno dei capitoli del colossal cinematografico. Che c'è di male? Anzi, tanto di
cappello alla bravura e poliedricità di artisti simili.
Per concludere, quale sarebbe il progetto che più di ogni altro ti piacerebbe realizzare? Con quale regista
teatrale o cinematografico ti piacerebbe lavorare? E al fianco di quale attore vorresti recitare?
Al momento i più grandi registi secondo me sono David Fincher e Martin Scorsese, in Italia Sorrentino - ho visto alcuni
giorni fa "La grande bellezza" e mi ha colpito moltissimo - ma anche Tornatore, Bellocchio. Personalmente poi mi lego
maggiormente alla storia, se la storia che raccontiamo la ritengo di valore, mi trovo immediatamente con il regista. Penso
che si possa solo imparare enormemente da questi mostri sacri, penso ad un Francis Ford Coppola o anche a uno
Spielberg, a Gus Van Sant. Gli attori che mi eccitano proprio a livello artistico in Italia sono Servillo, Germano, Rossi
Stuart, Favino, sino ad arrivare oltreoceano a Sean Penn, Benicio Del Toro, Daniel Day Lewis; poi sono un grande fan
dei purtroppo ormai passati a miglior vita Marlon Brando, James Dean e Montgomery Clift. Sono i tre che considero
come punti di riferimento. Tra le interpreti femminili mi fanno impazzire Marion Cotillard, oppure Jessica Chastain,
l'attrice che ha recitato in "Tree of life" di Terrence Malick; e poi ovviamente l'inimitabile Meryl Streep! Io penso che prima
o poi le occasioni capitano a tutti se si creano i giusti presupposti, credo nella fortuna, ma la fortuna bisogna saperla
cogliere, quindi con tanto lavoro e dedizione si possono raggiungere i risultati che ci si prefigge di ottenere. Guarda
Benigni per esempio, un altro vero genio, quando ha vinto l'Oscar ha pronunciato una frase che mi ha toccato
profondamente: "Ringrazio i miei genitori per il più bel regalo che avrebbero mai potuto farmi, la povertà". La povertà
implica secondo me il fatto che tu non abbia nulla da perdere, ti rimbocchi le maniche e hai solamente da imparare,
svaniscono gli inutili discorsi di compiacimento dell'ego. Impari, impari, impari con umiltà e sbagli, ti permette anche di
sbagliare. Spesso sembra che sbagliare sia un'onta che ti marchia come perdente e invece solo sbagliando impari; e
allora meno male, sbagliamo di più. Sempre Benigni ha detto poi quest'altra cosa che sento molto vicina a me e con cui
vi saluto, ossia che "L'unico modo per raggiungere i propri sogni è smettere di sognare".
Intervista
Sul web: www.edoardopurgatori.com
di:
Andrea
Cova