Antonio Carratta Ordinario di diritto processuale civile Università di Roma tre Dovere di verità e di completezza nel processo civile. (*) SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Il rinnovato interesse per il dovere di verità e completezza: un quadro d’insieme. - 3. Dovere di correttezza delle parti e modello processuale di riferimento. - 4. Piano dell’indagine. - 5. Alle origini del dovere di verità e completezza delle parti: il dibattito intorno alla menzogna processuale sul finire del XIX secolo. - 6. La riflessione della dottrina italiana sulla «buona fede» processuale e sul «divieto di menzogna processuale» nel vigore del codice del 1865. 7. Tentativi (non riusciti) di introdurre un esplicito dovere di verità nel c.p.c. del 1940. - 8. La riflessione successiva all’introduzione del codice del 1940 ed il prevalere dell’orientamento contrario ad ammettere l’esistenza nel nostro sistema processuale di un dovere di verità e completezza. - 9. Quale dovere di verità e completezza? Un necessario chiarimento. – 10. Il dovere di verità e completezza nella riflessione della dottrina tedesca e austriaca: un «correttivo» al possibile abuso del potere allegativo delle parti. - 11. Il «dovere di verità» (Wahrheitspflicht) come «dovere di veridictà» (Wahrhaftigkeitspflicht) o «dovere di verità soggettiva». - 12. Il «dovere di completezza» (Vollständigkeitspflicht) come corretta ricostruzione della fattispecie fattuale su cui si basa la domanda o l’eccezione di parte. – 13. Gli argomenti contrari all’ammissibilità del dovere di verità e completezza nel nostro sistema processuale: a) l’ipotizzato contrasto con il principio dispositivo e con il valore non probatorio delle dichiarazioni di parte. Critica. – 14. Segue: b) l’ipotizzata alterazione del diritto di difesa e della regola dell’onere della prova. Critica. - 15. Segue: c) l’ipotizzata limitazione del diritto di eccezione in senso sostanziale. Critica. – 16. Segue: d) il problema dell’assenza di una previsione espressa nel nostro codice di rito e il suo possibile superamento in via interpretativa. - 17. L’art. 88 c.p.c. come «norma indeterminata». – 18. Il dovere di verità e completezza nel «prisma» dell’art. 88 c.p.c.: a) natura pienamente giuridica del dovere di lealtà e probità. - 19. – Segue: b) contenuto e limiti del dovere di lealtà e probità. - 20. Segue: c) il convergente obiettivo del dovere di lealtà e probità e del dovere di verità e completezza: assicurare il corretto esercizio delle prerogative processuali. - 21. I limiti dell’applicazione del dovere di verità e completezza nel nostro sistema processuale. - 22. Compatibilità con l’istituto della confessione e con il c.d. principio della non contestazione. – 23. Conseguenze, processuali e non, della violazione del dovere di verità e completezza. - 24. Considerazioni conclusive. *************************** 1. – Premessa. Il tema del dovere di verità e completezza delle parti nel processo civile è tema dotato di naturale classicità, inserito com’è nella più ampia riflessione sulla posizione processuale delle parti, sulle loro situazioni giuridiche soggettive, sul loro rapporto con i poteri-doveri del giudice, sullo scopo del processo. Proprio per questa ragione si presta a divenire ciclicamente di attualità, essendo una costante preoccupazione di qualsiasi ordinamento processuale di evitare comportamenti fraudolenti della parte in sede processuale. Ed in effetti, non può non rilevarsi come, anche nel contesto dell’attuale dibattito sul c.d. abuso del processo ( 1) e di «una sorta di ondata moralizzatrice (o * ) Testo della Relazione al XXIX Convegno nazionale dell’Associazione italiana fra gli studiosi del processo civile Etica del processo e doveri delle parti (Genova, 20-21 settembre 2013). 1 ) Al tema dell’abuso del processo è stato dedicato, come noto, il XXVIII Convegno nazionale dell’Associazione italiana fra gli studiosi del processo civile (Urbino, 23-24 settembre 2011) (v. L’abuso del processo – Atti del XXVIII Convegno nazionale, Bologna, 2012). Anche la International Association of Procedural Law ha dedicato al tema 1 moralistica)» (2), che lo accompagna, vada affermandosi un rinnovato interesse per la correttezza processuale delle parti (3) e sia tornata di attualità anche la riflessione intorno al dovere di verità e completezza, sebbene non sempre – come vedremo nel prosieguo - siano di immediato approccio sia il suo stretto collegamento con la buona fede e la correttezza processuale, sia i limiti entro i quali un tale dovere possa configurarsi in capo alle parti nei modelli processuali improntati al principio dispositivo ed alla regola dell’onere probatorio soggettivo. 2. - Il rinnovato interesse per il dovere di verità e completezza: un quadro d’insieme. Certamente, se ci limitassimo a confrontare il nostro codice con le codificazioni nelle quali il dovere di verità e completezza viene esplicitamente imposto alle parti, dovremmo inevitabilmente concludere che nel nostro ordinamento esso non trovi cittadinanza, mancando una sua espressa previsione e non essendo andati a buon fine i tentativi di introdurla emersi nel corso dei lavori preparatori del 1940, come meglio vedremo in seguito (infra, § 7). Questo sarebbe senza dubbio il modo più semplice per rispondere al quesito se sia prospettabile anche nel nostro processo civile un tale dovere. E sarebbe anche il modo più agevole di svolgere il tema che mi è stato assegnato. Ma – ne converrete - sarebbe anche un modo semplicistico e troppo sbrigativo di affrontare il tema. E questo per due ordini di ragioni. In primo luogo, perché in questo modo si trascurerebbe ciò che emerge dall’analisi, anche superficiale, degli ordinamenti processuali stranieri (europei e non), e cioè che nella maggior parte di essi il tema dell’esistenza di un obbligo di verità e completezza per le parti è affrontato e risolto in termini favorevoli e con esiti applicativi sostanzialmente convergenti. E con questi esiti non ci si può non confrontare. Tanto più se si considera che a questa conclusione si arriva non soltanto laddove nel codice vi sia un’espressa previsione normativa, ad instar della soluzione austriaca e tedesca (4), ma anche laddove questa manchi e si ricorra al generale dovere di lealtà o buona fede processuale delle parti espressamente previsto dalla disciplina processuale (ad es., nel sistema Convegno internazionale del 27-28 ottobre 1998 (Tulane Law School, New Orleans, Louisiana) (v. Abuse of Procedural Rights: Comparative Standards of Procedural Fitness, a cura di M. Taruffo, The Hague, 1999). 2 ) M. Taruffo, L’abuso del processo: profili generali, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2012, p. 117 ss., spec. p. 122. Per la decisa contestazione della convinzione, espressa da una parte della dottrina, che dietro il principio della buona fede processuale «si nasconde l’autoritarismo giudiziario tipico dei codici processuali fascisti», J. Pico i Junoy, La buona fede processuale: una manifestazione dell’autoritarismo giurisdizionale?, in Riv. dir. proc., 2013, p. 171 ss., dove il riferimento alla posizione di J. Montero Aroca, I principi politici del nuovo processo civile spagnolo, Napoli, 2002, p. 100 ss.; sulla rilevanza costituzionale del principio v. ancora J. Pico i Junoy, El principio, cit., p. 55 ss.; Id., El debido proceso leal: reflexiones entorno al fundamento consitucional del principio de la buena fe procesal, in Justicia. Revista de derecho procesal, n. 34, 2004, p. 143 ss., spec. p. 151 ss. 3 ) V., in particolare, le monografie di F. Macioce, La lealtà. Una filosofia del comportamento processuale, Torino, 2005 (sul quale v. anche la recensione di P. Moro, Etica e retorica forense. In margine ad un recente libro sulla lealtà processuale, in Iustitia, 2007, p. 29 ss.); di J. Pico I Junoy, El principio de la buena fe procesal, Barcelona, 2003; di M. Pretel, A Bona-fé ojetiva e a lealdade no processo civile, Porto Alegre, 2009; nella dottrina tedesca, nel senso che l’efficienza della funzione giurisdizionale passi da un’accresciuta responsabilizzazione delle parti in sede processuale, W. Henckel, Prozessrecht und materielles Recht, Göttingen, 1970, p. 20; su questa tendenza della riflessione dottrinale v. anche P. Arens, Prozessrecht und materielles Recht, in A.c.P. 173 (1973), p. 250 ss., spec. p. 252 ss., nella recensione alla monografia di W. Henckel; H. Konzen, Rechtsverhältnisse zwischen Prozessparteien. Studien zur Wechselwirkung von Zivil- und Prozessrecht bei der Bewertung und den Rechtsfolgen prozesserheblichen Parteiverhaltens, Berlin, 1976, p. 48 ss. e p. 103 ss.; B. Hahn, Kooperationsmaxime im Zivilprozess?, Köln, 1983, p. 8 ss.; Id., Der sogenannte Verhandlungsgrundsatz im Zivilprozess, in JurA, 1991, p. 319 ss.; M. Kawano, Wahrheits- und Prozessförderungspflicht als Verhaltspflicht der Parteien gegeneinander, in Festschrift für W. Henckel zum 70.Geburtstag, Berlin-New York, 1995, p. 411 ss., spec. p. 412; R. Greger, Kooperation als Prozessmaxime, in P. Gottwald-R. Greger-H. Prütting (Hrsg.), Dogmatische Grundfragen des Zivilprozesses im geeinten Europa. Akademisches Symposium zu Ehren von K.H. Schwab aus Anlass seines 80.Geburtstages, Bielefeld, 2000, p. 77 ss.; più di recente e per un quadro d’insieme, W. Fleck, Die Redlichkeitspflichten der Parteien im Zivilprozess. Geltungsgrund und Funktion, München, 2004, p. 24 ss. e p. 101 ss. 2 francese (5) o in quello spagnolo, in quello portoghese (6) o svizzero (7)) o comunque ritenuto immanente nell’ordinamento (ad es., nel sistema nord-americano (8) o in quello anglosassone) (9). In secondo luogo, perché - tenendo conto dello stretto collegamento che generalmente viene affermato fra dovere di verità e completezza e correttezza del comportamento delle parti – una soluzione come quella poc’anzi indicata lascerebbe comunque irrisolta la questione generale di quale sia nel nostro ordinamento, anche alla luce dei principi costituzionali, il grado di «correttezza» preteso dalle parti e quale valore assuma oggi quel dovere di «lealtà e probità», che comunque l’art. 88 c.p.c. impone alle parti e ai loro difensori. In effetti, come insegna limpidamente Paolo Grossi, non coglierebbe appieno quel «sentimento della complessità dell’universo giuridico» e finirebbe per rinchiudersi «nello spazio angusto delle 4 ) Il § 178 della Z.P.O. austriaca del 1895, tuttora in vigore, così recita: «Jede Partei hat in ihren Vorträgen alle im einzelnen Falle zur Begründung ihrer Anträge erforderlichen tatsächlichen Umstände der Wahrheit gemäß vollständig und bestimmt anzugeben, die zur Feststellung ihrer Angaben nöthigen Beweise anzubieten, sich über die von ihrem Gegner vorgebrachten tatsächlichen Angaben und angebotenen Beweise mit Bestimmtheit zu erklären, die Ergebnisse der geführten Beweise darzulegen und sich auch über die bezüglichen Ausführungen ihres Gegners mit Bestimmtheit auszusprechen». A sua volta, anche il 1° comma del § 138 della Z.P.O., rubricato «Erklärungspflicht über Tatsachen; Wahrheitspflicht», introdotto nel 1933, prevede: «Die Parteien haben ihre Erklärungen über tatsächliche Umstände vollständig und der Wahrheit gemäß abzugeben». Nella stessa direzione, e cioè la previsione di un espresso «dovere di verità», v. anche l’art. 14 del Codigo de processo civil brasiliano del 1973; l’art. 63 del Codigo general del processo dell’Uruguay, approvato nel 1988; l’art. 109 del Codigo procesal civil del Perù del 1993; l’art. 170 del Codigo de procedimiento civil del Venezuela del 1990; gli artt. 51 e 52 del Codigo procesal civil del Paraguay del 1989; v. anche l’art. 73 del Codigo procesal civil modelo para Iberomerica, curato nel 1988 dall’Instituto Iberoamericano de Derecho Procesal (in proposito v. El Codigo procesal civil modelo para el Ibero-America, a cura di E. Vescovi, Montevideo, 1997; Un «codice-tipo» di procedura civile per l’America latina, (Atti del Congresso Internazionale, Roma, 26/28 settembre, 1988), a cura di S. Schipani e R. Vaccarella, Padova, 1990, p. 517), e l’art. 14 delle Basi costituzionali minime per un giusto processo in America Latina. Progetto di norme costituzionali uniformi, a cura di A.M. Morello e L.P. Comoglio (in proposito v. L.P. Comoglio, Etica e tecnica del «giusto processo», Torino, 2004, p. 409 ss.). 5 ) V. l’art. 32, comma 1, del c.p.c. francese, come modificato nel 2005. In termini generali, tuttavia, si riconosce l’esistenza del principio di «loyauté processuelle», ritenuto componente fondamentale dello stesso contraddittorio effettivo fra le parti: in proposito v. soprattutto A. Leborgne, L’impact de la loyauté sur la manifestation de la vérité ou le double visage d’un grand principe, in Rev. trim. dr. civ., 1996, p. 535 ss.; M. Franchimont, Loyauté, proportionnalité et procès équitable, in Mélanges en hommage à Pierre Lambert, Bruxelles, 2000, p. 375 ss.; M.E. Boursier, Le principe de loyauté en droit processuel, thèse, Paris, 2003, p. 316 ss., il quale evidenzia come la definizione di lealtà processuale non può ricevere una precisa definizione a causa della sua natura polimorfa; H. Houbron, Loyauté et vérité: étude de droit processuel, 2004. Proprio in conseguenza dell’applicazione del principio di «loyauté processuelle», ma anche di disposizioni come l’art. 10, 1° comma, c.c., novellato dalla l. 72-626 del 5 luglio 1972 o come l’art. 11, 1° comma, n.c.p.c., si ritiene che viga anche nel sistema processuale francese un «dovere di verità»: v., per tutti, A. Leborgne, op. cit., p. 535 ss.; M. Schilling, Die “principes directeurs” des französischen Zivilprozesses, Berlin, 2002, p. 183 ss., p. 199 ss. e p. 209 ss.; P. Schlosser, Die lange deutsche Reise in die prozessuale Moderne, in JZ, 1991, p. 599 ss., spec. p. 606; R. Stürner, Beweislastverteilung und Beweisführungslast in einem harmonisierten europäischen Zivilprozess, in Festschrift für H. Stoll zum 75.Geburtstag, hrsg. G. Hohloch, R. Frank, P. Schlechtriem, Tübingen, 2001, p. 691 ss., spec. p. 699. 6 ) V. l’art. 247 della Ley de Enjuiciamiento civil spagnola del 2000 e gli artt. 11 e 437 della Ley Orgánica del Poder Judicial; v. anche gli artt. 456 e 457 del Codigo de processo civil portoghese, riformato nel 2006. In proposito v., per tutti, J. Pico i Junoy, El principio, cit., p. 55 ss., p. 66 ss. e p. 131 ss.; M. Lozano-Higuero Pinto, La probidad en el nuevo proceso civil (respeto a las reglas de la buena fe procesal. Multas por su incumplimiento) , in Rev. Vasca de Derecho Procesal y Arbitraje, 2002, p. 321 ss.; Id., La buena fe procesal: consideraciones doctrinales y jurisdiccionales, in El abuso del proceso: mala fede y fraude procesal, a cura di F. Gutierrez-Alviz Conradi, Madrid, 2006, p. 72 ss.; J. Montero Aroca, Ideologia y proceso civil. Su reflajo en la «buena fe procesal», ivi, p. 251 ss.; Id., I principi politici del nuovo processo civile spagnolo, con prefazione di F. Cipriani, Napoli, 2002, p. 100 ss.; F. Toribos Fuentes, Sub art. 247, in AA.VV., Comentarios a la Ley de Enjuiciamiento Civil, Valladolid, 2012, p. 463 ss. 7 ) V. l’art. 52 del Codice di diritto processuale civile svizzero del 2008, sul quale v. anche L.P. Comoglio, Principi e garanzie fondamentali del nuovo processo civile elvetico, in Riv. dir. proc., 2011, p. 652 ss. 3 tecniche» (10), il giurista positivo se, avendo di fronte «quel punto fisso della linea, che è il diritto vigente», ignorasse la «elementare ma salvante verità che quel punto non è qualcosa di distaccato e di distaccabile ma anzi ben inserito in una linea che nasce prima, prosegue fino all’oggi e addirittura continua verso il futuro» (11). 3. – Dovere di correttezza delle parti e modello processuale di riferimento. Nell’accostarsi al tema che ci occupa, tuttavia, alcune considerazioni di carattere generale s’impongono. Un prima considerazione riguarda la giustificazione che viene addotta a sostegno del dovere di verità e completezza sia negli ordinamenti nei quali esso è esplicitamente previsto, sia in quelli che ne ammettono l’esistenza sulla base di un generale dovere di buona fede processuale. Come è in parte già emerso e come meglio emergerà dal prosieguo dell’indagine (infra, §§ 10, 11 e 12), allo stato attuale della riflessione teorica questa giustificazione non ha diretta attinenza con la finalità di ottenere in giudizio un accertamento tendenzialmente veritiero dei fatti di causa, anche se indubbiamente lo favorisce; quanto, piuttosto, con la correttezza del comportamento processuale delle parti (12). Una seconda considerazione riguarda lo stretto rapporto che lega il tema in questione con il modello processuale avuto di mira. Non v’è dubbio che le riflessioni in proposito siano inevitabilmente condizionate dal differente approccio al ruolo riconosciuto alle parti nella dinamica processuale. Ma è parimenti indubbio che, se si parte dal presupposto che il dovere di verità e completezza non è altro che un profilo della correttezza o della buona fede processuale, il problema della menzogna 8 ) Infatti, sulla base della rule 11 delle F.R.C.P., si ritiene che da esso si ricavi un dovere di lealtà e correttezza processuale per le parti e, di riflesso, un divieto di mendacio per le parti (v., in particolare, L.P. Comoglio, Regole deontologiche e doveri di verità nel processo, in Nuova giur. civ. comm., 1998, II, p. 128 ss., spec. p. 131; Id., Abuso del processo e garanzie costituzionali, in Riv. dir. proc., 2008, p. 319 ss., spec. p. 331 ss.; Id., Le prove civili, Torino, 2010, p. 25, in nota 79; G. Costantino, Il processo civile tra riforme ordinamentali, organizzazione e prassi degli uffici (una questione di metodo), in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1999, p. 77 ss., spec. p. 105 ss.; M. Gradi, Contributo allo studio dell’obbligo di verità e completezza delle parti nel processo civile, Tesi di dottorato, Università “La Sapienza”, Roma, a.a. 2007/2008, p. 52 ss.). Per la medesima previsione a proposito del c.d. duty of disclosure, v. anche la rule 26 (g), mentre, per le conseguenze sanzionatorie, v. la rule 37 («Failure to make disclosures or to cooperate in discovery; sanctions»). In proposito v., per tutti, G.M. Vairo, Rule 11. Sanctions: case law, perspectives and preventive measures, 3a ed., ed. by. R. G. Johnson Chicago, 2004, p. 11 ss., p. 308 ss. e p. 743 ss.; G.P. Joseph, Sanctions: The Federal Law of Litigation Abuses, 4a ed., LexisNexis (Kindle Edition), 2012, p. 92 ss.; in generale, sul problema dell’abuse of procedural rights nel sistema nordamericano v., per un quadro d’assieme, G.C. Hazard, Abuse of Procedural Rights: A Summary View of The Common Law System, in Abuse of Procedural Rights, cit., p. 49 ss. 9 ) V. la rule 3.4.2.b delle Civil Procedure Rules inglesi del 1998, ma anche le rules 18 e 22 sul c.d. statement of truth. In proposito, per tutti, Civil Procedure, I, The White Book Service 2012, London, 2012, rispettivamente p. 516 ss. e p. 637 ss.; I. Grainger-M. Fealey-M. Spencer, The Civil Procedure Rules in Action, Cavendish, 2000, p. 347 ss.; A. Zuckerman, Civil procedure, London, 2006, p. 254 ss.: N. Andrews, The Pursuit of The Truth in The Modern English Civil Proceedings, in Z.Z.P.Int., 8 (2003), p. 82 ss.; Id., English Civil Procedure, Oxford University Publisher, 2003, p. 595 ss. 10 ) P. Grossi, Quale spazio, oggi, per lo storico del diritto?, in Id., Società, Diritto, Stato. Un recupero per il diritto, Milano, 2006, p. 27 ss., spec. p. 32; v. anche Id., La formazione del giurista e l’esigenza di un odierno ripensamento epistemologico, ivi, p. 251 ss. 11 ) P. Grossi, Storicità del diritto, in Id., Società, Diritto, Stato, cit., p. 111 s.; ma più ampiamente Id., Il punto e la linea (L’impatto degli studi storici nella formazione del giurista), ivi, p. 3 ss., spec. p. 12. 12 ) Per la sottolineatura della considerazione che la tendenza ad accentuare la responsabilizzazione delle parti per la loro condotta processuale leale e corretta non sia giustificata dalla natura pubblicistica del rapporto fra le parti e il giudice, ma dalle reciproche relazioni materiali fra le stesse parti v., in maniera riassuntiva, M. Kawano, op. cit., p. 412 s.; W. Fleck, op. cit., p. 1 ss. 4 delle parti in sede processuale e della sua possibile sanzione rileva – in maniera più o meno consistente - quale che sia la ricostruzione del ruolo delle parti ritenuta preferibile. In effetti, se si considera che la prima moderna codificazione (13) di un tale dovere si ha nella Z.P.O. austriaca kleiniana del 1895, è inevitabile rilevare come alla sua base vi sia una ben precisa idea di processo, nell’ambito della quale l’obiettivo di ottenere un’effettiva cooperazione (Arbeitsgemeinschaft) fra giudice e parti porta ad accrescere i doveri di comportamento delle parti (14). Idea che mal si concilia, evidentemente, con la tradizionale ricostruzione liberale del processo come «cosa delle parti» («Sache der Parteien»), fino a quel momento dominante. Ma si arriverebbe ad una conclusione frettolosa ed errata ove si ritenesse che il problema della menzogna delle parti nel processo costituisca una novità del pensiero kleiniano e sia assente, invece, nel contesto della ricostruzione puramente liberale del processo. Una terza considerazione preliminare riguarda il più ampio tema della configurabilità di veri e propri doveri in capo alle parti. L’attuale attenzione per il dovere di verità e completezza s’inserisce in una ben precisa riflessione intorno al processo, inevitabilmente legata al superamento (o, se si preferisce, all’attenuazione) della netta affermazione goldschmidtiana secondo cui nessun comportamento processuale può essere oggetto di valutazione etica («moralinfreie prozessuale Rechtsbetrachtungsweise») (15) e alle parti, dunque, non può essere imposto alcun dovere di natura processuale, ma vanno riconosciuti soltanto «doveri contro se stesse» («Pflichten gegen sich 13 ) Per la rilevanza del problema del dolo o della mala fede processuale nell’esperienza giuridica romana v., ampiamente, M. Brutti, La problematica del dolo processuale nell’esperienza romana, II, Milano, 1973, p. 778 ss.; F.G. Lipari, Il dolo processuale, Palermo, 1926, p. 10 ss.; G. Zani, La mala fede nel processo civile, Roma, 1931, p. 28 ss.; più di recente, F. Cordopatri, L’abuso del processo, I, Presupposti storici, Padova, 2000, p. 85 ss. e p. 153 ss.; p. 59 ss.; con riferimento all’esperienza giuridica del periodo intermedio, F.G. Lipari, op. cit., p. 20 ss.; G. Zani, op. cit., p. 48 ss.; F. Cordopatri, op. cit., I, p. 237 ss. Sull’evoluzione storica nello specifico del Wahrheitspflicht v. D. Olzen, Die Wahrheitspflicht der Parteien im Zivilprozess, in Z.Z.P., 98 (1985), p. 403 ss.; W. Brehm, Die Bindung des Richters an den Parteivortrag und Grenzen freier Verhandlungswürdigung, Tübingen, 1982, p. 160 ss.; con riferimento al processo comune W.H. Puchta, Das Prozessleitungsamt des deutschen Civilrichters, Giessen, 1836, p. 55 ss. e p. 144 ss. 14 ) V., in proposito, le riflessioni dello stesso F. Klein, Pro futuro. Betrachtungen über Probleme der Zivilprozessreform in Österreich, Leipzig, 1891, p. 23 ss.; F. Klein-F. Engel, Der Zivilprozess Österreichs, Mannheim-Berlin-Leipzig, 1927, ristampa, Aalen, 1970, p. 185 ss. Sul pensiero kleiniano v., in particolare, F. Cipriani, Nel centenario del regolamento di Klein (Il processo civile fra libertà e autorità), in Riv. dir. proc., 1995, p. 969 ss.; C. Consolo, Il duplice volto della “buona” giustizia civile tardo-asburgica e del suo rigeneratore, in Ordinanza della procedura civile di Francesco Giuseppe 1895, in Testi e documenti per la storia del processo, a cura di N. Picardi e A. Giuliani, Milano, 2004, p. XXXXVII ss.; N. Picardi, Le riforme processuali e sociali di Franz Klein, in Giusto proc. civ., 2011, p. 1067 ss.; A. Chizzini, Franz Klein e i patres della procedura civile, ibidem, p. 739 ss.; M. Marinelli, La concezione del diritto e del processo di Franz Klein nella Vienna fin de siècle, ibidem, p. 771 ss.; N. Trocker, La concezione del processo secondo Franz Klein e l’attuale evoluzione del diritto processuale civile europeo, ivi, 2012, p. 43 ss. 15 ) J. Goldschmidt, Der Prozess als Rechtslage: eine Kritik des prozessualen Denkens, Berlin, 1925, ristampa, Aalen, 1962, p. 292, dove il celebre passo «für die prozessuale Rechtsbetrachtungsweise hat der Recht, der voraussichtlich Recht behalten wird, wenn man so will, moralinfrei. Es ist im Prozess wie im Krieg und der Politik»; v. anche Id., Zivilprozessrecht, 2.Aufl., Berlin, 1932, 5; Id., Problemi generali del diritto (1940), trad. it. di T. Ravà, Padova, 1950, p. 108 ss.; nello stesso senso, successivamente, anche W. Niese, Doppelfunkionelle Prozesshandlungen. Ein Beitrag zur allgemeinen Prozessrechtslehre, Göttingen, 1950, p. 57 ss. e p. 69 ss. In proposito v. l’analisi nella recensione di F. von Hippel, Zur ‘modernen, konstruktiven Epoche’ der deutschen Prozessrechtswissenschaft, in Z.Z.P. 65 (1952), p. 424 ss. Per l’accoglimento, tiepido, che questa impostazione ha avuto nella dottrina italiana v. P. Calamandrei, Il processo come situazione giuridica, in Riv. dir. proc. civ., 1927, I, p. 219 ss.; Id., Un maestro del liberalismo processuale, in Riv. dir. proc., 1951, I, p. 1 ss.; E.T. Liebman, L’opera scientifica di James Goldschmidt e la teoria del rapporto processuale, in Riv. dir. proc., 1950, I, p. 328 ss. (ora in Problemi del processo civile, Milano, 1962, p. 134 ss.); C. Mandrioli, Diritto processuale civile, 22a ed., aggiornata a cura di A. Carratta, I, Torino, 2012, p. 35 ss.; in senso decisamente critico, F. Cordero, Le situazioni soggettive nel processo penale, Torino, 1956, p. 14 ss., p. 29 ss. e p. 256 ss., ma anche E. Allorio, L’accertamento giuridico nel prisma dell’accertamento giudiziale, in Problemi di diritto, I Milano, 1957, p. 10, in nota 10; in generale N. Trocker, L’influenza della scienza giuridica tedesca negli studi dei processualisti italiani, in Studi senesi, 1990, p. 486 ss. 5 selbst») (16), e cioè meri oneri processuali a tutela dei propri interessi in causa (17). Questa ricostruzione, infatti, quanto meno nella sua versione originaria, non solo è rimasta decisamente minoritaria anche nel panorama dottrinale nel quale è emersa ( 18), ma difficilmente si concilia con la presenza di disposizioni di carattere generale che impongano alle parti e ai loro difensori doveri di buona fede (Treu und Glauben) (19) o di «lealtà processuale («loyauté processuelle») (20). Così come difficilmente si concilia con la presenza di specifiche disposizioni che impongano alle parti un vero e proprio dovere di verità e completezza. E dunque, occorrerà anche prendere atto che, se prevale in ambito processuale la figura dell’onere o dei «doveri contro se stessi», questo non significa che – prendendo atto dell’immanente ed irrisolvibile contrapposizione nel processo della istanze privatistiche e di quelle pubblicistiche - il legislatore non possa utilizzare anche le figure del «dovere» e della «sanzione» ( 21) quando intenda 16 ) J. Goldschmidt, Der Prozess, cit., p. 81 ss., p. 118, p. 336, p. 339 e p. 358; v. anche W. Niese, op. cit., p. 52 ss. e p. 63 ss. 17 ) J. Goldschmidt, Der Prozess, cit., p. 255 e p. 288. Per un discorso più ampio in argomento rinvio ad A. Carratta, Il principio della non contestazione nel processo civile, Milano, 1995, p. 102 ss. 18 ) V., per tutti, P. Arens, op. cit., p. 252; L. Rosenberg-K. H. Schwab, Zivilprozessrecht, 11.Aufl., München, 1974, § 2 III 1 e 2, p. 8. V. anche, in proposito, F. Lent, Zur Unterscheidung von Lasten und Pflichten der Parteien im Zivilprozess, in Z.Z.P., 67 (1954), p. 348 ss.; F. Lent-O. Jauernig, Zivilprozessrecht, 16.Aufl., München, 1972, § 26, p. 73 ss.; W. Henckel, op. cit., p. 13 ss.; H. Konzen, op. cit., p. 57 ss.; J. Braun, Rechtskraft und Restitution. Die Grundlagen des geltenden Restitutionsrechts, Berlin, 1985, p. 101 ss.; A. Blomeyer, Zivilprozessrecht, 2.Aufl., Berlin, 1985, § 30 VII 2, p. 142 ss.; H. Otto, Die Präklusion: ein Beitrag zum Prozessrecht, Berlin, 1970, p. 133 s.; D. Leipold, Prozessförderungspflicht der Parteien und richterliche Verantwortung, in Z.Z.P. 93 (1980), p. 237 ss.; R. Stürner, Die Aufklärungspflicht der Parteien des Zivilprozesses, Tübingen, 1976, p. 29 ss., p. 73 ss., p. 234 ss. e p. 378 ss.; per ulteriori considerazioni v., si vis, A. Carratta, op. cit., p. 105 s. 19 ) In questo senso, per il sistema processuale tedesco, sulla base della Generalklausel di cui al § 242 della B.G.B., v. W. Bernhardt, Auswirkungen von Treu und Glauben im Prozess und in der Zwangsvollstreckung, in Z.Z.P., 66 (1953), p. 77 ss., spec. p. 87 ss. e la risposta di O. Jauernig, Auswirkungen von Treu und Glauben im Prozess und in der Zwangsvollstreckung, ibidem, p. 398 ss., spec. p. 414 ss.; poi anche G. Baumgärtel, Treu und Glauben, gute Sitten und Schikaneverbot im Erkenntnisverfahren, in Z.Z.P. 69 (1956), p. 89 ss., spec. p. 104; Id., Treu und Glauben im Zivilprozess, in Z.Z.P. 86 (1973), p. 353 ss., spec. p. 363 ss.; H. Dölle, Pflicht zur redlichen Prozessführung?, in Festschrift für O. Riese aus Anlass seines siebzigsten Geburtstages, Karlsruhe, 1964, p. 279 ss., spec. p. 292; E. Schumann, Der Zivilprozess als Rechtsverhältnis, in JA, 1976, p. 637 ss.; W. Zeiss, Die arglistige Prozesspartei. Beitrag zur rechtstheoretischen Präzisierung eines Verbotes arglistigen Verhaltens im Erkenntnisverfahren des Zivilprozesses, Berlin, 1967, p. 46 ss.; W. Brehm, Ändern sich Entscheidungszuständigkeiten durch Treu und Glauben?, in JZ, 1978, p. 272 ss. Per il sistema austriaco, in termini non dissimili, F. Novak, Treu und Glauben im Zivilprozess, in ÖJZ, 1949, p. 338 ss.; R. Pollak, System des österreichischen Zivilprozessrechtes, 2.Aufl., Wien, 1932, p. 368; W. Fasching, Bedachtnahme auf Treu und Glauben im österreichischen Zivilprozess, in Festschrift für K.H. Schwab zum 70. Geburtstag, München, 1990, p. 101 ss.; R. Holzhammer, Ősterreichisches Zivilprozessrecht, Wien-New York, 1970, p. 125 ss.; v. anche B. Hess, Abuse of Procedure in Germany and Austria, in Abuse of Procedural Rights, cit., p. 153 ss. 20 ) V., retro, alla nota 5. 21 ) Per queste utili puntualizzazioni v., in particolare, F. von Hippel, op. cit., p. 434 ss.; Id., Wahrheitspflicht und Aufklärungspflicht der Parteien im Zivilprozess. Beiträge zum natürlichen Aufbau des Prozessrechts und zur Erforschung der Rechtstheorie des 19.Jahrhunderts, Frankfurt a.M., 1939, p. 319 ss.; W. Henckel, op. cit., p. 13 s.; F. Lent, op. cit., p. 344 ss.; Id., Obblighi e oneri nel processo civile, in Riv. dir. proc., 1954, p. 150 ss.; W. Zeiss, op. cit., p. 32 ss.; A. Blomeyer, op. cit., § 30 VII 2; H. Otto, op. cit., p. 133 s.; D. Leipold, op. cit., p. 237 ss.; R. Stürner, op. ult. cit., p. 29 ss., 234 ss. e 378 ss. V. anche, nella nostra letteratura, P. Calamandrei, Il processo come situazione giuridica, cit., p. 224 s.; F. Carnelutti, Lezioni di diritto processuale civile, I, Padova, 1926, p. 344 ss.; Id., Sistema del diritto processuale civile, I, Padova, 1936, p. 55 ss.; Id., Istituzioni del nuovo processo civile italiano, Roma, 1941, p. 192 ss.; Id., Teoria generale del diritto, Roma, 1951, p. 138 ss.; F. Cordero, op. cit., p. 256 ss.; E. Fazzalari, Diffusione del processo e compiti della dottrina, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1958, p. 861 ss.; Id., Procedimento e processo (teoria generale), in Enc. dir., XXXV, Milano, 1986, p. 819 ss.; E. Grasso, La collaborazione nel processo civile, in Riv. dir. proc., 1961, p. 583 testo e nota e p. 605 s.; G. Conso, I fatti giuridici processuali penali, Milano, 1955, p. 121 ss.; E. Allorio, La pluralità degli ordinamenti giuridici e l’accertamento giudiziale, in Riv. dir. civ., 1955, I, p. 247 ss., spec. p. 6 perseguire, attraverso lo strumento processuale, finalità più ampie della sola ed egoistica tutela dell’interesse proprio della parte. E sebbene si possa elegantemente affermare, con Satta, che il dovere «non è anch’esso se non l’onere medesimo, considerato non in relazione al fine generale della regola e quindi in primo luogo alla giustizia, ma nella sua proiezione subbiettiva che è l’interesse della controparte» (22), è indubbio che la riconosciuta presenza di una situazione soggettiva così strutturata smentisce proprio l’assunto goldschmidtiano. 4. – Piano dell’indagine. Fatte queste considerazioni di carattere generale, il prosieguo del discorso dovrà articolarsi lungo tre direttrici: a) da un lato, per comprendere appieno il significato da attribuire al dovere di verità e completezza e per sgombrare il campo da possibili equivoci, occorre tener conto dell’approfondita riflessione che, sul finire del secolo XIX, venne rivolta dalla dottrina processual-civilistica (anche italiana) al tema più generale della menzogna processuale della parte e che avrebbe portato, dapprima in Austria e poi in Germania, all’introduzione di un’esplicita disposizione codicistica che imponesse un dovere di verità e completezza in capo alle parti e ai loro difensori; b) dall’altro lato, l’attenzione va rivolta all’evoluzione (o meglio, l’involuzione) che ha avuto presso la nostra dottrina l’interesse per il tema dopo l’entrata in vigore del codice del 1940; c) infine, una volta individuata una nozione del dovere di verità e completezza che sia compatibile con i principi del nostro sistema processuale, va esaminata la possibilità di configurare, ed entro quali limiti, un simile dovere giuridico anche nel contesto del più ampio e generico dovere di lealtà e probità dell’art. 88 c.p.c. 5. - Alle origini del dovere di verità e completezza delle parti: il dibattito intorno alla menzogna processuale sul finire del XIX secolo. La strada che conduce all’introduzione del dovere di verità e completezza dapprima nella Z.P.O. austriaca e poi in quella tedesca parte dalla riflessione più ampia intorno al problema della menzogna nel processo (die Lüge im Processe) ed ai modi per prevenirla o sanzionarla da parte del giudice. E’ questo, anzitutto, l’approccio all’argomento di Franz Klein, fortemente influenzato dalla visione della controversia giudiziaria come un «problema della società» ( 23) e dalla conseguente necessità che sia risolta nel più breve tempo possibile (24), cercando di prevenire comportamenti non corretti delle parti e dei loro difensori. Non a caso nel suo Habilitationsschrift del 1885, dedicato 252 (ora anche in Problemi di diritto, cit., I, p. 3 ss., spec. p. 11); F. Tommaseo, Lezioni di diritto processuale civile, I, Padova, 2002, p. 143 ss.; M. Taruffo, L’onere come figura processuale, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2012, p. 425 ss.; C. Mandrioli, Diritto processuale civile, cit., I, p. 38. 22 ) S. Satta, Diritto processuale civile, Padova, 1948, p. 63. ) V., in particolare, F. Klein-F. Engel, op. cit., p. 280; F. Klein, Pro futuro, cit., p. 39. V. anche H. W. Fasching, Die Modernisierung zivilrechtlichen Streitverfahrens, in Union Internationale des Magistrats, II° Congrés International, La Haye, 1963, p. 27 ss.; W. Kralik, Die Verwirklichung der Ideen Franz Kleins in der ZPO von 1895, in Forschungsband Franz Klein (1854-1926), Leben und Wirken, a cura di H. Hofmeister, Wien, 1988, p. 89 ss.; A. Chizzini, op. cit., p. 740 s.; Id., Franz Klein, la codificazione sociale e la procedura civile in Italia, in Pensiero e azione nella storia del processo civile. Studi, Torino, 2013, p. 97 ss., spec. p. 100 s.; M. Marinelli, op. cit., p. 778 ss. 23 24 ) V., in proposito, le riflessioni esposte in F. Klein, Zeit- und Geistesströmungen im Prozesse. Vortrag gehalten in der Gehe-Stiftung zu Dresden am 9. November 1901, Dresden, 1901, ristampa Frankfurt a.M., 1958, p. 20 ss.; F. Klein-F. Engel, op. cit., p. 193 ss. e p. 202 ss. Su questo profilo del pensiero kleiniano v. soprattutto J. Esser, Franz Klein als Rechtssoziologe – Die Überwindung des dogmatischen Schuldenkens im Prozesswerk Franz Kleins, in Festschrift zur Fünfzigjahrfeier der österreichischen Zivilprozessordnung 1898-1948, Wien, 1948, p. 35 ss., spec. p. 41 ss.; F. Baur, Zeit- und Geistesströmungen im Prozess, einige aktuelle Bemerkungen zu dem so betitelten Vortrag von Franz Klein , in Juristische Blätter, 92 (1970), p. 446 ss.; H. W. Fasching, Die Modernisierung, cit., p. 27 ss. 7 appunto agli illeciti processuali delle parti (25), ampio spazio veniva riservato proprio al tema della menzogna nel processo (Lüge im Processe) ed alla storia delle sue sanzioni (26). Egli era convinto, di conseguenza, che il successo della riforma del processo civile dipendesse proprio dalla prevenzione dei comportamenti processuali non corretti delle parti ( 27). Si comprende bene, perciò, che – proprio al fine di rendere più cogente il dovere delle parti di comportarsi correttamente in giudizio – egli preveda l’introduzione nella disciplina del processo anche del dovere di verità e completezza rispetto alle loro allegazioni, nel quadro di una sostanziale «rigenerazione» delle situazioni soggettive nel contesto processuale (28). Si tratta solo della presa d’atto dell’esigenza che, al fine di rafforzare il divieto di menzogna processuale, esso venga trasformato in positivo dovere di verità e completezza. Non si può dire, tuttavia, che la «lotta» contro la menzogna processuale sia una novità del pensiero kleiniano e della sua idea del processo. Ed infatti, parlando della menzogna nel processo, Klein osserva – attraverso un’ampia analisi storica - come il divieto di menzogna (Lügenverbot) costituisse una componente costante nello sviluppo della legislazione processuale austriaca e che, di conseguenza, anche la codificazione giuseppina (A.G.O. di Giuseppe II del 1781) ( 29), nel prevedere una serie di conseguenze per la parte che avesse agito o resistito in giudizio in mala fede ( 30), si poneva in perfetta continuità con la tradizione (31). 25 ) F. Klein, Die schuldhafte Parteihandlung. Eine Untersuchung aus dem Civilprocessrechte, Vienna, 1885. 26 ) F. Klein, Die schuldhafte Parteihandlung, cit., p. 107 ss. 27 ) Osserva F. Klein, Pro futuro, cit., p. 31: «Zum attachment, der Personalhaft wegen contempt of court, die nach englischem Rechte auch in Civilsachen … verhängt werden kann, dazu sind wir noch lange nicht reif. Wie die Erfahrung zeigt, übersteigen schon die Geldstrafen unserer Gerichtsordnungen das Maß dessen, was unsere Weichherzigkeit und Wehleidigkeit an strengen Proceßpflichten zu ertragen vermag». In proposito v. anche H. Schima, Die österreichische Zivilprozessordnung im Lichte neuerer Prozesstheorie, in Festschrift zur Fünfzigjahrfeier der österreichischen Zivilprozessordnung 1898-1948, cit., p. 250 ss.; W. Kralik, op. cit., p. 89 ss.; P. Oberhammer, Richtermacht, Wahrheitspflicht und Parteienvertretung, in W. Kralik-W.H. Rechberger (a cura di), Konfliktvermeidung und Konfliktregelung, Veröffentlichungen des Ludwig-Boltzmann-Institutes für Rechtsvorsorge und Urkundenwesen, XII, Vienna, 1993, p. 31 ss., spec. p. 47 ss. 28 ) Infatti, osserva Klein che la riforma della disciplina processuale non raggiungerà il successo auspicato senza « eine gründliche Regeneration auch des subjectiven Momentes in den Rechtspflege bei Parteien, Parteienvertretern und Gericht» (Id., Die schuldhafte Parteihandlung, cit., Vorwort, p. VI); in proposito v. anche P. Böhm, Zu den rechtstheoretischen Grundlagen der Rechtspolitik Franz Kleins, in Fortschungsband Franz Klein, p. 191 ss. 29 ) Allgemeine Gerichtsordnung, pubblicata il 1° maggio 1781 ed entrata in vigore il 1° maggio 1782. In proposito v. Regolamento giudiziario di Giuseppe II: 1781, in Testi e documenti per la storia del processo, a cura di N. Picardi, e A. Giuliani, Milano, 1999, con prefazione di N. Picardi, ivi, p. XIII ss.; ivi, p. XXIX ss., anche l’introduzione di W. Ogris e P. Oberhammer. L’A.G.O. giuseppina ebbe anche – come noto - un lungo periodo di applicazione nella Lombardia austriaca, a partire dal 1° maggio 1786 e fino al 1796, con il titolo ufficiale di Regolamento del processo civile per la Lombardia austriaca: in proposito, M. Taruffo, La giustizia civile in Italia dal ‘700 ad oggi, Bologna, 1980, p. 33 ss.; N. Picardi, Il Regolamento giudiziario di Giuseppe II e la sua applicazione nella Lombardia austriaca, in Riv. dir. proc., 2000, p. 36 ss. 30 ) V. il § 409 dell’A.G.O.. Sui doveri delle parti nelle allegazioni fattuali v., in particolare, i §§ 3 e 5 dell’ A.G.O. Identiche previsioni si ritrovano nella Westgalizische Gerichtsordnung del 1797. E F. Klein, Die schuldhafte Parteihandlung, cit., p. 108 s., osserva che in entrambe le Ordinanze si ritrova il divieto di menzogna nel processo e si riconosce il dovere di verità delle parti, al punto che il diritto processuale austriaco potrebbe rappresentare il modello di riferimento delle future riforme. In precedenza, nello stesso senso, e cioè che il divieto di menzogna, presente nell’A.G.O. giuseppina, andasse interpretato come «dovere giuridico di verità» anche A. Menger, Die Lehre von den Streitparteien im österreichischen Civilprozess, in Zeitschrift für das privat- und öffentliche Recht der Gegenwart, VII, Wien, 1880, p. 647 ss., spec. p. 653 s. 31 ) F. Klein, Die schuldhafte Parteihandlung, cit., p. 118. Sulla continuità delle riforme kleiniane rispetto alla tradizione ed in particolare alle riforme «giuseppine» si sofferma R. Sprung, Le basi del diritto processuale civile austriaco, in Riv. dir. proc., 1995, p. 24 s.; Id., Die Ausgangspositionen österreichischer Zivilprozessualistik und ihr Einfluss auf das 8 Del resto, a riprova del fatto che il tema, sebbene «insidioso», all’epoca fosse molto sentito ( 32), va rilevato come la medesima riflessione intorno alla necessità di reprimere la menzogna processuale si rinvenga anche nel dibattito sulla riforma della Z.P.O. tedesca, di pari passo con la riflessione sull’«abuso del processo» (Missbrauch des Prozesses). E gli stessi studiosi tedeschi di estrazione liberale cominciano a riflettere, con insistenza sempre maggiore, intorno al problema della buona fede processuale ed ai modi per contrastare la menzogna della parte ( 33). Basti pensare, in proposito, agli scritti dedicati proprio al principio di buona fede processuale, nei quali, pur in assenza di un’esplicita previsione legislativa, che arriverà più tardi, si riconosce che la parte debba utilizzare soltanto le allegazioni della cui verità sia convinta (34). O ancora, basti pensare all’acceso dibattito dottrinale che si aprì – nell’ambito della più ampia riflessione intorno all’opportunità di adeguare anche la Z.P.O. tedesca alle nuove idee che emergevano dalla riforma kleiniana ( 35) - in occasione del progetto di riforma della Z.P.O. del 1908 circa l’opportunità di introdurre anche nel sistema processuale tedesco l’obbligo di verità e completezza per le parti ( 36). Dibattito che poi sfocerà, come noto, nella riforma introdotta con la legge 27 ottobre 1933 ( 37), la quale si basa proprio sui deutsche Recht, in Z.Z.P., 92 (1979), p. 4 ss., spec. p. 7 s.; ma v. anche F. Cipriani, Nel centenario, cit., p. 975; P. Böhm, Zu den rechtstheoretischen Grundlagen, cit., p. 191 ss.; A. Chizzini, Franz Klein, la codificazione, cit., p. 103 ss. 32 ) Per una diversa conclusione, tuttavia, C. Consolo, op. cit., p. XLVIII, secondo il quale il tema scelto da F. Klein «nella sua monografia di necessario esordio» (Die schuldhafte Parteihandlung, cit.), quello degli illeciti endoprocessuali delle parti, era un tema ancora «poco emerso» e «bisognava – per vederlo decollare e però anche schiantarsi, in Germania – attendere un buon quarto di secolo e così i von Hippel e il loro mondo di doveri solidali e reciproci». 33 ) Rispetto al quale già all’epoca si diffonde la convinzione che il suo divieto sia giustificato dalla funzione stessa del processo: v., in particolare, A. Hegler, Beiträge zur Lehre vom prozessualen Anerkenntnis und Verzicht, TübingenLeipzig, 1903, p. 161; J. Kohler, Über processrechtliche Vorträge und Creationen, in Gesammelte Beiträge zum Zivilprozess, Berlin, 1888, p. 127 ss., spec. p. 154; Id., Der Prozess als Rechtsverhältnis, Mannheim, 1888, p. 17 ss.; K. Hellwig, Lehrbuch des Deutschen Zivilprozessrechts, II, Leipzig, 1909, p. 40 ss.; Id., System des deutschen Zivilprozessrechts, I, Leipzig, 1912, p. 402 s. e p. 438; K. Binding, Lehrbuch des gemeinen deutschen Strafrechts, I, Leipzig, 1902, p. 350. Per altre indicazioni v. M. Winker, Die Missbrauchsgebühr im Prozessrecht, Tübingen, 2011, p. 60 ss. 34 ) In proposito v. K. Schneider, Treu und Glauben im Zivilprozesse und der Streit über die Prozessleitung. Ein Beitrag zur Beantwortung der Prozessleitungsfrage, München, 1903, p. 7 ss.; Id., Die Lüge im Zivilprozesse, in Rheinische Zeitschrift für Zivil- und Prozessrecht, 1 (1909), p. 393 ss., spec. p. 408 ss.; e l’ampio saggio di K.H. Görres, Über das Verschulden im Prozesse (Culpa in processu), in Zeitschrift für deutschen Zivilprozess, 34 (1905), p. 1 ss.; sul tema v. già, nella dottrina austriaca, J. Trutter, Bona fides im Civilprozesse. Ein Beitrag zur Lehre von der Herstellung der Urtheilsgrundlage, München, 1892, spec. p. 73 ss.; 35 ) Al riguardo v. R. Sprung, Die Ausgangspositionen, cit., p. 7 ss.; J. Damrau, Der Einfluss der Ideen Franz Kleins auf den deutschen Zivilprozess, in Forschungsband Franz Klein, cit., p. 157 ss., spec. p. 166 ss.; W. Jelinek, Einflüsse des österreichischen Zivilprozessrechts auf andere Rechtsordnungen, in W.J. HABSCHEID (a cura di), Das deutsche Zivilprozessrecht und seine Ausstrahlung auf andere Rechtsordnungen, Bielefeld, 1991, p. 41 ss.; P. Gottwald, Die österreichische Zivilprozessordnung aus deutscher Sicht, in P.G. Mayr (a cura di), 100 Jahre östrreichische Zivilprozessgesetze, Vienna, 1998, p. 179 ss.; W.H. Rechberger, Die Ideen Franz Kleins und ihre Bedeutung für die Entwicklung des Zivilprozessrechts in Europa, in Ritsumeikan Law Review, 25 (2008), p. 101 ss., spec. p. 104 ss. 36 ) V., in proposito, R. Schmidt, Über Hellwigs Schrift “Die Lüge im Prozess”, in Deutsche Juristen-Zeitung, 1909, c. 39 ss., il quale ritiene che la menzogna processuale non sia affatto immorale, in chiara polemica con quanto aveva scritto K. Hellwig, Die Lüge im Prozess, in Die Woche, 40 (1908), p. 1715 ss., per il quale, invece, la menzogna processuale costituisce una distorsione della funzione del processo; in proposito v. la replica di K. Hellwig, Die Lüge im Prozesse, in Deutsche Juristen-Zeitung, 1909, c. 137 s. Sulla polemica v. anche K. Binding, Die Wahrheitspflicht im Prozesse, in Deutsche Juristen-Zeitung, n. 3 (1909), c. 162 s.; G. Zani, op. cit., p. 152 ss.; sul complessivo dibattito, che precedette in Germania la riforma del 1933 e che coinvolse anche giudici e avvocati, v. approfonditamente W. Brehm, op. cit., p. 160 ss. 9 lavori precedenti (38) e riprende, nella sostanza, il § 178 della kleiniana Z.P.O. austriaca (39), sebbene il preambolo alla stessa legge lo neghi decisamente (40). Va anche rilevato, tuttavia, come non mancarono, nel contesto di quel dibattito, autorevoli prese di posizione decisamente contrarie al riconoscimento giuridico del dovere di verità e completezza (41), a cominciare da quella di Adolf Wach, il quale – sul presupposto che scopo del processo non sia l’accertamento della verità (materiale), essendo questo un risultato certamente desiderabile, ma meramente casuale (42) – stigmatizzò le opinioni contrarie rilevando che, in assenza di una previsione legislativa espressa, il dovere di verità andrebbe considerato una pura invenzione ( 43). E aggiunse che, anche laddove una simile disposizione fosse introdotta, essa sarebbe comunque in 37 ) Sulla riforma del 1933, come superamento dell’impianto puramente liberale della Z.P.O. tedesca, ma nel quadro di una decennale «lotta» contro la menzogna processuale, v. D. Brüggemann, Judex statutor und judex investigator. Untersuchungen zur Abgrenzung zwischen Richtermacht und Parteienfreiheit im gegenwärtigen deutschen Zivilprozess, Bielefeld, 1968, p. 51 ss. e p. 65 s.; F. Bomsdorf, Prozessmaximen und Rechtswirklichkeit, Verhandlungs- und Untersuchungsmaxime im deutschen Zivilprozess. Vom Gemeinen Recht bis zur ZPO, Berlin, 1971, p. 274; W. Bernhardt, Wahrheitspflicht und Geständnis im Zivilprozessrecht, in JZ, 1963, p. 245 ss., spec. p. 247; Id., Die Aufklärung des Sachverhalts im Zivilprozess, in Beiträge zum Zivilprozessrecht. Festgabe zum 70. Geburtstag von L. Rosenberg, München, 1949, p. 9 ss., spec. p. 32; H.-L. Weyers, Über Sinn und Grenzen der Verhandlungsmaxime im Zivilprozess, in Dogmatik und Methode. Josef Esser zum 65.Geburtstag, Kronberg/Ts., 1975, p. 193 ss.; E. Peters, Ausforschungsbeweis im Zivilprozess, Köln-Berlin, 1966, p. 99 ss. e p. 110; Id., Auf dem Wege zu einer allgemeinen Prozessförderungspflicht der Parteien?, in Festschrift für K.H. Schwab zum 70. Geburtstag, München, 1990, p. 399 ss., spec. p. 406 s.; R. Wassermann, Der soziale Zivilprozess, Neuwied-Darmstadt, 1978, p. 108 s. 38 ) Infatti, l’introduzione del «dovere di verità e completezza» era stato già previsto nel Progetto per la Semplificazione della via giudiziaria del 1923, nel Progetto per la Riforma del Procedimento tedesco del 1928 e nel Progetto del Nuovo Codice di procedura civile del 1931. In proposito v. J. Pico i Junoy, La buona fede, cit., p. 172; N. Trocker, Processo civile e Costituzione. Problemi di diritto tedesco e italiano, Milano, 1974, p. 66 ss.; P. Böhm, Processo civile e ideologia nello Stato nazionalsocialista, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2004, p. 621 ss. Del resto, molto era stato scritto sull’argomento prima della novella del 1933: ad es, nel corso della XXI Anwaltstag a Breslau nel 1913 (J. Kohler, Die Wahrheitspflicht im Prozess, in Deutsche Juristen-Zeitschrift, 1913, c. 1286 ss.; E. Koffka, Die Ermittelung der Wahrheit im Zivilprozesse, Gutachten, erstattet im Auftrage des Vorstandes des Deutschen Anwaltsvereins für den XXI. Anwaltstag zu Breslau, in Beilage n. 5 zu JW, 1913, p. 4 ss.) ed in alcuni scritti successivi (A. Wach, Grundfragen und Reform des Zivilprozesses, Berlin, 1914, p. 32 ss.; G. Spindler, op. cit.; E. Hiller, Zur Frage der Wahrheitspflicht im Zivilprozess, Greifswald, 1920; G. Wurzer, op. cit., p. 463 ss.). 39 ) D. Brüggemann, op. cit., p. 66; J. Damrau, Die Entwicklung einzelner Prozessmaximen seit der Reichszivilprozessordnung von 1877, Paderborn, 1975, p. 19 ss.; W. Jelinek, op. cit., p. 69 ss. 40 ) Nel Präambel alla Novella del 1933 (in RGBl., I, p. 780) si legge, infatti, che a nessuna parte può essere consentito di trarre in inganno il giudice o di abusare del processo; al diritto di tutela giurisdizionale corrisponde il dovere di aiutare il giudice ad individuare una soluzione giusta attraverso una condotta onesta e diligente. 41 ) Sebbene non si neghi il dovere morale per le parti di comportarsi correttamente in giudizio: v., in particolare, G. Spindler, Die Wahrheitspflicht im Zivilprozess, Hamburg, 1927, p. 14; H. Titze, Die Wahrheitspflicht im Zivilprozess, in Festschrift für F. Schlegelberger zum 60.Geburtstag, Berlin, 1936, p. 165; E. Wildermuth, Die Wahrheitspflicht der Parteien im Zivilprozess, Düsseldorf, 1938, p. 34; G. Wurzer, Die Lüge im Prozesse, in Z.Z.P. 48 (1920), p. 463 ss., spec. p. 464; E. Heinitz, Richtertag und Amwaltstag, in Deutsche Juristen-Zeitschrift, 1913, c. 993 ss., spec. c. 995; R. Schmidt, op. cit., c. 39 ss. 42 ) A. Wach, Vorträge über die Reichs-Civilprocessordnung gehalten vor praktischen Juristen im Frühjahr 1879, 2.Aufl., Bonn, 1896, p. 199. Per una posizione sostanzialmente identica circa il problema dell’accertamento della verità dei fatti come risultato meramente eventuale del processo v. anche O. von Bülow, Das Geständnisrecht. Ein Beitrag zur Allgemeinen Theorie der Rechtshandlungen, Freiburg-Leipzig-Tübingen, 1899, p. 245; M. Pagenstecher, Zur Lehre von der materiellen Rechtskraft, Berlin, 1905, p. 179 ss. e p. 217. E’ in questo contesto, infatti, che si profila anche l’equiparazione delle Tatsachenbehauptungen a vere e proprie Willenserklärungen: v., per tutti, A. Wach, Vorträge, cit., p. 60 ss.; per altre indicazioni rinvio ad A. Carratta, Sub art. 112, in A. Carratta-M. Taruffo, Poteri del giudice, in Comm. c.p.c., a cura di S. Chiarloni, Bologna, 2011, p. 30 ss. 10 contrasto con il principio dispositivo (Verhandlungsmaxime), con la signoria delle parti sull’attività e sull’elargizione di vantaggi processuali (44), con l’essenza più profonda del processo civile (45). 6. - La riflessione della dottrina italiana sulla «buona fede» processuale e sul «divieto di menzogna processuale» nel vigore del codice del 1865. E’ in questo clima culturale e con il diffondersi delle idee kleiniane ( 46) che anche da noi comincia a farsi strada la riflessione intorno alla «frode» o alla «menzogna» processuale e agli strumenti che il codice del 1865 offriva per reprimerla. E così, si afferma con sempre maggiore insistenza, nonostante l’assenza di una previsione espressa in proposito, il riconoscimento anche nel nostro sistema processuale di un generico dovere di comportamento leale o in buona fede delle parti (47), dal quale si fa scaturire anche un divieto per la parte di utilizzare la menzogna e di «affermare consapevolmente cose contrarie al vero» (48), anche 43 ) A. Wach, Grundfragen, cit., p. 28 ss. In termini non dissimili, come detto, anche R. Schmidt, op. cit., c. 39 ss. Per le «riserve» che Wach manifestava nei confronti del codice kleiniano (e delle idee del suo autore) v. – oltre a quanto lo stesso A. scrisse sul progetto di riforma (A. Wach, Die Mündlichkeit im österreichischen Civilprocess-Entwurf, Wien, 1895, p. 17 ss.) - F. Menestrina, Adolf Wach, in Nss. Dig. It., XX, Torino, 1975, p. 1074; C. Consolo, op. cit., p. XLVII. Nei confronti del modello kleiniano v. anche lo scetticismo di F. Stein, Die Reform des Zivilprozesses, in Der Zivilprozess, Rechtslehre, Rechtsvergleich, Gesetzesreform, Mannheim, 1922, p. 55 ss. 44 ) In proposito, v. A. Wach, Vorträge, cit., p. 39 ss.; nel senso del contrasto del Wahrheitspflicht con il Verhandlungsmaxime, con la disciplina sulla confessione (Geständnisrecht) e con il sistema dell’onere della prova (Beweislastsystem) anche A. Philipsborn, Wahrheitspflicht, Prozessbetrug und Prozesschikane, in Festschrift für F. von Liszt, Berlin, 1911, rist., Aalen, 1971, p. 188 ss., spec. p. 193 s.; M. Grünhut, Zur Lehre vom Prozessbetrug, in Rhein. Zeitung, 1913, p. 127 ss., spec. p. 132. 45 ) A. Wach, Grundfragen, cit., p. 31 ss.: «Und die Zivilpartei sollte rechtlich verpflichtet sein, um der Wahrheit … willen als Zeuge in eigner Sache gegen ihr eigenes Fleisch zu wüten? Wer das behauptet, ermangelt der tieferen Einsicht in das Wesen des Zivilprozesses» (p. 35). 46 ) Sulla diffusione delle idee kleiniane presso la nostra dottrina di fine secolo XIX v., in particolare, W. Jelinek, op. cit., p. 61 s.; H. Schima, Gemeinsames und Verschiedenes im österreichischen und italienischen Zivilprozess, in Studi in onore di E. Redenti, II, Milano, 1951, p. 335 ss.; B. König, Die österreichische Zivilprozessordnung und das Königreich Italien, in J.Bl., 1981, p. 585 ss.; F. Cipriani, op. cit., p. 978 ss.; Id., Il processo civile in Italia dal codice napoleonico al 1942, in Riv. dir. civ., 1996, I, p. 67 ss., spec. p. 80. In argomento v. anche, di recente, A. Chizzini, Franz Klein, la codificazione, cit., p. 106 ss., il quale sottolinea come la dottrina italiana del tempo (e, aggiungerei, anche quella successiva) non comprese appieno la lectio kleiniana, «non ne diede in alcuna sede una esauriente illustrazione» e «ad essa si sentì sostanzialmente estranea» (ivi, p. 106). In argomento mi sia consentito rinviare ad A. Carratta, Vittorio Scialoja ed il processo civile, in B.I.D.R., 2011, p. 103 ss., spec. p. 126 ss. (ripubblicato in versione ridotta anche in Riv. dir. proc., 2013, p. 98 ss.). Mi pare che proprio il modo attraverso il quale venne affrontato dalla nostra dottrina degli inizi del XX secolo (ma, come vedremo, anche di quella successiva, fino ai nostri giorni) il tema del «divieto di menzogna» o del «dovere di verità e completezza» dimostri per tabulas l’«incomprensione» che ha accompagnato la «recezione» da noi delle idee kleiniane e l’acceso contrasto che si è manifestato nei confronti (non di tali idee, bensì) della sua «rilettura» ad opera dei nostri patres. 47 ) L. Mortara, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, III, Milano, 1923, p. 142; G. Zani, op. cit., p. 73 ss.; F.G. Lipari, op. cit., p. 50; St. Costa, Il dolo processuale in tema civile e penale, Torino, 1930, p. 153 ss.; G. Chiovenda, Principii di diritto processuale civile, rist. anastatica con prefazione di V. Andrioli, Napoli, 1980, p. 744; E. Betti, Diritto processuale civile italiano, Roma, 1936, p. 105; F. Carnelutti, Sistema, cit., I, p. 880 s.; A. Segni, Procedimento civile, in Nuovo Dig. It., X, Torino, 1939, p. 564 s.; L. Ferrara, Il dovere giuridico di lealtà processuale, in Foro it., 1939, I, c. 587 ss. 48 ) Come conclude G. Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile, 2a ed., II, 1, Napoli, 1936, p. 328; ID., Principii, cit., p. 745. Nello stesso senso v. anche A. Castellari, Volontà ed attività nel rapporto processuale civile, in Studi di diritto processuale civile in onore di G. Chiovenda, Padova, 1927, p. 345 ss., spec. p. 354. Tuttavia, per l’affermazione secondo cui le parti sarebbero comunque libere di dire «impunemente … le loro eterne bugie» v. C. Furno, Contributo alla dottrina delle prove legali, Padova, 1940, p. 46 ss. Merita, peraltro, di essere ricordato – come opportunamente fa Chiovenda (Principii, cit., p. 745, in nota 4) - che il capo XXX del codice barbacoviano del 1788 11 nel quadro della configurazione dell’istituto del dolo revocatorio (49). Prevale, tuttavia, l’opinione secondo la quale vada esclusa la presenza anche di un vero e proprio dovere di verità (materiale) per le parti. E ciò soprattutto in considerazione del fatto che: a) manca una norma espressa che lo preveda; b) mancano specifiche sanzioni; c) sussiste, invece, l’obbligo per il giudice di tener per vera la confessione anche contenente false dichiarazioni (art. 1360 c.c. del 1865); d) comunque, un tale dovere sarebbe in contrasto con il principio dispositivo; e) scopo del processo non sarebbe la ricerca della verità (50). In sostanza, nel silenzio del codice del 1865, la nostra dottrina degli inizi del secolo XX - come era anche emerso nel dibattito interno alla dottrina tedesca - arriva alla conclusione che il generico dovere di lealtà processuale, di indiscussa sussistenza, non consentisse anche di riconoscere piena cittadinanza ad un vero e proprio dovere di verità per le parti, ma consentisse comunque di escludere che, per il conseguimento dei propri interessi, la parte potesse far ricorso alla menzogna processuale. Questo, sebbene negli scritti del tempo dedicati all’argomento spesso si finisca per confondere «divieto di menzogna» con «dovere di verità» e per utilizzare indistintamente le due espressioni ad indicare il medesimo fenomeno (51). 7. - Tentativi (non riusciti) di introdurre un esplicito dovere di verità nel c.p.c. del 1940. In piena continuità con questo dibattito si pongono anche i primi tentativi di codificazione nel nostro sistema processuale del dovere di verità per le parti, i quali risentono inevitabilmente delle incertezze presenti nel dibattito scientifico dell’epoca. Ed infatti, da una parte, viene proposta l’introduzione del «dovere di non dire cose consapevolmente non vere» nel progetto Chiovenda (52) (Codice giudiziario nelle cause civili per Principato di Trento, Trento, 1788; ristampato nella Collana Testi e documenti per la storia del processo, a cura di N. Picardi e A. Giuliani, Milano, 2004, con l’introduzione di F. Cordopatri) era intitolato alla «bugia giudiziale» e, al § 334, stabiliva che «la parte, che avrà negata scientemente in giudizio una cosa vera, la parte, che avrà allegata scientemente in giudizio una cosa falsa, sarà rea di bugia giudiziale, e verrà come appresso punita» e nei successivi paragrafi (dal 335 al 350) prevedeva una serie di sanzioni pecuniarie differenziate a seconda delle diverse ipotesi di «bugia giudiziale». Dall’ipotesi della «bugia giudiziale» lo stesso codice barbacoviano teneva distinta l’ipotesi «dei temerari litiganti» disciplinata dal capo XXXI, che veniva definita dal § 351. In argomento v. anche F. Menestrina, Il codice barbacoviano (1788), Lipsia, 1913, p. 10 ss., ora in Scritti giuridici vari, Milano, 1964, p. 169 ss.; M. Taruffo, La giustizia, cit., p. 41 ss.; F. Cordopatri, Introduzione, cit., p. XXX e p. XXXIV. 49 ) F.G. Lipari, op. cit., p. 59. Più in generale, per l’esclusione della falsa allegazione dall’ambito di applicazione del rimedio revocatorio per dolo v. già G. Pisanelli, in P. Mancini-G. Pisanelli-A. Scialoja, Commentario del codice di procedura civile per gli Stati Sardi, IV, Torino, 1857, p. 539 s.: «non deve dedursi che il dolo sia stabilito con la prova di una falsa allegazione. Ciò costituisce un dolo morale, ma non un dolo civile»; F. Ricci, Commento al codice di procedura civile italiano, II, Firenze, 1880, p. 626 s.; G. Cesareo Consolo, La rivocazione della sentenza secondo il codice di procedura civile, Messina, 1889, p. 33 ss.; S. La Rosa, La rivocazione della sentenza civile, Catania, 1893, p. 72; in senso analogo, in giurisprudenza, Cass. Roma, 3 novembre 1909, in Foro it., 1909, I, c. 1371; Cass. Torino, 13 marzo 1915, in Rep. Giur. It., 1915, voce Revocazione, n. 6; Cass. Regno, 22 gennaio 1926, in Foro it., 1926, I, c. 72. Tuttavia, nel senso che le false allegazioni integrino il dolo revocatorio v. F.S. Gargiulo, La falsa allegazione in giudizio e il dolo per la domanda di rivocazione, in Diritto e giurisprudenza, 1886, p. 169 s.; L. Mattirolo, Trattato di diritto giudiziario civile italiano, IV, p. 780; A. Castellari, op. cit., p. 354; in giurisprudenza, Cass. Regno, 24 novembre 1928, in Riv. dir. proc. civ., 1929, II, p. 71 ss., con nota contraria di A. Guarneri Citati. 50 ) Per l’elencazione di queste ragioni contrarie al riconoscimento del dovere di verità, nel contesto del codice del 1865, v., in particolare, F.G. Lipari, op. cit., p. 57 ss.; in senso sostanzialmente analogo G. Messina, Contributo alla dottrina della confessione, Sassari, 1902, p. 26 ss.; G. Zani, op. cit., p. 151 ss.; 51 ) V., ad es., G. Messina, op. cit., p. 29; St. Costa, op. cit., p. 153 s.; A. Guarneri Citati, Menzogna e dolo processuale, in Riv. dir. proc. civ., 1929, II, p. 72 ss. Per utili puntualizzazioni v., invece, L. Mortara, op. cit., III, p. 567 s., teso e nota 1, e p. 589; G. Chiovenda, Principii, cit., p. 745; Id., Lo stato attuale del processo civile in Italia e il progetto Orlando di riforme processuali, in Saggi di diritto processuale civile (1894-1937), I, rist., Milano, 1993, p. 395 ss., spec. p. 396. 52 ) Così l’art. 20, rubricato «Diritti e doveri delle parti», del Progetto Chiovenda. V. anche Relazione sul progetto di riforma del procedimento elaborato dalla Commissione per il dopo guerra, in Saggi di diritto processuale civile (189412 e nel progetto Rocco (53), dall’altra parte, un «dovere di affermare al giudice i fatti secondo la verità» nel progetto Carnelutti (54) e nel preliminare Solmi (55). Ma – come noto – nessuna di queste diverse proposte entrò, poi, nella versione definitiva del codice del 1940, in quanto l’art. 26 del Progetto preliminare Solmi venne sostituito, nel Progetto definitivo, dall’art. 29, che – come l’attuale art. 88 – si limitò a prevedere a carico delle parti e dei loro difensori il dovere di probità e lealtà ( 56). Le ragioni di questo mancato inserimento furono molteplici. Ed anche questo è abbastanza noto. Soprattutto vi era l’opposizione di fondo di una parte consistente della dottrina processual-civilistica del tempo a riconoscere forza giuridica ad un simile dovere per le parti, opposizione che si manifestò in maniera clamorosa nelle Osservazioni che vennero avanzate proprio su questo punto specifico al progetto preliminare Solmi (57). In particolare, nel famoso parere redatto per l’Università di Firenze, che molto avrebbe influenzato la riflessione successiva sul tema (infra, § 8), Calamandrei - richiamando i precedenti dell’art. 26 del Progetto preliminare – rilevò come le disposizioni previste nei precedenti Progetti avessero «una portata più morale e, diciamo così, pedagogica, che non giuridica» e non erano altro che la proclamazione solenne di un principio già latente nel codice del 1865 (58). L’art. 26 del Progetto preliminare, invece, – rileva ancora Calamandrei – al generico «dovere di probità» vorrebbe sostituire «un più specifico e più particolareggiato dovere di dire la verità in tutte le dichiarazioni che le parti sono chiamate a fare, 1937), II, rist., Milano, 1993, p. 1 ss., spec. p. 64 s.. Sui lavori della «Commissione reale per il dopo guerra» v. F. Cipriani, Storie di processualisti e di oligarchi. La procedura civile nel Regno d’Italia (1865-1936), Milano, 1991, p. 191 ss.; mentre sulla posizione che assunse Chiovenda nei confronti del Regolamento austriaco del 1895 v., in particolare, G. Chiovenda, Le forme nella difesa giudiziale del diritto, in Saggi, cit., I, p. 353 ss., spec. p. 368 s., dove si parla di Klein come del «valoroso processualista» (p. 371); Id., Le riforme processuali e le correnti del pensiero moderno, in Saggi, cit., I, p. 379 ss., spec. p. 382 s. Non può, peraltro, tacersi del «sospetto di austriacantismo» avanzato nei suoi confronti da L. Mortara, Per il nuovo codice della procedura civile, in Giur. it., 1923, IV, c. 141. In proposito v. anche F. Cipriani, Nel centenario, cit., p. 995 ss., testo e nota 107. 53 ) Così l’art. 25 del Progetto Rocco (Codice di procedura civile: progetto del Ministro Guardasigilli Alfredo Rocco, in Riv. dir. proc. civ., 1937, I, p. 12 s.). 54 ) Così l’art. 28 del Progetto Carnelutti (Progetto di codice di procedura civile, Padova, 1926, p. 15; v, anche F. Carnelutti, Lineamenti della riforma del processo civile di cognizione, in Riv. dir. proc. civ., 1929, I, p. 29, dove si sottolinea come ad un tale dovere si cerchi di dare sanzione «in linea di premio e in linea di pena, con la responsabilità attenuata del soccombente, che lo abbia rispettato, e con la responsabilità aggravata del soccombente, che lo abbia violato»). Sulle vicende che portarono all’elaborazione di tale progetto v. F. Cipriani, Storie di processualisti, cit., p. 287 ss. 55 ) Così l’art. 26 del Progetto preliminare Solmi (Codice di procedura civile. Progetto preliminare e Relazione, Roma, 1937, p. 10). Nella Relazione al Progetto (ivi, p. 335) si sottolinea l’esigenza della «moralizzazione del processo», in modo che «l’agone giudiziario sarà veramente una lotta leale ed aperta; saranno rapidamente individuati i punti centrali del dibattito e il processo ne guadagnerà in rapidità e snellezza» (Codice di procedura civile. Progetto definitivo e relazione del Guardasigilli on. Solmi, Roma, 1939, p. 5 s.). 56 ) Nel registrare la nuova formulazione G. Calogero, Probità, lealtà, veridicità nel processo civile, in Riv. dir. proc., 1939, I, p. 129 s., osserva che questa norma «sarà comunque, secondo ogni verosimiglianza, tra quelle che più richiederanno di specificazioni ermeneutiche per la regolarità del suo funzionamento». E nella Relazione al progetto definitivo il Ministro Solmi rileva – proprio a proposito del nuovo art. 29 – che, a seguito delle accuse di «disfavore verso il ceto forense non ho avuto … difficoltà ad attenuare o sopprimere quelle norme». 57 ) Osservazioni e proposte sul progetto di Codice di procedura civile, Roma, 1938. 58 ) Osservazioni e proposte, cit., p. 266 s. Lo stesso Calamandrei aggiunge che la stessa portata avrebbe l’obbligo di verità codificato nel § 278 della Z.P.O. austriaca e nel § 138 della Z.P.O. tedesca, nella quale, d’altro canto, «fino al 1933 aveva prevalso la opinione, sostenuta dal Wach in pagine memorabili, che nel processo a tipo dispositivo siffatta norma non potesse avere una rilevanza giuridica praticamente apprezzabile». In realtà, per quanto già detto (retro, § 5) e per quanto diremo nel prosieguo (infra, §§ 10, 11 e 12), non risulta fondata né la prima, né la seconda affermazione. 13 nel corso del processo» (59). Sennonché – continua Calamandrei – questo «sarebbe assolutamente inconciliabile col sistema probatorio, che il Progetto fondamentalmente mantiene», in quanto nel processo civile di tipo dispositivo, il giudice «della veridicità delle parti può e deve disinteressarsi» (60). E dunque: come riuscirebbe a conciliarsi, esso, con il principio «secondo il quale il giudice non può tener presenti altri fatti che quelli allegati dalle parti?» o «colle norme che regolano la ripartizione tra le parti dell’onere di allegazione e dell’onere di prova?»; «e come si potrebbe conciliare … coll’efficacia legale della confessione? La confessione contraria alla verità dovrebbe contemporaneamente essere creduta come prova legale, ed esser punita come dichiarazione mendace?» (61). La risposta a questi molteplici interrogativi «è una sola: che fino a quando rimane in vigore … il principio dispositivo, la norma che consacra l’obbligo di dire la verità non può significare altro, per la parte in causa, che un richiamo, di valore soprattutto morale, al generico dovere di buona fede processuale» (62). Non meno incisive sono le critiche che muovono sia Carnelutti, attraverso il parere redatto per l’Università e il Sindacato Fascista degli Avvocati di Milano, sia Andrioli, attraverso il parere redatto per l’Università di Roma. Il primo, nel sottolineare la «particolare gravità» che la formula utilizzata dal Progetto assume, ritiene preferibile – in sostituzione dell’obbligo di dire la verità (materiale) – quello di «non affermare consapevolmente fatti contrari a verità»: «che una parte non debba mentire è una cosa; che non possa tacere è un’altra» (63). Mentre il secondo aggiunge che, con l’introduzione della norma, «viene a mancare o ad essere ridotto ai minimi termini il criterio della ripartizione dell’onere della prova, e dall’altro è notevolmente limitato l’ambito di applicazione del concetto di eccezione in senso sostanziale» (64). 8. - La riflessione successiva all’introduzione del codice del 1940 ed il prevalere dell’orientamento contrario ad ammettere l’esistenza nel nostro sistema processuale di un dovere di verità e completezza. Nonostante la mancata codificazione, la convinzione che un dovere di verità comunque incomba su parti e difensori rimane abbastanza radicata nella nostra dottrina, almeno fino agli anni ‘70. Ed in proposito è sufficiente qui richiamare le opinioni, decisamente orientate in questo senso, di chi configura in termini generali in capo alla parte un dovere, pienamente rispettoso del principio 59 ) Osservazioni e proposte, cit., p. 267. 60 ) Osservazioni e proposte, cit., p. 268, dove anche la considerazione che «l’obbligo di dire la verità potrebbe essere riconosciuto a carico della parte, come obbligo perfetto e sanzionato, solo quando la parte fosse considerata come un testimone in re sua: come una fonte di prova, cioè, a cui si può non credere quando non dice la verità, ma a cui si deve credere quando al dice». Ma – rileva Calamandrei - «la trasformazione della parte in testimone … potrebbe ammettersi soltanto in un processo a tipo nettamente inquisitorio, in cui fosse attenuata la nozione del diritto soggettivo e in cui il privato fosse soltanto come strumento del pubblico interesse». In proposito v. anche P. Calamandrei, Un maestro, cit., p. 2, dove il «dovere di verità» viene ricondotto ad una visione «paternalistica ed autoritaria» del processo. 61 ) Osservazioni e proposte, cit., p. 268. 62 ) Osservazioni e proposte, cit., p. 268. 63 ) Osservazioni e proposte, cit., p. 270. 64 ) Osservazioni e proposte, cit., p. 275. Le Osservazioni redatte da V. Andrioli per conto della Facoltà di Giurisprudenza di Roma sono ora pubblicate, in maniera integrale, in V. Andrioli, Scritti giuridici, III, Milano, 2007, p. 1457 ss. 14 dispositivo (65), di non affermare consapevolmente fatti contrari al vero (66) o un dovere di «non scientemente mentire» (67). Oppure di chi ritiene che un dovere di verità e completezza per le parti sia da ricavare dal dovere di lealtà e probità dell’art. 88 c.p.c. e dall’interpretazione sistematica della disciplina sulla responsabilità processuale per spese e danni e da quella sulla revocazione per dolo della parte (68) o da un più generale principio di «collaborazione tendenzialmente integrale» ricavabile dalle innovazioni apportate dal codice del 1940 (69). O ancora di chi, sempre facendo riferimento all’art. 88 c.p.c., parla della presenza di un «dovere di verità in senso processuale … ossia più come dovere di non fare (non mentire) che come dovere di fare (edere contra se)» (70) o comunque identico a quello di cui ai §§ 178 della Z.P.O. austriaca e 138 della Z.P.O. tedesca (71). In sostanza, quanti ritengono che, pur nel silenzio del codice del 1940, si debba riconoscere esistente anche nel nostro sistema processuale un dovere di verità e completezza ne giustificano la 65 ) G. Calogero, op. cit., p. 136 ss.; K. Satter, Dovere di verità e diritto di disposizione delle parti nel nuovo processo civile italiano, in Ann. dir. comp., XVII, 1, 1943, p. 1 ss.; C. Marchetti, Dolo revocatorio e falsa allegazione, in Riv. dir. proc., 1960, p. 418 ss., spec. p. 427 s.; v. anche, in termini non dissimili, G. Del Vecchio, La verità nella morale e nel diritto, Roma, 1952, p. 46 s. 66 ) F. Carnelutti, Istituzioni del nuovo processo civile italiano, Roma, 1941, p. 193: «Quando l’art. 88 statuisce che “le parti … hanno il dovere di comportarsi in giudizio con lealtà e probità”, certo allude alla loro opera d’informazione, che può prestarsi, sotto lo stimolo dell’interesse in lite, a narrare al giudice il falso o a nascondergli il vero; la formula più antica ed esatta in proposito è appunto quella del dovere di verità» (c.vo nel testo); v. anche Id., Istituzioni del nuovo processo civile italiano, 4a ed., I, Roma, 1951, p. 236 e p. 247 s. In precedenza Id., Sistema, cit., I, p. 880 s., dove si afferma che nel sistema del codice del 1865 era vietato l’inganno, ovvero il «mendacio aggravato da atti diretti a determinarne la credibilità». Tuttavia, secondo G. Scarselli, Lealtà e probità nel compimento degli atti processuali, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1998, p. 91 ss., p. 111, vi sarebbe stato un «ripensamento di Carnelutti, che, dopo la formulazione del progetto del codice, mutò opinione, per allinearsi a quella dottrina che ritiene oggi non sussistere un dovere di verità nelle allegazioni processuali». In realtà, come emerge anche dai testi riportati, non sembra che la posizione di Carnelutti sia mutata a seguito dell’approvazione del progetto definitivo Solmi e dell’attuale art. 88 c.p.c., in quanto anche negli scritti successivi alla sua approvazione l’A. continua ad ammettere l’esistenza di un dovere per le parti e i loro difensori «di non affermare consapevolmente fatti contrari a verità». Posizione, questa, che C. aveva già assunto nei confronti dell’art. 26 del progetto preliminare Solmi, come abbiamo già visto in precedenza nel testo. 67 ) G.A. Micheli, L’onere della prova, Padova, 1942, p. 144 s. (v. anche la ristampa, Padova, 1966, p. 172 s.), che parla esplicitamente del «dovere di verità e completezza» come dovere «di non scientemente mentire», aggiungendo anche che «una maggior tensione a codesto dovere di probità processuale, che si accompagna necessariamente a quello di completezza, non sia possibile dare, a meno di trasformare integralmente la compagine del processo civile, e di fare del giudice un inquisitore; più attenuata la posizione dello stesso A. in Corso di diritto processuale civile: Il processo di cognizione, II, Milano, 1960, p. 101, dove rileva che «nel nostro attuale ordinamento processuale, non ha avuto accoglimento un vero e proprio dovere di verità, a carico delle parti, ma ha trovato espressione un dovere di lealtà e di probità che, se non esclude la schermaglia processuale, la reticenza, pone dei limiti alla piena licenza nella difesa».. 68 ) M. Cappelletti, Il giuramento della parte nel processo litisconsortile, in Riv. trim. e dir. proc. civ., 1955, p. 1170 s., in nota 32; Id., La testimonianza della parte nel sistema dell’oralità. Contributo alla teoria della utilizzazione probatoria del sapere delle parti nel processo civile, I, Milano, 1962, p. 378, in nota 1; Id., Processo e ideologie, Bologna, 1969, p. 216 ss. 69 ) E. Grasso, La collaborazione, cit., p. 599 s., secondo il quale «nei rapporti fra le parti, per la sua portata generale, ma più ancora per il suo valore sintomatico, massimo rilievo assume la norma che prescrive alle parti e ai loro difensori di comportarsi in giudizio con lealtà e probità». Proprio sulla base dell’art. 88 c.p.c. l’A. in questione non ritiene «di potere aderire all’orientamento, prevalente, che espunge dall’art. 88 il dovere della parte di dire il vero contro il proprio interesse» (ivi, p. 600). Ed infatti – osserva - «l’aforisma nemo tenetur edere contra se, nel processo civile, non solo non si giustifica sul piano della morale, ma non trova riscontro in alcuna norma positiva che valga ad attenuare la valutazione negativa del comportamento sleale, espressa da quel testo». 70 ) Così F. Benvenuti, L’istruzione nel processo amministrativo, Padova, 1953, ora in ID., Scritti giuridici, I, Monografie e manuali, Milano, 2006, p. 184 s., da cui si cita, il quale rileva che «nell’ordinamento positivo non si può parlare di un dovere di verità se non nel senso processuale di dovere di probità e completezza». Aggiungendo che, una volta affermata «la natura processuale del c.d. obbligo di verità, è da sottolineare … che tale verità riguarda solo la esattezza (probità) e la completezza della rappresentazione» (ivi, p. 184, in nota 22). Ciò – osserva ancora l’A. - «è proprio fondamentalmente conseguenza del fatto che non può essere imposto alle parti alcun vincolo, che suoni come 15 sussistenza con il richiamo al più generale dovere di correttezza o buona fede processuale e quindi ne esplicitano la consistenza non in un teorico ed aleatorio dovere di verità «materiale», ma in un più pragmatico divieto di non mentire consapevolmente o scientemente in giudizio, salva l’eventualità di un mendacio bilaterale che tuttavia viene ammesso in piena aderenza sia al principio dispositivo sia al valore di prova legale attribuito alla confessione (72). Successivamente, tuttavia, il quadro di riferimento cambierà e prevarrà l’orientamento esattamente opposto. Le considerazioni che vengono addotte a sostegno dell’idea che un dovere di verità non ricorra nel nostro processo civile sono diversificate: dalla contrarietà di fondo ad un simile dovere giuridico, nella convinzione che esso «non potrebbe essere affermato senza distruggere il diritto di difesa» (73), all’interpretazione letterale del dettato dell’art. 88 c.p.c. (74), e ciò proprio valorizzando la modifica intercorsa nel passaggio dal progetto preliminare Solmi a quello definitivo ( 75) e la ristabilita «umanità» del processo civile (76). Si afferma la convinzione, così, che la probità vada tenuta ben distinta dalla veridicità, in quanto essa si caratterizzerebbe «per l’obbligo di non sostenere tesi di cui, per la loro manifesta infondatezza, non è ammissibile che il litigante sia limitazione della propria libertà di autodeterminazione, sul terreno sostanziale» (ivi, p. 185). 71 ) M.T. Zanzucchi, Diritto processuale civile, I, Milano, 1955, p. 369 s. 72 ) G. Calogero, op. cit., p. 140 ss. 73 ) P. Calamandrei, Il processo come giuoco, cit., p. 34; ID., Istituzioni di diritto processuale civile secondo il nuovo codice, I, 2a ed., Padova, 1943, p. 219. 74 ) Significativamente S. Satta, Commentario del c.p.c., I, Milano, 1959, p. 290 s., rileva che un «dovere di verità» per le parti non esiste nel nostro ordinamento ed è «frutto di illusione»; né potrebbe esistere, «poiché il processo non è altro che una lotta regolata dal diritto, nella quale ciascuno dei litiganti persegue il suo fine (e deve perseguirlo, se vuole essere fedele a sé stesso»; Id., Diritto processuale civile, cit., p. 63: «non è possibile snaturare [il concetto di parte] imponendo alla parte medesima dei doveri incompatibili con l’interesse privato che essa persegue, quindi il dovere di dire la verità, di cooperare alla effettiva realizzazione della giustizia, e in ultima analisi di fare qualcosa contro il suo interesse». 75 ) V., nel senso che un «dovere di verità» per le parti non ricorra nel nostro sistema processuale proprio in considerazione di ciò che è accaduto nel corso dei lavori preparatori, già N. Jaeger, Diritto processuale civile, 2a ed., Torino, 1944, p. 343; C. Calvosa, Riflessioni sulla frode alla legge nel processo, in Riv. dir. proc., 1949, I, p. 95 ss.; poi anche E.T. Liebman, Corso di diritto processuale civile. Nozioni introduttive – Parte generale – Il processo di cognizione, Milano, 1952, p. 86 s.; ID., Manuale di diritto processuale civile, 4a ed., I, Milano, 1981, p. 106 s.; ID., Manuale di diritto processuale civile. Principi, 8a ed., a cura di V. Colesanti ed E. Merlin, Milano, 2012, p. 117 ss.; V. Andrioli, Commento al c.p.c., 2a ed., I, Napoli, 1954, p. 226 e 3a ed., I, Napoli, 1961, p. 244; G. De Stefano, In tema di comportamento processuale della parte, in Giur. it., 1955, I, 2, c. 362. 76 ) E. Redenti, L’umanità nel nuovo processo civile, in Riv. dir. proc. civ., 1941, I, p. 25 ss., spec. p. 30 ss.; tuttavia, come rileva E. Grasso, op. cit., p. 600, in nota 42 - lo stesso Redenti in precedenza aveva auspicato che non costituisse soltanto una «proclamazione di principio» il dovere delle parti di dire la verità e di sostenere se non le tesi delle quali siano intimamente convinte (E. Redenti., Sul nuovo progetto del codice di procedura civile, Discorso pronunciato nell’Adunanza generale della Società per il progresso delle scienze (Napoli, 16 ottobre 1934), in Foro it., 1934, IV, c. 177 ss., spec. c. 179); dello stesso Grasso v. anche Metodo giuridico e scienza del processo nel pensiero di Enrico Redenti, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1985, p. 24 ss., spec. p. 47 s. Peraltro, sull’influenza che il Progetto Redenti ebbe, attraverso il Guardasigilli De Francisci, sull’elaborazione del Progetto preliminare Solmi, v. F. Cipriani, Alla scoperta di Enrico Redenti (e alle radici del codice di procedura civile), in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2006, p. 75 ss., e in Scritti in onore dei Patres, Milano, 2006, p. 325 ss., spec. p. 349 ss., da cui si cita, il quale ci ricorda anche che Redenti fece parte del Comitato che provvide a redigere il Progetto preliminare Solmi, pur rilevando che «lo stile e le idee del progetto preliminare sono nettamente diversi da quelli del progetto Redenti» ed escludendo, di conseguenza, che a questi «possa essere attribuita la paternità scientifica di quel progetto» (ivi, p. 362)). Va anche ricordato che lo stesso Redenti faceva parte della «Commissione reale per il dopo guerra», presieduta da Chiovenda, il cui progetto di riforma del processo civile prevedeva, come abbiamo già visto (retro, alla nota 52), l’introduzione di un dovere di non mentire scientemente. In proposito v. anche F. Cipriani, Alla scoperta di Enrico Redenti, cit., p. 335; v. anche Id., Storie di processualisti, cit., p. 196 ss.). 16 convinto» (77) o «per una macchinazione … posta in essere da una parte per indurre l’altra ad una difesa più lunga e difficoltosa» (78), mentre la seconda presupporrebbe un sistema processuale inquisitorio e finalizzato alla ricerca della verità «materiale» ( 79). Allo stato attuale, dunque, sebbene non manchino opinioni favorevoli ad ammettere la sussistenza del dovere in esame anche nel nostro ordinamento (80), può dirsi senz’altro prevalente la tesi contraria a riconoscergli valenza generale (81), ammettendone l’applicazione solo in alcune limitatissime ipotesi (82). A non dissimili conclusioni, peraltro, è pervenuta anche la giurisprudenza, sulla base della considerazione che un preteso dovere di verità e completezza per le parti potrebbe nuocere alla parte e finire per avvantaggiare l’avversario (83), sebbene siano sempre più frequenti, soprattutto negli ultimi tempi, le 77 ) Così F.G. Lipari, op. cit., p. 4 ss. 78 ) Così E. Fazzalari, Istituzioni di diritto processuale, 8a ed., Padova, 1996, p. 359, che, infatti, esclude espressamente il mendacio dall’ambito di applicazione dell’art. 88. 79 ) P. Calamandrei, Il processo come giuoco, cit., p. 34, che ribadisce quanto già sostenuto nel Parere sull’art. 26 del Progetto preliminare Solmi (v. retro, § 7); v. anche E. Redenti, L’umanità, cit., p. 30, il quale esclude la sussistenza del dovere di verità in quanto il processo non si fonda su una «verità storica unitaria», ma solo su una verità per ciascuna parte; C. Furno, op. cit., p. 48; A. Attardi, La revocazione, Padova, 1959, p. 140 ss.; Id., Diritto processuale civile, I, Parte generale, Padova, 1994, p. 370; C. Mandrioli, Dei doveri delle parti e dei difensori, in Comm. c.p.c., diretto da E. Allorio, I, tomo 2, Torino, 1973, p. 959 ss.; Id., Diritto processuale civile, cit., I, p. 418, in nota 3; F. Carpi, Il dovere di collaborazione delle parti nel processo del lavoro, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1974, p. 544 s.; G. Messuti, Silenzio della parte e dolo revocatorio, in Riv. dir. proc., 1984, p. 621 ss., testo e nota 22; S. La China, Diritto processuale civile, I, Milano, 1991, p. 457; F. Tommaseo, op. cit., p. 147 s.; E. Resta, La verità e il processo, in Pol. dir., 2004, p. 407 ss.; G. Scarselli, op. cit., p. 109 ss.; Id., La condanna con riserva, Milano, 1989, p. 426 ss.; Id., Ordinamento giudiziario e forense, 3a ed., Milano, 2010, p. 445 ss.; Id., Sul c.d. abuso del processo, in L’abuso del processo (Atti del XXVIII Convegno nazionale), cit., p. 177 ss. 80 ) L.P. Comoglio, Regole deontologiche, cit., p. 132, il quale ritiene che il «dovere di verità» vada inteso «quale espressione particolare dei generali principi di lealtà, di probità, di sincerità e di buona fede processuale»; Id., Le prove civili, cit., p. 24, testo e note 77, 78 e 79; Id., Sub art. 88, in Commentario del codice di procedura civile, a cura di L.P. Comoglio, C. Consolo, B. Sassani, R. Vaccarella, I, Torino, 2012, p. 1125 ss.; di dovere della parte di non mentire parla anche F. Cordopatri, Note a margine di un libro recente e di un recente disegno di legge, in Riv. dir. proc., 1998, p. 1335 ss., spec. p. 1340 ss.; ancora più decisa la posizione di M. Gradi, Contributo, cit., p. 226 ss., il quale perviene alla conclusione che l’obbligo di verità e completezza» delle parti abbia fondamento costituzionale nel nostro ordinamento, alla luce degli artt. 24, 1° e 2° comma, e 111, 1° e 2° comma, Cost.; poi anche Id., Il divieto di menzogna e di reticenza delle parti nel processo civile, in Dir. & Formazione, 2009, p. 793 ss.; Id., Sincerità dei litiganti ed etica della narrazione nel processo civile, in Lo Sguardo, Rivista di Filosofia, n. 8, 2012, I, p. 95 ss., spec. p. 97 ss., dove l’A. arriva ad ipotizzare, sempre sulla base della rilevanza costituzionale del «dovere di verità e completezza», che devono «ritenersi vietate non soltanto le consapevoli bugie ed omissioni, ma anche le affermazioni contro la propria migliore conoscenza (wider besseres Wissen)». Per la stretta connessione fra «dovere di verità» e «giusto processo» v., in precedenza, C. Marchetti, op. cit., p. 429; L.P. Comoglio, Il «giusto processo» nella dimensione comparatistica, in Id., Etica e tecnica, cit., p. 276; Id., Sub art. 88, cit., p. 1122 ss.; v. anche W. Bernhardt, Die Aufklärung, cit., p. 24. 81 ) V., in maniera riepilogativa, G. Della Pietra, Sub art. 88, in Codice di procedura civile commentato, a cura di R. Vaccarella e G. Verde, I, Torino, 1997, p. 686; P. Ruggieri, Giudizio di verità, giudizio di probabilità e lealtà nel processo civile, in Dir. & Formazione, 2004, p. 287 ss.; E. Zucconi Galli Fonseca, Sub art. 88, in Comm. Breve al c.p.c., 5a ed., a cura di F. Carpi e M. Taruffo, Padova, 2006, p. 253; G. Romualdi, Dall’abuso del processo all’abuso del sistema giustizia, Torino, 2013, p. 37 s. e M. Lupano, Responsabilità per le spese e condotta delle parti, Torino, 2013, p. 155 s. 82 ) In questo senso G. Scarselli, Lealtà e probità, cit., p. 109 ss.; Id., Ordinamento, cit., p. 445 ss., il quale – sebbene neghi l’esistenza nel nostro sistema processuale di un dovere di verità per le parti e i loro difensori – configura tre eccezioni a tale regola: a) quando il provvedimento del giudice dipende soltanto dalla dichiarazione della parte (ad es., nel caso dell’art. 300, 2° comma, c.p.c.); b) quando la parte chieda l’emanazione di un provvedimento inaudita altera parte (ad es., nel caso del procedimento ingiuntivo); c) quando la violazione del dovere di verità potrebbe configurare un’ipotesi di dolo revocatorio ai sensi dell’art. 395 n. 1 c.p.c.; invece F. Tommaseo, op. cit., p. 147, il quale richiama gli artt. 233 ss. sul giuramento decisorio, gli artt. 220 cpv. e 226 per la proposizione senza fondamento di querela di falso o 17 «aperture» alla possibilità di valutare il comportamento della parte consapevolmente mendace o reticente ai fini della condanna per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. (84). 9. – Quale dovere di verità e completezza? Un necessario chiarimento. Ora, riflettendo sulle contrapposte posizioni dei due orientamenti che si contendono il campo si ha la netta sensazione che spesso, nel ragionare intorno al tema che ci occupa, si assumono nozioni del dovere di verità e completezza non solo pienamente non coincidenti fra loro, ma esattamente contrapposte. Nella maggior parte dei casi, infatti, quanti arrivano a negare l’esistenza del dovere in questione nel nostro ordinamento processuale assumono una ricostruzione di tale dovere e della sua estensione che coincide esattamente con un obbligo di «verità materiale» della parte, e – così ragionando – ne evidenziano il suo carattere «disumano» (per richiamare le parole di Redenti), il suo contrasto con il principio dispositivo e l’impraticabilità non solo nel nostro sistema processuale, ma direi in qualsiasi sistema processuale fondato sul principio dispositivo e sull’onere soggettivo della prova, perché finirebbe per obbligare la parte ad allegare in giudizio anche fatti a sé sfavorevoli. Viceversa, quanti propendono per la tesi opposta, fanno riferimento ad un dovere che si fonda sulla sola «verità soggettiva» della parte, da declinare «in negativo», come «divieto di menzogna» o di «mendacio», e comunque senza arrivare ad ammettere che, per assolverlo, la parte sia tenuta ad allegare in giudizio soltanto fatti già verificati come veritieri e anche fatti a sé sfavorevoli. E’ evidente, dunque, che, nell’ambito dei due orientamenti che si sono delineati e che dominano il dibattito sul tema, vengono utilizzate due nozioni del dovere in questione completamente diverse: nell’un caso, si assume un dovere di verità e completezza notevolmente ampio e generale, di natura oggettiva o sostanziale (85); nell’altro caso, un dovere più circoscritto, di natura soggettiva o processuale (86). «L’antidoto – come suggerisce il filosofo – è la precisa formulazione dell’oggetto della controversia» (87). E dunque, al fine di sgombrare il campo da possibili equivoci conviene prendere le mosse dalle conclusioni alle quali è pervenuta la riflessione dottrinale nei sistemi processuali, come quello austriaco e tedesco, nei quali non solo la sua sussistenza è inequivocabilmente ammessa, ma esso ha ricevuto maggiore attenzione ed approfondimento. disconoscimento di scrittura privata poi risultata genuina e l’art. 54, 3° comma, per l’istanza di ricusazione respinta. 83 ) Così Cass., 21 giugno 1971, n. 1931, in Rep. Foro it., 1971, voce Avvocato, n. 7, per la quale «l’art. 88 c.p.c., se fa obbligo alle parti e ai procuratori di comportarsi nel giudizio con lealtà e probità, non stabilisce che la parte abbia il dovere di affermare i fatti secondo verità, e tanto meno impone alla medesima di produrre spontaneamente i documenti che possono giovare all’assunto dell’avversario»; in precedenza anche Cass., 28 agosto 1952, n. 2788, in Rep. Foro it., 1952, voce Procedimento in materia civile, n. 108; in senso analogo anche App. Milano, 15 gennaio 1988, in Foro padano, 1988, I, c. 411 ss. In termini generali, circa l’insussistenza dell’obbligo per la parte di produrre spontaneamente in giudizio documenti che possano giovare alla controparte v. Cass., 19 novembre 1994, n. 9839, in Rep. Foro it., 1994, voce Procedimento civile, n. 82; Cass., 18 novembre 1994, n. 9797, ibidem, voce cit., n. 83; Cass., 19 luglio 1962, n. 1933, ivi, 1962, voce cit., n. 111. Circa, poi, il problema della rilevanza del mendacio o della reticenza della parte ai fini della configurazione del c.d. dolo revocatorio v. oltre, alla nota 198. 84 ) Per i riferimenti v., infra, la nota 205. 85 ) E’ quel che A. Schopenhauer, L’arte di ottenere ragione esposta in 38 stratagemmi, Berlin, 1831, trad. it. A cura di N. Curcio e F. Volpi, Milano, 1991, p. 29, definisce come «stratagemma n. 1»: «Il primo stratagemma è l’ampliamento, ovvero portare l’affermazione dell’avversario al di fuori dei suoi limiti naturali, interpretarla nella maniera più generale possibile, prenderla nel senso più ampio possibile ed esagerarla». 86 ) A. Carratta, Intervento, in L’abuso del processo (Atti del XXVIII Convegno nazionale) cit., p. 242. 87 ) A. Schopenhauer, op. cit., p. 29. 18 10. – Il dovere di verità e completezza nella riflessione della dottrina tedesca e austriaca: un «correttivo» al possibile abuso del potere allegativo delle parti. Proprio rivolgendo l’attenzione al dibattito sul tema della dottrina tedesca e austriaca, anzitutto, ci si rende agevolmente conto che, sebbene il dovere in questione venga scisso nelle due componenti della «verità» e della «completezza», al fine di determinarne i limiti di applicabilità, dal punto di vista funzionale, sempre si sottolinea il suo stretto collegamento con la finalità di ovviare al problema dell’abusivo esercizio del potere allegativo della parte ( 88). In esso si vede, cioè, non altro che un correttivo al potere monopolistico delle parti di allegazione dei fatti di causa (Beibringugsgrundsatz), uno strumento per impedire alle parti di abusarne (89). Che il potere di allegazione dei fatti in giudizio spetti esclusivamente alle parti – si rileva - sta solo a significare che spetta ad esse selezionare quali fatti introdurre in giudizio, ma non anche che possono utilizzarlo per trarre in inganno la controparte e in questo modo alterare la formazione del convincimento giudiziale e gli esiti del giudizio. Così operando, infatti, esse pongono in essere un abuso del potere di allegazione ed è quel che il legislatore vuole prevenire attraverso la previsione del dovere di verità e completezza. A conferma di ciò sta la circostanza che – come abbiamo visto - tanto Franz Klein, nel sollecitarne l’introduzione nella Z.P.O. austriaca del 1895 (90), quanto il legislatore tedesco del 1933 intravedono nella codificazione di un simile dovere solo uno strumento per ) Così B. Wiezcorek-R.A. Schütze-U. Gerken, Zivilprozessordnung und Nebengestze, Band III, 4.Aufl., Berlin-Boston, 2013, § 138, Rdn. 7, p. 93; anche J. Costede, Scheinprozesse, in Z.Z.P., 82 (1969), p. 438 ss., spec. 443, vede nel Wahrheitspflicht un ostacolo allo «Scheinprozess»; dello stesso A. v. anche Scheinprozesse, Diss. Göttingen, 1968. Lo stretto collegamento fra Wahrheitspflicht e la necessità che la parte, nell’esercitare il potere di allegazione, tragga in inganno la controparte e il giudice e quindi che esso sia espressione della buona fede processuale (« Treu und Glauben im Zivilprozess») è costantemente evidenziato dalla dottrina tedesca: v., per tutti, P. Hartmann, in A. Baumbach-W. Lauterbach-J. Albers-P. Hartmann, Zivilprozessordnung, 71.Aufl., München, 2013, § 138, Rdn. 2, p. 690 ss.; W. ZeissK. Schreiber, Zivilprozessrecht, 11.Aufl., Tübingen, 2009, Rdn. 202, p. 81; W. Fleck, op. cit., p. 32 ss. e p. 106 ss. C. Abeling, Wahrheitspflicht im Zivilprozess. Seminararbeit, Grin Verlag, Nordestedt, 2006, p. 5 s. Nel senso che il § 138, 1° comma, della Z.P.O. tedesca contenga sostanzialmente un divieto di «menzogna intenzionale» (die bewußte Lüge) anche E. Peters, in Münchener Kommentar Z.P.O., cit., § 138, Rdn. 2; K. Reichold, in H. Thomas-H. Putzo, Zivilprozessordnung, 26.Aufl., München, 2004, § 138, Rdn. 3; R. Zöller-R. Greger, Zivilprozessordnung, 29.Aufl., Köln, 2012, § 138, Rdn. 2; J. Blomeyer, Schadensersatzansprüche des im Prozess Unterlegenen wegen Fehlverhaltens Dritter, Köln, 1972, p. 46; R. Künzl, Dispositionsmöglichkeiten der Parteien im Zivilprozess, Erlangen-Nürnberg, 1986, p. 166 e p. 178; J. Lang, Die Aufklärungspflicht der Parteien des Zivilprozesses vor dem Hintergrund der europäischen Rechtsvereinheitlichung: eine vergleichende Betrachtung des deutschen, englischen und französischen Zivilprozessrechts sowie des “Storme-Entwurfs”, Berlin, 1999, p. 45; E. Wildermuth, op. cit., p. 20; E. Schneider, Prozessuale Folgen wahrheitswidrigen Vorbringens?, in DRiZ, 1963, p. 342 s.; K. Heß, Wahrheits- und Aufklärungspflicht im Zivil- und Arbeitsgerichtsprozess, Saarbrücken, 2006, p. 9 s.; anche L. Rosenberg-K.H. SchwabP. Gottwald, Zivilprozessrecht, 16.Aufl., München, 2004, § 65 VIII 4, p. 415 ss., parlano di un «prozessualen Arglistverbot»; in senso sostanzialmente analogo W. Zeiss, op. cit., p. 48 s.; F. von Hippel, Wahrheitspflicht und Aufklärungspflicht, cit., p. 74. 88 89 ) Nel senso che il Wahrheitspflicht rappresenti «ein Korrektiv zum Beibringungsgrundsatz» v. G. Zettel, Der Beibringungsgrundsatz: seine Struktur und Geltung im deutsche Zivilprozessrecht, Berlin, 1977, p. 116 ss.; B. Wiezcorek-R. Schütze-U. Gerken, op. cit., § 138, Rdn. 7, p. 93; v. anche G. Wagner, Prozessverträge. Privatautonomie im Verfahrensrecht, Tübingen, 1998, p. 626; T.A. Heiß, Anerkenntnis und Anerkenntnisurteil im Zivilprozess, Tübingen, 2012, p. 168; per l’affermazione che l’allegazione di fatti consapevolmente non veri costituisca un abuso dei poteri e delle facoltà delle parti v. anche D. Olzen, op. cit., p. 418. Non è mancato, tuttavia, chi ha visto nell’introduzione del Wahrheitspflicht una limitazione al pieno esplicarsi della Verhandlungsmaxime (P. Arens, Zur Aufklärungspflicht der nicht beweisbelasteten Partei im Zivilprozess, in Z.Z.P. 96 (1983), p. 1 ss., spec. p. 12; D. Leipold, in F. Stein-M. Jonas, op. cit., II, vorb. § 128, Rdn. 75a; E. Schilken, Zivilprozessrecht, 6.Aufl., Köln-BerlinBonn-München, 2010, Rdn. 360, p. 264 ss.; H.-L. Weyers, op. cit., p. 196; per P. Roth, Die Wahrheitspflicht der Parteien im Zivilprozess, Diss. Erlangen-Nürnberg, 1991, p. 80 s. 90 ) Per le indicazioni v., retro, alla nota 27. 19 prevenire la menzogna e la frode processuale e per favorire la condotta corretta delle parti e non uno strumento per conseguire la «verità materiale» in sede processuale (91). 11. – Il «dovere di verità» (Wahrheitspflicht) come «dovere di veridictà» (Wahrhaftigkeitspflicht) o «dovere di verità soggettiva». Se dunque la funzione del dovere in questione è quella di combattere l’abuso del potere allegativo della parte e non di favorire l’accertamento della «verità materiale», è indubbio che esso debba essere assimilato ad un semplice «dovere di verità soggettiva» (subjektive Wahrheitspflicht) o meglio – per utilizzare la formula comunemente richiamata – ad un «dovere di veridicità» (Wahrhaftigkeitspflicht) (92). Ciò di cui discorre la dottrina tedesca e austriaca, quando riflette intorno al «dovere di verità», è appunto il dovere di esercitare il potere allegativo in base alle conoscenze di cui la parte dispone o di cui dovrebbe ragionevolmente disporre. Affinché si possa ritenere assolto il «dovere di verità», dunque, non è necessario che la parte alleghi a fondamento della propria domanda o eccezione solo fatti della cui verità ha certezza, ma è sufficiente che li ritenga meramente probabili o possibili (93). Dal punto di vista pratico, ciò sta a significare che la parte non può allegare in giudizio fatti che sa o avrebbe potuto sapere essere falsi (wider besseres 91 ) Ed in effetti, di «Instrument gegen die Prozesslüge», finalizzato a favorire «eine redliche Prozessführung», parla anche il Präambel alla Novella del 1933 (in RGBl., I, p. 780). 92 ) V., in questo senso, per la dottrina tedesca, già L. Rosenberg, Das neue Zivilprozessrecht nach dem Gesetz von 27. Oktober 1933 (RGBl. I 780), in Z.Z.P., 58 (1934), p. 283, spec. p. 286 ss., che parla del Wahrheitspflicht come «Pflicht zur subjektiven Wahrhaftigkeit»; F. Lent, Die Wahrheits- und Vollständigkeitspflicht im Zivilprozess, in Zeit. Der Akademie für deut. Recht, 1938, p. 196 ss., spec. p. 198 (ma per una soluzione più rigida Id., Wahrheitspflicht der Partei im Zivilprozess, in Juristische Wochenschrift, 1933, p. 2674 ss., spec. p. 2675); H. Welzel, Die Wahrheitspflicht im Zivilprozess, Berlin, 1935, p. 7 s., p. 10 e p. 15; E. Wildermuth, op. cit., p. 17; W. Bernhardt, Wahrheitspflicht, cit., p. 247; Id., Die Aufklärung, cit., p. 25 ss.; successivamente anche A. Nikisch, Zivilprozessrecht, 2.Aufl., Tübingen, 1952, § 53 IV 2, p. 205 s.; A. Schönke-K. Kuchinke, Zivilprozessrecht, 9.Aufl., Karlsruhe, 1969, § 4 II, p. 9; F. Lent-O. Jauernig, op. cit., § 26, p. 73 ss.; W. Grunsky, Grundlagen das Verfahrensrechts, Bielefeld, 1970, p. 155 e 2.Aufl., Bielefeld, 1974, p. 184; G. Zettel, op. cit., p. 117; R. Bruns, Zivilprozessrecht, 2.Aufl., München, 1979, Rdn. 85a, p. 101 ss.; R. Stürner, Die Aufklärungspflicht, cit., p. 10 s.; W. Brehm, op. cit., p. 159; P. Arens, Zivilprozessrecht, 3.Aufl. München, 1984, p. 14 ss.; P. Arens-W. Lüke, Zivilprozessrecht, 10.Aufl., München, 2011, p. 18 ss.; E. Schmidt, Parteiund Amtsmaxime im Zivilprozess, in DRiZ, 1988, p. 59 s.; P. Hartmann, op. cit., § 138, Rdn. 2 e 15, p. 690 ss.; E. Peters, in Münchener Kommentar zur Z.P.O., 2.Aufl., I, München, 2000, § 138, Rdn. 2; D. Leipold, in F. Stein-M. Jonas, op. cit., II, § 138, Rdn. 2, p. 705 ss.; R. Zöller-R. Greger, op. cit., § 138, Rdn. 2; E. Schilken, op. cit., Rdn. 155, p. 78 ss.; K. Prange, op. cit., p. 27; L. Rosenberg-K.H. Schwab-P. Gottwald, op. cit., § 65 VIII 4, p. 416 s.; P. Roth, op. cit., p. 14; B. Wiezcorek-R. Schütze-U. Gerken, op. cit., § 138, Rdn. 3, p. 93; K. Heß, op. cit., p. 10; F. Lent-O. Jauernig, Zivilprozessrecht, 28.Aufl., München, 2003, p. 100; H.J. Musielak-A. Stadler, Kommentar zur Z.P.O., 5.Aufl., München, 2007, § 138, Rdn. 2, p. 613 ss. In giurisprudenza v. BGH, in VersR 1985, p. 543 ss., spec. p. 545; BGH, in NJW 1985, p. 1841 ss.; BGH, in WM 1984, p. 700 s. Anche per la dottrina austriaca il Waharheitspflicht del § 178 Z.P.O. va visto come un «Pflicht zur subjektiven ‘Wahrhaftigkeit’»: v., in proposito, già J. Trutter, Das österreichische Civilprozessrecht in systematischer Darstellung, Wien, 1897, p. 61; v. anche F. Bydlinski, Schadenersatz wegen materiell rechtswidriger Verfahrenshandlungen, in JBl, 1986, p. 26 ss.; H.W. Fasching, Lehrbuch des österreichischen Zivilprozessrechts, 2.Aufl., Wien, 1990, Rz. 652 ss.; W. H. Rechberger-D. A. Simiotta, Grundriss des österreichischen Zivilprozessrechts, 4.Aufl., Wien, 1994, p. 145 ss.; M. Streiter, Die Wahrheitspflicht der Parteien im Zivilprozess, Diss. Innsbruck, 2001, p. 100 ss.; W. Schragel, in W. Fasching-H. Konecny, Kommentar zu den Zivilprozessgesetzen, II, 2, Wien, 2003, § 178 Rz. 3; R. Holzhammer, in W. Buchegger-A. Deixlerl-Hübner-R. Holzhammer, Praktisches Zivilprozessrecht, 6.Aufl., I, Wien-New York, 1998, p. 106; Id., Österreichisches Zivilprozessrecht, cit., p. 153; R. Fucik, in W.H. Rechberger (a cura di), Kommentar zur ZPO, 3.Aufl., Wien-New York, 2006, § 178, Rz. 1; U. Schumacher, Rechtsanwalt und Wahrheitspflicht im Zivilprozess, in Ősterreichisches Anwaltsblatt, 2009, p. 429 ss. 93 ) Conclusione pacifica: v., per tutti, W. Grunsky, op. cit., 2.Aufl., p. 184; E. Peters, Ausforschungbeweis, cit., p. 67 ss.; Id., in Münchener Kommentar, cit., § 138, Rdn. 2; W. Brehm, op. cit., p. 159 s.; F. Lent-O. Jauernig, op. cit., p. 100; C. Abeling, op. cit., p. 8.; L. Rosenberg-K.H. Schwab-P. Gottwald, op. cit., § 65 VIII 4, p. 416 s.; in giurisprudenza BGH, in NJW, 1996, p. 1826; BGH, ivi, 1995, p. 1160; BGH, ivi, 1988, p. 60. 20 Wissen), quindi fatti «consapevolmente non veri» (per richiamare le parole di Chiovenda) ( 94). D’altro canto, proprio il riferimento alla valutazione di mera probabilità o possibilità dei fatti, nel momento in cui vengano allegati, giustifica anche la convinzione che il dovere di verità non possa ritenersi adempiuto laddove la parte effettui allegazioni «campate in aria» o «a casaccio» («ins Blaue hinein»), fuori, cioè, da qualsiasi plausibile ricostruzione fattuale (95). Non solo. Negli stessi termini il dovere in questione rileva quando la parte sia chiamata ad esercitare l’«onere di prendere posizione» (Erklärungslast) sui fatti ex adverso allegati: anche in questo caso, affinché il comportamento della parte possa ritenersi conforme al Wahrheitspflicht è necessario che essa non contesti fatti che sa essere veri, né che dichiari di non conoscere fatti alla cui realizzazione ha partecipato o che siano stati oggetto della sua percezione (96). A ben altri risultati – è evidente – si arriverebbe, ove si ammettesse, invece, l’esistenza di un vero e proprio dovere di verità «materiale», ovvero un obbligo per la parte di allegare in giudizio, in maniera completa ed esaustiva, solo fatti la cui verità sia per lei certa. Lungo questa strada, infatti, si giungerebbe alla massima negazione dell’autonomia della parte ( 97) e a riconoscere il più ampio 94 ) V., in particolare, W. Zeiss-K. Schreiber, op. cit., Rdn. 202, p. 81, per i quali «die Wahrheitspflicht bedeutet, dass die Parteien nicht bewusst die Unwahrheit sagen dürfen: die Prozesslüge ist verboten, also jedes Behaupten und Bestreiten wider besseres Wissen. Man kann demnach, ohne mit der Wahrheitspflicht in Konflikt zu kommen, auch Behauptungen aufstellen, von deren Wahrheit man nicht vollständig überzeugt ist» (evidenziazione nel testo). Anche la Suprema Corte tedesca ha posto la distinzione fra violazione del Wahrheitspflicht e adempimento dello stesso dovere in modo molto chiaro, evidenziando che un’allegazione fattuale è contraria al Wahrheitspflicht sia quando risulti così imprecisa da non poter essere valutata dal giudice, sia quando riferisca un fatto non rispondente alla realtà (« ein tatsächliches Vorbringen ist nur dann nicht beachtlich und beweisbedürftig, wenn die unter Beweis gestellte Tatsache so ungenau bezeichnet ist, dass ihre Erheblichkeit nicht beurteilt werden kann, oder wenn sie zwar in das Gewand einer bestimmt aufgestellten Behauptung gekleidet ist, diese aber auf das Geratewohl gemacht, gleichsam „ins Blaue hinein“ aufgestellt, also aus der Luft gegriffen ist und sich deshalb als Rechtsmissbrauch darstellt»: così BGH in NJW 1996, p. 1826 ss.; ma v. anche, in senso analogo, BGH, in NJW 1968, p. 1233 ss; BGH ivi 1995, p. 2111 ss.; BGH in NJW-RR 1991, p. 888 ss., spec. p. 891; per altre indicazioni v. W. Brehm, op. cit., p. 157 ss. 95 ) V., per tutti, D. Leipold, in in F. Stein-M. Jonas, op. cit., § 138, Rdn. 4, p. 221; L. Rosenberg-K.H. Schwab-P. Gottwald, op. cit., § 65 VIII 4, p. 417; W. Zeiss-K. Schreiber, op. cit., Rdn. 202, p. 81; C. Abeling, op. cit., p. 9;; in giurisprudenza BGH, in NJW, 1995, p. 1160; BGH, ibidem, p. 2111 s.; BGH, ivi, 1996, p. 394; BGH, in NJW, 1996, p. 1827; BGH, in NJW-RR, 2002, p. 1435; BGH, in NJW-RR, 2002, p. 1420; BGH, ivi, 2004, p. 2096 s. Per altri esempi v. anche G.M. Beckhaus, Die Bewältigung von Informationsdefiziten bei der Sachverhaltsaufklärung, Tübingen, 2010, p. 80 ss. Per la dottrina austriaca, in termini identici, T. Klicka, Aufklärungspflichten der Parteien im österreichischen Zivilprozessrecht, in JBl, 1992, p. 231 ss., spec. p. 233; M. Streiter, op. cit., p. 100 ss.; W. Schragel, in W. Fasching-H. Konecny, op. cit., § 178 Rz. 3. 96 ) Rinvio, in proposito, anche per i riferimenti, ad A. Carratta, Il principio, cit., p. 211 ss. Va anche aggiunto che, secondo una parte della dottrina, connesso all’onere di «prendere posizione» sui fatti ex adverso allegati, sarebbe da ammettersi anche un accessorio Informationlast a carico della parte che ha l’onere di «prendere posizione», ovvero l’onere di acquisire tutte le informazioni che potrebbe acquisire utilizzando l’ordinaria diligenza; e questo si ricaverebbe implicitamente dalla previsione del § 138 IV circa appunto i limiti della «dichiarazione di non conoscere» i fatti allegati (v., per tutti, H.D. Lange, Bestreiten mit Nichtwissen, in NJW, 1991, p. 3233 ss.; W. Hackenberg, Die Erklärung mit Nichtwissen (§ 138 IV ZPO). Zugleich eine kritische Analyse der Lehre der «allgemeinen Aufklärungspflicht», Berlin, 1995, p. 102 ss.). 97 ) Come avvenne, appunto, nell’ambito del processo inquisitorio medievale, in cui era imposto l’obbligo di verità (materiale) della parte, per il cui adempimento si giungeva fino alla tortura: v. G. Messina, op. cit., p. 15 in nota 23; A. Philipsborn, op. cit., p. 194; P. Calamandrei, I processi delle streghe, in Riv. dir. proc., 1940, I, p. 54; Id., Il processo come giuoco, cit., p. 46; G. De Luca, La tortura nei rapporti tra processo e pena, in Riv. dir. proc., 1949, I, p. 320 ss., spec. p. 326; G. Montalbano, La confessione nel diritto vigente, Napoli, 1958, p. 9 ss.; in tempi più recenti P. Marchetti, Testis contra se. L’imputato come fonte di prova nel processo penale dell’età moderna, Milano, 1994, p. 63 ss. In questo senso appare pienamente condivisibile l’affermazione di A. Wach (Vorträge, cit., p. 199), richiamata retro, alla nota 42, secondo cui il «dovere di verità» sarebbe in contrasto con il principio dispositivo in quanto l’accertamento delle verità «materiale» non è lo scopo del processo: così come l’idea di E. Redenti secondo cui il «dovere di verità» nel processo sia «inumano» (L’umanità, cit., p. 25 ss.). 21 potere inquisitorio del giudice (98): in questo caso «la parte sarebbe allo stesso tempo «un soggetto e un oggetto del processo» (99). Senza considerare che, siccome il rispetto di un dovere di tale estensione imporrebbe alle parti di allegare fatti che sono già accertati per veri prima di essere introdotti in giudizio, in giudizio vi sarebbe spazio solo per domande già in partenza fondate ( 100) o comunque soltanto per questioni di natura giuridica (101). 12. – Il «dovere di completezza» (Vollständigkeitspflicht) come corretta ricostruzione della fattispecie fattuale su cui si basa la domanda o l’eccezione di parte. Non dissimile l’approccio che la stessa dottrina segue quando si soffermi a delineare i limiti di applicabilità del «dovere di completezza» (Vollständigkeitspflicht). Anch’esso, infatti, viene visto come una conseguenza del divieto per le parti di mentire consapevolmente nel processo, un aspetto particolare – se si vuole - del «dovere di verità» che si concretizza nel riferire solo una parte dei fatti di cui si è a conoscenza (102). Ma anche in questo caso si relativizzano notevolmente le conseguenze che il suo rispetto comporta per l’esercizio del potere allegativo della parte. Anzitutto, per opinione comune si esclude che esso riguardi fatti la cui allegazione esporrebbe il dichiarante o ad una condotta disonorevole (Unehre) o al rischio di un’autoincriminazione penale (nemo tenetur se detegere). Si tratta di un’esclusione ovvia: il divieto di non mentire deliberatamente cede comunque il passo laddove la parte, per rispettarlo, fosse costretta a rivelare fatti per lei disonorevoli o penalmente rilevanti (103). 98 ) G. Messina, op. cit., p. 15; G. Calogero, op. cit., p. 141 e p. 144; P. Calamandrei, I processi delle streghe, cit., p. 54; P. Arens, Zur Aufklärungspflicht, cit., p. 12. 99 ) F. Carnelutti, Carattere del nuovo processo civile italiano, in Riv. dir. proc. civ., 1941, I, p. 40. 100 ) Per queste considerazioni che giustificano l’inutilizzabilità, in sede processuale, di un «dovere di verità» sostanziale o materiale v., in particolare, W. Henckel, op. cit., p. 298, il quale aggiunge anche che una tale concezione del «dovere di verità» comporterebbe inevitabilmente una riduzione della necessità di ricorrere alla tutela giurisdizionale; J. Blomeyer, op. cit., p. 41; K. Prange, Materiell-rechtliche Sanktionen bei Verletzung der prozessualen Wahrheitspflicht durch Zeugen und Parteien, Berlin, 1995, p. 27. 101 ) Ed infatti, nel senso che il Wahrheitspflicht non costituisca affatto uno strumento di attenuazione del dovere decisorio del giudice v. W. Henckel, op. cit., p. 146 e p. 298; sulla stessa lunghezza d’onda J. Blomeyer, op. cit., p. 41; K. Prange, op. cit., p. 27. Circa, poi, la limitazione del Wahrheitspflicht alle sole allegazioni fattuali, essa appare convinzione diffusa, corroborata dalla stessa formulazione letterale del § 138, comma 1°, Z.P.O. (v., per tutti, P. Hartmann, op. cit., Rdn. 13, p. 690 ss.; P. Roth, op. cit., p. 51; K. Heß, op. cit., p. 13; K. Prange, op. cit., p. 26) e dall’applicazione del principio iura novit curia (P. Hartmann, op. cit., § 138, Rdn. 14, p. 690 ss.; P. Roth, op. cit., p. 58). Tuttavia, nel senso che il dovere in questione attenga anche alle questioni giuridiche, soprattutto quando queste siano svolte da un avvocato, v. F. von Hippel, Wahrheitspflicht, cit., p. 124 ss.; L. Rosenberg-K.H. Schwab-P. Gottwald, op. cit., § 65 VIII 1, p. 415). 102 ) V., ancora, F. von Hippel, Wahrheitspflicht, cit., p. 394; più di recente L. Rosenberg--K.H. Schwab-P. Gottwald, op. cit., § 65 VIII 3, p. 415 ss., che ricollegano la violazione del Vollständigkeitspflicht alla mancata allegazione consapevole di alcuni fatti o particolari la cui omissione determina un’alterazione della realtà e osservano che « da aber das Gebot des Vollständigkeit nur ein Teil der Wahrheitspflicht ist, bezieht es sich nur auf Tatsachen, welche die Partei kennt» e richiamano, come esempio di violazione, la mancata allegazione dei fatti dai quali emerge l’inesistenza dello stato di bisogno in sede di presentazione di una domanda di alimenti; B. Wiezcorek-R. Schütze-U. Gerken, op. cit., § 138, Rdn. 12, p. 95; R. Zöller-R. Greger, op. cit., § 138, Rdn. 1, dove si parla delVollständigkeitspflicht come di «ein Unterfall der Wahrheitspflicht»; W. Zeiss-K. Schreiber, op. cit., Rdn. 203, p. 81: «Die Pflicht zu vollständigem Vortrag ist eine Ergänzung zum Verbot der Prozesslüge: Nicht nur, wer positiv die Unwahrheit sagt, sondern auch wer Wahres unterdrückt, verstöß gegen § 138 I». 103 ) In proposito v. già RG, 14 dicembre 1937, in RGZ 156, 1937, p. 265, spec. p. 269; OLG Kassel, 8 luglio 1937, in JW 1937, p. 2768, spec. p. 2769; in dottrina, E. Schneider, op. cit., p. 343; E. Schilken, op. cit., Rdn. 155, p. 78 ss.; A. Schönke-K. Kuchinke, op. cit., § 4 II, p. 10; W. Grunsky-F. Baur, Zivilprozessrecht, 11.Aufl. München, 2003, Rdn. 43, p. 31; P. Hartmann, op. cit., § 138, Rdn. 21, p. 690 ss.; D. Leipold, in F. Stein-M. Jonas, op. cit., II, § 138, Rdn. 9, p. 708 ss.; K. Reichold, in H. Thomas-H. Putzo, op. cit., § 138, Rdn. 7. 22 Ma anche al di fuori di queste ipotesi-limite, non si arriva mai a ritenere che la parte sia obbligata, al fine di conformare la sua condotta al dovere di completezza, ad allegare tutti i fatti di causa (a sé favorevoli o sfavorevoli) che sa essere rilevanti per la decisione (104). La parte sulla quale non grava l’onere probatorio soggettivo, cioè, non è affatto tenuta, in ottemperanza al dovere in questione, a riferire, spontaneamente o su sollecitazione della parte avversa, circostanze fattuali di cui è a conoscenza, ma per lei sfavorevoli e che potrebbero fondare un’eccezione sostanziale della controparte (o addirittura una sua domanda riconvenzionale). Ed infatti, sebbene taluno in dottrina abbia cercato di ricavare dal dovere di verità e completezza anche un obbligo di chiarificazione per la parte su tutti i possibili contenuti della vicenda fattuale (Aufklärungspflicht) (105), anche quelli a sé sfavorevoli, la dottrina (106) e la giurisprudenza (107) maggioritarie hanno con decisione riaffermato la posizione contraria. Attraverso il dovere di completezza, quindi, si vuole evitare che la ricostruzione della fattispecie storica dedotta in giudizio sia in qualche modo falsata dall’omissione di elementi essenziali e perciò si impone alla parte di non essere consapevolmente reticente o scorretta, omettendo fraudolentemente alcuni elementi o alcuni particolari che sa bene essere rilevanti nel contesto della domanda o dell’eccezione avanzata (108). Anche in questo caso, dunque, non si impone in positivo alla parte un dovere di «verità materiale» (109) e ci si muove sul piano della correttezza del comportamento della parte, senza che ci sia alcuna 104 ) Un argomento testuale a favore di questa conclusione si rinviene proprio nel § 178 della Z.P.O. austriaca, che espressamente ricollega il dovere di verità e completezza alle sole richieste avanzate dalla parte («Jede Partei hat in ihren Vorträgen alle im einzelnen Falle zur Begründung ihrer Anträge erforderlichen tatsächlichen Umstände der Wahrheit gemäß vollständig und bestimmt anzugeben …»). 105 ) V., in particolare, R. Stürner, Die Aufklärungspflicht, cit., pp. 29 ss., 152 ss., 234 ss. e p. 378 ss.; Id., Parteipflichten bei der Sachverhaltsaufklärung im Zivilprozess, in Z.Z.P., 98 (1985), p. 237 ss., spec. p. 245 ss.; H. Prütting, Gegenwartsprobleme der Beweislast. Eine Unteruchung moderner Beweislasttheorie und ihre Anwendung insbesondere im Arbeitsrecht, München, 1983, p. 33 ss. e p. 137 ss.; R. Bruns, op. cit., Rdn. 85a, p. 212 ss., per il quale l’Aufklärungspflicht sarebbe il «positive Ergänzung» del «dovere di verità e completezza»; nello stesso senso si esprime K. Satter, op. cit., p. 5. 106 ) V., in questo senso, già F. von Hippel, Wahrheitspflicht, cit., p. 282 ss., il quale avvertiva che spesso si confonde, ma a torto, il Wahrheitspflicht con l’Aufklärungspflicht; ma anche D. Leipold, in F. Stein-M. Jonas, op. cit., § 138, Rdn. 3 e 22, che il rispetto del «dovere di verità e completezza» non può stravolgere il Verhandlungsmaxime; P. Arens, Zur Aufklärungspflicht, cit., p. 16 ss. e p. 21 ss.; W. Henckel, nella recensione alla monografia di R. Stürner, in Z.Z.P., 92 (1979), p. 100 ss., spec. p. 104; P. Schlosser, Die lange deutsche Reise, cit., p. 607 ss.; H.J. Musielak-A. Stadler, Grundfragen des Beweisrechts, München, 1984, p. 98; W. Hackenberg, op. cit., p. 138 ss.; P. Roth, op. cit., p. 64 s.; P. Hartmann, op. cit., § 138, Rdn. 2 e 23; K. Reichold, in in H. Thomas-H. Putzo, op. cit., § 138, Rdn 12; J. Lang, op. cit., p. 55; E. Schilken, op. cit., Rdn. 155, p. 78 ss.; K. Heß, op. cit., p. 76 ss. 107 ) V., in particolare, BGH, in NJW 1990, p. 3151 ss. e in Z.Z.P., 104 (1991), p. 203 ss., con nota contraria di R. Stürner, che smentisce la possibilità di ricavare dal Wahrheitspflicht anche un dovere per la parte non onerata dall’onere probatorio di dichiarare con tempestività e completezza qualsiasi elemento della fattispecie fattuale a sua conoscenza; nello stesso senso BGH, in Z.Z.P., 104 (1991), p. 203; BAG, in NJW, 2004, p. 2848 ss., spec. p. 2851. 108 ) V., ancora, B. Wiezcorek-R. Schütze-U. Gerken, op. cit., § 138, Rdn. 13, p. 95, dove il rilievo che «mit der Vollständigkeitspflicht soll lediglich sicher gestellt werden, dass der Vortrag nicht durch Weglassen von wesentlichen Elementen verfälscht wird»; v. anche W. Zeiss-K. Schreiber, op. cit., Rdn. 203, p. 81: «Die Partei muss also, wie ein Zeuge, nicht nur die reine Wahrheit sagen, sondern darf auch nichts verschweigen» (evidenziazione nel testo). In questo stesso senso v. anche, nella nostra giurisprudenza, isolatamente, Pret. Roma, 25 gennaio 1983, in Riv. dir. proc., 1984, p. 608 ss., con nota critica di G. Messuti, per la quale «la cosciente falsità dell’allegazione o il silenzio su fatti sfavorevoli, qualora si risolva in un artificio soggettivamente ed oggettivamente idoneo a paralizzare o sviare la difesa dell’avversario o ad impedire al giudice l’accertamento della verità, integra gli estremi del dolo revocatorio». 109 ) Come ha chiarito anche la giurisprudenza del Bundesgerichtshof: BGH, in NJW, 1991, p. 2707; BGH, in NJW, 1999, p. 2887 dove si esclude che sussista un «Pflicht zur Substantiierung des Vortrags». Per alcuni esempi di applicazione di questo principio v. BGH in NJW, 1999, p. 2804; BGH, in NJW, 1984, p. 2888. 23 interferenza con il principio nemo tenetur edere contra se (110). In effetti, se l’allegazione, a sostegno di una domanda o di un’eccezione, rileva quale ipotesi ricostruttiva legata all’applicazione di una specifica disposizione sostanziale e alla produzione degli effetti giuridici da questa previsti ( 111 ), l’assolvimento del dovere di completezza (in più o in meno) va valutato proprio in relazione a quest’ipotesi ricostruttiva nell’ottica di consentire alla controparte di esercitare in modo consapevolmente informato l’«onere di prendere posizione» (Erklärungslast) sui fatti ex adverso allegati (112). 13. – Gli argomenti contrari all’ammissibilità del dovere di verità e completezza nel nostro sistema processuale: a) l’ipotizzato contrasto con il principio dispositivo e con il valore non probatorio delle dichiarazioni di parte. Critica. E’ alla luce delle considerazioni che precedono, dunque, che occorre esaminare gli argomenti addotti a sostegno della tesi, da noi prevalente, come abbiamo visto (retro, § 8), contraria ad ammettere la sussistenza del dovere di verità e completezza anche nel nostro sistema processuale. Si sostiene, anzitutto, che il dovere in esame non abbia ragion d’essere in un ordinamento come il nostro nel quale vige il principio dispositivo in quanto, in tale tipo di processo, la parte è libera di allegare i fatti che ritenga rilevanti e richiedere le relative prove (113). Ora, l’obiezione mi pare sia destinata a perdere consistenza una volta che si consideri, da un lato, che, anche in sistemi processuali nei quali indiscutibilmente vige il dovere di verità e completezza per espressa previsione di legge, come quello austriaco e tedesco, nessuno ha mai dubitato che sia stato mantenuto il sistema dispositivo e che non si profili alcun necessario collegamento fra il dovere in questione e l’adozione di un sistema processuale inquisitorio ( 114); dall’altro lato, che, inteso in termini soggettivi o processuali (come normalmente abbiamo visto essere inteso), tale dovere non si pone affatto in contrasto con il principio dispositivo, né con il potere monopolistico di allegazione, per la semplice ragione che la sua applicazione semplicemente consente di sanzionare, nei termini voluti dal legislatore, chi abusi dell’uno o dell’altro. 110 ) Sulla cui vigenza nell’ambito del processo civile, peraltro, è lecito nutrire dubbi, come opportunamente rileva E. Grasso, op. cit., p. 600 («l’aforisma nemo tenetur edere contra se, nel processo civile, non solo non si giustifica sul piano della morale, ma non trova riscontro in alcuna norma positiva»). Anche S. Chiarloni, Processo civile e verità, in Quest. giustizia, 1987, p. 504 ss., spec. p. 510, sottolinea come tale aforisma «ancor oggi incongruamente accomuna le parti di un processo civile e l’imputato del processo penale». Sulle origini e la portata di tale principio, proprio del processo penale, V. Grevi, «Nemo tenetur se detegere». Interrogatorio dell’imputato e diritto al silenzio nel processo penale italiano, Milano, 1972, p. 5 ss.; A. Kohl, Procès civil et sincerité, Liège, 1971, p. 15; J.H. Wigmore, Nemo tenetur seipsum prodere, in Harvard Law Rev., 15 (1891), p. 71 ss., spec. p. 82; M. Cappelletti, La testimonianza, cit., I, p. 380, testo e nota 5; per accenni a tale principio ed alle sue oscure origini G. Pugliese, Per l’individuazione dell’onere della prova nel processo romano per formulas, in Studi in onore di G.M. De Francesco, I, Milano, 1957, p. 545; v. anche L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, 7a ed., Bari, 2002, p. 623. 111 ) Rinvio, in proposito, anche per i necessari riferimenti, ad A. Carratta, Sub art. 112, cit., p. 32 ss. e p. 75 ss. 112 ) E’ significativo il fatto che proprio la dottrina tedesca parli del Wahrheitspflicht come di «ein weiterer Spezialfall der Pflicht zur redlichen Prozessführung» (così, ad es., W. Zeiss-K. Schreiber, op. cit., Rdn. 202, p. 81; ma v. anche, in maniera più ampia, W. Fleck, op. cit., p. 32 ss. e p. 106 ss.). 113 ) E’ - come abbiamo visto (retro, § 7) - l’obiezione fondamentale che muove Calamandrei, nel Parere redatto per conto dell’Università di Firenze, all’art. 26 del Progetto preliminare Solmi (Osservazioni e proposte, cit., p. 267). L’obiezione viene ripresa anche da V. Andrioli, Commento, cit., I, p. 244 e poi da F. Tommaseo, op. cit., p. 148 e G. Scarselli, Lealtà e probità, cit., p. 114. Come abbiamo visto (retro, § 5) questa era anche l’obiezione mossa da A. Wach e R. Schmidt alla proposta di introdurre un dovere di verità e completezza nella Z.P.O. tedesca. 114 ) Come, invece, ipotizzato sempre da Calamandrei nel Parere citato (Osservazioni e proposte, cit., p. 268, ma sulla base dell’idea di dovere di verità e completezza assunto in termini assoluti; nello stesso senso V. Andrioli, Commento, cit., I, p. 244; G. Scarselli, Lealtà e probità, cit., p. 114; F. Tommaseo, op. cit., p. 148, secondo il quale, infatti, «la verificazione giudiziale dei fatti allegati dalle parti non postula la ricerca della loro verità storica, bensì l’applicazione di regole di giudizio volte a costruire una verità processuale». 24 Del pari priva di pregio – sempre alla luce della nozione di dovere di verità e completezza sopra delineato – sembra essere anche l’altra obiezione, spesso collegata a questa, secondo cui un simile dovere non potrebbe trovare applicazione nel nostro sistema processuale in quanto da noi «l’affermazione della parte non è di regola un mezzo di prova, ma è solo un mezzo per fissare il thema probandi» (115). Anche in questo caso è facile rilevare, infatti, come anche nei sistemi tedesco ed austriaco non solo esso non viene affatto collegato all’attribuzione di un qualche valore probatorio delle allegazioni delle parti (che continuano ad essere considerate Beweisthema e non Beweismittel), ma neppure si arriva ad assimilare le allegazioni a vere e proprie «dichiarazioni di scienza» (Wissenserklärungen), continuando a ritenersi che queste abbiano la sola funzione di delimitare il «perimetro decisorio» del giudice (116). L’adempimento del dovere in questione, infatti, impone solo che questo potere di delimitazione sia ispirato alla verità «soggettiva» o «veridicità» dei fatti allegati (117), non certo alla verità giudiziale o probatoria. Nell’obiezione qui presa in considerazione, piuttosto, vi è un evidente salto logico. La considerazione che, ove per ipotesi l’ordinamento volesse utilizzare le affermazioni delle parti alla stessa stregua delle affermazioni dei testimoni, dovrebbe essere imposto loro lo stesso «dovere di verità» imposto ai testimoni (ed applicato il reato di falsa testimonianza, ove tenessero un comportamento non conforme), non implica affatto – sul piano logico, prima che giuridico – l’affermazione contraria: e cioè che la previsione per le parti di un dovere «soggettivo» o «processuale» di verità richieda che alle loro dichiarazioni sia riconosciuto, sul piano probatorio, il medesimo valore delle dichiarazioni dei testimoni (118). Se ne deve dedurre, molto più semplicemente, che il dovere di verità «soggettiva» o «processuale» delle parti, del quale si discorre in questa sede, opera su un piano ben diverso da quello probatorio, sul quale invece opera il dovere di verità dei testimoni (119). E del resto, un’indiretta conferma di ciò si ha proprio prendendo in 115 ) V. ancora, in questo senso, P. Calamandrei, nel Parere redatto per conto dell’Università di Firenze (Osservazioni e proposte, cit., p. 267); V. Andrioli, Commento, cit., I, p. 244; G. Scarselli, Lealtà e probità, cit., p. 114. Anche S. Chiarloni, La verità presa sul serio, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2010, p. 695 ss., nel recensire il libro di M. Taruffo, La semplice verità, Bari, 2009, osserva che sovente si ricorre «al latinetto nemo tenetur edere contra se, per giustificare l’inesistenza della testimonianza della parte e del correlativo dovere di verità nel nostro ordinamento, che consente alle parti la più ampia facoltà di mentire nel processo civile, senza dover sopportare alcuna conseguenza negativa» (p. 705, in nota 40); dello stesso A., con conclusioni identiche, v. anche Riflessioni microcomparative su ideologie processuali e accertamento della verità, in Due Iceberg a confronto: le derive di common law e civil law, numero speciale di Riv. trim. dir. e proc. civ., 2009, p. 101 ss. 116 ) V., infatti, l’opinione assolutamente prevalente della dottrina tedesca circa l’assimilazione delle allegazioni a «dichiarazioni di volontà» (Willenserklärung) (v., per tutti, W. Bernhardt, Die Aufklärung, p. 11 s. e p. 15; Id., Wahrheitspflicht, cit., p. 247 ss.; W. Henckel, op. cit., p. 144; W. Grunsky, op. cit., 2.Aufl., p. 18 ss. e p. 164 ss.; W. Brehm, op. cit., p. 32 ss., p. 45 ss. e p. 253 ss.) o a «dichiarazioni fattuali» (Vorstellungsmitteilungen) (così J. Goldschmidt, Der Prozess, cit., p. 422 ss.). In argomento, anche per altre indicazioni, rinvio ad A. Carratta, Sub art. 112, cit., p. 30 ss. 117 ) Come opportunamente rileva M. Cappelletti, La testimonianza, cit., I, p. 97 s., in questo caso «al momento della volontà, insomma, viene ad aggiungersi qui, epperò non a sostituirsi, quello della verità» (c.vi nel testo). In proposito v. anche R. Stürner, Die Partei als Beweismittel im europäischen Zivilprozess, in Festschrift für A. Ishikawa zum 70.Geburtstag, Berlin-New York, 2001, p. 529 ss. 118 ) Anche M. Cappelletti, La testimonianza, cit., I, p. 381 ss., rileva che «il nesso, intercorrente fra testimonianza della parte ed obbligo di verità, sicuramente non è … quello di una necessaria correlazione» e, a sostegno di tale affermazione, richiama i casi nei quali è ammessa la testimonianza dei soggetti incapaci, quali i minori degli anni 14 ex art. 248 c.p.c., ai quali non si chiede di prestare giuramento , poiché non li si ritiene in grado di assumersi tale obbligazione e responsabilità. Non per questo, osserva l’A., essi non devono essere ritenuti capaci di avere e di esprimere percezioni dei fatti secondo verità. 119 ) Come è stato autorevolmente rilevato nel contesto di una ricostruzione più ampia, «una parte che sceglie liberamente di diventare una fonte di informazioni dovrebbe essere assimilata allo status di un normale testimone. Ad un esame più approfondito, tuttavia, compaiono differenze significative tra le parti e i testimoni ordinari, che 25 considerazione la disciplina della confessione, la quale ha valore di prova legale per il giudice anche a prescindere dalla sua veridicità. Ciò è possibile proprio perché sulla parte non grava il medesimo dovere di verità che grava sui testimoni. 14. – Segue: b) l’ipotizzata alterazione del diritto di difesa e della regola dell’onere della prova. Critica. Sempre in considerazione della nozione restrittiva del dovere di verità e completezza esposta va esaminata anche l’altra obiezione, che solitamente viene avanzata contro la sua ammissibilità nel nostro sistema processuale, e cioè che, se esso fosse previsto, si distruggerebbe il diritto di difesa ( 120 ) e si altererebbe la regola dell’onere della prova (121), in quanto i fatti storici della controversia emergerebbero direttamente dalla narrazione dei litiganti, senza necessità di svolgere alcuna attività istruttoria (122). Ora, anche in questo caso, oltre a rilevare che negli ordinamenti nei quali indiscutibilmente vige il dovere di verità e completezza non si nega affatto la sussistenza del diritto di difesa, dell’onere della prova e della necessaria verifica istruttoria in sede giudiziale delle allegazioni delle parti, non si può non aggiungere come quest’obiezione utilizzi una nozione di tale dovere che è ben diversa da quella comunemente assunta e coincidente, come abbiamo visto, con il dovere di verità «soggettiva» o «processuale». Assumendo correttamente questa nozione, invece, ci si rende agevolmente conto che obbligare la parte ad allegare solo circostanze fattuali che sa non essere false non significa affatto né limitare il suo sacrosanto diritto di difesa, che evidentemente non può riguardare anche il diritto di difendersi attraverso allegazioni consapevolmente false, né alterare la regola dell’onere soggettivo della prova (123). Ed infatti, siccome il dovere di verità, così come viene comunemente inteso, non opera sul piano probatorio, ma su quello della correttezza del comportamento delle parti, il suo adempimento non esonera affatto dall’onere probatorio la controparte, né attenua il dovere decisorio del giudice. Né si può ragionevolmente sostenere – anche alla luce dell’art. 2697 c.c. – che, una volta allegato un fatto in giudizio nel rispetto del dovere di verità e completezza, a fondamento di una domanda o di un’eccezione, ciò sia sufficiente per presumere, dal punto di vista probatorio, anche giudizialmente vero tale fatto e dunque riversare sulla controparte l’onere di provarne la falsità: «onus probandi incumbit ei qui dicit significa – appunto – che l’allegazione di un fatto non implica la dimostrazione della normalità di quel fatto, ma richiede la dimostrazione probatoria della verità di ciò che è stato allegato» (124). Ciò comporta anche, di conseguenza, che non può rinvenirsi alcun automatismo, come invece si è sostenuto (125), fra accertamento della non veridicità del fatto allegato all’esito dell’attività istruttoria e violazione del dovere di verità o fra accertamento, all’esito del giudizio, di una suggeriscono la necessità di una disciplina differenziata. Nella sua veste di testimone, la parte continua a tenere d’occhio i suoi interessi tattici nella lite, valutando l’informazione che dovrebbe dare alla luce di come inciderà sulle sue possibilità di vittoria» (così M. Damaška, I volti della giustizia e del potere. Analisi comparatistica del processo, trad. it. di A. Giussani e F. Rota, Bologna, 1991, p. 220). 120 ) P. Calamandrei, Il processo come giuoco, cit., p. 34; ID., Istituzioni, cit., I, p. 219. 121 ) C. Furno, op. cit., p. 48. 122 ) G. Scarselli, Lealtà e probità, cit., p. 115. 123 ) Per la medesima conclusione v. G.A. Micheli, L’onere, cit., p. 143 ss.; C. Marchetti, op. cit., p. 433; M. Cappelletti, La testimonianza, cit., I, p. 390 s.; M. Gradi, Contributo, cit., p. 185 ss. 124 ) Così, conclusivamente, M. Taruffo, L’onere, cit., p. 436. 125 ) G. Scarselli, Lealtà e probità, cit., p. 116. 26 fattispecie storica diversa da quella prospettata dalla parte e violazione del dovere di completezza ( 126 ). Ancora una volta quel che rileva non è la piena corrispondenza di quanto allegato dalla parte con l’esito del giudizio, ma la consapevole menzogna o reticenza della parte nel momento in cui ha effettuato la sua attività allegativa ed a prescindere dal fatto che una simile condotta abbia o meno conseguito gli effetti sperati da chi l’abbia posta in essere. 15. Segue: c) l’ipotizzata limitazione del diritto di eccezione in senso sostanziale. Critica. Parimenti perde di consistenza – sempre assumendo la nozione restrittiva del dovere di verità e completezza, sopra esposta – l’obiezione secondo cui l’introduzione di un simile dovere determinerebbe una limitazione del diritto di eccezione in senso sostanziale (127). E’ evidente, infatti, che l’obiezione avrebbe ragion d’essere solo nell’ottica di un dovere che imponesse alla parte di allegare tutti i fatti rilevanti per la decisione, anche quelli contra se, e dunque di un dovere di verità «materiale». Il problema, dunque, potrebbe sorgere solo laddove si accogliesse una nozione di dovere di completezza talmente ampio da arrivare ad imporre alla parte tutti i fatti (favorevoli e non) rilevanti per la decisione: la previsione di un dovere di tale natura si risolverebbe, di fatto, in una concreta limitazione del diritto di proporre eccezioni sostanziali, perché sottrarrebbe alla parte la scelta tra sollevare o meno le eccezioni rilevabili solo ad istanza di parte. Ma se escludiamo – come generalmente si esclude (retro, § 12) - che questa sia la nozione di dovere di completezza, con la quale ci si confronta anche nei sistemi processuali nei quali esso sia espressamente codificato e consideriamo che, invece, la completezza si esaurisce nell’ambito oggettivo della domanda o dell’eccezione avanzata dalla parte, senza estendersi anche ai fatti relativi ad eventuali eccezioni sostanziali o domande riconvenzionali riservate alla controparte, il rischio paventato non ha ragion d’essere. Neppure, d’altro canto, sembra ragionevole prospettare un possibile contrasto fra il dovere di verità e completezza e la necessità di salvaguardare il principio secondo cui il giudice deve giudicare secundum alligata et probata partium. L’applicazione di tale principio, infatti, correttamente inteso nel senso che è impedito al giudice di decidere sulla base della sua conoscenza privata dei fatti di causa (128), non interferisce in alcun modo con il dovere in questione, il quale – come già detto (retro, § 14) – non opera affatto sul piano probatorio, né altera in alcun modo la formazione del prudente convincimento del giudice attraverso l’esperimento dell’attività istruttoria. 16. – Segue: d) il problema dell’assenza di una previsione espressa nel nostro codice di rito e il suo possibile superamento in via interpretativa. Non v’è dubbio, però, che il principale argomento addotto per negare vigenza anche nel nostro processo al dovere di verità e completezza delle parti, sia dato dalla sua non esplicitazione nell’art. 88 c.p.c. e dal fallimento – come abbiamo visto (retro, § 7) – dei tentativi esperiti in questa direzione in sede di elaborazione del codice del 1940. Se nessuna delle diverse proposte avanzate ha trovato accoglimento nel testo definitivo del codice, - questo il ragionamento - ciò sta chiaramente ad indicare la volontà del nostro legislatore contraria alla vigenza di tale dovere. 126 ) Ed in effetti, come ha ben chiarito la Cassazione, «il comportamento processuale delle parti contrario ai doveri di lealtà e probità non è integrato dalla semplice prospettazione di tesi giuridiche o da ricostruzioni di fatti riconosciute errate dal giudice, né da comportamenti che possano conseguire effetti vantaggiosi solo in conseguenza di un concorrente difetto di normale diligenza della controparte» (così Cass., 16 ottobre 1998, n. 10247, in Arch. giur. circ., 1999, c. 17). 127 ) Per questo rilievo V. Andrioli nelle Osservazioni della Facoltà di Giurisprudenza, cit., p. 1471; v. anche Osservazioni e proposte, cit., p. 275. 128 ) E dunque soltanto «entro il limite si può conseguire la verità», come rileva S. Pugliatti, Conoscenza e diritto, Milano, 1961, ora in Scritti giuridici, IV (1958-1964), Milano, 2011, da cui si cita, p. 233 ss., spec. p. 375. 27 In realtà, come insegna Virgilio Andrioli, chi non si limiti a scrutare «il delicato argomento dalla fredda specola del chierico del diritto» e «non sia disposto a vedere nel diritto l’unica forza, che muove la vita sociale» (129), non può che evidenziare l’infondatezza dell’argomento formale così espresso, perché quel che rileva in proposito non è tanto il silenzio del legislatore del 1940 e la decisione di non introdurre una specifica previsione del dovere di verità e completezza, ma la compatibilità delle conseguenze, alle quali conduce un simile modo di argomentare, con l’ordinamento nel suo complesso o, per meglio dire, con la sua «linea di coerenza logica» di bettiana memoria (130). Si potrebbe chiosare che, seguendo una simile linea argomentativa, «nello sforzo di arrivare alla forma la sostanza va perduta» (131). E la «sostanza» qui è evidente: l’ammissibilità o meno della consapevole menzogna e dell’inganno della parte nel corso del processo. Si tratta di vedere, piuttosto, se proprio la formulazione dell’art. 88 c.p.c., alla quale alla fine si pervenne nel 1940, riletta alla luce dell’evoluzione del complessivo sistema dei principi processuali, sia di fonte codicistica che di derivazione costituzionale, consenta ancora di ritenere pienamente conforme al dovere di lealtà e probità anche il comportamento processuale della parte che, nell’esercitare il suo potere di allegazione o il potere di contestare i fatti ex adverso allegati, sia «scientemente» mendace o reticente. E dunque se, ad oltre 70 anni dall’entrata in vigore del codice di rito, anche il ruolo che l’art. 88 ricopre nella complessiva ricostruzione della correttezza comportamentale e della buona fede processuale delle parti e i limiti della sua applicazione, così come delineati in origine dal legislatore, non richiedano di essere interpretati alla stregua di tale evoluzione, per evitare che – ove interpretati nel senso formalistico già detto – si pongano in implicita, ma evidente antinomia proprio con i principi ispiratori dell’ordinamento. 17. - L’art. 88 c.p.c. come «norma indeterminata». Ebbene, affermata la natura «processuale» o «soggettiva» del dovere di verità e completezza e la sua rilevanza per la parte come vero e proprio dovere giuridico ( 132), al fine di saggiare la possibilità 129 ) V. Andrioli, Intorno alla frode alla legge nel processo, in Scritti giuridici in onore di F. Carnelutti, Padova, 1950, p. 627 ss., ora in ID., Scritti giuridici, I, Milano, 2007, p. 98 ss., spec. p. 109. 130 ) E. Betti, L’interpretazione della legge e degli atti giuridici, Milano, 1949, p. 22 ss. 131 ) B. Brecht, Storie del Signor Keuner, trad. it. di C. Cases ed E. Ganni, Torino, 2008, p. 98. ) Così, espressamente, F. Carnelutti, Istituzioni, cit., p. 192 s., che – come abbiamo visto – riconduce anche il «dovere di verità» al «dovere di lealtà e probità» dell’art. 88 c.p.c., rilevando che «l’obbligo pocessuale della parte è pertanto un vincolo alla sua volontà per la subordinazione di un suo interesse all’interesse (pubblico) concernente la giusta composizione della lite» (c.vo nel testo); S. Pugliatti, Conoscenza e diritto, cit., p. 374, il quale giustifica tale conclusione rilevando come si tratti di un dovere che l’art. 88 c.p.c. sanziona sia rispetto alla parte (art. 92), sia rispetto al difensore (art. 88 comma 2); nel senso del «dovere» anche, nella dottrina tedesca, D. Leipold, in F. Stein-M. Jonas, Kommentar zur Z.P.O., Bd. II, 21.Aufl., Tübingen, 1994, § 138, Rdn. 1, p. 705 s., che parla di «eine echte prozessuale Rechtspflicht der Parteien und nicht nur eine prozessuale Last»; anche per R. Zöller-R. Greger, op. cit., § 138, Rdn. 1, si tratta di un «öffentlich-rechtliche Pflicht»; in termini analoghi H. Welzel, op. cit., p. 11 ss.; F. von Hippel, Wahrheitspflicht, cit., p. 367 s.; R. Pollak, op. cit., p. 411 ss.; D. Olzen, op. cit., p. 419; M. Kawano, op. cit., p. 411 ss.; W. Fleck, op. cit., p. 33 ss., che parla del «Pflicht zur Wahrhaftigkeit als Ausdruck der Prozessfunktion»; sul «Pflicht zur redlichen Prozessführung», P. Hartmann, op. cit., § 138, Rdn. 3, p. 690 ss.; E. Peters, in Münchener Kommentar, cit., § 138, Rdn. 1; C. Baeling, op. cit., p. 6; in termini generali, v. H. Dölle, op. cit., p. 279 ss.; per la distinzione fra «doveri nel processo» (Pflichten im Prozess) e «doveri processuali» (prozessualen Pflichten), fra i quali rientra il Wahrheitspflicht, v. J. Braun, op. cit., p. 104. Invece, nel senso della configurazione del «dovere di verità» come onere per la parte, F. Lent, Wahrheitspflicht der Partei, cit., p. 2674 s.; Id., Die Wahrheits- und Vollständigkeitspflicht, cit., p. 196 ss.: ID., Wahrheits- und Aufklärungspflicht im Zivilprozess. Teilkommentar zu §§ 138, 139 ZPO, Bad Oeynhausen, 1942, p. 1 ss. e p. 16 ss.; F. Lent-O. Jauernig, op. cit., 16.Aufl., cit., § 26, p. 73 ss., i quali osservano che, siccome il Wahrheitspflicht si ricollega al dovere di correttezza processuale (Treu und Glauben) e questo dovere non è sanzionato da specifiche norme positive che impongano precisi doveri processuali, anche il Wahrheitspflicht non può essere considerato un «dovere»; da noi, G.A. Micheli, L’onere della prova, cit., p. 145; F. Benvenuti, L’istruzione nel processo amministrativo, cit., p. 184, in 132 28 che esso rinvenga nell’art. 88 c.p.c. il necessario «aggancio» normativo, occorre anzitutto tener presente che la formula utilizzata dal legislatore in questa disposizione codicistica – al pari di disposizioni consimili che si ritrovano anche in altri ordinamenti stranieri, come abbiamo visto (retro, § 2) – si configura come «necessariamente elastica e generica» (133), proprio per riuscire ad abbracciare tutte le diverse ipotesi concretamente riconducibili al dovere di correttezza processuale. E come tale, essa richiede – per poter essere correttamente applicata - di essere interpretata alla luce dell’«esperienza sociale» (134), della «coscienza dell’ambiente sociale proprio dell’attuale momento storico» (135). In effetti, chi, nell’ambito della teoria generale del diritto, ha in tempi recenti affrontato il problema della «vaghezza» (o «indeterminatezza») delle norme ha incluso proprio l’espressione «lealtà e probità» dell’art. 88 fra le «espressioni tipicamente vaghe» del linguaggio giuridico, «la maggior parte delle quali, se non la totalità» riconducibili alla «categoria della vaghezza socialmente tipica» (che a sua volta si contrappone alla «vaghezza comune») (136). Sempre secondo questa dottrina, si ha «vaghezza socialmente tipica (o di rinvio)» quando un determinato termine giuridico «esprime un concetto valutativo i cui criteri applicativi non sono neppure parzialmente determinabili se non attraverso il riferimento ai variabili parametri di giudizio e alle mutevoli tipologie della morale sociale e del costume» (137). Infatti, gli elementi che contraddistinguono le norme caratterizzate da «vaghezza socialmente tipica» sarebbero sostanzialmente quattro: 1) il riferimento esclusivo a termini valutativi; 2) il rinvio, esplicito o implicito, a parametri variabili nel tempo e nello spazio desumibili da regole morali, sociali e del costume; 3) l’incertezza sull’esatta individuazione delle mutevoli regole sociali a cui rinvia la metaregola giuridica contenente il termine qualificatore «vago»; 4) la possibilità che la disposizione venga applicata a distanza di tempo con soluzioni diverse di uno stesso caso dubbio, in quanto «è sempre possibile sostenere che nel periodo trascorso le valutazioni del costume e della morale collettiva a cui una locuzione vaga socialmente tipica fa riferimento sono cambiate» (138). Ne deriva, dunque, che la «vaghezza socialmente tipica (o di rinvio)» sarebbe contraddistinta da due elementi essenziali: «il rinvio a valori extragiuridici e la variabilità dei criteri applicativi» (139). In questi casi, cioè, ci troveremmo di fronte a «organi respiratori … i quali consentono al diritto di cogliere le istanze del mondo pregiuridico» (140). nota 22. 133 ) Sono parole di E.T. Liebman, Manuale, 4a ed., cit., I, p. 107 e 8a ed., cit., p. 118. 134 ) Così V. Andrioli, Diritto processuale civile, cit., p. 412. 135 ) Così C. Mandrioli, Dei doveri, cit., p. 962, il quale osserva che le sanzioni previste dal codice per la violazione dell’art. 88 saranno comminate dal giudice per sanzionare «quei comportamenti della parte nei quali ravviserà una violazione di quelle che nella sua libera coscienza – interprete della coscienza dell’ambiente sociale proprio dell’attuale momento storico – ritiene essere le regole morali della lealtà e della probità. Regole per natura loro elastiche e refrattarie ad una rigida formulazione». 136 ) C. Luzzati, La vaghezza delle norme. Un’analisi del linguaggio giuridico, Milano, 1990, p. 299 ss. In argomento v. anche F. Puppo, Dalla vaghezza del linguaggio alla retorica forense. Saggio di logica giuridica, Padova, 2012, p. 8 ss.; L. Lombardi Vallauri, Norme vaghe e teoria generale del diritto, in Jus, 1999, p. 95 ss. 137 ) C. Luzzati, op. cit., p. 302 s. 138 ) C. Luzzati, op. cit., p. 302 s. 139 ) C. Luzzati, op. cit., p. 303 s. 140 ) Così C. Luzzati, Le metafore della vaghezza, in Analisi e diritto, a cura di P. Comanducci e R. Guastini, Milano, 1999, p. 117 ss., spec. p. 129, richiamando le parole di V. Polacco, Le cabale del mondo legale, in Atti del Reale Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, n. 67 (1907-1908), p. 155 ss., spec. p. 172. 29 Ecco allora affacciarsi il problema di stabilire quale ruolo e quale significato assuma oggi, nel rinnovato contesto ordinamentale, una disposizione come quella contenuta nell’art. 88 c.p.c., pure generata in un milieu culturale ben diverso da quello con il quale ci troviamo a confrontarci. Il problema, cioè, di spostare l’attenzione all’evoluzione che ha interessato in questi anni l’interpretazione dell’ambigua formula utilizzata dall’art. 88, nella convinzione che «l’interpretazione … è quell’operazione che, dopo avere rilevato quale sia la concreta applicazione di un testo di legge, raffronti tale applicazione con i valori politici attualmente ispiratori dell’ordinamento, e, ove individui un contrasto tra quella applicazione e quei valori, proponga una diversa interpretazione del dato legislativo» (141). Sulla base delle considerazioni svolte, infatti, non possiamo non chiederci se le espressioni socialmente vaghe «lealtà e probità», che ritroviamo nell’art. 88 e che probabilmente nel contesto del codice del 1940 assumevano la funzione, per ripetere le parole della Relazione ministeriale (par. 17), di «richiamo ammonitore» rivolto alla coscienza delle parti e dei loro difensori, continuino a rivestire tale funzione «ammonitrice» o non si siano arricchite, piuttosto, di significati nuovi e più incisivi dal punto di vista giuridico, in linea con una generale tendenza (del nostro come di altri ordinamenti) di rafforzamento degli strumenti diretti a contrastare i comportamenti processuali delle parti scorretti o abusivi. Soltanto all’esito di questa verifica sarà possibile dare una ragionevole risposta alla questione della riconducibilità o meno all’art. 88 anche del dovere di verità e completezza (142). Del resto, è significativo il fatto che, già all’indomani dell’approvazione del codice del 1940, Andrioli segnalasse come «una delle caratteristiche più notevoli del nostro codice … [le] conseguenze che è facile desumere dagli artt. 88, 116 e 397». E aggiungeva che «dal combinato disposto di queste tre norme, la cui rilevanza non sarà mai sufficientemente sottolineata, varie idee correnti in sede di interpretazione del vecchio codice debbono essere rivedute da chi sente tutto il pericolo di versare nei vecchi orci vino novello» (143). 18. – Il dovere di verità e completezza nel «prisma» dell’art. 88 c.p.c.: a) natura pienamente giuridica del dovere di lealtà e probità. Nella direzione indicata, un primo elemento da evidenziare attiene alla natura pienamente giuridica del dovere posto dall’art. 88 c.p.c. Ed infatti, sebbene subito dopo l’approvazione del codice si sia profilata una certa tendenza tesa a leggere l’art. 88 come una disposizione dalla «formulazione moraleggiante», una mera direttiva morale senza alcun valore giuridico (144), col passare del tempo 141 ) Così A. Proto Pisani, Il processo di cognizione a trent’anni dal codice (Un bilancio e una proposta), in Riv. dir. proc., 1972, p. 36. 142 ) Sebbene si debba pure notare che già nel corso dei lavori preparatori G. Calogero (Probità, lealtà, cit., p. 149) rilevava, con la consueta acutezza, che «la mancanza di probità e lealtà condannata dall’art. 29 del Progetto definitivo è dunque la stessa mancanza di veridicità prevista dall’art. 26 del Progetto preliminare, quando essa sia messa in atto da una parte a danno dell’altra»; subito dopo l’emanazione del nuovo codice anche K. Satter, op. cit., p. 2, rileva che «il legislatore italiano ha voluto indubbiamente introdurre il dovere di (dire la) verità quale obbligo giuridico secondo la moderna concezione del processo civile». Sebbene osservi che la formulazione dell’art. 88 «lascia all’oscuro, in certa misura, la portata di questo dovere». 143 ) V. Andrioli, Questioni controverse sul nuovo codice di procedura civile, in Foro it., 1941, IV, c. 65 ss., ora in Id., Scritti giuridici, III, Milano, 2007, p. 1523, spec. p. 1526 s. (da cui si cita). 144 ) La stessa Relazione al c.p.c., al § 17 (Contro la malafede processuale), indica la «moralizzazione» del processo come «uno dei principi ispiratori del nuovo Codice», richiamando proprio l’art. 88, nella cui formulazione vede «un richiamo ammonitore» per parti e avvocati «rivolto alla loro coscienza». Ma v. anche S. Satta, Commentario, cit., I, p. 290, secondo il quale «il principio enunciato dalla norma pone una serie di gravi problemi, che trascendono il limitato campo del processo, perché investono niente di meno che i rapporti fra la morale e il diritto»; M.T. Zanzucchi, Diritto processuale civile, I, Milano, 1955, p. 369 s.; C. Mandrioli, Dei doveri, cit., p. 962; E. Redenti, Diritto processuale civile, I, Milano, 1952, p. 188, che parla di «criterio generico (piuttosto che generale) vagamente moraleggiante»; di 30 si è andata sempre più affermando la tesi del precetto giuridico (145). Tant’è vero che oggi sembra esserci la piena consapevolezza che, pur utilizzando un linguaggio di ascendenza etica e «criteri d’ordine morale», nella sostanza il legislatore, attraverso l’art. 88, abbia voluto «elevare tutto un complesso di regole che sono “del gioco” perché non sono, o possono non essere, regole del processo (e neppure del diritto) ad autonomo criterio applicativo di regole giuridiche» ( 146). Questo generico aggancio a «criteri d’ordine morale» richiede di essere esplicitato sul piano applicativo come limite esterno alle regole che governano il processo, il cui utilizzo, anche laddove non generi invalidità processuali – o meglio: soprattutto laddove non generi invalidità -, deve comunque avvenire secondo i canoni della correttezza e della buona fede processuale, del fair play processuale, ossia in modo tale da non alterare in concreto il paritario contraddittorio fra le parti, ricorrendo all’inganno o alla mistificazione (147). E si può senz’altro convenire con chi ha di recente evidenziato come, «una volta riconosciutane la rilevanza giuridica, la lealtà e probità assumono … un ruolo centrale nell’esperienza processuale» (148). In effetti, sembra essere un dato ormai acquisito anche nella giurisprudenza di legittimità, la convinzione che «i principi di buona fede oggettiva e di correttezza, per la loro ormai acquisita costituzionalizzazione in rapporto all’inderogabile dovere di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., costituiscono un autonomo dovere giuridico ed una clausola generale, che non attiene soltanto al rapporto obbligatorio e contrattuale, ma che si pone come limite all’agire processuale nei suoi diversi profili; e che impone di mantenere, nei rapporti della disposizione altamente enigmatica parla F. Mazzarella, Avvocato e procuratore, in Enc. Giur. Treccani, IV, Roma, 1988, p. 4, il quale ritiene il dovere in questione come «dovere professionale per eccellenza»; in questo senso anche G.F. Ricci, Diritto processuale civile, 4a ed., I, Torino, 2012, p. 214. 145 ) V., in questo senso, V. Andrioli, Diritto processuale civile, I, Napoli, 1979, p. 410; U. Rocco, Trattato di diritto processuale civile, II, Torino, 1966, p. 165. 146 ) Le parole virgolettate sono di C. Mandrioli, Dei doveri, cit., p. 962; nel senso della piena valenza giuridica della disposizione contenuta nell’art. 88 v. anche Id., Diritto processuale civile, cit., I, p. 418; N. Picardi, Manuale, cit., p. 187 s., il quale conclude nel senso che «lungi dal limitarsi ad una enunciazione moraleggiante e pleonastica, l’art. 88 sovraintende alle modalità di gestione del processo e/o dell’atto processuale, mostrando così una spiccata potenzialità operativa»; anche A. Attardi, Diritto processuale civile, cit., p. 369 s., evidenzia come l’obbligo dell’art. 88 richieda «che le parti tengano un comportamento corretto nel processo e si traduce, in particolare, nel dovere di una parte di non compiere atti che comprimano o limitino comunque il diritto di difesa di una parte, di non svolgere attività dilatorie o superflue»; v. anche, a proposito dell’art. 88 come vera e propria regola di gestione dell’attività processuale, F. Cordopatri, L’abuso del processo, II, Diritto positivo, Padova, 2000, p. 482 ss., p. 607 ss., p. 691 ss. e p. 777 ss. Merita di essere ricordato, a supporto di queste considerazioni, quel che – partecipando al noto dibattito degli anni ‘50 del secolo scorso intorno alla «sanzione» - osservava E. Allorio, La pluralità, cit., p. 258 (in Problemi, cit., I, p. 20) e cioè che «non solo la norma giuridica è giudizio su comportamenti umani, ma è norma giuridica ogni giudizio su comportamenti umani: e costituisce diritto oggettivo ogni sistema di giudizi su tali comportamenti» (v. anche Id., Osservazioni critiche sulla sanzione, in Riv. dir. civ., 1956, p. 15 ss. e anche in Problemi, cit., I, p. 139 ss.) o, su altro versante, quanto rilevava A.E. Cammarata, Limiti tra formalismo e dommatica nelle figure di qualificazione giuridica, Catania, 1936, p. 36; Id., Formalismo giuridico, in Enc. dir., XVIII, Milano, 1968, p. 571 ss. o A. Ross, Diritto e giustizia (1958), a cura di G. Gavazzi, Torino, 1965, p. 61, per il quale il sistema istituzionale del diritto e gli atteggiamenti morali individuali «sono in una relazione di reciproca cooperazione». 147 ) Ed infatti, come osserva V. Andrioli, Diritto processuale civile, cit., p. 412, «la lealtà è l’abito di chi è schietto e naturalmente aborre dalla mala fede e dal tradimento, mentre la probità è propria di chi opera con rettitudine, secondo i dettami della coscienza»; in termini analoghi S. Satta, Diritto processuale civile, cit., p. 64; E. Grasso, La collaborazione, cit., p. 600. 148 ) Così conclude N. Picardi, Manuale, cit., p. 187 s. Anche per M. Cappelletti, Un falso idolo: il codice 1942 (bilancio di un trentennio), in Giustizia e società, Milano, 1977, p. 123 ss., spec. p. 125, il «dovere di lealtà e probità e di collaborazione delle parti e dei terzi … dovrebbe assumere un carattere centralissimo in un processo veramente moderno», sebbene lamenti che mancano al giudice poteri discrezionali sanzionatori «intesi ad un’attuazione effettiva»; A. Proto Pisani, Il processo civile, cit., p. 72; F. Carpi, Il dovere, cit., p. 546 ss.; L.P. Comoglio, Sub art. 88, cit., p. 1123 ss. 31 vita di relazione, un comportamento leale, volto anche alla salvaguardia dell’utilità altrui, nei limiti dell’apprezzabile sacrificio» (149). Peraltro, va anche osservato che proprio la presenza nel codice di una disposizione come l’art. 88 e l’inserimento in essa di un precetto giuridico caratterizzato da vaghezza «socialmente tipica» (retro, § 17), è di per sé sufficiente per escludere che il nostro legislatore abbia recepito già nel 1940 un’idea del processo puramente proceduralista (150). Il richiamo a valori etici come metro di valutazione giuridica del comportamento processuale delle parti si giustifica solo accedendo ad una visione del processo in base alla quale non ci si può limitare ad imporre alle parti il solo rispetto formale delle regole processuali, ma è necessario che da esse si pretenda qualcosa di più, un adeguamento ai «valori di sistema», ovvero quelli che «riguardano il sistema della giurisdizione nel suo complesso» (151) e che possono sinteticamente riferirsi al buon funzionamento del sistema della tutela giurisdizionale nel suo complesso e al conseguimento degli obiettivi che l’ordinamento riconnette all’esercizio della funzione giurisdizionale (152). 149 ) Così, in particolare, Cass., sez. un., 10 agosto 2012, n. 14374, in Mass. Foro it., 2012, che riprende quanto affermato in precedenza da Cass., sez. un., 23 dicembre 2009, n. 27214, ivi, 2009; v. anche, in termini identici, Cass., sez. un., 4 giugno 2010, n. 13658, in Giur. it., 2010, p. 2337 ; Cass., 22 dicembre 2011, n. 28286, ivi, 2012, p. 2263; Cass., 5 marzo 2009, n. 5349, in Mass. Foro it., 2009; Cass., 11 giugno 2008, n. 15746, ivi, 2008; Cass., 5 febbraio 2007, n. 3462, ivi, 2007. Per le stesse conclusioni v. anche Cons. Stato, 7 febbraio 2012, n. 656, in Corr. giur., 2012, p. 405 ss., con commento di V. Carbone. Anche L.P. Comoglio, Sub art. 88, cit., p. 1128, testo e nota 62, ritiene che il canone generale di buona fede o di correttezza debba «reputarsi costituzionalizzato sin dal 1948» e sia da ricondurre «all’adempimento degli ‘inderogabili doveri di solidarietà’, enunciati dallo stesso art. 2 Cost.». 150 ) V., in particolare, S. Satta, Il mistero del processo (1949), Milano, 1994, p. 24 e p. 30; in tempi più recenti, E. Fazzalari, Diffusione, cit., p. 861 ss.; Id., Procedimento e processo, cit., p. 819 ss.; N. Picardi, Dichiarazione di fallimento. Dal procedimento al processo, Milano, 1974, p. 154 ss.; v. anche A. Giuliani, La procedura: tra logica, etica ed istituzioni, in Law and Rights, a cura di V. Ferrari, Milano, 1991, p. 137 s., secondo il quale l’idea moderna di «procedura giuridica» è quella di «une collection de formalités»; L. Gianformaggio, La nozione di procedura nella teoria dell’argomentazione, in P. Comanducci-R. Guastini, a cura di, Analisi e diritto. Ricerche di giurisprudenza analitica, Torino, 1994, p. 153 ss., spec. p. 154. In argomento v. anche, ma con valutazioni decisamente critiche, P. Calamandrei, Processo e giustizia, in Riv. dir. proc., 1950, I, p. 273 ss., spec. p. 283, il quale, contestando l’affermazione di Satta secondo cui il processo non ha altro scopo che il giudizio, osserva che, accogliendo una simile impostazione, potrebbe servire «anche il giudizio di Dio o il metodo seguito dal giudice di Rabelais che solennemente pesava sulla bilancia i fascicoli dei due litiganti e si regolava dando ragione a quello che pesava di più» ed aggiunge che, in realtà, «lo scopo l’ha ed è altissimo, il più alto che possa esservi nella vita: e si chiama giustizia»; T. Ascarelli, Processo e democrazia, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1958, p. 844 ss., spec. p. 848: «la giustizia della sentenza sta nel cammino seguito per il risultato»; E.T. Liebman¸ Corso, cit., p. 86 s.; Id., Manuale, cit., 4a ed., I, p. 107 s. e 8a ed., p. 117 s.; più di recente M. Taruffo, Cultura e processo, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2009, p. 63 ss.; A. Dondi-V. Ansanelli, Qualche (ulteriore) rilievo su cultura del processo, comparazione e riforme, ibidem, 2009, p. 1437 ss.; G. Bertolino, Giusto processo e giusta decisione. Riflessioni sul concetto di giustizia procedurale in relazione al valore della accuratezza delle decisioni giudiziarie nel processo civile, tesi di dottorato dell’Università di Bologna, a.a. 20062007, p. 41 ss.; Id., Giusto processo civile e verità. Contributo allo studio della relazione tra garanzie processuali e accertamento dei fatti nel processo civile, Torino, 2010, p. 55 ss.; Id., Giusto processo e giusta decisione, in Quest. giustizia, 2008, p. 35 ss. 151 ) M. Taruffo, L’abuso, cit., p. 125 s., il quale, tuttavia, esprime il dubbio che norme come l’art. 88 c.p.c. «siano essenzialmente formulazioni ottative (o, come avrebbe detto Bobbio, consigli e non effettivi comandi), che esprimono un wishful thinking più o meno intenso dei vari legislatori». 152 ) P. Calamandrei, Processo e giustizia, cit., p. 283. V. anche, in proposito, F. Carnelutti, Istituzioni, cit., p. 192; Id., Torniamo al giudizio, in Riv. dir. proc., 1949, p. 145 ss., spec. p. 167 ss.; G. Capograssi, Intorno al processo (ricordando Giuseppe Chiovenda), in Opere, IV, Milano, 1959, p. 154 s.; in tempi più recenti, nel senso del necessario superamento della tesi puramente proceduralista, M. Taruffo, Idee per una teoria della decisione giusta, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1997, p. 315 ss.; Id., Legalità e giustificazione della creazione giudiziaria del diritto, ivi, 2001, p. 11 ss.; Id., Poteri probatori delle parti e del giudice in Europa, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2006, p. 476 s.; Id., Fatti e prove, in Le prove nel processo civile, a cura dello stesso, Milano, 2012, p. 62 s.; Id., La semplice verità, cit., p. 116 ss. e p. 203 ss.; L. Lanfranchi, Giusto processo (processo civile), in Enc. Giur. Treccani, XV, Roma, 2000, p. 2 ss.; Id., «Pregiudizi illuministici» e «giusto processo» civile, in Id., La roccia non incrinata, 3a ed., Torino, 2011, p. 477 ss., spec. p. 483 ss.; L.P. Comoglio, Sub art. 88, cit., p. 1123 ss.; N. Picardi, Manuale, cit., p. 5; Id., La giurisdizione 32 19. – Segue: b) contenuto e limiti del dovere di lealtà e probità. Proseguendo nella direzione indicata, un secondo rilevante profilo, sul quale concentrare l’attenzione, attiene al contenuto e ai limiti del dovere di correttezza processuale che l’art. 88 pone. Spesso, infatti, nell’esplicitare il dovere di lealtà e probità, si sostiene che in questo caso il legislatore si sia limitato ad imporre, alle parti e ai loro difensori, il rispetto delle «regole del gioco» ovvero un sorta di fair play fra le parti (153), nell’ottica di una vicinanza concettuale fra «processo» e «gioco» (o della c.d. sporting theory of justice) (154). In realtà, questo più che un modo per riempire di contenuti la disposizione in esame sembra essere un elegante stratagemma retorico per «svuotarla» di rilevanza giuridica e depotenziarne le ricadute applicative. Un simile modo di argomentare, infatti, induce a ritenere che il legislatore, dopo aver disciplinato specificamente le regole giuridiche sulle attività processuali delle parti, attraverso la disposizione generale dell’art. 88 avrebbe imposto loro – in maniera evidentemente pleonastica ( 155) - di rispettarle, quando è evidente che, per partecipare al «gioco», è necessario anzitutto rispettare proprio le sue «regole». Ne deriverebbe – sempre seguendo questo tradizionale modo di interpretare il dovere di lealtà e probità dell’art. 88 - che il mero rispetto formale delle regole processuali sarebbe di per sé sufficiente per affermare la correttezza del comportamento della parte ed altro non si dovrebbe pretendere dalla parte (156). all’alba del terzo millennio, Milano, 2007, p. 233 ss.; A. Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, 5a ed., Napoli, 2006, p. 6 e p. 201; G. Monteleone, Manuale di diritto processuale civile, 6a ed., I, Padova, 2012, p. 19 ss. e p. 267, in nota 21; G.F. Ricci, Principi di diritto processuale generale, 5a ed., Torino, 2012, p. 21 ss.; si vis, A. Carratta, Prova e convincimento del giudice nel processo civile, in Riv. dir. proc., 2003, p. 27 ss., spec. p. 36 ss. 153 ) P. Calamandrei, Il processo come giuoco, cit., p. 30 s.; S. Satta, Commentario, cit., I, p. 289; C. Mandrioli, Dei doveri, cit., p. 963 s.; V. Andrioli, Diritto processuale civile, cit., p. 411 ss.; E.T. Liebman, Manuale, 4a ed., cit., I, p. 107 e 8a ed., cit., p. 118; G. Scarselli, Lealtà e probità, cit., p. 95 ss.; per una diversa lettura, L.P. Comoglio, Sub art. 88, cit., p. 1123 ss. 154 ) Sulla sporting theory of justice nella dottrina nordamericana v., in particolare, M. Taruffo, Il processo civile adversary nell’esperienza americana, Padova, 1979, p. 123 ss. Ma v. già R. Pound, The Spirit of the Common Law, Francestown, New Hampshire, 1921, p. 125 s. Sul piano filosofico v. anche il riferimento al «gioco parresiastico» di M. Foucault (Discourse and Truth. The Problematization of Parresia, Northwestern University Press, Evanston, 1985, trad. it., Discorso e verità nella Grecia antica, Roma, 1996) e la sua convinzione che l’indagine processuale costituisca uno strumento di formazione di «verità esterna», ossia una forma di esercizio del potere e di trasmissione del sapere, basato sul «gioco della prova» (A verdade e as formas juridicas, in Cadernos da P.U.C., n. 16, giugno 1974, p. 5 ss., che raccoglie alcune Conferenze tenute alla Pontificia Università Cattolica di Rio de Janeiro dal 21 al 25 maggio 1973, trad. it., La verità e le forme giuridiche, in Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste: 2. 1971-1977, Poteri, saperi, strategie, a cura di A. Dal Lago, Milano, 1997, p. 83 ss.). 155 ) Infatti, come osserva C. Mandrioli, Dei doveri, cit., p. 962, se le «regole del gioco» fossero quelle stesse del processo «non abbisognerebbero della norma in esame [art. 88]: mentre, in caso contrario, parrebbero inapplicabili poiché prive di contenuto all’infuori di un generico aggancio a criteri d’ordine morale»; per considerazioni sostanzialmente identiche F. Macioce, La lealtà, cit., p. 11. 156 ) Per questa conclusione, strettamente legata alla teoria ludica o antagonistica del processo, v., in particolare, P. Calamandrei, Il processo come giuoco, in Riv. dir. proc., 1950, I, p. 23 ss., spec. p. 25, il quale ricorda anche un antico proverbio veneto secondo il quale, per vincere le liti, occorre «aver ragion, saverla espor, trovar chi la intenda e che la voglia dar, debitor che possa pagar», per sottolineare che «per ottener giustizia non basta aver ragione», ma è necessaria anche «l’abilità nel farl[a] valere»; F. Carnelutti, Giuoco e processo, in Riv. dir. proc., 1951, I, p. 101 ss.; S. Valzania, La partita di diritto. Considerazioni sull’elemento ludico del processo, in Jus, XXV (1978), p. 204 ss. V. anche, però, M. Taruffo, L’abuso, cit., p. 118, per il quale, seguendo una simile prospettiva ricostruttiva, sarebbe «assai difficile individuare dove possa annidarsi un comportamento abusivo dei partecipanti al gioco o alla competizione»; F. Macioce, op. cit., p. 10 ss., il quale, tuttavia, perviene ad una diversa conclusione. In termini generali, per l’accostamento del sistema ludico-agonale a quello processuale, si può anche consultare il famoso saggio dello storico olandese J. Huizinga, Homo ludens, trad. it. a cura di A. Vita, con introduzione di U. Eco, Torino, 2002, p. 90 ss., apparso ad 33 In realtà, è facile rilevare che, pur nell’ambito dell’accostamento del «processo» al «gioco» e con tutti i limiti di quest’accostamento, diffusa è la convinzione che il processo sia un luogo in cui «i protagonisti del gioco non solo debbono comportarsi in modi legalmente validi, ma debbono anche agire in modo corretto …, ossia in modo onesto e quindi “moralmente” valutabile in senso positivo» (157). E’ indubbio, dunque, che anche aderendo ad una tale visione del processo, quanto mai essenziale diventa la «lealtà nel gioco» o meglio la lealtà nell’applicazione delle «regole del gioco» (158). Anche nel contesto della teoria ludica del processo, dunque, non si può fare a meno non solo dal necessario rispetto delle «regole del gioco» (ciò che attiene al piano della validità delle attività compiute dal «giocatore»), ma anche da una condotta corretta e leale, senza «fare imbrogli» o «agire con l’inganno» (159) (ciò che attiene alla «leale osservanza delle regole del giuoco» (160)). Evidenzia bene quest’aspetto chi osserva che l’obbligo di probità e lealtà processuale, sebbene non implichi che il giocatore corretto debba «scoprire all’avversario il suo gioco», comunque impone che «come nel giuoco, così nel processo non si bara» ( 161), e chi – sempre continuando nel paragone fra «processo» e «gioco» - aggiunge che, sebbene non si possa «pretendere dal pugilatore di abbassare la guardia per conferire maggior effetto al colpo dell’avversario, non gli si deve neppure consentire di infliggere colpi alla nuca o sotto la cintura» (162). La leale condotta esige – per riprendere le parole di Liebman - di «evitare di ricorrere a manovre od artifici, che potrebbero impedire all’altra [parte] di far valere le sue ragioni dinanzi al giudice, in tutti i modi e con tutte le garanzie stabilite dalla legge» e turbare, così, «la piena e regolare applicazione del principio del contraddittorio» (163). E’ questa, dunque, la funzione cui assolve l’art. 88: evitare che la condotta processuale della parte, pur formalmente valida, alteri e pregiudichi la paritaria posizione delle parti nell’esercizio delle loro prerogative processuali. Esso «deve essere Amsterdam nel 1939 e pubblicato in Italia da Einaudi nel 1946. 157 ) Così M. Taruffo, L’abuso, cit., p. 121, il quale rileva anche come sia «diffuso l’atteggiamento consistente nel ritenere che il processo sia un “luogo morale”». Sulla stessa lunghezza d’onda F. Macioce, op. cit., p. 12, il quale, come esempio letterario di «una descrizione ludica e angosciante di un comportamento processuale tipicamente non dialogico» (p. 143), riporta il dibattito giudiziario fra Shylock e Antonio nel Mercante di Venezia di Shakespeare. 158 ) P. Calamandrei, Il processo come giuoco, cit., p. 30; V. Andrioli, Diritto processuale civile, cit., p. 411; v. anche E. Redenti, Diritto processuale civile, 4a ed. a cura di M. Vellani, II, Milano, 2000, p. 26; E. Redenti-M. Vellani, Diritto processuale civile, Milano, 2011, p. 155. Per la medesima conclusione v. anche L. Prieto Castro, Ética procesal. Valoración de la conducta de las partes, in Estudios y comentarios para la teoría y la práctica del proceso civil, I, Madrid, 1950, p. 140 s., dove la considerazione che, sebbene il processo sia un gioco, comunque ha da essere leale e improntato alla verità. 159 ) Così viene esplicitato il verbo «barare» nel Vocabolario della lingua italiana, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 1986. In proposito v. anche L.P. Comoglio, Sub art. 88, cit., p. 1124. 160 ) Così interpreta l’art. 88 c.p.c. P. Calamandrei, Il processo come giuoco, cit., p. 31. 161 ) G. Calogero, Probità, lealtà, verità, cit., p. 134. 162 ) V. Andrioli, Diritto processuale civile, cit., p. 411. 163 ) Le parole virgolettate sono di E.T. Liebman, Manuale, 4a ed., cit., I, p. 107 s. e 8 a ed., cit., p. 118 s.; di dovere «di non turbare l’applicazione del principio del contraddittorio» parla anche C. Mandrioli, Diritto processuale civile, cit., I, p. 418; Id., Dei doveri, cit., p. 963; F. Tommaseo, op. ct., p. 146 correla l’art. 88 al dovere «di non recar danno all’altra parte per effetto dell’uso malizioso degli strumenti processuali»; sottolineano comunque la stretta correlazione fra «dovere di lealtà e probità» e salvaguardia del diritto di difesa della controparte anche S. Satta, Diritto processuale civile, cit., p. 63 s.; A. Attardi, Diritto processuale civile, cit., p. 369 s.; C. Punzi, Il processo civile. Sistema e problematiche, 2a ed., Torino, 2010, p. 363 ss.; G. Monteleone, op. cit., I, p. 177, il quale osserva che «la difesa del proprio non può giungere fino a comportamenti, che paralizzino o menomino la difesa altrui»; anche L.P. Comoglio, Sub art. 88, cit., p. 1124 osserva che il legislatore del 1940 ha inteso le espressioni «lealtà» e «probità» «come una sorta di endiadi concettuale», sulla quale si fonda un generale dovere di corretta condotta processuale. 34 applicato – come rilevava significativamente Andrioli - per evitare che la schermaglia si confonda con la mala fede» (c.vo nostro) (164) e per impedire che l’indubbio interesse privato della parte ad ottenere una sentenza favorevole (165) sia coltivato abusando degli strumenti processuali. In conclusione, se è senz’altro vero che «si consumano al fuoco del contraddittorio le impurità della lite e si distruggono le gramigne del cavillo processuale» ( 166), parimenti vero è che un simile risultato presuppone la corretta partecipazione delle parti alle attività processuali. Ed è proprio in questa direzione che si valorizza appieno il ruolo dell’art. 88 c.p.c. 20. – Segue: c) il convergente obiettivo del dovere di lealtà e probità e del dovere di verità e completezza: assicurare il corretto esercizio delle prerogative processuali. Vi è, infine, un terzo profilo sul quale riflettere. Lungi dal rappresentare un pleonastico richiamo al dovere di «rispettare le regole del gioco», dunque, il dovere di lealtà e probità costituisce il metro di valutazione del corretto (e non solo processualmente valido) esercizio dei poteri processuali delle parti, soprattutto quando il legislatore lasci ai litiganti «margini più o meno vasti nei quali è consentito liberamente determinarsi» o addirittura consenta alle parti la libertà «di scegliere i mezzi più idonei al conseguimento dei loro fini» ( 167). Sennonché, proprio perché questa è la sua funzione, evidente appare la vicinanza concettuale e funzionale con il dovere di verità e completezza così come delineato nelle pagine che precedono, e cioè quale strumento di valutazione della correttezza delle parti nell’esercizio del potere allegativo. Qui si delinea, in realtà, un rapporto di genus a species, in cui l’abusivo esercizio del potere allegativo, alla base della violazione del dovere di verità e completezza, diventa una delle molteplici manifestazioni dei comportamenti sanzionabili come violazioni del dovere di lealtà e probità. Per entrambi, dunque, comune è l’obiettivo di salvaguardare il leale e corretto esercizio delle prerogative processuali riservate alla parte e di evitare che dall’esercizio scorretto, malizioso, sleale, fraudolento, se pur processualmente valido, possa determinarsi in concreto un’indebita posizione di vantaggio nei confronti dell’avversario. 164 ) Così ancora V. Andrioli, Abrogazione del codice di procedura civile?, in Riv. dir. proc., 1947, I, p. 150 ss., ora in Id., Scritti giuridici, III, cit., p. 1630 ss., spec. p. 1639. Non diversa la conclusione di P. Calmandrei, Il processo come giuoco, cit., p. 31, quando parla, con riferimento all’art. 88, di «lealtà del contraddittorio» e di difficoltà di stabilire «fin dove arrivino i diritti di una accorta difesa e dove cominci il riprovevole inganno». V. anche L.P. Comoglio, Sub art. 88, cit., p. 1126, secondo cui «in termini oggettivi, qualsiasi attività processuale volta (se così può dirsi) “emulativamente” ad influire sui tempi e sui modi del contraddittorio, al solo fine di pregiudicare, di vanificare o di comprimere le chances difensive dell’avversario … costituiscono senza dubbio comportamenti “illeciti” implicanti una chiara trasgressione dei doveri sanciti dal cit. art. 88 c.p.c.»; Id., Abuso del processo e garanzie costituzionali, cit., p. 319 ss. 165 ) Come, opportunamente, sottolinea P. Calamandrei, Troppi avvocati!, Firenze, 1921, p. 37 (ora anche in Opere giuridiche, Napoli, 1966, II, p. 70), che, tuttavia, richiama anche la funzione pubblica ad ottenere una «sentenza giusta» che l’avvocato assolve. Peraltro, per la sottolineatura della correlazione fra diritto di azione e di difesa, garantiti dall’art. 24 Cost., ed «effettiva esistenza» dei diritti da tutelare v. F.P. Luiso, Diritto processuale civile, 6a ed., I, Milano, 2011, p. 31. 166 ) Così le Osservazioni della Facoltà di Giurisprudenza di Roma, redatte da V. Andrioli, cit., p. 1460. 167 ) Così V. Andrioli, Diritto processuale civile, cit., p. 412, il quale aggiunge anche che «nel processo, nel quale la vittoria dipende non solo dal potenziare il proprio attacco e la propria difesa, ma anche dall’indebolire le difese altrui, non è la cosa più semplice di questo mondo individuare i limiti, sino ai quali l’indebolimento delle difese altrui è espressione di tecnica raffinata e oltre i quali può parlarsi di malafede e, addirittura, di tradimento»; in termini sostanzialmente identici anche G. Calogero, Probità, lealtà, verità, cit., p. 134 ss.; P. Calmandrei, Il processo come giuoco, cit., p. 31; E.T. Liebman, Manuale, 4a ed., cit., I, p. 107 s. e 8a ed., cit., p. 118 s.; S. Satta, Diritto processuale civile, cit., p. 63 s.; C. Mandrioli, Diritto processuale civile, cit., I, p. 418; Id., Dei doveri, cit., p. 963; A. Attardi, Diritto processuale civile, cit., p. 369 s.; F. Tommaseo, op. ct., p. 146; C. Punzi, op. cit., p. 363 ss.; G. Monteleone, op. cit., I, p. 177; L.P. Comoglio, Sub art. 88, cit., p. 1126. 35 Questo vale, in primis, con riferimento all’esigenza di salvaguardare la «piena e regolare applicazione del principio del contraddittorio» (168). Se sul contraddittorio si innerva il processo e se il principio del contraddittorio viene ad assumere – nella dimensione consacrata dall’art. 111 Cost. – il connotato di metodo privilegiato di verificazione delle allegazioni fattuali, contrasta con tale metodo, in termini generali, qualsiasi attività «dolosamente preordinata al fine di ottenere una ingiusta posizione di vantaggio» (169) e, con specifico riferimento al potere di allegazione, la condotta della parte che, attraverso il mendacio o la reticenza scientemente esercitati, intenda limitare le possibilità difensive della controparte, privandola sostanzialmente del diritto di partecipare «in condizioni di parità» alla dialettica processuale (170). Ma vale, in termini più generali, con riferimento al conseguimento degli obiettivi che l’ordinamento riconnette proprio all’esercizio della funzione giurisdizionale e che oggi emergono expressis verbis dallo stesso art. 111, 1° e 2° comma, Cost. In questa direzione, l’utilità che dall’applicazione del dovere di lealtà e probità e di quello di verità e completezza può derivare non si rinviene tanto nella possibilità di favorire la correlazione che proprio l’art. 111 Cost. pone fra «giustizia» della decisione e accertamento tendenzialmente veritiero dei fatti di causa (171): questa correlazione, certamente rilevante in termini generali, non ha diretta connessione né con il dovere di verità e completezza, né con quello di lealtà e probità, non rilevando, essi, sul piano probatorio e dell’accertamento dei fatti. La loro utilità, piuttosto, emerge dalla possibilità di assicurare la correlazione che sempre l’art. 111 Cost. pone fra «giusto processo» e garanzia del contraddittorio «in condizioni di parità» fra le parti e nel rispetto della «ragionevole durata». Ed infatti, l’«equivalente possibilità» (172) e la «simmetrica parità» (173) delle parti di incidere sulla formazione della decisione, il «giusto equilibrio» di cui parla 168 ) Per utilizzare ancora una volta le parole di E.T. Liebman, Manuale, 4a ed., cit., I, p. 107 s. e 8a ed., cit., p. 118 s. 169 ) In ciò vede la violazione del dovere di lealtà e probità dell’art. 88 S. Satta, Diritto processuale civile, cit., p. 64; S. Satta-C. Punzi, op. cit., p. 140. 170 ) In proposito v. C.E.D.U., 20 aprile 2006, Carta c. Italia, in www.echr.coe.int, la quale sottolinea l’importanza del metodo del contraddittorio non solo quale diritto al confronto, ma anche quale metodo per una ricostruzione per quanto possibile completa e veritiera dei fatti di causa; ma già C.E.D.U., 6 maggio 1985, Bönisch c. Austria, in Riv. dir. intern., 1987, p. 156; C.E.D.U., 28 maggio 1988, Ekbatani c. Svezia, ivi, 1989, p. 94. V. anche N. Trocker, Dal “giusto processo” all’effettività dei rimedi: l’”azione” nell’elaborazione della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Il diritto processuale civile nell’avvicinamento giuridico internazionale. Omaggio ad Aldo Attardi, I, Padova, 2009, p. 453 ss.; L.P. Comoglio, Il «giusto processo», cit., p. 251 ss. Del resto, anche nella dottrina tedesca, diffusa è la convinzione che il Wahrheitspflicht sia stato introdotto per tutelare solo la controparte e non per finalità di accertamento tendenzialmente veritiero dei fatti di causa (v., per tutti, W. Grunsky, op. cit., 2.Aufl., p. 180 ss.; F. Lent-O. Jauernig, op. cit., § 26 III, p. 73 ss.; G. Baumgärtel, op. cit., p. 204; D. Leipold, in F. Stein-M. Jonas, op. cit., § 138 I d e § 288 III 2; L. RosenbergK.H. Schwab-P. Gottwald, op. cit., 16.Aufl., § 65 VIII 5, p. 415 ss.; W. Henckel, op. cit., p. 146 s.). 171 ) Sulla correlazione che – necessariamente, dopo la riforma costituzionale del 1999 dell’art. 111 Cost. - va posta fra «processo giusto» e produzione di «decisioni giuste» e sull’altrettanto necessaria correlazione fra accertamento (relativamente) veritiero dei fatti di causa e «giustizia» della decisione rinvio ai rilievi già svolti in A. Carratta, Prova e convincimento, cit., p. 36 ss.; in senso analogo v. anche L. Lanfranchi, Giusto processo, cit., p. 6 ss.; Id., «Pregiudizi illuministici», cit., p. 483 ss.; L.P. Comoglio, Il «giusto processo», cit., p. 276; M. Taruffo, Fatti e prove, cit. , p. 62 s.; Id., La semplice verità, cit., p. 116 ss. e p. 203 ss.; G. Bertolino, Giusto processo e giusta decisione, cit., p. 96 ss.; S. Chiarloni, Riflessioni, cit., p. 102; Id., Giusto processo (dir. proc. civ.), in Enc. dir., Annali, II, tomo 1, Milano, 2008, p. 403 ss., spec. p. 406 s.; G. Verde, Il processo sotto l’incubo della ragionevole durata, in Riv. dir. proc., 2011, p. 505 ss., spec. p. 518; A. Gentili, Il diritto come discorso, Milano, 2013, p. 521 ss. 172 ) Così L.P. Comoglio, in L.P. Comoglio-C. Ferri-M. Taruffo, Lezioni sul processo civile, 5a ed., I, Bologna, 2011, p. 73; Id., Contraddittorio (principio del), in Enc. Giur. Treccani, VIII, Roma, 1997, p. 1 ss. 173 ) Così E. Fazzalari, Valori permanenti del processo, in Riv. dir. proc., 1989, p. 2; ma v. anche T. Ascarelli, op. cit., p. 858; L. Lanfranchi, Giusto processo, cit., p. 5 ss.; F. Cordero, Diatribe sul processo accusatorio, in Ideologie del processo penale, Milano, 1966, p. 220 ss. 36 anche la Corte europea dei diritti dell’uomo con riferimento all’art. 6 § 1 della C.E.D.U.( 174), presuppongono non solo che il processo sia puntualmente «regolato dalla legge», nel pieno rispetto della «ragionevole durata» (175), ma anche che sia regolato dal legislatore in modo tale da impedire e sanzionare escamotages e inganni, che in concreto alterano l’esercizio paritario del contraddittorio (176) e permettono l’acquisizione di un’indebita, ma effettiva «posizione di vantaggio» dell’una parte nei confronti dell’altra nel condizionare in maniera impropria e fraudolenta la decisione della controversia o comunque nel ritardarne il conseguimento. 21. – I limiti dell’applicazione del dovere di verità e completezza nel nostro sistema processuale. Ebbene, se effettivamente il rapporto fra il dovere di lealtà e probità e quello di verità e completezza può essere delineato nei termini che abbiamo visto, entrambi convergendo nell’obiettivo di salvaguardare il corretto esercizio delle prerogative processuali delle parti e, in primis, della genuinità del contraddittorio paritario fra le parti, la strada più piana e ragionevole per dare un valido «supporto normativo» anche al dovere di verità e completezza non può che essere quella di ricollegarlo – in via interpretativa (177) - all’art. 88. E cioè, la strada che porti a configurare anche l’esercizio «abusivo» della parte del potere di allegazione dei fatti posti a fondamento della domanda o eccezione o di contestazione di quelli ex adverso allegati nient’altro che come specifica espressione di mala fede processuale e, di conseguenza, violazione del dovere di lealtà e probità (178). Il che equivale a dire che anche nel nostro sistema il dovere di verità e completezza, «calato» nei ristretti limiti dell’art. 88, può trovare applicazione negli stessi identici termini nei quali esso 174 ) V., in particolare, C.E.D.U., 27 ottobre 1993, Dombo Beheer BV c. Paesi Bassi, in Giur. it., 1996 I, 1, c. 153 ss., con nota di N. Tonolli, dove, al § 33 della motivazione, espressamente si parla di «exigence de ‘l’égalité des armes’ au sense d’un ‘juste équilibre’ entre les parties» e si aggiunge che «l’egalité des armes implique l’obligation d’offrir à chaque partie une possibilité raisonable de présenter sa cause – y compris ses preuves – dans des conditions qui ne la placent pas dans une situation de net désavantage par rapport à son adversaire»; v. anche C.E.D.U., 20 febbraio 2003, Affaire Forre-Niedenthal c. Germania, in www.giurcost.org. 175 ) V., in particolare, L. Lanfranchi, Giusto processo, cit., p. 2 ss., dove anche altre indicazioni sul dibattito intorno al tema del quantum di contraddittorio costituzionalmente necessario, prima e dopo la modifica costituzionale del 1999; G. Tarzia, Lineamenti del processo civile di cognizione, 4a ed., Milano, 2009, p. 7. Di contraddittorio «in senso forte» parla anche N. Picardi, Manuale del processo civile, 2a ed., Milano, 2010, p. 228 ss. 176 ) E’ proprio nella contrapposizione dialettica fra le parti in condizioni di parità che il giudice riesce a trovare «il miglior mezzo per vedere dinanzi a sé, illuminata sotto i più diversi profili, la verità tutt’intera»: così P. Calamandrei, La dialetticità, cit., p. 682 ss.; sempre a proposito del valore della leale dialettica processuale v. anche F. Tommaseo, Lezioni, cit., p. 14 s.; F. Cipriani, L’Avvocato e la verità, in Prev. forense, 2003, p. 222 ss., ora in Id., Il processo civile nello Stato democratico. Saggi, Napoli, 2006, p. 131 ss., da cui si cita; P. Ferrua, Contraddittorio e verità nel processo penale, in Studi sul processo penale, II, Torino, 1992, p. 76 s. Evidenzia quest’aspetto, sul versante filosofico, anche F. Macioce, op. cit., p. 94 ss., riprendendo la nota teoria di J. Habermas sull’«agire comunicativo» (Teoria dell’agire comunicativo. Critica della ragione funzionalistica, (1981), trad. it. di P. Rinaudo, a cura di G.E. Rusconi, I, Bologna, 1986, p. 170 ss.); in termini più generali, nel senso che il «dialogo» sia fondamento di tutta al conoscenza e scelta di civiltà, come noto, G. Calogero, Logo e dialogo. Saggio sullo spirito critico e sulla libertà di coscienza, Milano, 1950, p. 41 ss. e p. 67; Id., Filosofia del dialogo, Milano, 1962, p. 385 ss. 177 ) Recenti tentativi, anch’essi andati a vuoto, al pari di quelli avanzati nel corso dei lavori preparatori del codice del 1940 (retro, § 7), di inserire nel codice una previsione espressa del «dovere di verità e completezza» si sono avuti, dapprima nel 2005, in una proposta di riforma di Magistratura democratica (v., in proposito, M. Pivetti-M. Nardin, Un processo civile per il cittadino. Lineamenti di una proposta di riforma della procedura civile , in Quest. giustizia, estratto dal n. 6/2005, p. 5 ss.); poi nel 2007, nel corso della XV legislatura, con il d.d.l. S/1524 (c.d. progetto Mastella) (v., in proposito, F.P. Luiso, Prime osservazioni sul disegno di legge Mastella, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2007, p. 608 s.; G. Manzo, Osservazioni sul disegno di legge Mastella per la razionalizzazione e accelerazione del processo civile, in Foro it., 2007, V, c. 247 ss.; F. Ghirga, La riforma della giustizia civile nel disegno di legge Mastella, in Riv. dir. proc., 2008, p. 456 s.; F. Cordopatri, Note a margine, cit., p. 1341 s.); infine, nel 2008, nel corso della XVI legislatura, con il d.d.l. C/1141 bis (poi modificato nel corso dei lavori parlamentari nel d.d.l. 1141 bis A, dove la proposta in questione non compare più), sfociato nella l. n. 69/2009. 37 trova applicazione negli ordinamenti nei quali è stato espressamente previsto o comunque si ritiene immanente. In particolare, esso può rilevare: a) sul versante del dovere di verità, come divieto per la parte di allegare fatti (principali o secondari) «scientemente non veri», e dunque fatti che essa sa o comunque ritiene, secondo la sua ragionevole valutazione soggettiva, non rispondenti al vero e, in sede di esercizio dell’onere di «prendere posizione» sui fatti ex adverso allegati, al fine di impedire il prodursi degli effetti della «non contestazione» (art. 115, 1° comma, c.p.c.), di contestare fatti (principali o secondari) «scientemente veri» (179) o dichiarare di «non conoscere» circostanze fattuali che, invece, non può ignorare per aver preso parte alla loro realizzazione o che avrebbe potuto conoscere utilizzando l’ordinaria diligenza (180); b) sul versante del dovere di completezza, come divieto di allegare, a sostegno della propria domanda (a prescindere dalla natura auto o eterodeterminata di questa) (181) o della propria eccezione, una ricostruzione fattuale 178 ) Alla stessa conclusione sembra pervenire Cass., 26 luglio 2012, n. 13282, in Mass. Foro it., 2012, per la quale «non può ritenersi consentito alla parte, anche alla luce dei doveri di lealtà e di probità che le incombono ai sensi dell’art. 88 c.p.c., di scindere, a seconda della convenienza, la propria posizione processuale, affermando, da un lato, l’esistenza di un fatto storico (la stipulazione del contratto) e negando, dall’altro, che vi sia prova di tale fatto, onde conseguire i soli effetti positivi della disciplina negoziale invocata ed evitare di subirne anche gli eventuali effetti negativi»; v. anche, sulla stessa lunghezza d’onda, Cass., 2 marzo 2012, n. 3338, ibidem, a proposito del corretto esercizio della «presa di posizione» della parte su di un'istanza chiara e ben definita; Cass., 8 febbraio 2006, n. 2815, in Arch. giur. circ., 2007, p. 96, a proposito delle contraddizioni che si colgono nell’assunto difensivo della parte. 179 ) A questa stessa conclusione pervengono anche F. Carnelutti, Istituzioni, cit., p. 192 s.; G.A. Micheli, L’onere della prova, cit., p. 144 s., che parla di dovere per la parte di «non scientemente mentire»; C. Marchetti, op. cit., p. 430, che ricostruisce il «dovere di verità» come dovere «di non allegare fatti conosciuti come inesistenti, di non contestare fatti conosciuti come veri e conseguentemente, di rispondere veritieramente in sede di interrogatorio»; M. Cappelletti, Il giuramento, cit., p. 1170 s., in nota 32; Id., La testimonianza, cit., I, p. 378, in nota 1; Id., Processo e ideologie, cit., p. 54 ss. e p. 216 s.; L.P. Comoglio, Regole deontologiche e doveri di verità, cit., p. 132; Id., Le prove civili, cit., p. 24, testo e note 77, 78 e 79; anche M. Taruffo, L’abuso, cit., p. 125 s. ritiene che il dovere di completezza vada inteso come dovere della parte «di indicare in modo specifico i fatti che pone a fondamento della propria domanda» e quello di verità come «dovere di non fare consapevolmente affermazioni false»; parimenti A. Cerino Canova-G. Tombari Fabbrini, Revocazione: I) Dir. proc. civ., in Enc. Giur. Treccani, XXVII, Roma, 1991, p. 2, secondo i quali la verità in sede di allegazione (può essere pretesa senza costringere qualcuno ad edere contra se»; di dovere della parte di non mentire parla anche F. Cordopatri, Note a margine di un libro recente e di un recente disegno di legge, in Riv. dir. proc., 1998, p. 1335 ss., spec. p. 1340 ss.; sembrano condividere questa conclusione anche S. Satta-C. Punzi, op. cit., p. 138 s., quando osservano che «il dovere di dire la verità, di cooperare alla effettiva realizzazione della giustizia, non significa imporre alla parte di tenere un comportamento processuale contrario al suo interesse. Ma l’attività della parte nel processo è libera entro i limiti in cui ogni azione umana è libera, cioè fino a quando non venga ad invadere la sfera giuridica di un’altra persona, nella specie della controparte»; anche F. Cipriani, L’Avvocato e la verità, cit., p. 133 sottolinea come il fatto che le parti non siano tenute a dire la verità in sede di interrogatorio non implica anche che esse possano liberamente mentire, essendo comunque tenute al dovere di lealtà e probità. Ancor più ampia la conclusione alla quale pervengono K. Satter, op. cit., p. 4, secondo il quale dal concetto di lealtà e probità «si ricava immediatamente … che sono proibiti non soltanto falsi coscienti, bensì anche dichiarazioni tali il cui fondamento la parte non ha seriamente ponderato» ed E. Grasso, La collaborazione, cit., p. 600, quando rileva che «l’art. 88 cod. proc. civ. tende ad ottenere che la parte non mistifichi gli elementi che adduce, non adombri altri elementi rilevanti, e non impedisca comunque all’avversario di far valere le sue ragioni e al giudice di esercitare i suoi poteri»; nella stessa direzione anche M. Gradi, Contributo, cit., p. 226 ss.; Id., Sincerità, cit., p. 97 ss., per il cui pensiero v. retro, la nota 80. 180 ) Così abusando del potere di dichiarare di «non conoscere» i fatti ex adverso allegati: in proposito mi sia consentito rinviare ad A. Carratta, Il principio, cit., p. 307 s.; v. anche F. Carnelutti, Istituzioni, cit., p. 193, il quale, proprio parlando del dovere di verità, quale manifestazione del dovere di lealtà e probità, riconosce che esso «è violato non solo quando la verità sia intenzionalmente taciuta o alterata (mala fede) ma altresì quando la parte non abbia usato la diligenza necessaria per conoscerla e per farla conoscere al giudice (colpa, imprudenza)». 181 ) Per l’evidenziazione della stretta correlazione fra la puntuale e completa allegazione dei fatti posti a fondamento della domanda e salvaguardia dell’effettività del contraddittorio della controparte, a prescindere dal fatto che la domanda proposta sia auto o eterodeterminata, v., in particolare, L. Montesano, Diritto sostanziale e processo civile di cognizione nell’individuazione della domanda, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1993, p. 70 ss.; Id., La tutela giurisdizionale dei diritti, 2a ed., Torino, 1994, p. 266 ss. e, si vis, A. Carratta, Sub art. 112, cit., p. 66 ss. 38 consapevolmente e fraudolentemente reticente, senza che ciò implichi dovere «in positivo» di allegare anche fatti a sostegno di eventuali eccezioni o domande riconvenzionali di controparte ( 182). A conferma della piena plausibilità di una simile conclusione può richiamarsi la circostanza che – come accennavo all’inizio - anche con riferimento ad altri ordinamenti processuali, nei quali, così come nel nostro, manca un’esplicita previsione del dovere di verità e completezza in capo alle parti, non si dubita del fatto che nella nozione di buona fede o lealtà processuale rientri anche tale dovere (183). Così come, del resto, non se ne dubitava da noi nel vigore del codice del 1865, quando non vi era alcuna previsione espressa non solo del dovere di verità e completezza, ma neanche di quello di lealtà e probità (retro, § 6). Peraltro, - ove non si condividesse una simile soluzione e si continuasse a negare che il dovere di lealtà e probità dell’art. 88 possa includere, nella sua formulazione indeterminata, anche quello di verità e completezza, sia pure nei termini restrittivi che abbiamo visto – occorrerebbe nel contempo riconoscere l’assoluta irrilevanza giuridica di questa disposizione e l’irrealizzabilità della funzione che l’ordinamento le assegna. Così ragionando, infatti, si finirebbe per ammettere che lo stesso art. 88, nel codificare il dovere di buona fede processuale, contestualmente ed in maniera antinomica legittima un comportamento della parte che, per antonomasia, è espressione di mala fede processuale (184). E cioè, appunto, il comportamento della parte che, a sostegno della propria 182 )Su questa ricostruzione del dovere di completezza v., retro, al § 12, anche per le indicazioni della dottrina tedesca. Nello stesso senso, nella nostra dottrina, G.A. Micheli, L’onere, cit., p. 145; M. Cappelletti, La testimonianza, cit., I, p. 385 ss.; C. Marchetti, op. cit., p. 432 s.; L.P. Comoglio, Regole deontologiche, cit., p. 132; Id., Le prove, cit., p. 26 ss.; Id., Sub art. 88, cit., p. 1126 ss. e p. 1129 s.; M. Gradi, Sincerità, cit., p. 109; Id., Contributo, cit., p. 333. 183 ) V., ad es., con riferimento al sistema francese, le conclusioni di A. Leborgne, op. cit., p. 535 ss.; M. Schilling, op. cit., p. 183 ss. e p. 199 ss.; P. Schlosser, Die lange deutsche Reise, cit., p. 606; R. Stürner, Beweislastverteilung, cit., p. 699; con riferimento al sistema spagnolo, quanto sostenuto in particolare da J. Pico i Junoy, El principio, cit., p. 133 s.; V. Gimeno Sendra, Análisis crítico de la Ley de Enjuiciamiento Civil, in Revista Jurídica Española de Doctrina, Jurisprudencia y Bibliografía, n. 2, 2007, p. 1893 s.; per considerazioni critiche, invece, M. Lozano-Higuero Pinto, La buena fe procesal, cit., p. 72 ss.; Id., La probidad, cit., p. 324; J. Montero Aroca, Ideologia y proceso civil, cit., p. 251 ss.; Id., I principi, cit., p. 100, secondo il quale «l’esistenza del principio di buona fede nell’attività processuale delle parti è un mito con origini molto chiare nella storia delle norme processuali», e cioè nell’art. 88 del c.p.c. italiano del 1940, che, tuttavia, per l’A., «per quanto si sia voluto sostenere il contrario, fu un codice tipicamente fascista, immerso in questa concezione politica» (ivi, p. 60) (su questo v. anche la decisa contestazione di queste conclusioni di G. Verde, Le ideologie del processo in un recente saggio, in Riv. dir. proc., 2002, p.676 ss.). 184 ) Alla medesima conclusione perviene, anzitutto, G. Calogero, op. cit., p. 139 ss. e p. 149 s.; poi G.A. Micheli, L’onere, cit., p. 171, in nota 196, richiamando l’opinione di Calogero; F. Carnelutti, Istituzioni, cit., p. 192 s.; S. Pugliatti, Conoscenza e diritto, cit., p. 374; poi ancora F. Benvenuti, op. cit., p. 184 s.; P. Pajardi, La responsabilità per le spese e i danni processuali, Milano, 1959, p. 12; S. Satta-C. Punzi, Diritto processuale civile, 12a ed., Padova, 1996, p. 138 e p. 140; F. Cipriani, L’Avvocato e la verità, cit., p. 133 s. Non dissimile il ragionamento seguito da C. Marchetti, op. cit., p. 429, quando rileva che, se non si ritenesse ricompreso nell’art. 88 c.p.c. anche il «dovere di verità», si arriverebbe a «svalutare francamente il precetto dell’art. 88 c.p.c. ad una mera norma di costume, priva praticamente di qualsiasi contenuto giuridico concreto». Sul versante della filosofia del diritto anche F. Macioce, op. cit., p. 244. Opportunamente sgombrato il campo dal «dovere di verità» in senso oggettivo, che evidentemente non pare ammissibile e che, come detto (v., retro, al § 10), porterebbe «direttamente alla legittimazione della tortura», anche il ragionamento seguito da P. Calamandrei, Il processo come giuoco, cit., p. 31, sembra includere nella violazione del dovere di lealtà e probità, la menzogna della parte, quando parlando del «riprovevole inganno» e della «malafede processuale», che si determina quando «una parte, o tutt’e due, mirano mediante inganno a conseguire nel processo (o in una fase di esso o nella decisione finale) un certo effetto giuridico, senza che esistano i presupposti (di fatto o di diritto) ai quali la legge lo riconnette» (ivi, p. 32), vi fa rientrare «svariate ipotesi … (menzogna, falsità, dolo unilaterale o bilaterale, frode, simulazione)» (c.vo nostro); sempre a proposito della «malafede processuale» v. anche Id., La dialetticità del processo, in Processo e democrazia. Conferenze tenute alla Facoltà di diritto dell’Università nazionale del Messico, Padova, 1954, p. 119 ss., ristampa in Opere giuridiche, a cura di M. Cappelletti, I, Napoli, 1965 (da cui si cita), p. 684 ss. E lo stesso discorso dovrebbe valere anche per E. Redenti, L’umanità, cit., p. 30 ss.; V. Andrioli, Commento, cit., I, p. 244; Id., Diritto processuale civile, cit., p. 411; E.T. Liebman, Manuale, cit., 4a ed., I, p. 106 s.; C. Mandrioli, Dei doveri, cit., p. 960; Id., Diritto processuale civile, cit., I, p. 418, in nota 3; F. Carpi, Il dovere di collaborazione delle parti nel processo del lavoro, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1974, p. 544 s. e, più in generale, per 39 domanda o eccezione, alleghi fatti consapevolmente non veritieri (185) o offra una ricostruzione fattuale fraudolentemente artefatta o contesti fatti ex adverso allegati che sa essere veritieri (186). Si finirebbe per ammettere, cioè, che, pur in presenza di un comportamento di tal fatta, la parte ed il suo difensore si muovano ancora entro i confini della «elegante e pregevole maestria dello schermitore accorto» e non si sia ancora in presenza dei «goffi tranelli del truffatore» ( 187). Ma per continuare a sostenere ciò occorrerebbe anche dimostrare in maniera convincente, da un lato, sul piano del disciplina processuale, come possano essere considerati probi e leali la parte e il suo difensore, anche quando si comportino in questo modo; dall’altro lato, sul piano dei principi costituzionali, come tutto ciò si concili con un processo «giusto», con un contraddittorio effettivamente «paritario» e con la «ragionevole durata». 22. – Compatibilità con l’istituto della confessione e con il c.d. principio della non contestazione. Peraltro, la ricostruzione del dovere di verità e completezza come manifestazione della buona fede processuale della parte e, come tale, la sua piena riconducibilità entro i «binari normativi» dell’art. 88 consentono di affrontare agevolmente anche la questione della sua compatibilità con l’operare nel nostro sistema processuale sia dell’istituto della confessione come prova legale, sia del c.d. principio della non contestazione, già immanente nel sistema ed oggi espressamente codificato dal 1° comma dell’art. 115 c.p.c. In effetti, se si condivide la conclusione che la condotta della parte improntata alla consapevole menzogna e reticenza non possa essere ritenuta conforme all’obbligo di lealtà e probità e di buona fede processuale, perché in questo modo la stessa parte abusa del potere di allegazione e altera a coloro che, parlando del dovere di verità, presuppongono (a volte anche implicitamente) un dovere di verità «materiale» (v. retro, in nota 73*). 185 ) Invece, sul presupposto che nel nostro sistema processuale non sia vigente un «dovere di verità e completezza», ammettono la piena compatibilità con la correttezza processuale e con il dovere di lealtà e probità dell’allegazione volontariamente falsa, sostenendo addirittura un «diritto di mentire» a tutela del proprio interesse, C. Furno, op. cit., p. 49; G. Messuti, op. cit., p. 621; G. Scarselli, Lealtà e probità, cit., p.112 ss.; Id., Sul c.d. abuso, cit., p. 181; S. La China, op. cit., p. 457; C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, II, Torno, 2010, p. 247, il quale, pur rilevando che l’art. 88 vieta «comportamenti sleali nei confronti dell’avversario», osserva che le parti «non hanno tuttavia l’obbligo di rendere dichiarazioni veritiere, né in sede di interrogatorio (libero o formale) né nella parte in fatto degli atti difensivi redatti, su indicazione delle parti, dai loro avvocati»; di «ampia libertà di menzogna» del difensore parla anche R. Danovi, Commentario del codice deontologico forense, Milano, 2004, p. 245. Anche S. Chiarloni, Processo civile e verità, cit., p. 510 s. sembrava sostenere la medesima conclusione; ma successivamente (Id., Riflessioni microcomparative, cit., p. 101 ss.) l’A. ha mutato opinione: «rinnegando le posizioni antiche, sono ora convinto che la Costituzione esiga una disciplina del diritto probatorio cui il codice di procedura civile per alcuni aspetti non si conforma. Più precisamente: per l’inesistenza di un dovere di verità delle parti, per la mancanza di sanzioni adeguate del rifiuto di esibizione e, con qualche dubbio, per la mancanza di generali poteri istruttori ufficiosi del giudice nel processo ordinario di cognizione» (p. 103); posizione, questa, ulteriormente ribadita dall’A. in Ragionevolezza costituzionale e garanzie del processo, in Riv. dir. proc., 2013, p. 521 ss., in termini abbastanza netti contro l’inesistenza dell’obbligo della parte di dire la verità: «è ormai di solare evidenza la debolezza del riferimento all’onere della prova, l’inutilizzabilità del principio nemo testis in causa propria storicamente condizionato a tempi remoti e l’inconsistenza del tradizionale richiamo giustificativo al principio nemo tenetur edere contra se». 186 ) Nel senso che la violazione del «dovere di verità» si concretizzi anche laddove la parte contesti le allegazioni della controparte nonostante sia convinta che sono vere o comunque corrette, v. B. Wiezcorek-R.A. Schütze-U. Gerken, op. cit., § 138, Rdn. 8, p. 94: «eine gegnerische Behauptung darf eine Partei dann nicht bestreiten, wenn sie Kenntnis von deren Richtigkeit hat oder wenn sie von ihrer Wahrheit überzeugt ist»; J. Braun, Rechtskraft und Restitution. Die Grundlagen des geltenden Restitutionsrechts, Berlin, 1985, p. 174; O. Ficht, Die Wahrheitspflicht der Parteien im Zivilprozess, Rosenheim, 1934, p. 40 s.; W. Fleck, op. cit., p. 102. Sulla questione rinvio ad A. Carratta, Il principio, cit., p. 105 ss. e p. 221 ss. 187 ) Le parole virgolettate sono di P. Calamandrei, Il processo come giuoco, cit., p. 31, che le utilizza per sottolineare che, solo nel primo caso, siamo in presenza del rispetto del dovere di cui all’art. 88 c.p.c., ovvero nella «leale osservanza delle regole del giuoco». 40 proprio favore l’effettività del paritario contraddittorio con la controparte, parimenti si deve riconoscere che quest’esigenza viene meno tutte le volte in cui lo stesso legislatore, per finalità di diversa natura, intenda vincolare in base a criteri formali la formazione del convincimento giudiziale. E questo faccia, nell’ambito dei processi su diritti disponibili, o prevedendo l’efficacia vincolante per il giudice di una declaratio contra se della parte (confessione), a prescindere dalla sua verità (188), proprio perché contra se e dunque oggettivamente favorevole alla controparte, oppure imponendo, per ragioni di economia processuale, la relevatio ab onere probandi in caso di concorde allegazione dei fatti di causa (non contestazione) (189). Ed infatti, come già rilevato in altra sede ( 190) - salva la possibile impugnazione della sentenza per revocazione ad opera del P.M. ai sensi dell’art. 397 n. 2 c.p.c., ma nei limitati casi in cui sia previsto il suo obbligatorio intervento e il dolo bilaterale rilevi come «frode alla legge», o per opposizione di terzo revocatoria, ove abbia causato danni a terzi (art. 404, 2° comma, c.p.c.) -, solo laddove il dovere di verità e completezza fosse inteso in termini assoluti (191), e cioè come dovere di allegare in giudizio tutti e solo i fatti veri, esso dovrebbe anche comportare, coerentemente, che il giudice non possa esimersi dal verificare, utilizzando adeguati strumenti istruttori ufficiosi, se le parti vi abbiano prestato ossequio sia quando una di loro abbia reso declarationes contra se (confessione), sia quando entrambe abbiano concordato, in modo espresso o tacito, sui fatti di causa (non contestazione). Ma in questo senso, come ribadito in più occasioni, esso non è, né può essere inteso (192). 23. – Conseguenze, processuali e non, della violazione del dovere di verità e completezza. 188 ) Sembra pervenire ad una diversa conclusione C. Marchetti, op. cit., p. 437, secondo il quale «chi dichiara un fatto diverso dal vero, sapendo di mentire, tradisce … la funzione strumentale obbiettiva della confessione, che è quella di testimoniare un fatto accaduto e vero, ed insegue uno scopo diverso, per lo più di ordine dispositivo, che snatura l’essenza stessa dell’atto»; sembra condividere quest’impostazione anche M. Gradi, Contributo, cit., p. 191 ss. Sennonché, a parte la questione sulla natura propria della confessione (che in questa sede non può essere affrontata e sulla quale mi permetto di rinviare ad A. Carratta, Il principio, cit., p. 120 ss.), questione rispetto alla quale, tuttavia, la possibilità per la parte di dichiarare il falso contra se andrebbe posta come prius logico, non può non rilevarsi la circostanza che, sul piano della disciplina positiva, la sola ipotesi nella quale l’art. 2732 c.c. ammette la revoca della confessione è quella dell’errore. Circostanza, questa, che induce ad escludere, appunto, che la declaratio di natura confessoria della parte, consapevolmente mendace, si sottragga al valore di prova legale per il giudice. 189 ) E’, in fondo, quel che riconosce G. Calogero, op. cit., p. 149 s., quando afferma che deve escludersi l’esistenza di un obbligo di verità verso se stessi (nemo mendax si confitens) e in relazione ai fatti non contestati dalla controparte (nemo mendax coram judice nisi mendax coram parte); per una diversa posizione K. Satter, op. cit., p. 14 s. In proposito mi permetto di rinviare anche ad A. Carratta, Il principio, cit., p. 308 s. 190 ) A. Carratta, Il principio, cit., p. 309, in nota 271. 191 ) Ed infatti, proprio partendo da una nozione di dovere di verità e completezza in termini assoluti, affermano la contrarietà di tale dovere con l’istituto della confessione come prova legale P. Calamandrei nel Parere sull’art. 26 del Progetto preliminare Solmi (v. retro, al § 7); G. Messina, op. cit., p. 29 s.; F.G. Lipari, op. cit., p. 61 s.; V. Andrioli, Commento, cit., I, p. 244; Id., Diritto processuale civile, cit., p. 411, per il quale «l’obbligo di dire la verità o è assoluto o non è, e non può cessare di esserlo ed esimere il giudice dal valutare se la parte vi abbia prestato ossequio sol perché le dichiarazioni sono contrarie agli interessi del confitente»; G. Scarselli, Lealtà e probità, cit., p. 113 in nota. 192 ) Questo giustifica anche, mi pare, l’esclusione dell’esperibilità di poteri istruttori ufficiosi nei confronti dei fatti non contestati (v. A. Carratta, Il principio, cit., p. 309 ss.; Id., Principio della non contestazione e art. 115 c.p.c., in Il libro dell’anno del diritto Treccani, Roma, 2012, p. 630 ss.; per una diversa conclusione sul punto M. Taruffo, Sub art. 115, in A. Carratta-M. Taruffo, op. cit., p. 493 ss., ma sul presupposto che il fatto non contestato vada considerato «vero» e non meramente sottratto all’onere di prova). Anche la dottrina tedesca, peraltro, appare divisa in argomento (v., per differenti conclusioni, ad es., da un lato, W. Grunsky, op. cit., 2.Aufl., p. 180 ss.; G. Baumgärtel, op. cit., p. 204; D. Leipold, in F. Stein-M. Jonas, op. cit., § 138 I d e § 288 III 2;; W. Henckel, op. cit., p. 146 s.; dall’altro, W. Bernhardt, Wahrheitspflicht, cit., p. 247; Id., Die Aufklärung, cit., p. 30; H.L. Weyers, op. cit., p. 196 ss.; G. Zettel, op. cit., p. 175). 41 La riconduzione del dovere di verità e completezza all’ambito applicativo dell’art. 88 c.p.c., rende più agevole anche la risoluzione della questione relativa alle conseguenze processuali derivanti dalla sua violazione (193). Generalmente, negli ordinamenti nei quali il dovere trova espressa previsione, si distingue in proposito fra conseguenze che operano direttamente nel processo e colpiscono la parte (in termini di valutazione del comportamento della parte ai fini della decisione, di inammissibilità o di irricevibilità dell’atto, di spese giudiziali, di possibile esperimento dell’impugnazione revocatoria della sentenza o di possibile esercizio dell’azione generale di risarcimento dei danni (194)) e conseguenze extraprocessuali, che, invece, colpiscono direttamente il difensore, in sede disciplinare (195) o anche in sede penale (196). La medesima distinzione può essere riproposta anche da noi, essendo evidente che la responsabilità per la violazione del dovere in questione può coinvolgere tanto la parte che il suo difensore. 193 ) Per un’identica conclusione v. F. Carnelutti, Istituzioni, cit., p. 193, che richiama, oltre al rimborso delle spese giudiziali, la sanzione per responsabilità aggravata di cui all’art. 96, 1° comma, c.p.c. e rileva: «vero è che giusta l’art. 96 il risarcimento è dovuto da chi abbia trasgredito il precetto dell’art. 88 ove sia soccombente; ma nell’ipotesi contraria il risarcimento è escluso perché, in massima, non v’è danno da risarcire; se, nonostante la reticenza o la menzogna, la parte aveva ragione, il suo contegno non ha potuto nuocere né alla controparte né alla giustizia; tuttavia, per quei casi, in cui alla parte soccombente il contegno dell’altra parte contrario alla probità o alla lealtà abbia cagionato danno, un obbligo di rimborso può essere posto anche a carico della parte vincitrice (art. 92, 2° comma, 88)». Per lo stesso problema con riferimento al § 138 della Z.P.O. tedesca, rispetto al quale si è anche parlato di lex imperfecta (W. Grunsky, Grundlagen, cit., p. 154 ss. e 2.Aufl., p. 180 ss.; F. von Hippel, Wahrheitspflicht, cit., p. 48 ss.; H. Titze, op. cit., p. 181; E. Wildermuth, op. cit., p. 34; E. Schneider, op. cit., p. 344; W. Kisch, Wahrheitspflicht, Verhandlungsmaxime, Eventualmaxime, in Deutsche Juristen-Zeitung, 1936, c. 913, spec. c. 918) v. la nota successiva. 194 ) Ad es., con riferimento al § 138 Z.P.O. tedesco, oltre a ritenere esperibile il rimedio revocatorio (Restitutionsklage), di cui al § 580 n. 4 Z.P.O., anche contro la sentenza già passata in giudicato, si ritiene che la violazione del «dovere di verità e completezza» comporti: a) il rigetto dell’allegazione falsa, dopo che sia stata accertata la sua inesistenza; b) la valutazione della condotta della parte ai fini della ripartizione delle spese giudiziali ai sensi del § 96 Z.P.O. o per l’imposizione di una Verzögerungsgebühr ai sensi del § 38 G.K.G.; c) la valutazione del comportamento scorretto della parte ai fini della decisione ai sensi del § 286 Z.P.O.; d) la possibilità di intentare, nei confronti della parte mendace e del suo difensore, un procedimento penale per truffa processuale (Prozessbetrug), ai sensi del § 263 St.G.B.; e) il possibile esperimento di un’azione risarcitoria per danni ai sensi del § 823, 2° comma, o del § 826 B.G.B. In proposito, anche per i riferimenti, v. E. Schneider, op. cit., p. 342 ss.; L. Rosenberg- K.H. Schwab-P. Gottwald, op. cit., § 65 VIII, p. 418 ss.; K.M. Kiethe, Zilprozessuale Sanktionen gegen unrichtigen und rechtswidrigen Sachvortrag, in MDR, 2007, p. 625 ss.; K. Heß, op. cit., p. 23 ss.; P. Hartmann, op. cit.,, § 138, Rdn. 64; D. Leipold, in F. Stein-M. Jonas, op. cit., § 138 Rdn. 14; K. Reichold, in H. Thomas-H. Putzo, op. cit., § 138, Rdn. 9; K. Prange, op. cit., p. 52 ss.; H. Konzen, op. cit., p. 286 ss. Non dissimile l’impostazione seguita dall’ordinamento austriaco per la violazione del § 178 Z.P.O.: v., per tutti, W. Schragel, in W. Fasching-H. Konecny, op. cit., § 178 Rz. 3, p. 842; R. Pollak, op. cit., p. 411 ss.; W. Fasching, Lehrbuch, cit., Rz. 652; R. Holzhammer, op. cit., p. 127 ss.; per quello spagnolo v., in maniera riepilogativa, J. Pico i Junoy, El principio, cit., p. 265 ss.; F. Toribos Fuentes, Sub art. 247, cit., p. 466 ss.; M.C. Ruiz de la Fuente, Intimaciones Judiciales en El Proceso Civil, Barcelona, 2011, p. 50 ss. ) Nell’ordinamento tedesco, ad es., per violazione del § 43, 3° comma, della B.R.A.O., che, fra i Grundpflichten, impone all’avvocato anche il dovere di obiettività (Sachlichkeitsgebot). E’ pacifico, del resto, che il Wahrheitspflicht gravi anche sul difensore della parte: v., per tutti, P. Hartmann, op. cit., § 138, Rdn. 8; D. Leipold, in F. Stein-M. Jonas, op. cit., § 138 Rdn. 16; E. Peters, in Münchener Kommentar, cit., § 138, Rdn. 4; K. Reichold, in H. Thomas-H. Putzo, op. cit., § 138, Rdn. 8; R. Zöller-R. Greger, op. cit., § 138, Rdn. 5; C. Abeling, op. cit., p. 21 s.; M. Kawano, op. cit., p. 422; in senso critico, B. Hirtz, Der Umgang mit der Wahrheit im Zivilprozess. Oder: ist der Rechtsanwalt im Zivilprozess zur Wahrheit verpflichtet?, in AnwBl, 2006, p. 780 ss. Nel senso che, nel rispetto del Wahrheitspflicht, l’avvocato non debba allegare in giudizio fatti che sa essere non veri, anche BGH, in NJW, 1952, p. 1148. Sul dovere di probità del difensore v., in particolare, M. Pagenstecher, Bemerkungen über die Wahrheitspflcht in Zivilprozess, in Zeit.dei Akademie für deut. Recht, 1935, p. 973 ss.; P. Calamandrei, Relazioni di buon vicinato tra giudici e difensori, in Riv. dir. proc. civ., 1943, II, p. 3 ss., ora in Studi sul processo civile, V, Padova, 1947, p. 267 ss.; E. Koffka, Die Wahrheitspflicht des Anwalts im bürgerlichen Rechtsstreite, in Juristiche Wochenschrift, n. 42, 1913, p. 1078; C. Giovannucci Orlandi, Sul dovere di lealtà e probità die difensori nel processo civile e nella legge professionale forense, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1974, p. 257 ss.; per il dibattito nella dottrina tedesca v. F. Lindenberg, Wahrheitspflicht und Dritthaftung des Rechtsanwalts im Zivilverfahren, Bonn, 2002, p. 54 ss. 195 196 ) Nell’ordinamento tedesco, ad es., ai sensi del § 263 StGB. 42 Ora, con riferimento alle conseguenze di natura processuale, occorre anzitutto richiamare il rimedio revocatorio di cui all’art. 395 n. 1 c.p.c. (197), il quale potrà essere esperito, tuttavia, sempre che ricorrano i due presupposti previsti: la sentenza sia stata favorevole alla parte che si sia resa responsabile della violazione del dovere di verità e completezza; l’allegazione di un fatto non veritiero, e dunque il semplice mendacio, o l’omessa allegazione di alcuni fatti rilevanti per la decisione non sia fine a se stessa, ma abbia effettivamente e dolosamente deviato o impedito l’attività difensiva di controparte (198). In tutti gli altri casi, invece, è convinzione diffusa che il silenzio, il mendacio, la falsa allegazione possano rilevare al fine di integrare la figura del dolo revocatorio solo laddove si inseriscano come elemento essenziale in una positiva attività di macchinazione fraudolenta, volta appunto a trarre in inganno la controparte ed a pregiudicare la sua attività difensiva (199). Ma anche se non dovesse rilevare ai fini della configurabilità del dolo revocatorio la violazione del dovere di verità e completezza rileverà come violazione dell’art. 88 e determinerà, di conseguenza, l’applicazione delle sanzioni appositamente stabilite in tal caso dal codice ( 200). Per quanto riguarda la parte rilevano, in particolare: a) la condanna al rimborso delle spese giudiziali, anche non ripetibili, che abbia provocato alla controparte, ai sensi dell’art. 92, 1° comma, c.p.c. ed a prescindere dalla soccombenza (201); b) in caso di soccombenza, l’applicazione della «sanzione» di 197 ) Così F. Carnelutti, Istituzioni, cit., p. 486, il quale parte dal presupposto che il «dolo» di cui parla l’art. 395 n. 1 c.p.c. vada inteso nel senso di «violazione dolosa di un obbligo della parte con danno di un’altra parte o di un terzo» e dunque anche dell’obbligo «di non ingannare il giudice o l’altra parte». 198 ) Così, fra le molte, sulla scia di Cass., sez. un. 6 settembre 1990, n. 9213, in Foro it., 1991, I, 484 ss., con nota adesiva di G. Tombari Fabbrini, Cass., 2 marzo 2010, n. 4936, in Mass. Foro it., 2010; Cass., 13 gennaio 2010, n. 430, ibidem; Cass., 19 settembre 2008, n. 23866, in Mass. Foro it., 2008; Cass., 26 gennaio 2004, n. 1369, ivi, 2004; Cass., 29 gennaio 2002, n. 1155, in Giur. It., 2002, II, 1582 ss., con nota di G. Caraffa Braga; Cass., 22 gennaio 2001, n. 888, in Giur. it., 2001, p. 2282 ss., con nota di E. Lucertini; Cass., 15 maggio 1996, n. 4508, in Rep. Foro it., 1996, voce Revocazione (giudizio di), n. 5; Cass., 29 agosto 1994, n. 7576, ivi, 1994, voce cit., n. 16; Cass., 5 giugno 1993, n. 6322, ivi, 1993, voce cit., n. 24; Cass., 30 marzo 1992, n. 3863, in Giur. it., 1993, I, 1, c. 105 ss.; Trib. Salerno, 7 gennaio 2011, in Corr. merito, 2011, p. 489 ss., con nota di M. Petri; per il processo amministrativo, Cons. Stato, 31 maggio 2010, n. 3127, in Foro amm.-Cons. Stato, 2010, p. 1116; Cons. Stato, 17 settembre 1984, n. 507, in Rep. Foro it., 1984, voce cit., n. 6; Cons. giust. amm. Sicilia, 29 giugno 2005, in Ragiusan, 2005, p. 257 ss. Ma nel senso che la falsa allegazione integri di per sé dolo revocatorio, C. Marchetti, op. cit., p. 418 ss.; V. Andrioli, Commento, cit., II, p. 622; Id., Diritto processuale civile, I, Napoli, 1979, p. 935 ss.; M. Gradi, Contributo, cit., p. 290 ss.; in giurisprudenza, Pret. Roma, 25 gennaio 1983, cit. Sottolineano, comunque, lo stretto collegamento fra l’art. 88 e l’art. 395 n. 1 c.p.c., V. Colesanti, Sentenza civile (revocazione della), in Noviss. Dig. it., XVI, Torino, 1969, p. 1164 ss.; E. Fazzalari, Revocazione (dir. proc. civ.), in Enc. dir., XL, Milano, 1989, p. 293 ss.; F. Tommaseo, op. cit., p. 146. Nel senso della necessità che i comportamenti della parte in violazione dell’art. 88 c.p.c. per essere idonei a fondare la revocazione richiedano un disegno fraudolento di deviare o impedire l’attività difensiva di controparte, G. Zani, La revocazione e l’opposizione di terzo nel nuovo c.p.c., in Riv. dir. proc., 1942, p. 268; A. Attardi, La revocazione, cit., p. 141 ss.; G. De Stefano, La revocazione, Milano, 1957, p. 124; S. Satta, Commentario al c.p.c., II, 2, Milano, 1962, p. 320 ss.; A. Cerino Canova, Revocazione, in Studi di diritto processuale civile, Padova, 1992, p. 503 ss.; A. Cerino Canova-G. Tombari Fabbrini, op. cit., p. 2; F. Rota, Revocazione nel diritto processuale civile, in Dig. civ., XVIII, Torino, 1998, p. 477; A. Proto Pisani, Lezioni, cit., p. 537; C. Punzi, op. cit., II, p. 555; G. Verde, Diritto processuale civile, cit., II, p. 278; C. Ferri, in L.P. Comoglio-C. Ferri-M. Taruffo, Lezioni, cit., p. 738; G. Monteleone, op. cit., I, p. 728; C. Mandrioli, Diritto processuale civile, cit., II, p. 656. 199 ) Oltre alle pronunce citate alla nota 198, v., ad es., Cass., 20 febbraio 2013, n. 4267 e Cass., 4 gennaio 2013, n. 122; Cass., 10 aprile 2012, n. 5648, in Giust. civ., 2012, I, p. 1433; Cass., 30 agosto 2002, n. 12720, in Gius, 2003, p. 170. V. anche G. Tombari Fabbrini, In tema di dolo revocatorio ex art. 395 n. 1 c.p.c., in Foro it., 1991, I, p. 492; E. Capaccioli, In tema di dolo revocatorio, in Giur. it., 1951, I, 1, c. 291 ss., spec. c. 297. 200 ) V., per tale conclusione, già P. Calamandrei, Il processo come giuoco, cit., p. 31; C. Mandrioli Dei doveri delle parti, cit., p. 962 ss.; G. Monteleone, op. cit., p. 177 s.; v. anche Cass., 2 marzo 2010, n. 4936, cit.; Cass., 19 settembre 2008, n. 23866, cit. 201 ) In questo senso Cass., 18 aprile 1977, n. 1435, in Rep. Foro it., 1977, voce Revocazione (giudizio di), n. 1, che sanziona sotto il profilo della violazione dell’art. 88, e quindi della condanna al pagamento delle spese processuali, le 43 cui all’art. 96, 3° comma, c.p.c., il quale è diretto a sanzionare proprio comportamenti genericamente abusivi della parte, fra i quali è ragionevole far rientrare, appunto, anche attività allegative o contestazioni in contrasto con il dovere di verità e completezza ( 202); c) sempre in caso di soccombenza ed in cumulo con la «sanzione» di cui sub b) (203), la condanna anche per «responsabilità aggravata», ai sensi dell’art. 96, 1° comma, c.p.c., tenendo presente che, sebbene vada escluso qualsiasi automatismo fra «responsabilità aggravata» e violazione del dovere di verità e completezza, non v’è dubbio che proprio il mancato rispetto di questo dovere, nei termini sopra visti, può costituire un chiaro indice della «mala fede o colpa grave» con cui la parte ha agito o resistito in giudizio (204) (così, ad es., se l’allegazione di fatti consapevolmente non veri determinerà all’esito del giudizio il rigetto nel merito della domanda proposta, parimenti tale comportamento potrà rilevare per integrare il dolo o la colpa grave necessaria per supportare la condanna per responsabilità aggravata e la stessa cosa accadrà ove la parte abbia contestato fatti ex adverso allegati che sa essere veri) (205); d) le ricadute che la violazione del dovere in questione ha, quale affermazioni non veritiere della parte; v. anche Cass., sez. un., 29 marzo 2011, n. 7097, in Mass. Foro it., 2011, a proposito della tardività nella proposizione della questione di giurisdizione, che la parte avrebbe potuto proporre prima; in dottrina, per tutti, C. Mandrioli, Dei poteri, cit., p. 962; V. Andrioli, Commento, cit., I, p. 258; Id., Diritto processuale civile, cit., p. 413 s.; E. Grasso, Della responsabilità, cit., p. 1004; P. Pajardi, op. cit., p. 47; G. Tarzia, op. cit., p. 485 s.; F. Cordopatri, L’abuso, cit., II, p. 412 ss.; A. Attardi, op. cit., p. 372 s., che richiama l’esempio delle spese sostenute per la ricostruzione di un documento prodotto in causa e che la controparte abbia sottratto e distrutto; G. Balena, Istituzioni di diritto processuale civile, 2a ed., I, Bari, 2012, p. 301, testo e nota 7. 202 ) A. Carratta, Intervento, cit., p. 246; Id., L’abuso del processo e la sua sanzione: sulle incertezze applicative dell’art. 96, comma 3, c.p.c., in Fam. e dir., 2011, p. 809 ss., dove gli opportuni riferimenti dottrinali. In questi termini anche Cass. pen., sez. VI, 11 febbraio 2011, n. 5300, in Il civilista, n. 4, p. 24; Trib. Lamezia Terme, 2 aprile 2012, in www.ilcaso.it; Trib. Milano, 11 gennaio 2012, in Danno e resp., 2012, p. 661 ss., con nota di F. Busnelli e E. D’Alessandro; Trib. Milano, 4 marzo 2011, in Fam. e dir., 2011, p. 809 ss., con mia nota; Trib. Salerno, 9 gennaio 2010, in Foro it., 2010, I, c. 1018 ss.; Trib. Terni, 17 maggio 2010, in Giur. it., 2011, p. 143 ss., con nota di F. Fradeani; Trib. Varese, 30 ottobre 2009, in Nuova giur. civ. comm., 2010, I, p. 488 ss., con nota di R. Breda. Per altre indicazioni v. S. Benini, Abuso del processo e temerarietà attenuata, in Il libro dell’anno del diritto Treccani, Roma, 2012, p. 635 ss. 203 ) Così Cass., 27 febbraio 2013, n. 4926, in Fisco, 2013, n. 14, p. 2122; Cass., 27 febbraio 2013, n. 4925, in GT Riv. giur. trib., 2013, n. 8-9, p. 673 ss., con nota di S. Dalla Bontà. 204 ) Così, mi pare, con riferimento al dovere di buona fede processuale, nel vigore del codice del 1865 ed in riferimento alla condanna per responsabilità per danni dell’art. 370, G. Chiovenda, La condanna nelle spese giudiziali, Roma, 1935, p. 329 s.; con riferimento al dovere di lealtà e probità e all’art. 96 del codice vigente, G. Calogero, Probità, cit., p. 149; F. Carnelutti, Istituzioni, cit., p. 193; P. Calamandrei, Il processo come giuoco, cit., p. 31; V. Andrioli, Commento, cit., I, p. 267; Id., Diritto processuale civile, cit., p. 414; S. Satta, Commentario, cit., I, p. 321; C. Calvosa, La condanna al risarcimento dei danni per responsabilità aggravata, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1954, p. 378 ss., spec. p. 389 ss.; C. Marchetti, op. cit., p. 426 s.; M. Cappelletti, La testimonianza, cit., p. 384 ss.; Id., Processo e ideologie, cit., p. 216 ss.; E. Grasso, Note sui dovere da illecito processuale, in Riv. dir. proc., 1959, p. 270 ss.; Id., Delle responsabilità delle parti, in Comm. c.p.c., diretto da E. Allorio, I, 2, Torino, 1973, p. 982 ss., spec. p. 1034 s.; C. Consolo, op. cit., II, p. 247 e p. 255; G. Balena, op. cit., I, p. 305, che parla esplicitamente, per configurare l’applicabilità dell’art. 96, 1° comma, del soccombente il quale «abbia impostato la propria azione o le proprie difese su un complesso di allegazioni in fatto, positive o negative, rivelatesi, all’esito del giudizio, del tutto artificiose e difformi dalla realtà»; F. Cordopatri, L’abuso, cit., II, p. 605; M. Gradi, Contributo, cit., p. 243 ss.; G.F. Ricci, op. cit., I, p. 215; M. Lupano, op. cit., p. 170 ss. Escludono, invece, qualsiasi relazione fra l’art. 88 e l’art. 96 c.p.c. E.T. Liebman, Manuale, 4a ed., cit., I, p. 109 e p. 115 e 8a ed., cit., p. 119 e p. 124; G. Bongiorno, Responsabilità aggravata, in Enc. Giur. Treccani, XXVI, Roma, 1991, p. 2; C. Mandrioli, Dei doveri, cit., p. 963; Id., Diritto processuale civile, cit., I, p. 433, in nota 44, dove l’evidenziazione che «l’art. 96 concerne l’introduzione della causa, mentre l’art. 88 concerne il comportamento nella causa»; G. Verde, Diritto processuale civile, 2a ed., I, Bologna, 2010, p. 291; G. Scarselli, Lealtà e probità, cit., p. 135, testo e nota 96; Id., Le spese giudiziali civili, Milano, 1998, p. 329; il diverso ambito applicativo dell’art. 88 e dell’art. 96 è stato sottolineato anche da Corte cost., 23 dicembre 2008, n. 435, in Giur. cost., 2008, p. 4925. 205 ) Questo, del resto, sembra essere anche l’orientamento sia della giurisprudenza di legittimità (v., ex multis, Cass., 19 novembre 2009, n. 24453, in caso di consapevole infondatezza di quanto sostenuto; Cass., 6 giugno 2003, n. 9060, in Rep. Foro it., 2003, voce Spese giudiziali civili, n. 71; Cass., 26 agosto 2002, n. 12541, ivi, 2002, voce cit., n. 65; Cass., 44 «comportamento processuale», ai fini della formazione del convincimento del giudice, che «sorveglia continuamente, dal balcone dell’art. 116 c.p.c., il contegno delle parti nel dibattito» ( 206) (e questo, a prescindere dal valore probatorio che si intenda attribuire agli «argomenti di prova» di cui parla l’art. 116, 2° comma, c.p.c.) (207); e) l’esercizio dei poteri direttivi del giudice imposti dall’art. 175 c.p.c. (straordinariamente «vicino» all’art. 88, anche dal punto di vista lessicale), laddove gli impone di esercitare «tutti i poteri intesi al più sollecito e leale svolgimento del procedimento» (208) e quindi di impedire comportamenti delle parti che ostacolino non solo il «sollecito» svolgimento del giudizio, ma anche la sua «leale» conduzione ( 209), riconoscendo al giudice il potere – come osserva Liebman (210) – di «esercitare un controllo, per così dire un potere di polizia moralizzatrice, sull’attività delle parti, per prevenire, possibilmente, o impedire ogni forma di contegno sleale e per sventare le manovre scorrette di una parte verso l’altra» (c.vo nostro) (e qui si pensi, ad es., alla possibilità di dichiarare inammissibili eventuali allegazioni non pertinenti e irrilevanti rispetto alla domanda o eccezione proposta o di non ritenere «specifica contestazione» dei fatti ex adverso allegati, la dichiarazione della parte di non conoscere fatti alla cui produzione risulta aver partecipato o che comunque non può ragionevolmente non conoscere). 16 gennaio 1989, n. 163, in Giust. civ., 1989, I, p. 857 ss.), che di merito (v., ad es., Trib. Monza, 9 gennaio 2013, in www.pluris-cedam.utetgiuridica.it, in caso di improprio disconoscimento di sottoscrizione di scrittura privata; Trib. Padova, 30 marzo 2006, in Nuova giur. civ. comm., 2007, p. 573 ss., con nota di M. Bonomi, per dichiarazioni consapevolmente mendaci in sede di interrogatorio libero; Trib. Milano, 22 marzo 2006, in Corr. merito, 2006, p. 1263 ss., con nota di M. Gradi; Trib. Napoli, 3 gennaio 2006, in Corr. merito, 2006, p. 294 ss., con nota di G. Casaburi; Giud. pace, 4 maggio 2005, in Giud. pace, 2005, p. 217 ss., con nota di V. Amendolagine; Trib. Milano, 14 maggio 2003, in Foro padano, 2003, I, c. 424 ss., con nota di A. Marchesi; Trib. Venezia, 17 novembre 1968, in Giur. merito, 1970, I, p. 435) nel considerare integranti i presupposti della responsabilità aggravata dell’art. 96 anche le allegazioni consapevolmente mendaci o reticenti della parte. 206 ) Così, testualmente, P. Calamandrei, Il processo come giuoco, cit., p. 31; v. anche L.P. Comoglio, Sub art. 88, cit., p. 1139. V., in proposito, anche Cass., 16 dicembre 2011, n. 27149, in Mass. Foro it., 2011, che, applicando l’art. 116, 2° comma, ha ritenuto fondata la domanda attrice valutando come in violazione dell’art. 88 il comportamento della parte che nel corso del giudizio aveva distrutto i materiali informatici originali, pur nella consapevolezza che essi avrebbero potuto formare oggetto di accertamento peritale; nella stessa direzione si muove Trib. Mondovì, 22 marzo 2010, in www.ilcaso.it, che ha ritenuto in violazione dell’art. 88 c.p.c. il comportamento della parte che abbia omesso reiteratamente l’esibizione della documentazione richiesta ex art. 210 c.p.c., dichiarando contrariamente al vero di non essere in grado di reperire quest’ultima, ed ha attribuito a tale condotta il valore di pieno riconoscimento della fondatezza delle domande di controparte. 207 ) Sulla questione mi sia consentito rinviare ad A. Carratta, Il principio, cit., p. 189 ss.; Id., Prova e convincimento, cit., p. 46 ss. 208 ) Possono essere ricordate, in proposito, le parole di Chiovenda (Lo stato attuale, cit., p. 396), secondo cui l’«azione direttiva del giudice» costituisce «in ogni tempo ed in ogni luogo … il miglior presidio» per assicurare la «lealtà processuale» delle parti. V. anche Cass., sez. VI, 1° marzo 2012, n. 3189, in Mass. Foro it., 2011, per la quale «il rispetto del diritto fondamentale a una ragionevole durata del processo impone al giudice, ai sensi degli artt. 175 e 127 c.p.c., di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo a una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, da effettive garanzie di difesa e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità, dei soggetti nella cui sfera giuridica l'atto finale è destinato a esplicare i suoi effetti»; Cass., sez. un., 3 novembre 2008, n. 26373, in Giur. it., 2009, p. 668 ss., con nota di A. Didone e in Riv. dir. proc., 2009, p. 1684 ss., con nota di L.P. Comoglio. 209 ) In questa direzione v. anche Cass., sez. un., 3 novembre 2008, n. 26373, cit.; Cass., 19 agosto 2009, n. 18410, in Mass. Foro it., 2009. 210 ) E.T. Liebman, Manuale, 4a ed., cit., I, p. 108 e 8 a ed., cit., p. 119; C. Mandrioli, Dei poteri, cit., p. 962 s.; anche A. Proto Pisani, Lezioni, cit., p. 537 rileva che, ai sensi dell’art. 175 c.p.c., il giudice «dovrebbe essere garante» del rispetto del dovere di lealtà e probità imposto alle parti e ai loro difensori dall’art. 88; L.P. Comoglio, Sub art. 88, cit., p. 1122, che parla dell’art. 88 come «fondamento giustificativo specifico» del potere di direzione del giudice di cui all’art. 175; N. Picardi, Manuale, cit., p. 187. 45 Per quanto riguarda, invece, le conseguenze a carico del difensore occorre ricordare la segnalazione alle autorità che esercitano il potere disciplinare dell’avvenuta violazione del dovere di lealtà e probità mediante la violazione del dovere di verità e completezza, così come stabilito dall’art. 88, 2° comma (211). Ma questa previsione va completata con quanto stabilisce l’art. 14 del codice deontologico forense (212), il quale, in linea con l’art. 4.4 del codice deontologico europeo, prevede ora, dopo le modifiche del 2006, che le sue dichiarazioni in giudizio relative all’esistenza o inesistenza di fatti, che siano presupposto specifico per la pronuncia di un provvedimento del magistrato e di cui l’avvocato abbia avuto diretta conoscenza, «devono essere vere e comunque tali da non indurre il giudice in errore». Per quanto restrittiva possa essere l’interpretazione di questa disposizione deontologica (ed in proposito spesso si richiama l’espressa limitazione del «dovere di verità», imposto dall’art. 14 del codice deontologico, ai fatti «di cui l’avvocato abbia diretta conoscenza»), è difficile negare che il difensore violi tale obbligo ove alleghi in giudizio fatti che sa essere non veri (oppure contesti allegazioni della controparte che sa, per esserne stato informato dalla parte, essere vere) (213). Tanto più se si considera, da un lato, che lo stesso codice deontologico impone all’avvocato di «ispirare la propria condotta all’osservanza dei «doveri di probità, dignità e decoro» (art. 5, comma 1) e di «svolgere la propria attività professionale con lealtà e correttezza» (art. 6); disposizioni, queste, che necessariamente richiedono di essere coordinate proprio con l’art. 88 c.p.c.; dall’altro lato, che lo stesso art. 14 pone come canone complementare il divieto per l’avvocato di «introdurre intenzionalmente nel processo prove false» e di «assumere a verbale [o] introdurre dichiarazioni di persone informate sui fatti che sappia essere false». 24. - Considerazioni conclusive. Non resta che aggiungere alcune considerazioni conclusive all’ormai lungo discorso. E queste non possono che racchiudersi nella convinzione che oggi sia del tutto inutile, ed anzi fuorviante, discettare – nel nostro come in qualsiasi altro ordinamento processuale – di un dovere di verità e completezza per le parti inteso come dovere di «verità materiale», e dunque nel senso che esse siano tenute ad allegare tutti (anche quelli contra se) e solo i fatti di causa oggettivamente veri. 211 ) Potere di segnalazione che, come ha riconosciuto la Cassazione (v., da ultimo, Cass., sez. VI, 9 luglio 2012, n. 11488, in www.dejure.it, che richiama anche il precedente Cass., 12 febbraio 1989, n. 3487), «costituisce un potere valutativo discrezionale volto alla tutela di interessi diversi da quelli oggetto di contesa fra le parti, ed il suo esercizio d’ufficio, presentando carattere ordinatorio e non decisorio, si sottrae all’obbligo di motivazione e non è sindacabile in sede di legittimità». In proposito, per altri riferimenti, v. G. Vanacore, Il dovere processuale di lealtà e probità e le espressioni sconvenienti ed offensive: riflessioni sugli artt. 88 e 89 c.p.c., in Resp. civ., 2011, p. 337 ss.; L.P. Comoglio, Sub art. 88, cit., p. 1142 s. 212 ) Sul valore pienamente giuridico delle regole deontologiche rinvio ad A. Carratta, Sub art. 112, cit., p. 265 ss. 213 ) Per le medesime conclusioni v. P. Moro, Etica e retorica forense, cit., p. 38 s.; in termini non dissimili L.P. Comoglio-V. Zagrebelsky, Modello accusatorio e deontologia dei comportamenti processuali nella prospettiva comparatistica, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1993, p. 436 ss., spec. p. 486 ss., per i quali «non par possibile dubitare che anche al difensore … incomba un dovere di verità, o quantomeno un divieto di consapevole falsificazione»; F. Tommaseo, op. cit., p. 147; F. Cipriani, L’Avvocato e la verità, cit., p. 134 s., il quale osserva anche: «che gli avvocati non abbiano alcun diritto di mentire e/o di imbrogliare le carte, è stato sempre affermato sia dal Consiglio nazionale forense in sede giurisdizionale, sia dai vari Consigli dell’ordine in sede disciplinare»; A. Dondi-A. Giussani, Appunti sul problema dell’abuso del processo civile nella prospettiva de iure condendo, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2007, p. 193 ss.; P. Sandulli, Deontologia forense e recenti riforme del processo civile, in Riv. dir. proc., 2012, p. 363 ss.; G. Romualdi, op. cit., p. 66 ss. e p. 87 s.; L.P. Comoglio, Sub art. 88, cit., p. 1134 s.; diverse le conclusioni alle quali perviene, invece, G. Scarselli, Ordinamento giudiziario, cit., p. 450 ss., che limita il divieto di mentire del difensore alle sole ipotesi in cui le sue dichiarazioni debbano essere prese in considerazione dal giudice senza preventiva instaurazione del contraddittorio con la controparte; contrari al divieto di mentire del difensore anche R. Danovi, Dovere di verità e dovere di lealtà nella deontologia forense, in Saggi sulla deontologia e professione forense, Milano, 1987, p. 95 ss.; Id., Commentario, cit., p. 168 e p. 243 ss.; Id., Codice deontologico, cit., p. 251, che parla di «ogni più ampia libertà di menzogna» dell’avvocato; P. Gianniti, Principi di deontologia forense, Padova, 1992, p. 171. 46 Non di questo, infatti, si discute quando si riflette intorno al tema – come è emerso nelle pagine che precedono – sia negli ordinamenti nei quali un simile dovere è expressis verbis affermato da specifiche disposizioni codicistiche, sia in quegli ordinamenti nei quali, al pari del nostro, pur in assenza di tali disposizioni, se ne riconosce la piena cittadinanza quale manifestazione della correttezza e della lealtà processuale. Liberato il campo dal pericoloso ed ingombrante dovere di verità «materiale» o «sostanziale» e riportato il discorso ai più esatti e confacenti termini del dovere di verità «soggettiva» o «processuale», il dovere in questione assume i «panni» più dimessi, ma indubbiamente più funzionali di componente imprescindibile della lealtà e probità processuale e, per questa via, reclama piena cittadinanza anche nel nostro ordinamento, sorretto dal «piedistallo normativo» dell’art. 88 c.p.c.; norma, quest’ultima, bistrattata e guardata con sospetto fin da quando è entrata nel nostro codice, ma che assume, invece, un ruolo centrale nell’odierna valorizzazione della buona fede processuale delle parti. E ciò nella comune consapevolezza che – come puntualmente osservava Lodovico Mortara più di un secolo fa - «tutti i mezzi che favoriscono la trattazione leale, semplice e sollecita della controversia devono trovare sanzione nella legge processuale» (214) e, se il processo è «una vera battaglia», comunque in essa «è necessario trionfi non la forza o l’astuzia, ma la ragione» (215). 214 ) L. Mortara, op. cit., III, p. 568. 215 ) L. Mortara, Manuale della procedura civile, 6a ed., I, Torino, 1910, p. 5. 47