Torino Conservatorio Giuseppe Verdi Lunedì 13.IX.2010 ore 17 Orchestra Master dei Talenti di Fondazione CRT Giuseppe Ratti direttore Domenico Berardi voce recitante MITO SettembreMusica Quarta edizione È un progetto di Realizzato da Con il sostegno di I Partner del Festival partner istituzionale Sponsor Media partner Sponsor tecnici Il Festival MITO compensa le emissioni di CO2 tramite il rimboschimento di aree verdi cittadine a Torino e attraverso progetti di riduzione dei gas serra realizzati in paesi in via di sviluppo. con la creazione e tutela di foreste in crescita nel Parco Rio Vallone in Provincia di Milano, e in Madagascar. Nino Rota (1911-1979) La bella malinconia: itinerario musicale nella musica di Nino Rota Colonne sonore tratte dai film: Il Gattopardo Suite Sinfonica La dolce vita Otto e mezzo Passerella Finale Prova d’Orchestra Amarcord Il Padrino Orchestra Master dei Talenti di Fondazione CRT Giuseppe Ratti, direttore Domenico Berardi, voce recitante In collaborazione con Videoimpaginazione e stampa • la fotocomposizione - Torino La musica di Nino Rota: un punto di vista Sono passati più di trent’anni dalla morte di Nino Rota, ma il successo della sua musica, così diretta e immediata, non sembra dare segni di cedimento. Anzi, la ricorrenza è il pretesto per assodare una popolarità che nel corso degli anni ha investito le orecchie e le menti di un pubblico vastissimo, dagli intenditori del settore musicologico agli appassionati frequentatori delle sale da concerto, fino a coloro che fruiscono di ciò che TV e radio possono offrire, preferibilmente popular music o musica che non richieda un ascolto troppo impegnato. Si tratta di un panorama variegato che rispecchia l’altrettanta varietà del prolifico catalogo rotiano, equamente diviso fra una produzione “classica” con opere liriche, balletti, musica vocale/corale, sinfonie, concerti e tanti altri lavori per orchestra, molti pezzi da camera e per pianoforte (strumento su cui il piccolo Nino fece i primi passi nella composizione, subito dopo la fine della Grande Guerra) e una produzione “applicata” con più di 150 colonne sonore per film italiani e stranieri. È perlopiù a quest’ultima “metà” che si deve la popolarità sopra menzionata: è difficile trovare chi non ha mai sentito almeno una volta nella vita il tema introduttivo della tromba del Padrino, o quello struggente e malinconico intonato dallo stesso strumento nella Strada; che dire poi – per rimanere nell’ambito del fortunato sodalizio artistico Fellini-Rota – della marcetta che accompagna le peripezie cinematografiche di Guido in Otto e mezzo, o del voluttuoso e cromatico motivo-guida della Dolce vita, o ancora quello pieno di memoria in Amarcord? La magia quasi inquietante di questi brani è che, se si fa attenzione, essi si ripresentano periodicamente nella vita di tutti i giorni, vuoi perché fischiettati da qualcuno, vuoi perché riarrangiati e suonati da qualche Straßenmusikant, vuoi perché utilizzati come sigla di spot pubblicitari, dai quali siamo sommersi in continuazione. Basterebbe solo un titolo per riassumere questo “dono dell’ubiquità”, ricordando che Rota è nientemeno che l’autore di una canzonetta come Viva la pappa col pomodoro. Esiste tuttavia un ulteriore aspetto della musica rotiana capace di renderla così facilmente memorizzabile e, nello stesso tempo, “impalpabile” e ricca di ambiguità. Ogni volta che ci si mette ad ascoltarla, infatti, si ha una sensazione di déjà entendu, come se quella melodia già la conoscessimo ancora prima di sentirla, nonostante ne ignoriamo la provenienza o anche se l’autore non è in origine Nino Rota. In realtà, il compositore per tutta la vita ebbe la tendenza a citare musica preesistente, propria o di altri autori, tessendo in tal modo fitti e intricati rapporti intertestuali che riempiono la sua opera di senso e di doppio senso: un labirinto in cui non è per niente facile muoversi e dove la labilità del confine tra conscio e inconscio sfiora i limiti della sovrainterpretazione, del fraintendimento (non è detto che Rota fosse sempre del tutto cosciente degli imprestiti, dal momento che essi potevano essere anche involontari). Ma qualche dato di fatto c’è: il summenzionato tema conduttore della Strada non fa che riprendere il Larghetto della Serenata per archi op. 22 di Dvořák; per quello di Otto e mezzo, invece, l’ispirazione è chiaramente la celeberrima Entrata dei gladiatori di un altro boemo, Julius Fučik. Il citazionismo (e l’autocitazionismo), inoltre, causò più volte a Rota l’accusa di plagio: con La dolce vita, per aver nascosto dietro al motivo principale la Moritat vom Mackie Messer dalla Dreigroschenoper di Kurt Weill; col primo Padrino del 1972, per aver impiegato nel famoso Tema d’amore un’idea già apparsa in un film di Eduardo de Filippo del 1958, Fortunella, per il quale Rota aveva ugualmente concepito le musiche (questo fatto gli costò l’Oscar, che prese soltanto due anni dopo con il prosieguo della trilogia diretta da Coppola). La capacità di attingere a materiali diversi, dalle letterali citazioni alle imitazioni à la manière de fino alle lontane rievocazioni di stile, corrobora la tesi secondo cui Nino Rota non è poi tanto “facile”, “ingenuo” e “banale” – come purtroppo si sente dire spesso (specialmente dai critici) –, quanto invece in grado di costruire grovigli di connessioni che disorientano l’ascoltatore desideroso di andare oltre l’apparente candida semplicità a lui attribuita, sia per l’essere orecchiabile, sia per l’aver composto per il cinema. Ma Rota conferiva la medesima importanza alle sue colonne sonore, se più di una volta si permise di far travasare nei film melodie già utilizzate nella musica “pura” e viceversa – al contrario, per esempio, di un Ennio Morricone, che invece si preoccupa di mantenere ben distanti i due mondi. Nasce da questa multiformità linguistica e stilistica l’abilità di Rota di piegare la musica alle esigenze di ciascun regista e di creare universi sonori disparati, senza tuttavia perdere originalità e giocando un ruolo essenziale per la realizzazione complessiva del film: non è un caso che Fellini abbia voluto ritagliare un omaggio all’“amico magico” con Prova d’orchestra (di fatto, una favola musicale) nel 1978, un anno prima che terminasse forzatamente la loro fruttuosa collaborazione cominciata nel 1952 con Lo sceicco bianco. Nelle pellicole del regista riminese, per esempio, scene grottesche si alternano in continuazione ad altre di struggente malinconia, e Rota, come un sismografo, scandisce ogni minimo cambiamento di atmosfera. Egli passa perciò da accenti di frizzante clownerie – rifacendosi spesso al brano circense per eccellenza, l’Entrata dei gladiatori accennata poc’anzi, o alla Marcia dei bersaglieri, rivisitata e proposta da Rota in tutte le salse in molti film di Fellini, e non solo – a pezzi lenti e dalla mestizia dolceamara, come il tema di Amarcord, nel quale è racchiuso il ricordo di un passato irrecuperabile (e la stretta somiglianza con il Valzer dei fiori di Čajkovskij non fa altro che inserire il film in un’aura fiabesca, magica e mitica, come quella del balletto). Similmente, la colonna sonora per Prova d’orchestra è tinta dall’inizio alla fine di timbri autunnali, frammista a quell’inestinguibile verve che rende la musica rotiana sempre fresca e giovane, ed è percorsa da relitti che occhieggiano all’intero repertorio classico-romantico, portando il ricalco stilistico tipico del compositore a livelli quasi “metafisici”, coerentemente all’allegorismo antirealistico volutamente realizzato da Fellini. Una certa malinconia si può ritrovare in un altro importante regista per cui Rota scrisse stupende colonne sonore, Luchino Visconti, il cui linguaggio nell’ultimo periodo creativo – sempre più lontano dall’attivismo politico dei primi film e volto piuttosto ad analizzare la psicologia dei personaggi – si fa “riflessivo”, languido, e trasmette il senso di decadenza, di nostalgia verso un mondo perduto che con ossessività incupisce le opere cinematografiche mature del milanese. Rota, dando ulteriore prova di “spirito d’adattamento”, colpì nel segno questo progressivo ripiegarsi di Visconti in un “neoromanticismo decadentista” di ottocentesca memoria (non si dimentichi a questo punto la passione del regista per la musica austro-tedesca di fine Ottocento, tanto che la inserì con frequenza nei suoi film e Rota stesso riadattò la Sinfonia n. 7 di Bruckner in Senso). In particolare, il camaleontismo stilistico di Rota raggiunge con Il Gattopardo (1963) esiti estremi per i quali i marchi idiomatici del compositore risultano molto labili e irriconoscibili, quasi inesistenti: all’ascolto delle musiche, infatti, sembra di essere davanti a un’opera di un autore tardoromantico (culminante nella famosa ed estenuante sequenza finale del ballo, attraverso una carrellata di mazurche e valzer – fra cui uno inedito di Verdi – in pieno stile fin de siècle). Il fatto che poi Rota abbia ripreso qui temi di un abbozzo di sinfonia risalente al 1947 (la Sinfonia sopra una canzone d’amore, che, orchestrata successivamente, divenne famosa come la Sinfonia del Gattopardo), a prescindere quindi dal lavoro sul set, conferma che le mille sfaccettature del vischioso mondo sonoro rotiano sono presenti nella sua poetica a priori e non in quanto fecondo compositore cinematografico. Anzi, talvolta Rota cerca di comunicare qualcosa che vada oltre le immagini dello schermo: è il caso del Padrino, dove alla scabrosa e sanguinaria vicenda della famiglia Corleone, Rota contrappone un lirismo che funga da “antidoto” e dia un “senso di sollievo” (a detta del compositore stesso), a partire proprio da quel Valzer di tromba che apre la saga e ne diventa la sigla, nonostante sia così separato dalla cupa violenza della storia. Mettere in evidenza la ricchezza di alcune colonne sonore scritte da Rota per Fellini, Visconti o Coppola, scegliendo in questa sede di delineare per sommi capi il fattore dell’intertestualità, dà un mero assaggio di quanto l’effettiva orecchiabilità e semplicità siano solamente un velo apparente che cela significati ben più complessi e ambigui di quel che si possa percepire a un ascolto distratto e superficiale, che sfortunatamente è tuttora la cifra dominante della fruizione della musica rotiana e la causa dell’ancora troppo scarsa attenzione riservata dalla musicologia a questo artista storicamente necessario, fra le personalità più interessanti e controverse del secolo scorso. È una carenza che colpisce soprattutto la produzione non filmica di Rota, quella che invece – se studiata con la dovuta cura – fornirebbe molte chiavi di lettura per capirne la poetica e, perché no, anche molti aspetti della Weltanschauung dei registi con cui ha collaborato (non va trascurato che Rota nacque scrivendo musica “pura”, visto che, quando cominciò a lavorare seriamente nel cinema al principio degli anni Quaranta, componeva già da più di un ventennio). La speranza è dunque che le iniziative proposte in questo periodo per ricordare il Maestro siano all’origine di una nuova sensibilità d’ascolto, partendo da angolazioni che fino ad ora non sono state ancora considerate, affinché venga raggiunta finalmente una totale “riqualificazione” della figura artistica di Nino Rota, ormai doverosa da intraprendere e che gli spetta di giusto merito. Come in un film, è un buon inizio to be continued… Sandro Zanon L’Orchestra Master dei Talenti di Fondazione CRT nasce nel 2006 ed è il risultato del progetto “Master dei Talenti Musicali”, ideato e promosso dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Torino a partire dal 2004, finalizzato al finanziamento di borse di studio per il perfezionamento di giovani talenti diplomati nei Conservatori piemontesi o valdostani o presso istituzioni, accademie, scuole di perfezionamento italiane o straniere. L’Orchestra Master dei Talenti di Fondazione CRT è l’espressione del motto “L’eccellenza incontra il futuro”: si compone infatti di circa 25 elementi, la cui età media non supera i 24 anni. I principali programmi realizzati – molti dei quali presentati nei maggiori teatri di Piemonte e Valle d’Aosta – spaziano da Bach ai contemporanei, con un’attenzione particolare all’esecuzione di rielaborazioni operistiche, quali ad esempio Il Campanello dello Speziale, Il Signor Bruschino, Il barbiere di Siviglia e Al Cavallino Bianco. Violini I Marco Bronzi, Gabriele Mele, Martina Anselmo, Roberta Bua, Giovanni Bertoglio, Giulietta Testa Violini II Gianmario Mari, Francesco Tosco, Lucia Pulzone, Monica Spatari Viole Matteo Brasciolu, Angelo Conversa, Virginia Luca Violoncelli Alessandro Copia, Eduardo Dell’Oglio, Aline Privitera Contrabbasso Samuele Sciancalepore Flauto Gregorio Tuninetti Oboe Nicola Tapella Clarinetto Diego Losero Fagotto Francesco Loprete Corno Florin Bodnarescul Tromba Daniele Gaido Trombone Michele Gilardi Percussioni Ruben Bellavia Nato a Torino, Giuseppe Ratti si è diplomato in composizione, direzione d’orchestra, clarinetto e musica elettronica presso il Conservatorio della sua città e in strumentazione per banda presso il Conservatorio di Trento. Nel 1994 ha frequentato il corso di direzione d’orchestra tenuto da Gustav Kuhn e nel 1997 ha ottenuto il diploma di direzione d’orchestra al corso di alto perfezionamento dell’Accademia Musicale Pescarese. Ha collaborato con Donato Renzetti (Satyricon di Maderna al Macerata Opera Festival, Kiss me Kate di Porter al Teatro Regio di Torino), con Richard Bonynge (La Traviata ad Atene) e ha diretto diversi solisti di fama internazionale, tra i quali Maria Dragoni, Katia Ricciarelli e i pianisti François-Joël Thiollier e Ilja Kim. Ha inoltre collaborato alle stagioni del Teatro di Catania, in una serie di concerti con musiche di Lehár e Strauss e Il paese dei campanelli di Lombardo. Ha diretto, fra le altre, l’Orchestra Sinfonica Internazionale Giovanile di Lanciano, l’Orchestra Sinfonica della Provincia di Bari e l’OCV del Veneto. Nel 2006 è stato ospite del Teatro São Carlos di Lisbona, nel 2007 in Olanda ha diretto Barcelona di Freddy Mercury e a Macerata Jacob Lenz di Wolfang Rihm con la regia di Henning Brockaus, trasmessa in diretta da Rai RadioTre. Vincitore nel 1993 del premio “Bolzoni” quale miglior diploma di composizione del Conservatorio di Torino, ha ottenuto diversi riconoscimenti come compositore di musica da camera, di scena e per orchestra a fiati. Nel 2006 a Venezia è stata eseguita la prima mondiale del brano The Dark Day, omaggio alla tragedia dell’11 settembre 2001, replicato a New York. È docente di esercitazioni orchestrali presso il Conservatorio di Torino. Nato nel 1974 a Torino, Domenico Berardi si è laureato in Storia del teatro presso la facoltà di Lettere e Filosofia della propria città e ha conseguito il Master di I livello in Teoria e Tecniche delle Arti della Danza e dello Spettacolo. Ha collaborato con importanti registi, quali Ugo Gregoretti (Il Divorzio), Piero Nuti, Stefano de Luca (Trappola per Topi), Robert North (Passione y fado), Rocco Cesareo (Il calapranzi), Antonio Villella (Don & Sancho… e il Gran Premio della Montagna), Adolfo Fenoglio (Le sedie), Pierpaolo Congiu (Moschettieri), Girolamo Angione (Jonathan il volo della libertà, C’era una fonte, L’asino d’oro). Ha partecipato alla realizzazione di stage e spettacoli musicali, tra cui opere liriche e operette come Al Cavallino Bianco nel 2009 e Il barbiere di Siviglia nel 2010, patrocinate dalla Fondazione CRT e TNT di Torino, oltre a essersi esibito nell’ambito della rassegna “Pomeriggi a teatro” e con il Teatro della Rancia. È anche attivo nel cinema, avendo lavorato in progetti quali Il teatro nella mente. Un’indagine a Torino sull’immaginario teatrale dei giovani, ideato e realizzato dalla Compagnia teatrale Stilema per l’Ente teatrale italiano, oltre a film e serie televisive tra cui La terza madre nel 2007, regia di Dario Argento, e Cento Vetrine tra il 2005 e il 2009. Se desiderate commentare questo concerto, potete farlo su blog.mitosettembremusica.it o sul sito www.sistemamusica.it