La persona, un valore in sé di Francesco Lazzari 1. Un viaggio Dopo più di 19 ore di volo transcontinentale il Boeing 747 si apprestava ad atterrare sulla pista dell’aeroporto di Beijin. Ad accogliere i due inviati del sociologo di Trento, Franco Demarchi, c’erano alcuni amici locali che già conoscevano l’Italia per essere stati borsisti nei vari centri formativi della Penisola ad occuparsi di fisica, di musica lirica, di interpretariato e traduzione, di filosofia, di pittura ed arte, di attività produttive… L’apertura al mondo occidentale, alla modernizzazione, alla tecnologia, all’industrializzazione, voluta da Deng Xiaoping a partire dal 1973, aveva favorito l’avvio di relazioni culturali più strette anche con l’Europa conducendo annualmente in Italia circa un centinaio di specialisti cinesi desiderosi di approfondire le loro conoscenze nei settori per i quali l’Italia era apprezzata in Cina. Questi ex borsisti – interessati a non dimenticare la lingua e la cultura di Dante, occupati in posti di responsabilità e aggregati in quella che, nei documenti per gli occidentali, veniva presentata come la Western returned student’s association – erano riusciti ad organizzare con l’amico Demarchi uno scambio interculturale con l’Università degli studi di Padova. Fu così che nel luglio 1986 si tenne all’Università di Yantai, nello Shandong, il primo corso di refreshement socio-linguistico sull’Italia. Come docenti e testimoni furono invitati Giuliano Giorio, dell’Università degli studi di Padova, ed io, in qualità di segretario del Comitato per le scienze sociali e del Gruppo 1 interdisciplinare di lavoro sui diritti umani della Commissione nazionale italiana per l’Une-sco1. Nel corso della prima parte di quegli incontri si illustrarono, compatibilmente con le possibilità offerte dal contesto e dagli interessi dei partecipanti, alcuni aspetti della società italiana contemporanea quali la democrazia italiana, la sua organizzazione politico-costituzionale, l’andamento demografico, lo sviluppo socio-culturale ed economico, il sistema scolastico-culturale e sanitario, l’assetto della formazione sociale, fisica, sportiva e religiosa; nella seconda parte, più prettamente linguistica e diretta ad incoraggiare l’uso attivo della lingua italiana, si utilizzarono argomenti e situazioni riguardanti la società italiana nelle sue diverse espressioni economiche, culturali, sociali, organizzative, comunque strettamente connesse con la parte sociologica. Perché parlare ora di quell’esperienza in questo contesto? Forse perché quell’iniziativa, come le numerose altre che ebbi ancora l’opportunità di vivere con Giuliano Giorio – in America Latina, in Italia o nei Paesi ex socialisti –, mi ha permesso di verificare come vi possa essere effettiva possibilità di rendere operative le idee, come vi possa essere consussistenza tra queste e la quotidiana operatività, come anche l’idealità, se convinta e profondamente condivisa, possa trovare i sentieri della concretizzazione partecipata, come il valore dell’interscambio sia un valore in sé, in grado di produrre un incommensurabile valore aggiunto anche tra interazioni e valori suppostamente lontani. 2. Conflitto e comunità Si tratta cioè, come ricorda Lévinas, di almeno tentare di seguire “la traccia dell’altro2”, di applicare la regola della reciprocità positiva e negativa, “ermeneutica della vita” come riflessione sul presente in cui i valori “diventano progetti” da sottoporre al “confronto relazionale” e le norme “espressione riflessa di una capacità di vita, per la realizzazione di fini che debbono essere sottoposti al tribunale del senso personale, intersoggettivo e sistemico”3. Un interesse sociale in grado di aprirsi a forme di pensiero differenti dalle proprie, senza pretese di sopraffazione e mosso da intenti di cooperazione e di 1 G. Giorio, F. Lazzari, Un’esperienza di cooperazione italo-cinese, in “Mondo Cinese”, 56, 1986, pp.81-82; F. Lazzari, L’educazione in Cina nel periodo delle ‘quattro modernizzazioni’, in “Mondo Cinese”, 56, 1986, pp.47-71. 2 E. Lévinas, La traccia dell’altro, Pironti, Napoli, 1979. 3 P. Donati, Teoria relazionale della società, FrancoAngeli, Milano, 1991, p.416. 2 comprensione reciproca tra persone e popoli, che spesso non hanno né tradizioni storiche comuni né gli stessi problemi quotidiani4. D’altra parte, come ricorda Habermas5, non vi può essere conoscenza reale del mondo che circonda l’uomo se il conoscere non nasce e si sviluppa da un interesse sociale; ma anche un interesse sociale che sa fare del conflitto un valore, in quanto considerato parte del processo stesso di interazione sociale avente per scopo la soluzione di divergenti dualismi, oltre che essere un modo per perseguire una certa unità di relazione sociale6. “Un processo di adattamento che viene a stabilire un nuovo livello di normalità”, oltre che produrre “un maggiore livello di integrazione sociale e (di) solidarietà all’interno dei gruppi”7. Si tratta di un processo incessantemente dinamico che mentre risolve alcune problematiche ne può creare di nuove ai livelli più diversi, da quelli valoriali, culturali e religiosi a quelli economici, internazionali ed etnici. Come sottolinea Simmel, gli elementi da cui può dipendere il conflitto, inteso come forza dinamica primaria che muove numerose istituzioni sociali, sono molteplici: “la differenziazione nei rapporti umani che crea contrasti e diversità tra gli individui quanto a interessi, valori e stili di vita”8; i rapporti di potere all’interno di un’organizzazione (come riconoscono Crozie e Dahrendorf); il conflitto tra sistemi di norme messe in alternativa da mutamenti ricorrenti inerenti la gestione del potere, la divisione del lavoro, la produzione di idee, la sfida ambientale9, e così via. Secondo Coser, è infatti il conflitto che può contribuire all’identità, alla stabilità e alla coesione di un gruppo sociale con l’avvertenza però che qualora gli individui appartengano a molti gruppi diversi con specifici interessi, risulta poco (o meno) probabile che impieghino tutte le loro risorse in un unico conflitto, che potrebbe di fatto radicalizzare la lotta e spaccare la società10. Comunque sia, sembra di poter sostenere che la generalizzata presenza di fattori sociali, culturali, psicologici ed economici che contribuiscono a creare i conflitti dovrebbe deporre a favore del convincimento che i conflitti sono “una caratteristica essenziale della vita sociale” e non manifestazioni 4 Per considerazioni più ampie si rimanda a F. Lazzari, L’attore sociale fra appartenenze e mobilità. Analisi comparate e proposte socio-educative, Cedam, Padova, 2000, 305 p. 5 J. Habermas, Logica delle scienze sociali, il Mulino, Bologna, 1970. 6 Voce Conflitto, in F. Demarchi, A. Ellena, B. Cattarinussi (a cura di), Nuovo dizionario di sociologia, Paoline, Milano, pp.511-518. 7 Ibidem, p.513. 8 Ibidem, p.518. 9 Ibidem. 10 L. Coser, Le funzioni del conflitto sociale, Feltrinelli, Milano, 1967. 3 artificiali, devianti o patologiche che percorrono in modo più o meno convulso la società stessa11. Evidentemente, come annota Dahrendorf, il conflitto può configurarsi sia come forza distruttiva che costruttiva della società: è “la grande forza creativa della storia umana”, la quale ha in sé una tendenza al conflitto che va ritrovata nel sistema sociale stesso di cui si è dotata12. Egli spiega appunto il “conflitto non tanto rifacendosi agli individui come singoli, quanto piuttosto all’autorità nell’ambito delle associazioni”13 e alla “libertà (intesa come) componente essenziale”14. Indubbiamente anche (e forse soprattutto) in una società globalizzata e post moderna, il conflitto può rivelarsi una feconda opportunità di crescita; ma perché ciò possa trovare effettiva operatività è necessario che i conflitti, e i loro attori, sappiano rispettare le regole della democrazia. I conflitti, nel senso detto, possono in effetti arricchire il processo democratico, che non è mai universale o definito una volta per tutte, e renderlo più vitale proprio grazie alla valorizzazione delle identità, delle universalità comuni, delle differenze sociali, culturali e politiche. Una delle poche possibilità di scelta nell’incontro-scontro fra culture diverse, se non si vuole o uscire dalla storia del mondo o lasciare svanire nell’oblio la propria, sembra dunque essere, in ultima e prioritaria istanza, il dialogo15. Sicuramente la società complessa e contraddittoria del XXI secolo – tra terrorismi, glocalismi, neoliberismi e guerre preventive – si propone ancora come un work in progress di un villaggio globale16 – della finanza, dell’economia, dei mass media, della fame e dello sfruttamento – che stenta a imboccare il sentiero che porta verso una comunità partecipata e solidale, basato sull’equità, la giustizia e lo sviluppo endogeno ed eco-sostenibile. 11 Ibidem, p.518. Si veda anche: R. Boudon, F. Bourricaud, Dizionario critico di sociologia, Voce Conflitti sociali, Armando, Roma, 1991, pp.92-96; P. Sorokin, Teorie sociologiche contemporanee, Città nuova, Roma, 1974; R. A. Wallace, A. Wolf, La teoria sociologica contemporanea (1980), il Mulino, Bologna, 2000, 434 p. 12 R. Dahrendorf, Conflict and Contract: Industrial Relations and the Political Community in Times of Crisis: The Second Luverhulme Memorial Lecture, University Press, Liverpool, 1975, p.17. 13 A. Izzo, Storia del pensiero sociologico (1991), il Mulino, Bologna, 1993, 478 p. 14 R. Dahrendolf, Classi e conflitti di classe nella società industriale (Stuttgart, 1957; London, 1959), Laterza, Bari, 1963/1977, 578 p. 15 Tra le sempre più numerose pubblicazioni sull’attualissima tematica, con particolare riferimento alle dinamiche del dialogo nei processi di identità, globalizzazione, solidarietà, riconoscimento, etc., si cfr. tra le altre R. De Vita, Identità e dialogo, FrancoAngeli, Milano, 2003, 331 p. 16 M. McLuhan, R. B. Powers, Il villaggio globale (1989), Sugargo, Carnago, 1994. 4 Processo certamente non facile come dimostra la storia dei rapporti NordSud, Est-Ovest, Oriente ed Occidente, di movimenti di popolazioni in mobilità, di esperienze interculturali spesso sfociate in mere forme di inculturazione, di deculturazione o di contro-cultura. Senza dimenticare che, comunque sia, nelle società attuali si riscontra una generalizzata crescita di razionalità sistemica con le sue esigenze di legittimazione e di istituzionalizzazione, che in qualche modo soffocano i “mondi vitali” e la comunità partecipativa la cui presenza ed azione sono invece ricercate da chi vive in questa società. Evidentemente l’incontro con nuove genti e culture pone, soprattutto dopo la scoperta del nuovo mondo, un problema di rapporto fra i gruppi e le loro diverse culture, mentre fino ad allora il dibattito era limitato quasi esclusivamente al rapporto fra unicità (specie umana) e molteplicità (individuo). La “rivoluzione mobiletica” sembra aver distrutto la comunità locale, e le diverse organizzazioni sociali sembrano essere state messe in crisi, a cominciare dallo stato per finire alla famiglia e al mercato nella sua tanto decantata bontà autoregolativa. Sempre più l’uomo appartiene a sistemi aspaziali, si identifica con comunità simboliche e si riferisce a gruppi di settore ove la struttura spaziale più significativa diviene la superficie topologica definita dai sistemi di comunicazione con il riferimento territoriale, che risulta almeno in parte soppiantato. È comunque vero, peraltro, che i sistemi tecnologici di comunicazione per quanto utili non possono soppiantare i rapporti face to face, le relazioni dirette, personali e l’identificazione con un territorio preciso, benché circoscritto. In tale crisi del sociale diventa pertanto auspicabile, nonché necessaria, l’individuazione di un assetto comunitario in cui la partecipazione sia “promossa e sviluppata a livelli decentrati di autorità cosicché possa manifestarsi efficacemente in rapporto all’ambito di osservabilità ambientale e di competenza specifica del cittadino”17. Appare quindi necessario, come frequentemente sottolinea Giorio, un raccordo equilibrato da una parte fra “motivazioni umane e psicosociologiche”, e dall’altra fra “effettive utilità ed operatività sociali”; senza omettere le “esigenze normative di carattere generale in grado di valorizzare le disponibilità e le indispensabili risorse umane al riguardo”, garantendo “il perseguimento di obiettivi ad interesse autenticamente ‘comune’, nel rispetto dell’identità personale e socio-culturale di ogni soggetto (individuale, comunitario e ‘naturale’)”18. 17 F. Demarchi, Prefazione, in G. Giorio, Aspetti e problemi della socializzazione, oggi, Liviana, Padova, 1979, p.IX. 18 G. Giorio, Strutture e sistemi sociali nell’attuale dinamica valoriale. Indicazioni istituzionali per una sociologia planetaria comparata (1991), Cedam, Padova, 2000, p.302. 5 3. Diritti particolari e diritti universali: una necessaria mediazione e integrazione In questo senso la riflessione sulla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, permette di mettere in risalto sia l’unità della specie umana indipendentemente dalle diversità delle razze, gruppi o individui che la compongono sia l’universalità dei valori umani pur con una loro relatività legata alla specificità delle diverse culture. È soprattutto in questi ultimi anni che si è acquisita in modo sempre più chiaro una visione e una pratica che, nel sostenere l’originalità dell’individuo e le libertà a lui riconosciute dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, rivendica la stessa universalità e uguaglianza per i diversi popoli e le diverse culture. Ove per uguaglianza fra i popoli è da intendersi il diritto di ciascun popolo alla differenza, il diritto cioè a mantenere la propria specificità nelle diverse manifestazioni di vita etnica (lingua, arte, religione, usi, costumi, cultura, etc.)19. Il diritto alla differenza presuppone il diritto all’identità, visto che la definizione di sé la si può avere in rapporto all’altro, e anche se risulta difficile affermare una propria identità piena e serenamente assunta. Troppo spesso infatti si è in presenza di situazioni che permettono esclusivamente l’espressione di identità incerte, minacciate, oppresse, perdute… Si pensa cioè ad una comprensione dialettica in cui l’uomo, “l’uomo astratto, sorgente dell’imperativo morale, non si rivela come orizzonte di ogni pensiero alla ricerca di intel-ligibilità che attraverso la relazione con l’altro presente alla mia coscienza come altro che è me stesso senza cessare di essere diverso da me”20. Scoprire quindi l’uomo, come scoperta che nasce da un approccio dialettico-filosofico che intende l’uomo come l’essere nudo irriducibile e inqualificabile, esistente ontologicamente prima di qualsiasi altra storia e qualsiasi cultura. È l’uomo astratto, l’uomo senza qualificazioni, specificato unicamente dalla ragione e dalla libertà, e abitato dall’imperativo morale dell’universalità. Non vi è tuttavia contraddizione tra i diritti particolari e il diritto universale: i primi possono essere considerati le determinazioni del diritto universale, del sé formale, ne sono per così dire il contenuto diversificato. È esattamente nel loro punto di giunzione che il diritto alla differenza è legato al diritto naturale, nella misura in cui “l’idea di ‘uomo in generale’, in quanto essere universale, razionale e libero, sviluppa necessariamente, come 19 20 S. Abou, Cultures et droits de l’homme, Hachette, Paris, 1992. Ibidem, p.139. 6 condizione di possibilità una vita collettiva adeguata alla propria sociabilità fondamentale, l’idea repubblicana, intesa come l’ideale di uno stato democratico capace di assicurare l’uguaglianza a tutti gli uomini attraverso e al di là delle loro sofferenze”21. In tale ambito si colloca cioè il conflitto e la sintesi tra l’individuo inteso come cittadino condizionato dal suo vissuto socioculturale e l’individuo inteso come uomo capace, grazie alla “sua razionalità e alla sua libertà, di superare tali condizionamenti giudicandoli in funzione dell’ideale incondizionato che li abita”22. L’incontro-scontro fra culture, popoli e individui va finalmente visto in una dimensione capace di dare valenza positiva al conflitto: al conflitto fra il sé e l’altro, fra il vicino e il lontano, fra il familiare e l’estraneo, fra il cittadino e l’uomo23… È da questo conflitto, se vissuto secondo un’ottica di pensiero critico ed intellettualmente produttivo, che può discendere la possibilità dello sviluppo dell’uomo e, come già sosteneva Jean Jacques Rousseau, della sua “perfettibilità” nell’incontro-scontro con l’altro. Come sostengono numerosi filosofi e antropologi, che, partendo da Hegel e Freud e passando attraverso lo strutturalismo, hanno superato certe posizioni legate a visioni funzionalistico-comportamentistiche o positivistiche dell’uomo, la nozione di “soggettività” va elaborata seguendo un tentativo di esplicitazione forte dell’idea di uomo in quanto essere morale che va astratto dalle esperienze storiche e culturali quotidiane particolari, per essere invece concretizzato nell’esperienza di relazione con l’altro, come sostiene non senza enfasi Emmanuel Lévinas24. Su queste basi sembra allora possibile costruire un “umanesimo critico” in cui i diritti dell’uomo, indipendentemente dalla latitudine in cui sono vissuti, possono trovare uniformità di applicazione facendo appello al diritto naturale – che si riferisce appunto all’uomo in generale, astratto e indeterminato, di soggetto libero e razionale – e al diritto positivo – inteso come espressione della coscienza storica dell’uomo, definita dallo spazio e dal tempo, rispetto alle esigenze poste dal diritto naturale trasmesse dalla storia. 21 Ibidem, p.113. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, art.2, precisa che gli uomini sono individui appartenenti alla stessa specie, facenti parte di collettività più o meno ampie, comunque specifiche e diverse, in cui nascono e agiscono. 22 S. Abou, Cultures et droits de l’homme, op. cit., p.114. 23 Per un inquadramento più ampio, con particolare riferimento all’esperienza migratoria, si cfr. F. Lazzari (1994), L’altra faccia della cittadinanza. Contributi alla sociologia dei processi migratori, FrancoAngeli, Milano, 1999, 240 p. 24 E. Lévinas, Humanisme de l’autre homme, Fata Morgana, Montpellier, 1972/1978; Id., La traccia dell’altro, Pironti, Napoli, 1979. 7 In altre parole i diritti dell’uomo, così come sono espressi dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni unite il 1° dicembre 1948, “non possono considerarsi ‘un modello bloccato’ ma ‘una forza generatrice’ capace di porsi come istanza critica contro ogni sistema giuridico, politico o culturale che non tenga conto dell’ugua-glianza degli uomini in quanto esseri razionali e liberi”25. In questo ambito alcune risposte sembrano pertanto possibili al conflitto fra la duplice appartenenza dell’uomo in quanto soggetto che è incluso nella stessa specie homo sapiens (si pensi all’art.2 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: “ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciati nella presente dichiarazione, senza distinzione alcuna per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita e di altra condizione”) e ad una collettività più o meno ampia – sia essa nazionale o regionale, ma caratterizzata comunque da una qualche coincidenza tra lo spazio geografico e lo spazio culturale – che lo definisce come cittadino. E la forza della cultura è una di queste risposte. 4. L’insostituibile e ambigua forza della cultura È infatti grazie all’evoluzione storica (che l’uomo sperimenta quotidianamente nella sua cultura) che egli trova risposte sempre più adeguate alle sfide poste dalla sua specificità esistenziale e dall’attuazione del suo diritto all’iden-tità e alla differenza, alla dignità socio-economica, al miglioramento delle pro-prie condizioni di vita, alla piena espressione delle proprie potenzialità. Tra le centinaia di definizioni attribuite al concetto di cultura, si pensa a quella proposta da Sélim Abou che considera la cultura come “l’insieme dei modelli di comportamento, di pensiero e di sensibilità che strutturano le attività dell’uomo nel suo triplice rapporto con la natura, con l’uomo e con il trascendente”26. Molto pertinente risulta anche l’idea di cultura offerta da Thierry Verhelst che abbraccia “tutti gli aspetti della vita” dell’uomo e dei popoli comprendendo “il saper fare, le conoscenze tecniche, i costumi alimentari, l’abbigliamen-to, la religione, la mentalità e i valori, la lingua, i simboli, i comportamenti socio-politici ed economici, i modi autonomi di presa di 25 26 S. Abou, Cultures et…, op. cit., p.106. Ibidem, p.112. 8 decisione e di esercizio del potere, le attività produttive e le relazioni economiche, etc.”27. La cultura non è quindi “né un epifenomeno più o meno folcloristico”, né una manifestazione d’élite28, ma un insieme di soluzioni originali inventate da individui e gruppi per adattarsi al contesto naturale e sociale in cui sono inseriti29. Essa è “tutto ciò che appartiene all’uomo: alla sua vita economica, tecnologica, fisica, spirituale, psicologica; alle manifestazioni folcloristiche come ai modi di sopravvivenza, alla gestione del potere come all’organizzazione istituzionale, alle espressioni artistiche e culturali come ai vissuti antropologici profondi, etc.”30. Come già ricordava Tylor “la cultura, o la civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società”31. Infatti, come sostiene Tentori, “i sistemi simbolici comunicativi per mezzo dei quali gli individui si intendono nel contesto delle relazioni necessarie alla loro esistenza della vita sono parte di specifiche concezioni della realtà che in ogni gruppo si ereditano o sviluppano e per indicare le quali si usa il termine ‘cultura’”32. Riprendendo quindi i termini della Raccomandazione n.27 della Conferenza mondiale sulle politiche culturali organizzata nel luglio-agosto 1982 in Messico dall’Unesco, l’idea di cultura viene infatti ampliata – senza nulla togliere alla creatività e all’azione creatrice che caratterizzano un’opera intellettuale ed artistica – al comportamento generale dell’uomo, alla visione che egli ha di se stesso, della società e del mondo che lo circonda. Vale a dire che la vita culturale di una società tende ad esprimersi attraverso il modo di vivere e di essere dell’uomo e le sue modalità di percepire i suoi comportamenti, i suoi valori, le sue credenze, la sua crescita. 27 T. Verhelst, Des racines pour vivre. Sud-Nord: identités culturelles et développement, Duculot, Paris, 1987, p.30, tr. italiana di L. Pasqualini: Sud-Nord: il diritto dei popoli alla differenza, Ed. Gruppo Abele, Torino, 1989, con un’interessante presentazione dell’ex presidente della Focsiv-Federazione organismi cristiani di servizio internazionale di volontariato ed ora docente all’Università degli studi di Brescia, Felice Rizzi. Per più ampie indicazioni sul lavoro citato si rimanda alla relativa recensione, a cura dello scrivente, in “Dimensioni dello Sviluppo”, 3, 1991, pp.177-180. 28 Ibidem, p.30. 29 H. de Varine, La culture des autres, Seuil, Paris, 1976. 30 F. Lazzari, Recensione a T. Verhelst, Des racines pour vivre…, op. cit., p.178. 31 Cfr. E. B. Tylor, citato da C. Tullio Altan, Manuale di antropologia culturale. Storia e metodo, Bompiani, Milano, 1979, p.76. 32 G. Tentori, Il rischio della certezza. Pregiudizio potere cultura, Studium, Roma, 1987, p.19. 9 Si può ancora aggiungere che la cultura “rappresenta un livello particolare della realtà sociale, interdipendente e interpenetrantesi con il livello dell’interazione ovvero del sistema sociale, da un lato, ed il livello della personalità dall’altro, ma analiticamente distinto da essi”33. Ma sarà proprio dal conflitto, soprattutto dal confronto, attraverso l’uso del pensiero critico che potranno scaturire nuove risposte e nuovi scambi reciprocamente arricchenti, capaci di far tesoro dei processi, comunque inarrestabili, di incontro-scontro – scontro fra culture appunto – e di un’acculturazione che deve per forza di cose riconoscere l’uguaglianza funzionale delle culture in quanto, come già detto, tutte sanno mediare nella loro propria specifica realtà il rapporto che l’uomo ha con la natura, con gli altri uomini e con il trascendente. E il conflitto – sostiene Rifkin – assume, forse soprattutto oggi, anche la dimensione della lotta tra globalità e culture locali, tra reale e virtuale, tra civiltà e mercato; e se si vorrà salvare la potenza di espressione dei significati condivisi, anche le reti commerciali e virtuali dovranno trovare una controparte nella realtà e nelle esperienze e relazioni sociali e culturali specifiche e dirette, territorialmente definite34. Si vuole cioè abbracciare una visione di cultura capace di non sottostimare tensioni e conflitti, ma che, orientata da un approccio globale e integrato, sappia attentamente studiare gli squilibri-equilibri che possono aversi quando, per esempio, un attore subalterno e periferico si incontra (o si scontra) con un altro, dominante e centrale35. Alla ideologia dell’uniformità e dell’etnocentrismo più o meno mascherati si tratta quindi di sostituire la cultura del confronto, dell’incontro-scontro, dei processi sinergici tra culture e popoli, tutti indistintamente avviati sullo stesso cammino di umanizzazione dell’uomo e di autentica promozione di ogni individualità e di ogni diversità. Diversità che non è affatto da considerarsi come esclusiva manifestazione di opposizione, incomunicabilità o conflitto fra culture e civiltà differenti. Dalla diversità può infatti scaturire – come si può constatare da tante esperienze di vita, di culture e di popoli – ricchezza e nuovi impulsi di vita. Il rapporto che l’uomo moderno occidentale ha con la natura grazie alle acquisite conoscenze tecniche e scientifiche – che hanno a loro volta modificato i rapporti tra uomo e uomo e reso più complessi ed articolati quelli con il trascendente – è infatti diverso da quello che può aversi in una società tradizionale. Eppure è proprio questa diversa concezione che ha portato tra 33 34 L. Gallino, Cultura, in Dizionario…, op. cit., p.188. J. Rifkin, L’era dell’accesso. La rivoluzione della new economy, Mondadori, Milano, 2000. 35 Unesco, Conférence mondiale sur les politiques culturelles. Messico, 26 luglio-6 agosto 1982, in “Problèmes et Perspectives”, Doc. Clt-82/Mondialcult/3. 10 l’altro alla definizione di quei valori universali oggi riconosciuti dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, ma che sono partiti da un processo di umanizzazione nato in Occidente. È infatti grazie all’evoluzione storica, che l’uomo sperimenta quotidianamente nella sua cultura, che egli trova risposte sempre più adeguate alle sfide poste dalla sua specificità esistenziale e dall’attuazione del suo diritto all’identità e alla differenza, alla dignità socio-economica, al miglioramento delle proprie condizioni di vita, alla piena espressione delle proprie potenzialità. Pertanto, proprio alla luce di quanto sin qui detto, il gioco “di avvicinamento e allontanamento, di identificazione e differenziazione” fra popoli e culture può essere vissuto nello spirito dell’apertura e del progresso36. 5. La relazione, risorsa per la costruzione del bene comune attraverso il dialogo Per far questo, evidentemente, non basterà “combattere l’esclusivismo”, ma occorrerà “respingere sia l’indifferenza al valore (anche nella forma del relativismo), sia la tendenza all’uniformità che cancella il diverso stesso”. Alla pura e semplice coesistenza o fusione delle diversità occorre sostituire una collaborazione che le conservi e le renda sinergiche “pur in presenza di un certo grado di conflittualità non distruttiva”. In altre parole si tratta di “amare il diverso come diverso e non solo tollerare, ma desiderare che esista”37. Il dialogo diventa quindi, in quanto possibilità di autentica reciproca comunicazione nella diversità, uno degli elementi che permettono la crescita culturale proprio perché, “pur se in ultima analisi esclusivamente individuale, la cultura costituisce un elemento di collegamento tra me e gli altri, tra l’io e la società. Stabilisce che tra me e gli altri c’è qualcosa in comune per cui posso comunicare”38. Se è vero che la storia del mondo insegna ogni giorno di più che non vi possono essere reali alternative al dialogo, è altrettanto vero che per l’avvio di un dialogo autentico è indispensabile acquisire una visione sui tempi lunghi. Si pensa cioè ad una cultura che allo stato attuale della convivenza (tra popoli e individui) e della riflessione euristica deve andare “oltre la tolleranza: 36 Ibidem. V. Mathieu, La problematica della tolleranza, in “Bollettino della Commissione nazionale italiana per l’Unesco”, 1-2, 1988, pp.96-98- 99. In un’ottica più generale si considerino tutti i contributi presentati nel corso del seminario internazionale “La problematica della tolleranza nell’insegnamento della filosofia” svoltosi a Napoli tra il 2 e il 3 giugno 1988 e riportati sullo stesso numero del citato Bollettino della Commissione per l’Unesco. 38 G. Tentori, Il rischio della certezza…, op. cit., p.19. 37 11 ci si può tollerare ma restare separati in tanti mondi incomunicabili”39. Un percorso può essere appunto ricercato nell’interesse comune, o bene comune, inteso certamente come vantaggio dell’essere uniti, ma soprattutto come ricerca di tutti quegli elementi nuovi presenti nelle tradizioni e nelle culture di altri popoli e individui, “così da trarre dal sistema delle forze – come nella fisica – la risultante che muove oggettivamente la società verso il progresso”40. Solidarietà e tolleranza risultano così comprese nel concetto di interesse comune proprio perché quest’ultimo va oltre la solidarietà sociale, necessaria ma non sufficiente per una serena convivenza democratica. Si crede in altri termini ad un vivere sociale orientato a “un bene che può essere prodotto soltanto assieme, non è escludibile per nessuno che ne faccia parte, non è frazionabile e neppure è concepibile come somma di beni individuali”41. La vita dell’individuo, migrante o meno, va quindi vista “come bene comune dei soggetti che stanno in relazione” e dalle cui relazioni dipende il suo stesso “godimento” e i suoi stessi diritti. È “nell’individuo-in-relazione” che la vita umana ha modo di affermare se stessa e la sua umanità specifica e, proprio grazie alla relazionalità, può andare oltre i concetti di stato, di utilità pubblica, di bisogno collettivo, di sfera privata, di welfare state, di mercato42. Non sono né lo stato né il mercato che possono produrre i “beni relazionali”: solo la comunità primaria è in grado di provvedervi in quanto spazio di relazioni tra soggetti collocabili tra il pubblico e il privato, il personale e il collettivo. Il bene comune è cioè un’impresa comune, tra soggetti in possesso di determinate relazioni sociali, è un nuovo modo di “fare società” che sa andare oltre le mere categorie di efficienza, utilità. È insomma un bene che è funzione delle relazioni intersoggettive tra individui più che delle loro esperienze, individualmente o collettivamente considerate43. Se tolleranza e solidarietà suggeriscono comportamenti pratici, è l’interesse comune che “ha valore speculativo di ricerca, di conoscenza, di analisi di ogni dato offerto dal vasto laboratorio vivente dell’umanità. E solo se illuminate da tale interesse scientifico sia la tolleranza che la solidarietà acquistano la pienezza dei significati”. Da ciò discende quindi come corollario “la parificazione speculativa fra le varie culture, sì che la ‘cultura non è altro che cultura delle culture’ senza per questo sminuire la fondamentale importanza che l’acquisizione di comportamenti tolleranti e solidali di massa riveste, in società in cui al contrario sembrano progredire xenofobia e 39 Ibidem, p.118. Ibidem. In questi passaggi i termini interesse comune e bene comune sono utilizzati come sinonimi, benché la preferenza vada per il secondo. 41 P. Donati, Teoria relazionale della società, FrancoAngeli, Milano, 1991, p.156. 42 Ibidem, p.157. 43 Ibidem. 40 12 razzismo”44. In questo senso quindi la solidarietà non può che essere la produzione di un bene comune tra individui in relazione strutturale e interpersonale che si sviluppa nell’orientamento alla persona. Lo stare in relazione appare cioè come la conditio sine qua non perché la produzione del “bene comune” diventi “bene umano” in un rapporto che esige sinergie e reciprocità. Da ciò sembra quindi discendere un “diritto sociale inteso come tutela e promozione di beni relazionali che lo stato è chiamato a riconoscere al pari dei diritti individuali” anche se, per ora, la società post moderna e del welfare state non sembra poter ancora disporre di quelle prassi, istituzioni e culture richieste. Per quanto concerne per esempio l’esperienza migratoria o qualsiasi altra situazione in cui gli attori implicati sono vulnerabili, contrattualmente deboli, marginali per ragioni di genere, età, censo religione, etc. ne consegue la possibilità di ipotizzare una rivalorizzazione del privato sociale in quanto azione sociale che si rivolge a categorie marginali non tanto in termini di beneficenza quanto piuttosto nell’ottica di “un progetto di bene comune”, in cui gli stessi migranti sono coinvolti in processi relazionali di cui sono, per loro parte interattiva, primi attori45. In definitiva, se da un lato “non può rinunciarsi ad una ‘certezza del diritto’, quale abbia a rappresentare la base stessa delle più vaste aggregazioni societarie e statuali, di per sé non altro che mero ‘strumento’ della coesistenziale estrinsecazione sociale dell’uomo, dall’altro lato non può non sottolinearsi come la crisi degli stati nazionali burocratizzati non possa che esigere la percorrenza, pur sofferta, di un’unica ‘riduzione’ possibile della conclamata ‘complessità sociale’: attraverso, cioè, perseguibili ‘linee interne’, e quindi attraverso un potenziamento di adeguati e condivisi processi educativi, in grado di promuovere consapevolezze e assunzioni di responsabilità dell’uomo in quanto tale, anche nelle pur necessarie realtà aggregative tendenti a fornire risposta a problemi comuni”46. Pertanto se l’impegno in tal senso è quello di trasformare i fatti economici in fatti culturali facendo evolvere il diritto, ogni tensione prodotta da chi lavora per tale cambiamento va vista non come ostacolo, ma come “interfecondazione sociale e culturale” capace di trasformare le società in comunità educanti47 in cui il sapere, il saper fare e il saper essere della 44 Cser, Filef, Istituto Santi (a cura di), I problemi attuali dell’emigrazione italiana con particolare riferimento alla sicurezza sociale, Cnel, Roma, 1991, p.118. 45 P. Donati, Teoria relazionale…, op. cit., p.166. 46 G. Giorio, Strutture e valori comunitari per una dinamicizzazione delle realtà istituzionali, Relazione al convegno su “Scenari della società contemporanea”, Sassari, 23 novembre 1990, dattiloscritto, p.3. 47 A. Perotti, L’appartenance de l’étranger à plusieurs cultures et les tensions qui en résultent, in Conseil de l’Europe, Les migrants en Europe occidentale: situation actuelle et 13 famiglia, della scuola, della società civile e di ogni altra agenzia formativa riescono a trovare feconde sintesi promotrici di una formazione permanente e ricorrente proprio perché – e soprattutto – sperimentata, vissuta, elaborata e filtrata da strumenti critici di apertura all’altro e al diverso in atteggiamento di reciproca promozione48. Con ciò non si vuole sottacere la difficoltà ad avviare quello che anche Sgroi49 ha indicato come il riconoscimento reciproco che dà, si può dire, per scontate la tolleranza e l’accoglienza (che riguarda l’individuo) per concentrarsi sulla conoscenza e il ri-conoscimento (che riguarda la cultura) dell’altro in un contesto di reciprocità. D’altra parte è anche innegabilmente vero che è solo vivendo in situazione, e con-dividendo conflitti, differenze e elementi comuni, che si può dare effettiva consistenza al bene comune, a quel bene relazionale presupposto e sostanza di ogni comunità umana. perspectives d’avenir. Actes de la troisième conférence des ministres européens responsables des questions de migration, Porto, 13-15 Mai 1987, Documents, Strasbourg, 1987, p.304. 48 Ibidem. Per un inquadramento teorico di tale impostazione ci si riferisce a: J. Maritain, L’educazione al bivio, La Scuola, Brescia, 1979; Aa.Vv., Decentramento e partecipazione sociale, Rezzara, Vicenza, 1979; E. Guidolin, Educazione permanente, Liviana, Padova, 1980. 49 E. Sgroi, Dal mono-culturalismo al multi-culturalismo: conflitti, sfide e nuovi assetti, relazione alla V scuola internazionale “I problemi della nuova Europa” su “Il Mediterraneo che produce civiltà”, 15-19 dicembre 1997, Isig, Gorizia, 1997. 14