Evoluzione storica del problema energetico

EVOLUZIONE STORICA
DEL PROBLEMA ENERGETICO
L’evoluzione tecnologica e le fonti di energia – La crisi energetica
e la riflessione sul sistema energetico occidentale
La costruzione di una teoria economica dell’ambiente
di
IOLE BENINI
mente. Durante la seconda metà del XVII secolo,
l’aumento della crisi, obbligò i governi di tutta Europa, a porre severe restrizioni sull’abbattimento degli
alberi.
La tecnologia del momento era privata del suo
supporto energetico.
Dal secolo XIII in Europa, il carbone era conosciuto come fonte di calore, ma vi era un problema
non trascurabile riguardo l’estrazione dello stesso.
Oltre una certa profondità ogni miniera era inondata
dalle acque sotterranee. In quell’epoca, le fonti di energia motrice erano limitate alla forza muscolare
dell’uomo e degli animali da soma, oppure
all’energia del vento o delle acque. Queste fonti, però, non erano sufficientemente potenti per seccare le
miniere.
Né Galileo né Huyggins furono in grado di trovare una soluzione valida per risolvere il problema della infiltrazione delle acque2. Solamente nel 1705, sulla base di studi fatti dal francese Papin di un modello
rudimentale di macchina a vapore, Newcomen, per
rispondere alle richieste delle industrie minerarie, costruì il primo esemplare di pompa a vapore per miniera, perfezionato nel 1765 da James Watt.
Questa scoperta ebbe un effetto prometeico. La
macchina a vapore, come il fuoco, permise una conversione qualitativa dell’energia calorifica in energia
motrice. La macchina a vapore mise gli uomini in
condizioni tali da poter utilizzare per la prima volta
una nuova e più potente fonte di energia motrice:
quella dei combustibili fossili3.
L’evoluzione delle diverse fonti energetiche
L’uomo primitivo riuscì ad utilizzare per la prima
volta il fuoco osservando gli effetti dei fulmini che
colpivano gli alberi. Diede inizio così ad una nuova
era, quella del fuoco. Con l’introduzione di questa
scoperta nelle attività quotidiane, l’uomo amplificò la
disponibilità di energia al di là di quanto la natura gli
offrisse. Infatti, fino a quel tempo, aveva avuto a sua
disposizione solamente l’energia muscolare fornitagli
dall’energia biochimica contenuta nei cibi, e
l’energia solare che usava principalmente per riscaldarsi.
Il fuoco permise la conversione qualitativa
dell’energia, da energia chimica a energia calorifica
ed esso dava luogo ad una reazione a catena per cui
da una piccola fiamma poteva scaturire un incendio.
Il mito di Prometeo, che carpisce il fuoco agli dei,
apre un’era tecnologica che può essere indicata come
età del legno1. In effetti il legno è stato, per molto
tempo, l’unica fonte di energia calorifica disponibile il
cui utilizzo era semplice e conveniente, vista l’enorme
quantità di materia prima disponibile in natura.
Con lo sviluppo della civiltà e con le conseguenti
esigenze di strutture sociali sempre più complesse
richiedenti maggiori quantità di energia, il dono di
Prometeo contribuì alla propria estinzione. Infatti lo
scopo del mito prometeico era accelerare lo sviluppo
tecnico contribuendo, però, all’esaurimento crescente
del combustibile che utilizzava. Così, le foreste del
mondo occidentale cominciarono a sparire veloce-
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Estratto «Economia e Ambiente», Anno XXVI - N. 6 Novembre-Dicembre 2007
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Il ruolo svolto dal carbone come fonte energetica
primaria vide un primo rallentamento a partire dalla
Prima Guerra Mondiale. Una causa di questa diminuzione può essere ricercata nell’uso di una nuova fonte
primaria di energia: il petrolio.
I fattori che permisero di prediligere il petrolio rispetto al carbone furono svariati. Tra questi i più importanti furono i minori costi di estrazione, la maggior facilità di trasporto, in termini sia fisici che economici, e la molteplicità dei prodotti derivati, come
la benzina, le nafte e i prodotti chimici.
Il sistema energetico degli anni Settanta risulta
pertanto dominato dagli idrocarburi, quali petrolio,
suoi derivati e gas naturale, dal carbone e, in modo
marginale, da altre fonti primarie4.
Oggi, viviamo ancora nell’età di questi combustibili, ma la straordinaria fortuna mineralogica, che è
cominciata circa duecento anni fa, si avvicina prematuramente alla fine, conseguenza inevitabile dell’uso
spropositato del secondo dono prometeico5.
Anche la scoperta del reattore nucleare, pur rappresentando una potenziale risorsa energetica, non è
un dono prometeico, perché, al pari del petrolio scoperto intorno al 1860, non trasforma qualitativamente
l’energia ma elargisce solamente calore.
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grave crisi economica e per la prima volta si parla di
crisi energetica. Alcuni autori, tuttavia, senza aspettare l’avvertimento dell’embargo petrolifero, avevano
da tempo riconsiderato, sotto nuovi punti di vista, il
vecchio problema del rapporto tra quantità di risorse
naturali accessibili, dimensioni della popolazione e
benessere, ed è particolarmente significativo il fatto
che questi autori, praticamente senza eccezione, abbiano anche sostenuto che l’energia è il solo supporto
necessario al processo economico. Si tratta quindi di
una tesi che rappresenta il risultato di un vero e proprio impegno intellettuale. Solo gli economisti non si
volevano rendere conto del rapporto indissolubile che
esisteva fra scarsità di risorse naturali e processo economico nel suo complesso7.
Prima della crisi petrolifera, il mondo industriale
era così abituato all’energia a buon mercato che dava
la sua disponibilità per scontata. L’energia, però, era
conveniente solo perché il prezzo del petrolio greggio era basso sia rispetto allo stesso prezzo del periodo successivo sia al prezzo del carbone nello stesso
periodo. Naturalmente, la reazione della tecnologia a
quella costellazione di prezzi è stata di ignorare il costo dell’energia: le automobili venivano progettate in
modo che il guidatore avesse sempre più spazio,
sempre più comodità lussuose e sempre più pulsanti
inutili. Con l’elettricità c’era una grande abbondanza
di riscaldamento, raffreddamento e illuminazione.
D’altro canto la differenza di prezzo a sfavore del
carbone riduceva in povertà le regioni carbonifere,
come ad esempio l’Appalachia, e scoraggiava qualunque ricerca verso un’utilizzazione più efficiente e
pulita del carbone. La crescita dell’utilizzo del petrolio negli anni settanta è stata enorme; tant’è che tale
fonte energetica contribuiva per il 57% alla produzione energetica cumulativa di quel periodo.
Quando, alle stazioni di benzina, apparvero le
prime scritte “pompe chiuse”, la reazione immediata
degli esperti di economia fu di dichiarare che
l’improvviso aumento del prezzo del petrolio era solo
un evento transitorio, di natura essenzialmente politica, non economica. M. A. Adelman, uno dei maggiori esperti di concorrenza monopolistica, sosteneva
che l’OPEC era riuscita ad alzare i prezzi in maniera
inusuale solo per la cattiva politica estera degli Stati
Uniti. Gli antichi beneficiari del petrolio a buon mercato non riuscivano a credere come i paesi arabi riuscissero ad assumere il controllo dei propri interessi
e, implicitamente, di quelli del mondo industriale8.
La crisi energetica del 1973 e gli interrogativi
sull’uso eccessivo delle fonti energetiche
Trattiamo, ora, nello specifico uno dei problemi
più contingenti e preoccupanti del terzo millennio: la
scarsità delle risorse energetiche.
Agli inizi degli anni settanta, il sistema energetico
esistente nel mondo occidentale entra in crisi. Dopo
alcuni segnali isolati, come l’insufficiente disponibilità di olio combustibile negli Usa durante l’inverno
1972-1973, la crisi esplode in Europa nella seconda
metà del 1973. In realtà, ci si è accorti ben presto che
la crisi aveva radici più profonde e meno occasionali,
fondate sul legame tra problemi energetici e problemi
più generali di organizzazione economica e sociale.
E’ proprio il 1973 a segnare l’inizio di una presa
di coscienza del fatto che le risorse naturali non possono essere sfruttate illimitatamente, in quanto soggette ad esaurimento, e che la Terra non può tollerare
continui aumenti di inquinamento e smaltire i rifiuti
che vengono scaricati su di essa6.
In quel periodo il mondo occidentale affronta una
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Articoli
articolo sull’economia della navicella spaziale, sottolineò con drammatica evidenza la fine dell’era delle
risorse facili. Paragonando l’economia del passato a
quella del “cowboy” (che credeva di avere di fronte
una frontiera da spostare continuamente, quindi risorse infinite) e l’economia attuale a quella
dell’astronauta nella sua navicella spaziale (che deve
risparmiare su ogni risorsa e riciclare/recuperare il
massimo possibile, perché le sue risorse sono drammaticamente limitate), Boulding metteva l’accento
sulla necessità di tener conto del concetto di limite in
economia.
Cadeva, così, il mito della crescita indefinita e
della altrettanto indefinita possibilità di prelevare risorse dall’ambiente e di rigettarvi, senza trattamento,
i residui delle attività di produzione e consumo. Veniva posta con grande chiarezza, la questione della
“parte maledetta” del sistema produttivo: i rifiuti, di
cui veniva ricordato che, per legge fisica, hanno la
stessa consistenza del prodotto.
L’impostazione di Boulding, tuttavia, presentava
l’economia della navicella spaziale come perfettamente circolare: se tutto veniva recuperato e riciclato,
il processo poteva continuare all’infinito. Mancava
alla perfetta comprensione del rapporto fra economia
ed ambiente un contributo che sarebbe venuto da Georgescu-Roegen, con l’utilizzo del concetto di entropia12.
Georgescu-Roegen, con la sua opera fondamentale The entropy law and the economic process (1971),
tentava, a partire dalla necessità di prendere in considerazione in modo consistente la questione
dell’ambiente, la costruzione di un nuovo paradigma
fondato sull’utilizzo del concetto di entropia. Secondo Georgescu-Roegen la seconda legge della termodinamica obbliga ad introdurre nel ragionamento economico, finora fondato sui principi della meccanica classica (circolarità e quindi reversibilità dei processi, tendenza all’equilibrio), le leggi del mondo vivente, per il quale esiste una “freccia del tempo” e i
processi sono irreversibili. Già nel 1971 egli poneva
alcune basi di una teoria economica dell’ambiente
sganciata dalla tradizione neoclassica13.
Da ultimo va ricordato un autore che ebbe una
certa rinomanza nei primi anni Settanta, ma che oggi
è quasi dimenticato: E.J.Mishan (1965). Nel suo libro, Growth: the price we pay, sottolineava gli elementi di sgradevolezza e persino di assurdità insiti
nella crescita a tutti i costi e riproponeva, forse per
Alcuni contributi per la costruzione
di una teoria economica dell’ambiente
Prima di inoltrarci nella trattazione specifica della
scarsità delle fonti energetiche, sembra giusto introdurre il problema ambientale in generale.
Vale la pena ricordare alcuni autori che hanno
contribuito alla costruzione di una teoria economica
dell’ambiente, per mostrare come nelle fasi iniziali la
nuova disciplina si fosse posta in posizione critica
rispetto alla teoria dominante e come, successivamente, sia stata invece ricondotta nel suo alveo.
William Kapp, in Social costs of business enterprises (1963, prima edizione 1950), mise in evidenza
come l’impresa privata avesse, fino ad allora, internalizzato i profitti e privatizzato i costi sociali, tra i
quali comprese i danni all’ambiente, prelevando risorse dalla natura senza restituirle. L’analisi di Kapp
prendeva le mosse dalla teoria dei costi esterni elaborata da Marshall in tutt’altro contesto e di cui già Pigou aveva presentato un adattamento alle questioni
ambientali. In un celebre esempio sui danni prodotti
ai boschi dalle scintille delle locomotive e non risarciti, Pigou aveva mostrato che “ … il prodotto netto
marginale privato può essere, a seconda dei casi, eguale maggiore o inferiore al prodotto netto marginale sociale”9.
Pur riconoscendo, quindi, il suo debito verso Pigou, Kapp rilevava come gli sviluppi della teoria neoclassica non avessero certo dedicato alla questione
dei costi sociali l’attenzione che avrebbe meritato. Il
suo lavoro si collocava in un progetto più ampio che
aveva un duplice obiettivo: “… misurare i risultati
del sistema d’impresa privata con l’aiuto di un metro
che trascenda quello del mercato e gettare le basi di
una nuova formulazione dell’analisi economica , che
vi includa quegli aspetti della realtà che numerosi economisti sono stati inclini a scartare o a trascurare,
in quanto non economici”10.
Sempre secondo Kapp è “… solo superando le divisioni attuali delle nostre conoscenze in materia di
scienze sociali o, più precisamente, accettando il fatto che le cose economiche e le cose dette “non economiche” sono strettamente legate e devono essere
studiate parallelamente, che potremmo costruire […]
una vera “economia politica”, dando a questo termine
un significato ancora più largo di quanto non abbiano
fatto gli economisti classici e i loro predecessori”11.
Kenneth Boulding, nel 1966, in un celeberrimo
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Infatti, il piccolo gruppo
di economisti che, a poco a
poco, tra la fine degli anni
Sessanta e la prima metà
degli anni Settanta, prese ad
occuparsi
dell’economia
dell’ambiente, si incanalò
ben presto nel grande corso
dell’economia neoclassica,
accettandone fondamentalmente principi e strumenti;
in particolare, il dogma del
mercato
autoequilibrante,
mettendo da parte le voci
discordi, che pure erano state autorevoli e tempestive.
Per oltre vent’anni il
cuore
dell’economia
dell’ambiente sarebbe stato
costituito dalla discussione
sull’uso di standard, tasse,
diritti di emissione; mentre i
temi critici e di più ampio
respiro sarebbero stati accantonati. Forse anche per questa ragione, il ruolo assegnato
alla
nuova
disciplina
nell’ambito
dell’economia sarebbe stato marginale, di spessore
puramente applicativo. Ciò non significa, naturalmente, che non sia stato fatto un eccellente lavoro di
elaborazione, discussione e sperimentazione degli
“strumenti di lavoro” della nuova branca
dell’economia15. Le opere pioniere di Coase, Buchanan e Stubblebine, Kneese, Herfindhal, Krutilla e Fisher, Maler, Ayres, di Baumol su esternalità, regolamentazioni ambientali, economia delle risorse naturali, di Leontief sull’estensione dell’analisi inputoutput alle attività di smaltimento dei residui, e via
via di molti altri, hanno prodotto un’analisi approfondita dei limiti del funzionamento del mercato rispetto alle questioni ambientali e proposto numerosi
modi di intervento16.
Rispetto a molte altre scienze sociali, come la sociologia, la geografia, la storia, la filosofia, ma anche
rispetto a molte discipline tecnico-scientifiche,
l’economia è stata forse la prima a sviluppare un settore specifico, pur se fino alla metà degli anni Ottanta
molto marginale e occulto. Ma gli sviluppi
dell’economia dell’ambiente sono stati troppo timidi
e rispettosi dell’ortodossia: hanno fornito qualche e-
Un mulino ad acqua
primo nel nostro secolo, una questione che aveva invece appassionato gli economisti del secolo scorso,
quella della “crescita zero”. Questa questione sarebbe
stata splendidamente trattata da Herman Daly nel suo
Lo stato stazionario (1981), anch’esso ignorato
dall’economia ufficiale. E, più recentemente, ancora
da Daly e Cobb in For the common good (1989).
Anche in questo caso veniva posta una domanda
fondamentale: perché se quest’anno siamo soddisfatti
del nostro livello di ricchezza, il prossimo dovremmo
essere infelici se non siamo riusciti ad aumentarlo?
Ed i prezzi che paghiamo, in termini di inquinamenti
ambientali e umani, di distruzione del paesaggio, di
pressione sul territorio, sono davvero ripagati da una
crescita della disponibilità di oggetti materiali, spesso
ingombranti, molesti, rumorosi14?
Differenza fra costo sociale e costo privato; esistenza di limiti ai prelievi di risorse e al rigetto di inquinanti, irreversibilità dei processi, quindi anche del
consumo delle risorse e dei danni all’ambiente; necessità, dunque, di affrontare la questione dei limiti
alla crescita. Queste sono le questioni centrali di
fronte a cui si troverà la nascente economia
dell’ambiente. Eppure, nonostante fosse evidente che
non si trattava di questioni marginali, tali rimasero
per molti anni.
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Economia e Ambiente
lemento di discussione per le politiche ambientali
(anche se di tasse, canoni e diritti si è più parlato che
applicato), ma non hanno voluto vedere che l’entrata
dell’ecologia nel territorio dell’economia obbligava a
riconsiderare molte questioni teoriche e non solo a
predisporre degli strumenti.
Paradossalmente, poi, questa timidezza ha anche
fatto sì che l’economia teorica si sia assai poco curata
di quegli attrezzi che faticosamente gli economisti
ambientali stavano approntando ed abbia sostanzialmente sottostimato l’importanza di ciò che stava accadendo nel mondo reale17.
Anche oggi, passando in rassegna la letteratura
economica, si può notare come le domande poste
all’economia dal continuo crescere della emergenza
ambientale non abbiano trovato una sostanziale risposta da parte degli economisti. Nei manuali di economia si trovano, al massimo, la questione dei costi
sociali e ambientali e illustrano la maniera con cui si
può procedere alla loro internalizzazione.
Il modo in cui il problema è trattato, tuttavia, tende a presentarla come una questione risolta ed a classificarla fra le imperfezioni del mercato, correggibile
con alcune specifiche regolamentazioni.
In realtà l’economia è sempre stata infastidita da
tutto ciò che, non essendo prodotto all’interno del sistema economico, necessita di analisi e spiegazioni
che anch’esse stanno, almeno in parte, fuori
dall’economia.
Eppure la questione ambientale è destinata a rappresentare per l’economia, una sfida analoga a quella
delle crisi economiche e della disoccupazione. Ciò
che ci manca, a tutt’oggi, è una nuova teoria generale
che sappia integrare ecologia ed economia e non solo
utilizzare concetti tratti dalle due discipline separate.
Perché ciò possa avvenire bisogna anzitutto che
l’economia si preoccupi di conoscere le scienze della
vita e di capire come le attività dell’uomo siano ad
esse profondamente ed inscindibilmente legate. Il
nuovo economista dovrà avere un’ampia visione culturale, ma questa dovrà andare ben oltre le scienze
sociali, per spaziare nel mondo della biologia, delle
Articoli
scienze naturali, della fisica, della chimica. Non basta: l’ecologia ci ha insegnato che bisogna riuscire a
fare scienza tenendo conto della complessità del reale
e correndo anche il rischio di un approccio generale
e non specifico dei problemi, molti dei quali sono
stati addirittura creati dagli specialismi esasperati18.
Si è andata delineando, così, una distinzione fra
“economia dell’ambiente” ed “economia ecologica”,
intendendo, con la prima, una specializzazione
dell’economia neoclassica; con la seconda, una disciplina trasversale, capace di attingere alle diverse
scienze che affrontano le infinite sfaccettature della
questione ambientale e di utilizzare le informazioni
che da esse provengono per individuare un nuovo paradigma capace di ricostruire un equilibrio di lunga
durata fra l’economia dell’uomo e l’economia
dell’insieme del mondo vivente19.
Iole Benini
NOTE
1
R. MOLESTI, Economia dell’ambiente, 1987, p.196
N.G. ROEGEN, Energia e miti economici, 1976, p. 20
3
R. MOLESTI, op. cit., p.197
4
N.G. ROEGEN, op. cit., p. 21
5
R. MOLESTI , op. cit.,p.196
6
R. MOLESTI, op. cit., 1986, cap. 1 p. 10
7
M. BRESSO, Per un’economia ecologica, 1993, introduzione p.15
8
N.G. ROEGEN, op. cit., p. 22
9
A.C. PIGOU, Economia del benessere, 1960, p. 123
10
W. KAPP, Social costs of business enterprises, 1963, p.
23
11
W. KAPP, Social costs of business enterprises, op.cit.,
1963, p. 23
12
M. BRESSO, op. cit.,1993, p.17
13
ibidem
14
M. BRESSO, op. cit.,1993, p.17
15
M. BRESSO, op. cit., 1993, p.18
16
idem, Introduzione p. 15-19
17
M. BRESSO, op. cit.,1993, p.18
18
M. BRESSO, op. cit., p.21
19
idem, p.18
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