WAYS OF WORLD-MAKING: LA PRODUZIONE

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WAYS OF WORLD-MAKING:
LA PRODUZIONE DELLA SOGGETTIVITA’
NELLE ORGANIZZAZIONI LAVORATIVE
(Annotazioni antropologico-culturali
a cura di Fernando Salvetti)
- INDICE -
I – CORPI DISCIPLINATI E ANIME IN PENA
1. L’organizzazione scientifica del lavoro
p. 1
2. L’ordine taylorista
p. 7
3. Tempi e metodi
p. 12
4. La disciplina dei corpi
p. 18
5. Addestramento e disciplina dell’uomo-macchina
p. 23
6. La sorveglianza gerarchizzata
p. 30
1
7. Macchine, automi e hamburger
II
–
ORGANIZZAZIONI
p. 38
POST-MODERNE
E
SOGGETTI
RAPPRESENTATIVI
1. Macchine, organismi, cellule, collages e altre metafore p. 43
2. La realtà del “come se”
3. La
molteplicità
degli
p. 51
orizzonti
di
senso
rappresentativo
e
il
soggetto
p. 55
4. Gli spazi polifonici del soggetto
p. 59
5. Il soggetto rappresentativo e l’ombra di Dioniso
p. 66
6. Le parole, lo straniamento e le cose
p. 72
7. Taxis e cosmos
p. 76
8. La vita è sogno
p. 85
9. Complessità organizzativa, knowledge integration,
empowerment e produzione di soggettività
p. 91
10. Ways of world-making
p. 102
Bibliografia
p. 109
2
CAPITOLO I – CORPI DISCIPLINATI E ANIME IN
PENA
1. L’organizzazione scientifica del lavoro
“Nel passato l’uomo veniva al primo posto; nel futuro
sarà il sistema. Questo peraltro non implica in nessun
senso che le persone di valore non siano necessarie. Al
contrario, il principale obiettivo di ogni buon sistema
deve essere lo sviluppo di persone di livello elevato; e
con
l’organizzazione
sistematica
le
persone
migliori
arrivano ai massimi livelli con più sicurezza e rapidità che
nel passato”. Così scriveva Frederick Winslow Taylor,
autore nel 1911 dei Principles of Scientific Management :
il libro d’economia più venduto nella prima metà del ‘900
(e tradotto in molte lingue), volto a “dimostrare che
l’organizzazione migliore è una vera scienza, che ha alla
base leggi ben definite, regole e principi”, e, inoltre, per
“dimostrare”
che
i
principi
fondamentali
dell’organizzazione scientifica del lavoro “possono essere
applicati
ad
ogni
genere
di
attività
umana,
dall’atto
individuale più semplice fino alle produzioni delle nostre
3
grandi imprese, che richiedono le forme di cooperazione
più complesse”.
E ancora: “Presto o tardi questi principi
entreranno
nell’uso generale di tutti i paesi civilizzati”, e quanto
prima “ciò avverrà, maggiore sarà il vantaggio per le
popolazioni” 1.
L’organizzazione
come
scienza,
la
scienza
come
conoscenza del vero, il vero come codificazione di regole,
leggi e principi universali (nei paesi “civilizzati”) utili per
organizzare
metodi
di
sistematicamente
lavoro,
per
i
tempi,
analizzare
i
e
carichi
ed
i
riconfigurare
sperimentalmente gli elementi del ciclo di lavoro nel
modo
più
economico
e
razionale,
per
individuare
e
addestrare the right man to the right place , per definire
la tipologia degli incentivi economici ed i criteri per la
differenziazione delle retribuzioni.
Scientific management 2: ovvero, il taylorismo come
specializzazione
delle
conseguentemente
dei
macchine
lavoratori,
utensili
semplificazione
e
dei
processi di lavoro, standardizzazione dei prodotti e dei
1
Taylor (1975, pp. 2 e 16).
Coniato da Brandeis nel 1910, il termine organizzazione scientifica del lavoro individua quel
movimento di idee e di applicazioni che trova, certamente a ragione per le idee e invece con
qualche discussione per le applicazioni, il suo padre riconosciuto in Taylor (1856-1915). Tant’è
che, nonostante gli inviti dello stesso Taylor a non “personalizzare”, taylorismo e organizzazione
2
4
mezzi di produzione. Le tre S a cui si aggiunse ben presto
la quarta: quella dello scandalo. Proprio nel 1911, il
management scientifico divenne oggetto di indagine per il
Congresso
americano,
che
istituì
un’apposita
commissione: secondo molte voci, il sistema di Taylor
sminuiva l’autorità dei lavoratori in quanto, da un lato,
rafforzava il controllo e la supervisione dei manager e,
d’altro
lato,
introduceva
il
salario
differenziato
che
avrebbe minato la solidarietà tra compagni di lavoro 3.
Taylor, a sua volta, considerava i sindacati “sviati”, ne
condannava la politica di restrizione della produzione,
attaccava la contrattazione collettiva e presumeva di aver
tolto la ragion d’essere all’azione sindacale: se questa era
giustificata a fronte di criteri arbitrari dei capi nel fissare
modi e carichi di lavoro e nell’assegnare i dipendenti ai
posti di lavoro, dove invece il lavoratore veniva destinato
ad un lavoro congruo con le sue attitudini, addestrato ad
un modo “razionale” di lavorare che gli consentiva di
fornire
una
“scientificamente”
quota
e
di
premiato
produzione
se
non
si
definita
sottraeva
a
scientifica del lavoro vengono spesso usati in modo del tutto intercambiabile (cfr. ad esempio
Isotta, 1996, p. 78).
3
Hatch (1999, pp. 30ss.). Su Taylor e il taylorismo cfr. Kakar (1970), Nelson (1988 e 1999, pp.
461ss.), Bonazzi (1997, pp. 27ss.), Novara e Sarchielli (1996, pp. 50ss.), Ceccanti (1996, pp.
35ss.), Drucker (1999, pp. 21ss.), Berta (1999, pp. 337ss.).
5
fornirla, lì il sindacalista non aveva nulla da opporre a
difesa dell’operaio 4.
In particolare, Taylor sosteneva che “non vi è dubbio
che la persona media (di ogni classe sociale) tende ad un
ritmo lento e facile e solo dopo molti ragionamenti e
osservazioni individuali, o come risultato dell’esempio,
della coscienza o di pressioni esterne, adotta un ritmo più
rapido”. Inoltre, Taylor sottolineava che “il principio su
cui si basano tutti i vecchi sistemi di organizzazione più
diffusi comporta inevitabilmente che sia lasciata a ciascun
lavoratore la responsabilità ultima di svolgere il suo
lavoro in pratica come meglio ritiene, con un minimo di
aiuto e assistenza da parte della direzione”. A causa di
questo “isolamento del lavoratore”, in moltissimi casi
“non
è
possibile
per
chi
lavora
con
questi
sistemi
organizzativi seguire i principi e le regole teoriche o
tecniche anche quando queste esistono” 5.
4
Sul principale episodio di conflittualità sindacale correlata allo scientific management, cfr. la
sintesi di Novara e Sarchielli (1996, pp. 58ss.).
5
Taylor (1975, p. 10): “Naturalmente esistono persone di non comune energia, vitalità e
ambizione che scelgono spontaneamente il ritmo più rapido, si prefiggono uno standard elevato
e lavorano sodo, persino contro il proprio interesse. Tuttavia queste poche persone non comuni
servono solo a evidenziare per contrasto la tendenza media. Questa diffusa tendenza a
‘prendersela calma’ è gradualmente aumentata con il numero delle persone che svolgono
insieme un lavoro simile e con un livello di retribuzione giornaliera uniforme”. Altra causa
addotta da Taylor per spiegare il rallentamento intenzionale della produzione è, poi, “l’errata
convinzione” che un aumento della produttività provochi la perdita del lavoro per un numero
notevole di persone. Per il nostro consulente di management, al contrario, lungi dal condurre al
collasso economico, la maggiore produttività è la premessa per raggiungere un nuovo equilibrio
6
Sviluppando tale linea di riflessione e di azione, Taylor
riconsidera
tutta
la
del
suo
organizzazioni
struttura
tempo
di
direzione.
applicavano
principi
Le
di
comando incentrati sulla gerarchia lineare di tipo militare,
in cui un subordinato riceve ordini da un solo capo
“completo”,
mentre
Taylor, ridefinendo
la
ripartizione
“razionale” dei compiti, articola la funzione dei capi
completi in più funzioni specializzate, impersonate da più
“capi funzionari”, senza tuttavia disarticolare l’istanza
gerarchica.
Pertanto,
nella
“struttura
funzionale
gerarchica” proposta da Taylor ogni operaio, invece di
ricevere
tutti
gli
ordini
(e
l’aiuto)
solo
dal
suo
caposquadra, li riceve direttamente da otto capi diversi,
ciascuno
con
una
funzione
particolare
all’interno
dell’organizzazione (quattro sono funzioni di esecuzione
in officina, mentre le altre quattro sono funzioni di ufficio
e programmazione).
tra domanda ed offerta, con un conseguente aumento nel consumo di beni che
precedentemente erano ristretti ad una élite di privilegiati. Una posizione che, secondo Bonazzi
(1997, p. 37), può anche essere letta “come la proposta di uno scambio politico: da un lato si
offre più benessere materiale raggiunto con il consumo di massa di beni prima riservati ad
un’élite e, dall’altro, si richiede il consenso ad una struttura autoritaria di produzione, legittimata
dalla sua efficienza”.
7
Il
“codice
di
disciplina”
dell’organizzazione,
quindi,
viene ad essere determinato capillarmente e in estremo
dettaglio 6.
6
Non si può dire, comunque, che Taylor manifestasse una particolare sensibilità in ordine
all’esigenza di una struttura organizzativa formalmente determinata: secondo Drucker (1999,
pp. 21-22), mentre l’esigenza di una struttura organizzativa era ben chiara a tutti in quegli anni,
Taylor non la vedeva affatto e continuò a parlare soprattutto in termini di “proprietari” e di loro
“aiutanti”. Peraltro, “fu su questo concetto, in pratica l’assenza di una struttura organizzativa,
che Henry Ford (1863-1947), fin quando morì, cercò di gestire quella che rimase per molti anni
(fino alla fine degli anni ’20) la più grande azienda industriale del mondo. Ci volle la prima
guerra mondiale per chiarire l’esigenza di una struttura organizzativa formale. Ma fu anche la
prima guerra mondiale a dimostrare che la struttura funzionale disegnata da Henry Fayol (18411925) e da Andrew Carnegie non era l’unico modello organizzativo ideale. Subito dopo la prima
guerra mondiale, prima Pierre DuPont (1870-1954) e poi Alfred Sloan (1875-1966) idearono la
decentralizzazione. E adesso, in questi ultimi anni, siamo arrivati a decantare il team come la
forma organizzativa ideale per ogni tipo di attività” (in proposito, al di là della letteratura
specialistica, cfr. Balbo, 1966, pp. 570ss. e Actis Perinetti, 1956, pp. 37ss.).
8
2. L’ordine taylorista
“Probabilmente la maggior parte dei lettori dirà che
questa è pura teoria”, scriveva Taylor, sottolineando che,
in
realtà,
scientifica
“la
teoria,
cominciava
o
filosofia”,
“appena
ad
dell’organizzazione
essere
compresa,
poiché i metodi organizzativi hanno subito negli ultimi
trenta anni una grande evoluzione” 7. Lo sforzo di Taylor
implicava una “particolare combinazione di elementi che
prima non esisteva, nel senso di coordinare, analizzare,
raccogliere e classificare le conoscenze precedenti in
leggi
e
regole
in
modo
da
formulare
una
teoria
scientifica”, generando di conseguenza prassi frutto di un
“completo capovolgimento di mentalità della manodopera
così come dei dirigenti, sia nei rapporti reciproci sia nei
confronti dei rispettivi compiti e responsabilità” 8.
Riassumendo con le parole dello stesso Taylor: “Scienza
e non empirismo, armonia e non discordia, cooperazione
e
non
individualismo,
massima
7
produzione
Taylor (1975, p. 10). Per una sintesi efficace sulla storia
produzione industriale cfr. Ceccanti (1996, pp. 36ss.), Hatch
Sarchielli (1996, pp. 45ss.); più in generale si può rinviare a
(1978), oltre ai classici studi di Sombart (1967, pp. 166 e 173) e
8
Taylor (1975, p. 112).
9
invece
di
della “razionalizzazione” della
(1999, pp. 21ss.), Novara e
Chandler (1976) ed a Landes
Schumpeter (1955, p. 116).
limitazione
della
stessa,
sviluppo
di
ogni
persona
al
massimo livello di efficienza e benessere” 9.
Dunque, strategie di sviluppo organizzativo centrate
sulle persone? No. Piuttosto, una microfisica del potere
organizzativo
come
insieme
di
regole,
tecniche
e
procedure indirizzate a dirigere, e quindi a disciplinare, i
processi produttivi e i comportamenti dei lavoratori alla
luce
dell’equazione
maggiore
rendimento
=
maggiore
benessere per tutti 10.
In altri termini, il discorso taylorista contribuisce a
conferire legittimità al management, soprattutto nella sua
funzione
di
controllo,
asserendo
che
le
pratiche
dell’organizzazione scientifica del lavoro devono essere
accettate in quanto razionali 11.
Un discorso che si snoda
e, soprattutto, si fonda su un’immagine di scienza di
matrice positivista e su una razionalità (ingegneristica)
tendenzialmente assoluta, in uno scenario industriale ove
9
Taylor (1975, p. 112).
Cfr. la sintesi di Bonazzi (1997, p. 36), ove si sottolinea, con riferimento all’equazione
maggiore rendimento = maggiore benessere (“il postulato liberal-industrialistico che giustifica
l’applicazione” dell’organizzazione scientifica del lavoro), che secondo Taylor “gli uomini non
hanno ancora compreso che la via del benessere e del progresso passa attraverso la
collaborazione tra le parti sociali per ingrandire la torta con mezzi scientifici e non attraverso la
lotta di classe per dividersi mere porzioni”. In altri termini, nelle parole di Bonazzi si delinea un
Taylor che auspica lo sviluppo di logiche di cooperazione sociale e di negoziazione che l’Harvard
model, consolidatosi tra il 1960 e il 1970, definirà “win-win”: come dire, giochi a somma
positiva… Purtroppo, Taylor non condivideva il principale presupposto del modello: non irrigidire
le posizioni e non generare linee argomentative con la pretesa di monopolio della verità.
11
Hatch (1999, p. 31).
10
10
non esistevano metodi rigorosi e uniformi per impostare il
lavoro e, al contempo, erano carenti anche gli strumenti
amministrativi per calcolare i costi delle singole fasi
produttive.
In
tale
scenario,
l’intera
gestione
dei
processi
produttivi era di fatto delegata alle gerarchie intermedie,
quasi sempre di origine operaia, mentre il management si
limitava a contrattare dall’esterno le quote globali di
produzione: una specie di “impero dei capireparto” ai
quali spettavano la maggior parte dei poteri e delle
responsabilità in ordine alla definizione dei tempi e dei
metodi di produzione, alla verifica dei costi e della qualità
del
lavoro,
all’assunzione
ed
al
licenziamento
della
manodopera. La concentrazione di potere nelle mani dei
capireparto non si limitava ad impedire alle direzioni
aziendali la conoscenza delle fasi interne al processo
produttivo, ma comportava anche una diffusa “empiria”,
approssimazione ed arbitrarietà dei metodi di conduzione
dell’officina. Senza dimenticare gli episodi e le prassi di
arbitrio e di corruzione che si stabilivano nei rapporti tra
operai e capireparto: il drive system , traducibile come
sistema della spinta o dello spintone, caratterizzato da
controllo strettissimo, abuso, irriverenza e minacce per
11
spingere gli operai a muoversi più in fretta ed a lavorare
più duramente 12.
Nel
disegno
taylorista,
i
capireparto
devono
trasformarsi da una élite di piccoli capi dotati di completa
autonomia locale in un esercito disciplinato di quadri
intermedi,
che
garantiscono
la
realizzazione
delle
dettagliate direttive provenienti dalla direzione centrale;
il criterio per giudicare il loro lavoro non deve più essere
il dominio sui sottoposti, ma la conformità agli ordini
impartiti
dall’alto.
I
capi
intermedi
sono
legittimati
(burocraticamente, nel lessico weberiano) a comandare
solo
nell’ambito
dei
ranghi
gerarchici
stabiliti
dalla
direzione e nei ben delimitati campi di competenza a loro
affidati 13.
12
Per questa ricostruzione cfr. Bonazzi (1997, pp. 32ss.) che, oltre allo strapotere dei
capireparto, ricorda la grande diffusione nelle fabbriche americane dei “contrattisti”: operai
qualificati e di grande esperienza che lavoravano all’interno delle officine con il duplice ruolo di
dipendenti e di piccoli imprenditori che, definita una somma di denaro, si impegnavano ad
eseguire – entro i locali dell’impresa e con uso di materiali, macchine ed energia - una data
quantità di lavoro ad un prezzo fisso ed entro una data prestabilita, assumendo direttamente
manovali ed aiutanti. Un sistema, quindi, che contribuiva ad accrescere l’ignoranza del
management industriale sugli aspetti economici e tecnici del processo produttivo. Come
sottolinea Bonazzi, ricordare queste “pratiche pre-tayloristiche consente di collocare il giudizio
complessivo sul taylorismo in una prospettiva storica più adeguata”: quando si parla di
dequalificazione di massa provocata dal taylorismo, “il nostro pensiero va in genere al mestiere
perduto dagli operai qualificati, ma tende a dimenticare le condizioni in cui versava la
manodopera meno qualificata e più debole sul mercato del lavoro. Si sottolinea l’irrigidimento
delle maglie gerarchiche che tolgono discrezionalità ai dipendenti, ma si dimentica il precedente
dispotismo dei capireparto”.
13
Bonazzi (1997, pp. 34-35) sottolinea che si tratta di un processo di burocratizzazione che
presenta non poche analogie con la costruzione dello stato moderno descritta da Weber: alla
stregua dei funzionari nominati in sostituzione dei feudatari per rappresentare il potere centrale
12
La direzione centrale deve assumere, a sua volta,
l’iniziativa strategica di centralizzare il potere, stabilire
ferree
gerarchie,
razionalizzare
i
metodi
produttivi
aumentando il rendimento di uomini e impianti (non solo
attraverso
trasparenza
lavoro).
la
di
riorganizzazione,
costi,
“Questa
ma
procedure,
massima
anche
tempi
affermazione
organizzativo” - sottolinea Bonazzi -
e
del
con
metodi
la
di
principio
“ha bisogno di una
legittimazione: Taylor la dà in nome della scienza” 14.
in periferia, “in fabbrica i capi intermedi agiscono in quanto rappresentanti legali della direzione
e non più come capi a cui è stato fiduciariamente delegato un potere senza controllo”.
13
3. Tempi e metodi
L’illusione scientista di Taylor si fondava sul paradigma
“razionale”
dell’ homo
oeconomicus ,
per
il
quale
il
rapporto di mercato tra gli interessi utilitari individuali è
il regolatore dei comportamenti sociali. Pertanto, poiché
l’uomo è motivato soprattutto da interessi economici e
poiché
altri
irrazionale,
interferiscano
interessi
o
sentimenti
l’organizzazione
con
il
calcolo
deve
sono
far
razionale
sì
di
natura
che
non
dell’interesse
economico: quindi, dato che gli incentivi economici sono
controllati dall’organizzazione, il singolo è in essa un
agente passivo, che deve essere guidato, motivato e
controllato 15.
14
Bonazzi (1997, p. 35).
Cfr. Novara e Sarchielli (1996, p. 71), Schein (1970) e Friedmann (1971, p. 83) che, con
riferimento a Taylor ed ai suoi colleghi, scrive: “Indifferenti a qualunque modificazione di
struttura, ignari perfino dei problemi posti da questa, pieni di sincera buona volontà (Taylor non
ne mancava davvero), essi immaginavano di poter tranquillamente sovrapporre al caos del loro
tempo un ordine quasi matematico, superare mediante un incessante sviluppo del rendimento i
conflitti tra padroni e operai, e portare così il successo della ‘scienza industriale’ allo stesso
livello dei trionfi delle scienze meccaniche. Il loro errore ‘tecnicista’, isolante l’impresa
dall’insieme dei fenomeni fisiologici, psicologici, sociali e morali del gruppo umano di cui è parte,
è stato omologo (per quanto più spiegabile) al grande errore degli ‘scientisti’. E’ infatti
strabiliante che studiosi professionalmente avvezzi all’analisi complessa del reale abbiano fatto
con tanta tranquilla baldanza tabula rasa dell’interrelazione dei diversi fatti della civiltà, e
sacrificato così tutto un ordine di ripercussioni economiche, e di contraccolpi morali che un
osservatore penetrante avrebbe potuto discernere fin dall’epoca in cui si levavano i loro inni al
progresso continuo e, per così dire, fatale”.
15
14
Taylor ed i suoi colleghi e collaboratori 16 si attendevano
dall’applicazione
dei
principi
dell’organizzazione
scientifica del lavoro la “rivoluzione mentale” che avrebbe
portato
alla
“naturale
cooperazione
ed
all’armonia
in
luogo della discordia” tra imprenditori e lavoratori. Nella
realtà produttiva, invece, gli imprenditori applicavano il
principio delle “paghe differenziali” senza alcuno studio
razionale dei tempi o dei metodi di lavoro e senza alcuna
ricerca della “persona giusta per il posto giusto”: così, il
taylorismo si diffondeva generando “l’organizzazione dello
sfruttamento”.
Il principio metodologico generale dell’organizzazione
scientifica del lavoro è rappresentato dalla one best way :
ovvero, dall’assunzione che esiste sempre e comunque un
16
Tra i collaboratori di Taylor si possono ricordare Carl George Lang Barth, il suo primo
collaboratore, che applicò i principi dell’organizzazione scientifica del lavoro in molte aziende e li
insegno nelle Università di Chicago e di Harvard; in quest’ultima, oltre che nel Massachussetts
Institute of Technology, insegnò anche Horace King Hataway, che “dimostrò” soprattutto come
con i metodi tayloriani si salvassero aziende vicine al fallimento. Mentre Morris Lewellin Cooke
fu il primo a riorganizzare il lavoro in molti enti pubblici, come il Municipio di Filadelfia, alcuni
enti del Governo federale, varie università. Un rilievo storico particolare ebbe Henry Laurence
Gantt: il suo famoso diagramma (progress chart), che ordina temporalmente i dati quantitativi,
si affermò durevolmente come strumento di programmazione, analisi e controllo che ancora
oggi viene comunemente utilizzato, con molte varianti, nei contesti organizzativi pubblici e
privati più evoluti. Gantt, peraltro, diede rilievo anche ai problemi umani dell’organizzazione, che
reputava non risolvibili solo con le forme di incentivazione economica, ed inoltre sottolineò
l’importanza di uno stile gerarchico capace di generare consenso. Per ulteriori approfondimenti
cfr. Novara e Sarchielli (1996, pp. 57ss.), i quali ricordano che nel 1918, in un articolo sulla
“Pravda” rimasto famoso, Lenin affermava la necessità di utilizzare l’apporto dei lavori di Taylor
e colleghi nello sforzo di industrializzazione, concludendo: “Il sistema ha eliminato i movimenti
superflui quanto inutili. Noi dobbiamo introdurre immediatamente il cottimo e controllarne la
15
metodo
unico
compiere
e
migliore
azioni
per
di
risolvere
problemi
o
genere 17.
qualunque
Conseguentemente, il taylorismo ha generato una serie di
prescrizioni analitiche che hanno dato vita alla disciplina
dell’ M.T.M. , cioè della Misurazione Tempi e Metodi che,
rivista e modificata, ha avuto una vasta diffusione nella
cultura industriale americana ed europea:
1. selezione
di
lavoratori
un
gruppo
sperimentale
particolarmente
abili
nel
di
10-15
lavoro
da
analizzare;
2. scomposizione
rapporto
ai
e
analisi
tempi
di
dei
singoli
esecuzione,
movimenti
posizione
in
fisica,
forma, peso e frequenza d’uso degli attrezzi;
3. correzione ed eliminazione dei movimenti “falsi, inutili
e
pigri”,
ossia
che
non
presentano
requisiti
di
razionalità rispetto allo scopo per cui sono eseguiti;
4. ricomposizione del comportamento lavorativo in base
al
montaggio
dei
singoli
movimenti
risultati
più
razionali;
5. standardizzazione degli utensili e delle attrezzature in
base ai rapporti ottimali tra peso, forma, frequenza e
pratica”; e, sulla strada dello stacanovismo, i diagrammi di Gantt venivano usati nella
pianificazione quinquennale.
17
Taylor (1952).
16
modalità
di
uso,
caratteristiche
fisico-chimiche
del
materiale lavorato;
6. fissazione di un tempo teorico di lavorazione in base
alla
somma
dei
tempi
registrati
per
i
singoli
movimenti;
7. addestramento del gruppo sperimentale dei lavoratori
all’esecuzione del compito affidato secondo la nuova
procedura;
8. osservazione
sistematica
dei
tempi
effettivamente
impiegati, avendo cura delle necessità fisiologiche,
delle pause per riposare, di eventuali inconvenienti;
9. calcolo dei coefficienti di correzione del tempo teorico
in modo da aumentarlo di una percentuale sufficiente
a
far
fronte
a
tutte
le
pause
e
inconvenienti
prevedibili.
Disciplina analitica e rigorosa dei tempi, dei corpi e dei
loro gesti: è questa la parte più nota e, come ricorda
Bonazzi 18, “più famigerata” del taylorismo, che confluisce
nella dottrina e nella prassi del task management : ogni
giorno dev’essere stabilito un determinato ammontare di
lavoro, che gli operai dovranno eseguire senza apportarvi
diminuzioni né aumenti, ottenendo così - secondo Taylor un
lavoro
standardizzato
e
17
uniforme
con
una
resa
prevedibile e con un rendimento doppio e, talvolta, triplo
rispetto a quello ottenuto con “i vecchi sistemi”. Con
l’avvertenza che il ritmo ottimale di lavoro è quello per
cui
un
lavoratore
al
termine
della
giornata
sente
il
bisogno piacevole di riposarsi senza sentirsi spossato;
inoltre, con l’obiettivo che possa mantenere quel ritmo a
lungo negli anni senza logorarsi.
Tuttavia,
come
sottolinea
Bonazzi 19,
è
opportuno
distinguere due livelli nel discorso tayloriano: il primo
riguarda il campo delle applicazioni estreme del task
management ,
che
Taylor
sperimenta
soprattutto
sul
lavoro di manovali addetti al carico e allo scarico di
materiali pesanti. E’ in questa categoria che rientrano gli
“uomini bue”: manovali fortissimi, ignoranti e stupidi,
incapaci di intendere nessun altro ragionamento se non
quello dell’immediato aumento della paga giornaliera, ma
docilissimi nel sottoporsi a ogni esperimento su quanti
quintali
di
ghisa
o
di
mattoni
un
uomo
può
“scientificamente” trasportare in una giornata. E Taylor
mostra
di
muoversi
a
suo
agio
proprio
con
questa
categoria di lavoratori, di cui descrive con prolissità come
18
19
Bonazzi (1997, p. 41).
Bonazzi (1997, pp. 42ss.).
18
si debba insegnare loro a muoversi, riposarsi, camminare,
usare gli attrezzi.
Vi è poi un secondo livello del discorso, che riguarda
l’applicabilità generale della metodologia a qualunque
lavoro manuale: la vastità e la complessità dei lavori
obbliga Taylor a prescrizioni più caute di quelle date per i
lavori
più
elementari.
In
sostanza,
egli
si
limita
a
raccomandare che ogni operaio compia quotidianamente
un lavoro che è stato programmato con almeno un giorno
di anticipo e per il cui svolgimento riceva istruzioni scritte
dettagliate
che
precisano
i
particolari
concernenti
il
lavoro assegnato e gli attrezzi necessari per l’esecuzione.
Dunque,
rigida
separazione
tra
progettazione
ed
esecuzione del lavoro che, negli anni, ispirerà tutti i
processi di “taylorizzazione” e in molte organizzazioni
sarà estesa per cercare di disciplinare ogni forma di
lavoro esecutivo, con riferimento sia alle “operazioni del
corpo” che a quelle dello “spirito” 20.
20
Peraltro, come ricordano Novara e Sarchielli (1996, pp. 48ss.), nel tardo ‘800 si ritrovavano
acuiti vecchi problemi del lavoro umano: quelli originati, nei tempi remoti che preparavano
l’industrializzazione, dalla divisione del lavoro. Già nel ‘600 se ne era occupato William Petty,
convinto che lo sviluppo della produttività dovesse risultare dall’effetto congiunto della
specializzazione dei compiti e della concentrazione della popolazione. Nel ‘700, poi, Adam Smith
nella sua Inquiry del 1776 sosteneva, tra l’altro, che la divisione del lavoro, nella misura in cui
può essere introdotta, determina in ogni mestiere un aumento proporzionale delle capacità
produttive complessivamente considerate in quanto, riducendo l’attività di ogni uomo ad una
sola semplice operazione e facendo di quest’operazione l’unica occupazione della sua vita, non
può che accrescere di molto la destrezza dell’operaio. Smith, tuttavia, era consapevole che la
19
4. La disciplina dei corpi
Seconda metà dell’800: l’operaio è diventato qualcosa
che si fabbrica attraverso la disciplina analitica e rigorosa
dei
tempi
di
lavoro,
dei
corpi
e
dei
loro
gesti
21
.
standardizzazione e il conseguente impoverimento delle mansioni lavorative comportano un
progressivo depauperamento dell’intelligenza e dell’inventiva individuale. Nel primo ‘800 Charles
Babbage apportava allo studio della divisione del lavoro un’attenzione tecnologica nuova, rivolta
ai vantaggi legati al miglioramento dei metodi e dell’uso degli strumenti, ai risparmi nello spreco
dei materiali; inoltre, sottolineava che il principio della divisione del lavoro può applicarsi con
egual vantaggio alle operazioni dello spirito come a quelle del corpo, portando come esempio la
specializzazione delle attività di amministrazione delle miniere. Contemporanea a quella di
Babbage è l’attività di Andrew Ure che, in The Philosophy of Manufactures del 1835, introduce il
concetto di factory system ove la meccanizzazione è ormai evoluta ed una forza motrice
centrale (la macchina a vapore) mette in moto una serie di macchine collegate che richiedono ai
lavoratori – “adulti e fanciaulli” – un addestramento per operare coordinatamente e
diligentemente secondo le regole precostituite in sede di elaborazione del processo produttivo,
che costiuiscono il “codice della disciplina di fabbrica”. Se per Ure – come per molti altri suoi
predecessori e contemporanei – l’integrazione con la macchina e la specializzazione dei
lavoratori è particolarmente utile in quanto il lavoro fisico è alleggerito e le operazioni sono rese
più agevoli e razionali, non mancano una serie di voci perplesse e contrarie. Si pensi alle
considerazioni di Tocqueville: “L’uomo si avvilisce a misura che l’operaio si specializza (…).
Persino il corpo avrà contratto abitudini fisse che non perderà più; in una parola, egli non
appartiene più a se stesso ma al mestiere che si è scelto”. Marx, a sua volta, sottolinea la
fastidiosa uniformità di un lavoro senza fine, generata da un lavoro meccanico sempre uguale
che, “nello stesso tempo che sovreccita all’estremo limite il sistema nervoso, impedisce il
movimento variato dei muscoli e comprime qualsiasi libera attività del corpo e dello spirito”.
Tuttavia, può essere opportuno sottolineare – con Bonazzi (1997, p. 43) – che i processi di
separazione tra progettazione ed esecuzione non provocarono soltanto dequalificazione assoluta
e indifferenziata del lavoro operaio, ma favorirono piuttosto la formazione di una larga fascia di
addetti-macchine, cioè operai semiqualificati (semiskilled) capaci di alimentare le macchine,
controllarle, metterle in moto ed arrestarle. Questa fascia di operai fu il risultato di due
movimenti contrapposti: il primo di dequalificazione degli operai di mestiere ed il secondo di
parziale qualificazione di manovalanza semplice.
21
Sulla disciplina dei corpi, dei gesti e dei tempi, e, quindi, sul potere disciplinare come
“anatomia del dettaglio” tesa a ridurre le potenzialità del corpo (e del soggetto) come “forza
politica” ed a massimizzarla invece come “forza utile” cfr. Foucault (1976, pp. 148ss. e 1969).
La fabbricazione dell’operaio segue quella del soldato, che Foucault (1976, p. 147) situa nella
seconda metà del ‘700: nell’ordinanza francese del 20 marzo 1764 scompare il soldato come
figura che si riconosce da lontano, in quanto porta dei segni naturali di vigore e coraggio che lo
rendono, appunto, riconoscibile soprattutto in ragione di un corpo inteso quale “blasone della
sua forza e del suo ardimento” (testa diritta, stomaco alto, spalle larghe, braccia lunghe, dita
20
L’organizzazione scientifica del lavoro, in coerenza con la
metafora fondante dell’organizzazione come macchina,
implica la scissione del movimento umano in operazioni
elementari la cui sequenza dovrebbe consentire risparmi
di forze e di tempi: il corpo diviene oggetto di un saperepotere che si estrinseca in procedure di organizzazione
del lavoro tese ad aumentare l’efficienza degli individui
ed a trasformarne la forza in un valore economico (da
addestrare, finalizzare, retribuire e capitalizzare).
Lo stesso Taylor era consapevole che, quanto meno
come “prima impressione”, l’organizzazione scientifica del
lavoro tendeva a generare “un semplice automa, l’uomo
meccanico” 22. L’uomo prodotto da quello che Foucault
definisce “l’umanesimo moderno” è l’ingranaggio di una
forti, ventre piccolo…). Al suo posto, compare il soldato come qualcosa che si fabbrica: “Da una
pasta informe, da un corpo inetto si è creata la macchina di cui si ha bisogno; sono state a poco
a poco raddrizzate le posture; lentamente, una costrizione calcolata percorre ogni parte del
corpo, se ne impadronisce, dà forma all’insieme, lo rende perpetuamente disponibile e si
prolunga silenziosamente nell’automatismo delle abitudini; in breve, ‘il contadino è stato
cacciato’ e gli è stata data ‘l’aria del soldato’. Si abituano le reclute ‘a portare la testa alta e
diritta; a tenersi ritti senza curvare la schiena, a far avanzare il ventre, a far risaltare il petto e
rientrare la schiena (… ). Si insegnerà loro parimenti a non fissare mai gli occhi a terra, ma a
squadrare arditamente quelli davanti a cui passano”. Per una sintesi generale del discorso
foucaltiano sul potere disciplinare cfr. Catucci (2000, pp. 98ss.).
22
Per un verso, come si è accennato nella nota 20, il nuovo sistema favoriva
l’omogeneizzazione della manodopera nella categoria intermedia dei semiqualificati; per un altro
verso, però, questa omogeneizzazione poteva facilmente divenire la base sociale di proteste
collettive. Questo pericolo indusse Taylor a sottolineare l’importanza di lavori individuali e non
di gruppo, nonché di paghe personalizzate il cui ammontare doveva essere calcolato tenendo
conto di una pluralità di indicatori del valore monetario del lavoro svolto. In molti casi, si
crearono addirittura carriere professionali artificiose con il solo scopo di differenziare la
manodopera. In proposito cfr. Bonazzi (1987, p. 44) e Stone (1974).
21
macchina sociale e industriale “multisegmentaria”, che fa
del corpo il suo principio di funzionamento e il suo
principale
organo
di
trasmissione:
il
corpo
“che
si
manipola, che si allena, che obbedisce, che risponde, che
diviene
abile
o
le
cui
forze
si
moltiplicano”
aumentarne la produttività e, quindi, l’efficacia sociale
per
23
.
“La disciplina” – ha scritto Foucault – “fabbrica così
corpi sottomessi ed esercitati, corpi ‘docili’” 24. Molti dei
procedimenti con i quali operano le discipline esistevano
già da lungo tempo ed erano messi in pratica negli
eserciti, nei conventi, nel lavoro artigianale, nei luoghi di
cura o di studio, ma solo nel corso del XVII e del XVIII
secolo
le
discipline
dominazione” per
pratiche
diventano
“formule
generali
di
poi, con il XIX secolo, fondare le
organizzative
generate
dalla
rivoluzione
industriale rispondendo alla “nuova esigenza” del tempo:
costruire una “macchina il cui effetto sarà massimizzato
23
Foucault (1976, pp. 180 e 148): “Il grande libro dell’Uomo-macchina venne scritto
simultaneamente su due registri: quello anatomo-metafisico, di cui Descartes aveva scritto le
prime pagine e che medici e filosofi continuarono; quello tecnico-politico, costituito da tutto un
insieme di regolamenti militari, scolastici, ospedalieri e da processi empirici e ponderati per
controllare o correggere le operazioni del corpo. Due registri ben distinti poiché si trattava da
una parte di sottomissione e utilizzazione, dall’altra di funzionamento e spiegazione: corpo utile,
corpo intellegibile. E tuttavia, tra l’uno e l’altro, dei punti d’incrocio. L’Uomo-macchina di La
Mettrie è insieme una riduzione materialistica dell’anima e una teoria generale
dell’addestramento e al loro centro regna una nozione di ‘docilità’ che congiunge al corpo
analizzabile il corpo manipolabile. E’ docile un corpo che può essere sottomesso, che può essere
utilizzato, che può essere trasformato e perfezionato”.
24
Foucault (1976, p. 150).
22
dall’articolazione concertata delle parti elementari di cui è
composta” per ottenere un apparato efficace 25.
I
dispositivi
(foucaltiano)
disciplinari,
come
che
oggetto
e
costituiscono
strumento
del
l’uomo
potere-
sapere, si concentrano intorno a un processo che tende
alla
standardizzazione
ed
alla
“normalizzazione”
attraverso forme di controllo intenso e continuo dei tempi
e della rapidità di esecuzione delle operazioni lavorative,
degli spazi e dei corpi, dei movimenti e dei gesti, delle
attitudini, dei comportamenti e delle sequenze di attività:
appare, attraverso le discipline, il “potere della Norma”, il
normale
come
dell’organizzazione,
industriali 26.
Prima
istanza
dei
di
di
regolamentazione
procedimenti
tutto,
e
quindi,
dei
prodotti
una
“nuova”
microfisica del potere e un “potere infinitesimale sul
corpo
attivo”,
controllo
attraverso
minuzioso
delle
metodi
che
operazioni
25
permettono
del
corpo,
il
che
Foucault (1976, pp. 179 e 149): “Non è sicuramente la prima volta che il corpo è oggetto di
investimenti così imperiosi e pressanti; in ogni società il corpo viene preso all’interno di poteri
molto rigidi, che gli impongono costrizioni, divieti od obblighi. Molte cose, tuttavia, sono nuove
in queste tecniche”. In generale, cfr. Remotti (1993) e Galimberti (1991 e 1999, pp. 116ss.).
26
Foucault (1976, p. 201): il potere della norma come “nuova legge della società moderna?
Diciamo piuttosto che, dal secolo XVIII, esso è venuto ad aggiungersi ad altri poteri
costringendoli a nuove delimitazioni; quello della Legge, quello della Parola e del Testo, quello
della Tradizione. Il Normale si instaura come principio di coercizione nell’insegnamento, con
l’introduzione di un’educazione standardizzata (…); si instaura nello sforzo di organizzare un
corpo medico e un inquadramento ospedaliero nazionale, suscettibile di far funzionare norme
generali di sanità; si instaura nella regolamentazione dei procedimenti e dei prodotti industriali.
23
“assicurano l’assoggettamento costante delle sue forze ed
impongono loro un rapporto di docilità-utilità”: il potere
disciplinare, sostiene Foucault, “è un potere che, in luogo
di sottrarre e prevalere, ha come funzione principale
quella di ‘addestrare’ o, piuttosto, di addestrare per
meglio prelevare e sottrarre di più”. Non incatena le forze
per ridurle, ma “cerca di legarle” facendo in modo di
“moltiplicarle e utilizzarle” 27.
Come la sorveglianza - ed insieme ad essa - la normalizzazione diviene uno dei grandi strumenti
di potere”.
24
5. Addestramento e disciplina dell’uomo-macchina
“Martin si rallegrò della precisione acquistata quasi
automaticamente e fondata sull’osservazione di sintomi
quasi imponderabili. Ma non aveva molto tempo per
riflettere e
rallegrarsi;
tutto
il
suo
io
cosciente
era
applicato al compito; il suo cervello e il suo corpo,
incessantemente
attivi,
erano
ormai
una
macchina
intelligente nella quale i problemi insondabili dell’universo
non
trovavano
più
adito
né
posto”:
è
il
1909,
il
protagonista è l’ormai celebre Martin Eden del romanzo di
Jack London
28
.
L’orizzonte di senso entro cui si muove Martin è quello
dell’organizzazione scientifica del lavoro e, quindi, del
meccanicismo e dell’uomo-macchina. In coerenza con il
modello concettuale della macchina, nel taylorismo il
movimento umano è scisso in operazioni elementari non
ulteriormente
divisibili,
di
cui
è
postulata
l’interdipendenza reciproca: la complessità del processo
lavorativo viene dominata suddividendo le funzioni e le
competenze (e, quindi, le responsabilità) dei vari soggetti
che vi partecipano, in modo che il risultato complessivo
27
28
Foucault (1976, pp. 148ss. e 201ss.).
In proposito cfr. Varanini (2000, p. 87ss.).
25
finale possa essere raggiunto mediante la somma dei
contributi parziali (e parcellizzati, quindi alienanti rispetto
all’esito del lavoro) di tutti coloro che partecipano al ciclo
produttivo.
Gli operai devono osservare il mansionario ed eseguire
le prescrizioni (definite dagli specialisti di produzione)
senza
pensare:
il
ritmo
di
lavoro
e
le
quantità
di
produzione da effettuare giornalmente, peraltro, sono
definiti e saggiati anche attraverso l’opera degli operaiallenatori.
Considerando
il
livello
impiegatizio
e
direzionale, poi, Taylor propone una rigida distinzione tra
programmazione, esecuzione e controllo delle attività,
assegnando ai quadri intermedi la routine esecutiva e
lasciando liberi i dirigenti di trattare i casi eccezionali e le
deviazioni
dalla
standardizzazione
norma 29.
e
La
rigorosa
parcellizzazione
29
pianificazione,
dei
compiti
Come ricorda Bonazzi (1997, pp. 48ss.), le prescrizioni di Taylor non si fermano all’officina. In
tutta l’organizzazione il passaggio delle informazioni ai livelli superiori, e quindi anche le
richieste di intervento, devono essere regolate secondo il cosiddetto “principio di eccezione”.
Con questo principio Taylor estende ai livelli direttivi lo stesso criterio di eliminazione dei tempi
morti e superflui che ispira la riorganizzazione delle mansioni esecutive. In una organizzazione
tradizionale, egli osserva, è un fatto tutt’altro che insolito, per quanto sconsolante, vedere il
direttore con la scrivania inondata da una marea di lettere e di rapporti su ognuno dei quali egli
ritiene di dover apporre la propria firma e, con ciò, crede di essere in stretto contatto con
l’intera azienda. Senonché questo è un’impresa faticosa e fallimentare. Per essere all’altezza dei
suoi compiti, invece, un dirigente deve adottare un metodo opposto che è, appunto, quello
suggerito dal principio di eccezione: in base ad esso, il direttore riceve soltanto dei rapporti
riassuntivi che, prima di arrivare alla sua attenzione, sono attentamente esaminati da un
assistente il quale metterà in evidenza tutte le eccezioni, ossia le deviazioni rispetto alla
normalità.
26
dovrebbero contribuire, in modo decisivo, a porre fine al
soggettivismo, all’empiria, alla casualità e al caos che
troppo spesso, secondo Taylor, caratterizzano i contesti
lavorativi.
Addestramento
mirato,
dunque,
nonchè
rispetto
scrupoloso degli ordini ricevuti fin nei minimi dettagli,
all’interno di un ciclo produttivo dove l’integrazione tra
uomini e macchine contribuisce al consolidamento del
paradigma
scientific
meccanicistico
management ,
dell’uomo-macchina:
infatti,
ogni
per
lo
organizzazione
lavorativa dovrebbe essere posta sotto il controllo di
ingegneri in grado di progettare e gestire con efficienza
meccanica 30.
30
Il meccanicismo rappresenta, come noto, uno dei paradigmi portanti nella storia della
filosofia, della scienza e delle organizzazioni. Con riferimento a quest’ultimo ambito, si può
ricordare che l’autore dell’Homme machine, La Mettrie, ebbe un ruolo importante nella corte di
Federico il Grande di Prussia il quale, affascinato dai giocattoli automatici (in particolare dagli
uomini meccanici), nella seconda metà del ‘700 cercò di rendere il suo esercito uno strumento
affidabile ed efficiente attraverso la standardizzazione delle procedure e il disciplinamento dei
soldati: attraverso l’introduzione dei gradi e delle uniformi, l’uso esteso di una normativa
standardizzata, una marcata specializzazione dei compiti, l’utilizzo di un equipaggiamento
standardizzato, la creazione di un linguaggio apposito per il comando nonché l’addestramento
sistematico (sia all’uso delle armi che, più in generale, alla vita militare), Federico cercò di
“ridurre i soldati a degli automi che obbedissero ciecamente ai comandi e alle istruzioni” (cfr.
Morgan, 1998, pp. 417-418). Come ricorda Morgan (1998, pp. 28-29 e 417ss.), l’obiettivo di
Federico era quello di rendere l’esercito un meccanismo efficiente che funzionasse avvalendosi
di componenti standardizzate: le procedure di addestramento permettevano di creare queste
componenti praticamente a partire dal materiale grezzo dei soggetti componenti la truppa
(criminali, poveri, mercenari stranieri, coscritti riottosi). Per poter garantire l’efficienza bellica,
gli uomini dovevavo imparare a temere i propri ufficiali più del nemico; inoltre, l’efficienza della
macchina militare era garantita dalla separazione delle funzioni di comando da quelle consultive,
attraverso l’enucleazione di specialisti con funzione di consiglieri (staff) dalla catena gerarchica
ed assegnando a questi consiglieri la funzione di pianificare le operazioni. Con il tempo, poi, altri
27
In altri termini, ogni organizzazione dovrebbe essere
rigorosamente
disciplinata.
E
disciplinare,
come
si
è
detto, significa far crescere e moltiplicare le forze e le
risorse a partire dalla strutturazione degli spazi e dalla
ripartizione degli uomini nei luoghi di lavoro od in quelli
di educazione, punizione, cura o preghiera. La disciplina,
ricorda Foucault, talvolta esige la “clausura”, ovvero la
specificazione di un luogo eterogeneo rispetto agli altri
spazi e chiuso su se stesso come (furono e, a volte,
ancora
sono)
i
conventi,
le
caserme,
le
scuole,
gli
ospedali, gli opifici, le officine ed i laboratori. Tuttavia, la
clausura non è un principio costante o indispensabile, né
sufficiente
negli
apparati
disciplinari:
questi,
infatti,
configurano “lo spazio in maniera assai più duttile e
sottile”
e,
prima
di
tutto,
secondo
il
principio
della
localizzazione elementare che si articola in una serie di
regole le più importanti delle quali richiedono che ad ogni
individuo venga assegnato il suo posto e che in ogni
miglioramenti organizzativi portarono a decentrare le attività di controllo in modo tale da creare
una maggiore autonomia delle varie componenti dell’esercito nelle diverse situazioni belliche.
Molte delle idee e dei metodi di Federico il Grande risultarono particolarmente utili per risolvere
i problemi determinati dall’incremento delle dimensioni delle fabbriche e furono,
progressivamente, adottati nel corso del secolo XIX dagli imprenditori che erano alla ricerca di
forme organizzative adatte alla tecnologia delle macchine e la concezione federiciana di un
esercito meccanizzato divenne sempre più una realtà, sia negli ambienti di fabbrica che in quelli
burocratici. In proposito, si può ricordare che uno dei discepoli di Taylor, Henry Gantt, portò poi
all’estremo la concezione meccanicistica proponendo addirittura un’organizzazione chiamata “la
nuova macchina”.
28
posto disponibile sia presente un individuo, che si evitino
le “distribuzioni a gruppi” e che si analizzino le strutture
collettive scomponendo le pluralità confuse, massive o
sfuggenti.
In altri termini, lo spazio disciplinare tende a dividersi
in altrettante particelle quanti sono i corpi o gli elementi
da ripartire, in quanto “si tratta di stabilire le presenze e
le assenze, di sapere come e dove ritrovare gli individui,
di instaurare le comunicazioni utili, d’interrompere le
altre, di potere in ogni istante sorvegliare la condotta di
ciascuno, apprezzarla, sanzionarla, misurare le qualità od
i meriti. E ancora, nelle istituzioni disciplinari emerge la
regola e la tecnica delle ubicazioni funzionali e, quindi, la
pratica della rigorosa suddivisione degli spazi e degli
oggetti in essi contenuti per specifiche destinazioni d’uso:
ad esempio, gli ambulatori medici ospedalieri per la
sorveglianza delle malattie e dei contagi che prevedono
letti con attaccato il nome del paziente, cartelle cliniche
individuali, armadi chiusi per i medicamenti e altri mobili
dedicati
alla
raccolta
dei
documenti
per
registrare
l’utilizzo dei medicinali ed i controlli sui pazienti.
29
In particolare, nelle officine che appaiono alla fine del
‘700 e si sviluppano nel corso dell’800 per divenire poi,
soprattutto
con
il
‘900,
vere
e
proprie
fabbriche,
il
principio della suddivisione spaziale individualizzante si
complica in quanto si tratta di “distribuire gli individui in
uno spazio dove si possa individuarli e reperirli, ma anche
di
articolare
questa
distribuzione
su
un
apparato
di
produzione che ha esigenze proprie”. Di conseguenza,
scrive Foucault, la produzione si divide ed il processo di
lavoro si articola da una parte “secondo le sue fasi, i suoi
stadi o le sue operazioni elementari e dall’altra secondo
gli individui che le effettuano, i corpi singoli che vi si
applicano:
ogni
prontezza,
abilità,
quindi
variabile
di
costanza
caratterizzato,
questa
–
forza
può
–
essere
apprezzato,
vigore,
osservato,
contabilizzato
e
rapportato a colui che ne è l’agente particolare” 31.
Le
discipline
scompongono
contempo
e
che
ricompongono
anche
capitalizzare
analizzano
il
come
le
spazio,
attività,
meccanismi
tempo.
lo
Le
per
che
operano
al
addizionare
e
discipline,
infatti,
contribuiscono alla codificazione e al consolidamento di
un
tempo
lineare
-
“evolutivo”
-
i
cui
momenti
31
Foucault (1976, pp. 156ss.). Sullo spazio organizzativo cfr. la sintesi di Biggiero (1997, pp.
113ss.).
30
si
integrano gli uni agli altri e si orientano verso un punto
terminale e stabile.
L’impiego del tempo (occidentale) è una vecchia eredità
ricevuta dalle comunità monastiche: i suoi tre “grandi
procedimenti” - “stabilire delle scansioni, costringere a
determinate operazioni, regolare il ciclo di ripetizione” si sono ben presto ritrovati nei collegi, negli ospedali, nei
laboratori e nelle fabbriche, dove il rigore del “tempo
industriale”
religioso.
ha
mantenuto
Inoltre,
come
a
lungo
ricorda
un
Foucault,
andamento
in
questi
contesti si cerca anche di “assicurare la qualità del tempo
impiegato:
controllo
ininterrotto,
pressione
dei
sorveglianti, annullamento di tutto ciò che può disturbare
o distrarre” al fine di “costituire un tempo integralmente
utile”, senza impurità e difetti, “un tempo di buona
qualità, lungo il quale il corpo resta applicato al suo
esercizio”
lavorativo.
In
definitiva,
l’obiettivo
(disciplinare) è “estrarre dal tempo sempre più istanti
disponibili e da ogni istante sempre più forze utili” 32.
32
Foucault (1976, pp. 162ss.). Sul tempo nelle organizzazioni lavorative cfr. Pero (1997, pp.
134ss.).
31
6. La sorveglianza gerarchizzata
Il successo del potere disciplinare deriva dall’uso di
strumenti semplici: il controllo gerarchico, la sanzione
normalizzatrice e la loro combinazione nella procedura
dell’esame. L’esame non si limita, peraltro, a “fabbricare”
individui utili (in primo luogo operai, poi anche impiegati,
specialisti,
quadri
direttivi
e
dirigenti,
piuttosto
che
soldati ed ufficiali), ma li coinvolge attivamente nelle
modalità
di
funzionamento
del
potere
stesso,
sottoponendoli ad una logica di costi e benefici, di premi
e castighi che indica a ognuno la propria convenienza 33. Il
controllo
gerarchico,
a
sua
volta,
nella
dimensione
disciplinare si connota quale fenomeno che mette in gioco
relazioni di reciprocità, seppur asimmetriche, all’interno
di un campo di “sguardi calcolati”: grazie alle tecniche di
sorveglianza, la microfisica del potere e la “presa sul
corpo” si effettuano secondo un “gioco di spazi, di linee,
di schermi, di fasci, di gradi e senza ricorrere, almeno in
linea di principio, all’eccesso, alla forza, alla violenza” 34.
33
Cfr. Catucci (2000, p. 102), il quale sottolinea che il regime disciplinare comporta la diffusione
generalizzata di un principio di sorveglianza che nelle istituzioni più chiuse – prigioni, ospedali,
fabbriche, scuole – prende la forma di una funzione specializzata, ma che nel campo aperto
della società si traduce in un controllo reciproco dei sorveglianti e dei sorvegliati, cioè in un
reticolo di relazioni che non funziona a senso unico, ma si diffonde in tutte le direzioni.
34
Foucault (1976, p. 194).
32
Più
in
generale,
le
componenti
di
base
di
questo
scenario sono “la minuzia dei regolamenti, lo sguardo
cavilloso
delle
ispezioni,
il
controllo
sulle
minime
particelle della vita e del corpo” che contribuiscono a
generare - nell’ambito delle scuole e delle caserme, come
delle
fabbriche
e
degli
ospedali
-
la
microeconomia
disciplinare e la razionalità tecnica che contraddistingue il
sapere-potere disciplinare come insieme di tattiche per
mezzo delle quali “la forza del corpo viene, con la minima
spesa, ridotta come forza ‘politica’ e massimizzata come
forza utile” 35.
Storicamente,
la
diffusione
dell’organizzazione
scientifica del lavoro fu molto favorita dal sensazionale
sviluppo
dell’industria
automobilistica
e
dal
successo
35
Per la genealogia del potere disciplinare cfr. Foucault (2000, pp. 173ss. e, soprattutto, 1976,
pp. 186-187, 152-153, 237ss.): “La formazione della società disciplinare rinvia ad un certo
numero di vasti processi storici all’interno dei quali essa prende posto: economici, giuridicopolitici, scientifici (…). Le discipline sono tecniche per assicurare la regolamentazione delle
molteplicità umane” con una tattica di potere che “risponde a tre criteri: rendere l’esercizio del
potere il meno costoso possibile (economicamente, con la spesa modesta che richiede;
politicamente, per la sua discrezione, la sua esteriorizzazione limitata, la sua relativa invisibilità,
la scarsa resistenza che suscita); fare sì che gli effetti di questo potere sociale siano portati al
massimo d’intensità ed estesi quanto più lontano possibile, senza scacchi, né lacune; collegare
infine questa crescita ‘economica’ del potere al rendimento degli apparati all’interno dei quali
esso si esercita (che siano apparati pedagogici, militari, industriali, medici); in breve far crescere
insieme la docilità e l’utilità di tutti gli elementi del sistema. Questo triplice obiettivo delle
discipline risponde ad una congiuntura storica ben nota. E’, da una parte, la grande spinta
demografica del secolo XVIII (…). L’altro aspetto della congiuntura è la crescita dell’apparato
produttivo (…). Se il decollo economico dell’Occidente è cominciato coi processi che hanno
permesso l’accumulazione del capitale, possiamo dire che, forse, i metodi per gestire
l’accumulazione degli uomini hanno permesso un decollo politico in rapporto a forme di potere
33
incontrato
dalla
Ford
Motor
Company
e
dai
suoi
“rivoluzionari” metodi di produzione. Attorno al 1910
Henry Ford, infatti, “perfezionava” il taylorismo adottando
la catena di montaggio semovente e incorporando nella
tecnologia
imposto
meccanica
alla
costruttori
della
manodopera.
d’automobili
ingaggiavano
catena
consulenti
il
Quindi,
americani
tayloristi
ritmo
di
lavoro
numerosi
e,
poi,
perché,
altri
europei,
nella
loro
qualità di fabbricanti e assemblatori di migliaia di pezzi di
precisione,
traevano
cospicui
vantaggi
dai
sistemi
di
lavorazione in serie ed a catena 36.
Il paradigma meccanicistico in campo organizzativo,
dunque,
che
attorno
al
1930
era
ormai
ampiamente
diffuso soprattutto negli Stati Uniti d’America e in Europa,
contribuiva a consolidare l’assunto che le organizzazioni
dovrebbero essere sistemi razionali che funzionano nella
maniera più efficiente possibile impiegando al meglio le
risorse
economiche,
strumentali
ed
umane
di
cui
tradizionali, rituali, costose, violente, che, ben presto cadute in desuetudine, sono state
sostituite da tutta una tecnologia sottile e calcolata dell’assoggettamento”.
36
Il dibattito sulle analogie e sulle differenze tra taylorismo e fordismo è piuttosto ampio: in
proposito, cfr. Accornero (1975). Per due prospettive parzialmente contrapposte cfr. Nelson
(1999, p. 469), secondo cui Ford si tenne a debita distanza da Taylor e Bonazzi (1997, p. 139)
che, invece, sostiene che a livello di fattualità storica il taylorismo può essere considerato come
un elemento ricompreso nel più ampio sistema fordista di produzione, anche se a livello teorico
taylorismo e fordismo hanno dato luogo a due dibattiti solo marginalmente connessi. In queste
pagine l’elemento unificatore delle due prospettive, invece, è considerato il paradigma
34
dispongono. Quindi, organizzazioni volte a massimizzare
l’utile ed a ridurre tendenzialmente a zero le diverse
forme di dépense , di dispendio e perdita improduttiva di
energie lavorative 37 denunciate da Taylor e dai consulenti
suoi colleghi.
In
definitiva,
conseguente
lavorative,
meccanicismo
meccanizzazione
sviluppatosi
perfezionatosi
produttive
il
soprattutto
americane
ed
taylorista
delle
nel
corso
nelle
grandi
europee
del
con
la
organizzazioni
del
tempo
e
organizzazioni
‘900,
consiste
essenzialmente nella progettazione di mansionari analitici
composti di attività tendenzialmente elementari, riducibili
a
sequenze
di
movimenti
e
comportamenti
reiterabili
secondo le necessità derivanti dai processi produttivi.
meccanicistico che ispira sia le teorizzazioni e le prassi tayloriste che il contesto organizzativo
fordista.
37
Per un excursus sulle dinamiche e sulle simbologie della dépense cfr. Bataille (1992, pp. 3ss.
e 1991, pp. 27ss.) e il fondamentale saggio di Mauss (1996, pp. 160ss.), nonché Guidieri (1999,
pp. 13ss.) e Pulcini (1997, pp. 7ss.). Per Galimberti (1991, pp. 58ss.), “l’economia politica è
nata il giorno in cui si è cominciato ad accumulare l’eccedenza della produzione che i primitivi
distruggevano nel potlàc per scongiurare quella che essi ritenevano fosse la parte maledetta,
ossia quei beni che, sottratti allo scambio simbolico, perdevano la loro ambivalenza per
accumulare progressivamente valore. Dallo scambio simbolico si passò così al valore di scambio,
dalla distruzione dei beni alla loro sostituzione, che non poteva avvenire se non sottintendendo
la nozione di ‘valore’, senza la quale sarebbe stato impossibile paragonare due beni tra loro per
poterli scambiare ‘senza perdita’. Nella nozione di valore è quindi implicito il principio platonico
dell’unità del molteplice, dell’equivalente generale che sottrae tutte le cose alla loro naturale
ambivalenza, per la semplice ragione che ad esse non è più consentito scambiarsi tra loro, ma
solo riflettersi in quell’equazione originaria che consente a ciascuna di trovare nell’altra la
propria identità e indennità. Nel valore ogni cosa rinnega il suo corpo (…). Le forze del corpo,
una volta messe in gioco nel mondo dello scambio, circolano sotto forma di valori di cui sono la
sostanza misconosciuta”.
35
Correlativamente, il postulato (positivista) dell’ one best
way e la pretesa che per ogni problema esista sempre
una
ed
attraverso
una
sola
soluzione
l’adozione
di
ottimale,
adeguati
individuabile
metodi
“scientifici”,
contribuiscono alla centralizzazione organizzativa e alla
strutturazione
gerarchico-piramidale
dei
rapporti
nei
contesti lavorativi. Pertanto, da un lato l’aumento di
processi lavorativi uniformi, parcellizzati e impersonali e,
d’altro lato, lo sviluppo di micro-specialismi professionali
a ogni livello (non solo operaio, ma anche impiegatizio e
direzionale), rappresentano le conseguenze dirette dello
scientific management .
La standardizzazione scientifica e la normalizzazione
disciplinare, il controllo capillare e diffuso dei tempi,
degli spazi, dei movimenti e dei comportamenti lavorativi
consolidano le piramidi gerarchiche e, quindi, le relazioni
asimmetriche
organizzativo
controllore-controllato:
presuppone
la
questo
formazione
di
sistema
una
scala
gerarchica nella quale l’esecuzione efficace dei compiti
lavorativi – attraverso l’applicazione corretta delle regole
e
l’adempimento
puntuale
dei
doveri
derivanti
dalle
procedure e routines lavorative – viene continuamente
verificata e sanzionata.
36
Il
potere
“integrati”,
disciplinare
genera
funzionando
sistemi
come
organizzativi
“potere
multiplo,
automatico ed anonimo” in quanto la sorveglianza si attua
attraverso una rete di relazioni “dall’alto al basso, ma,
anche,
fino
a
un
collateralmente”:
matrice
certo
nei
disciplinare
punto,
sistemi
dal
basso
organizzativi
(caratteristici
del
all’alto
e
evoluti
di
taylorismo
o,
anche, dell’attuale post-taylorismo maturo), è la rete
delle
relazioni,
formali
e
informali,
che
fa
“tenere”
l’insieme e lo “attraversa integralmente con effetti di
potere che si appoggiano gli uni sugli altri” fino al punto
da creare “sorveglianti perpetuamente sorvegliati”. In
altri termini, nella prospettiva foucaultiana si può dire
che
il
potere,
nella
sorveglianza
gerarchizzata
discipline, non si detiene come una cosa” e
delle
non si
trasferisce come una proprietà: piuttosto, “funziona come
un meccanismo” teso a distribuire gli individui in un
campo permanente e continuo di relazioni multidirezionali
e di “sguardi calcolati” 38.
Il potere (disciplinare) è dappertutto in quanto “viene
da
ogni
dove”:
raggruppare
38
non
tutto
perché
sotto
la
Foucault (1976, p. 194)
37
avrebbe
sua
“il
privilegio
invincibile
unità,
di
ma
perché si produce in ogni istante, in ogni punto, o
piuttosto in ogni relazione tra un punto ed un altro”. Il
potere, quindi, si esercita a partire da innumerevoli punti
e nel “gioco di relazioni diseguali e mobili” finalizzate non
solo e non tanto a reprimere, ma soprattutto a produrre 39.
39
Foucault (1993, pp. 81ss.): “Il potere non è un’istituzione e non è una struttura, non è una
certa potenza di cui alcuni sarebbero dotati: è il nome che si dà ad una situazione strategica
complessa in una società data”. Il potere produce prima di reprimere, soprattutto perché ciò
che reprime – le persone – sono già, in larga misura, suoi prodotti: per Foucault (1976, p. 212),
infatti, il potere “produce il reale: produce campi di oggetti e rituali di verità. L’individuo e la
conoscenza che possiamo assumerne derivano da questa produzione”. Chiarito ciò, l’unica
maniera adeguata di intendere il potere è quella di considerarlo non in termini economici o
repressivi, ma come lotta, scontro. Il potere, scrive ancora Foucault (1977, p. 175)
parafrasando il motto di Clausewitz, “è la guerra continuata con altri mezzi”. Qualche anno
dopo, il nostro (1993, pp. 82ss.) approfondisce ulteriormente la riflessione: “Bisogna allora
capovolgere la formula e dire che la politica è la guerra continuata con altri mezzi? Forse, se si
vuole conservare ancora una differenza fra guerra e politica, si dovrebbe avanzare piuttosto
l’ipotesi che questa molteplicità di rapporti di forza può essere codificata – in parte e mai
completamente – o nella forma della ‘guerra’ o nella forma della ‘politica’: sarebbero, queste,
due strategie diverse (ma pronte a rovesciarsi l’una nell’altra) per integrare questi rapporti di
forza squilibrati, eterogenei, instabili, tesi. In questa linea, si potrebbero avanzare un certo
numero di proposizioni:
che il potere non è qualcosa che si acquista, si strappa o si condivide, qualcosa che si
conserva o che si lascia sfuggire; il potere si esercita a partire da innumerevoli punti e nel
gioco di relazioni diseguali e mobili;
che le relazioni di potere non sono in posizione di esteriorità nei confronti di altri tipi di
rapporti (processi economici, rapporti di conoscenza, relazioni sessuali), ma che sono loro
immanenti; sono gli effetti immediati delle divisioni, delle ineguaglianze e dei disequilibri
che vi si producono, e sono reciprocamente le condizioni interne di queste differenziazioni;
le relazioni di potere non sono in posizione di sovrastruttura, con un semplice ruolo di
proibizione o di riproduzione; hanno, là dove sono presenti, un ruolo direttamente
produttivo;
che il potere viene dal basso: cioè che non c’è, all’origine delle relazioni di potere, e come
matrice generale, un’opposizione binaria e globale fra i dominanti e i dominati, dualità che
si ripercuoterebbe dall’alto in basso e su gruppi sempre più ristretti fin nelle profondità del
corpo sociale (…);
che le relazioni di potere sono contemporaneamente intenzionali e non soggettive (…);
che là dove c’è potere c’è resistenza e che tuttavia, o piuttosto proprio per questo, essa
non è mai in posizione di esteriorità rispetto al potere (…). Come la trama delle relazioni di
potere finisce per formare uno spesso tessuto che attraversa gli apparati e le istituzioni
senza localizzarsi esattamente in essi, così la dispersione dei punti di resistenza attraversa
le stratificazioni sociali e le unità individuali”.
38
E le relazioni di potere contribuiscono anche, in modo
determinante,
a
produrre
la
soggettività:
l’individuo,
sostiene Foucault, è “una realtà fabbricata da quella
tecnologia
specifica
del
potere
che
si
chiama
‘la
disciplina’” 40.
Il potere foucaultiano non è, dunque, il potere come insieme di apparati e di istituzioni che
garantiscono la sottomissione dei cittadini in uno stato determinato o l’obbedienza dei
subordinati in una determinata organizzazione produttiva, né un tipo di assoggettamento che in
opposizione alla violenza avrebbe la forma della regola, né, infine, un sistema generale di
dominio esercitato da un elemento o da un gruppo su un altro. Invece, il potere si identifica con
il plesso relazionale e la molteplicità diffusa dei rapporti di forza immanenti ad una determinata
società o ad un altro contesto di vita collettiva organizzata.
Come sottolinea Fornero (1993, p. 409), la novità di questa teorizzazione (che, secondo alcuni
studiosi, rappresenta la parte più interessante dell’opera di Foucault), risulta evidente
soprattutto se confrontata con la tradizionale dottrina marxista: a Marx, infatti, Foucault
contesta innanzitutto l’impostazione economicistica, ossia l’idea del potere come
“sovrastruttura” e la subordinazione delle forze politiche a quelle economiche. Sulle orme di
Nietzsche, Foucault sostiene invece il carattere strutturale del potere, concepito come realtà
fondante della vita associata (all’interno della quale non è tanto il rapporto di produzione a
reggere il potere, ma la forma del potere a consentire il “prelievo dei beni”). In secondo luogo,
Foucault contesta a Marx l’impostazione macrofisica, ossia la tendenza a trascurare le relazioni
di potere elementari e locali a favore dei grandi rapporti di forza incarnati dalle classi sociali e
da quella loro proiezione politica che sarebbe lo stato. Foucault esclude che il potere “dipenda”
dallo stato – e quindi dalla classe al potere – e sia localizzato principalmente nei suoi “apparati”:
coerentemente con la sua prospettiva microfisica, afferma invece la dipendenza dei macromeccanismi statali dai micro-meccanismi sociali, in quanto lo stato è “sovrastrutturale in
rapporto a tutt’una serie di reti di potere che passano attraverso i corpi, la sessualità, la
famiglia, gli atteggiamenti, i saperi, le tecniche” (1977, p. 16). In terzo luogo, Foucault critica
Marx per la tendenza a pensare in termini di opposizioni globali e binarie (stato-sudditi,
dominanti-dominati, borghesia-proletariato) ovvero per il dualismo fra soggetti ed oggetti di
potere (con la relativa “drammatizzazione manichea” della storia). Secondo Foucault, invece,
nella realtà microfisica del quotidiano non sono possibili grandi partizioni fra dominatori e
dominati, poiché ogni individuo o gruppo risulta, simultaneamente, l’uno e l’altro.
40
Foucault (1976, p. 212 e 1998, p. 228).
39
7. Macchine, automi e hamburger
Lo scientific management e le forme organizzative che
hanno caratterizzato, nel XIX e nel XX secolo, il mondo
produttivo industriale e, in parte, anche le pubbliche
amministrazioni 41, si sono sviluppate in nome di una
Scienza (positivista) piuttosto pretenziosa e imprudente
quanto a promesse di efficienza ed efficacia.
I
modelli
tayloristi
(o
taylor-fordisti),
comunque,
funzionano quando si è in presenza delle condizioni che
tipicamente rendono possibile l’utilizzo delle macchine e
dell’automazione: ovvero, quando vi sono compiti molto
chiari, quando l’ambiente è sufficientemente stabile da
garantire
che
i
risultati
prodotti
siano
adeguati
alle
condizioni d’effettivo uso e alle aspettative dei soggetti
interessati,
quando
si
vuole
produrre
esattamente
lo
stesso prodotto più volte, quando la conflittualità interna
è
bassa
e
le
componenti
umane
della
macchina
organizzativa sono “docili” e rispettano i compiti loro
assegnati.
La
catena
rappresenta
41
un
mondiale
esempio
dei
ristoranti
particolarmente
In proposito cfr. Peters (1999).
40
McDonald’s
rilevante
di
applicazione
(e
di
successo)
dei
principi
tayloristici:
quest’azienda ha meccanicizzato l’organizzazione di tutti i
suoi
punti
vendita
nel
mondo
attraverso
la
centralizzazione della progettazione dei prodotti e dei
servizi
aziendali
e
la
decentralizzazione
della
fase
esecutiva, seppur mantenuta sotto uno stretto controllo.
La McDonald’s si rivolge ad un mercato di massa
analizzato e segmentato con estrema precisione dalle sue
strutture di marketing, offrendo un servizio costante e
regolare caratterizzato dalla precisione derivante dalla
“scienza degli hamburger”: cioè, attraverso percorsi di
formazione e, soprattutto, di addestramento aziendale
dedicati a tale scienza e grazie ad una manualistica
operativa molto analitica e prescrittiva; inoltre, attraverso
politiche
di
reclutamento
mirate
a
fasce
non
sindacalizzate di lavoratori, spesso individuati tra gli
studenti liceali ed universitari in quanto particolarmente
disponibili
dell’azienda;
ad
adattarsi
e
ancora,
alla
struttura
attraverso
organizzativa
l’elaborazione
di
documenti interni in cui sono definiti gli standard di
qualità e i livelli di efficienza 42.
42
In proposito cfr. Morgan (1998, pp. 42-43) e Ritzer (1997), secondo cui il modello di
organizzazione sociale che per Weber toccava la sua forma più compiuta nella burocrazia trova
una realizzazione ottimale nel sistema McDonald’s, fondato sull’efficienza, la quantificazione, il
calcolo, la prevedibilità, il controllo. Le dimensioni e il peso dell’hamburger sono uguali in tutti i
41
A titolo esemplificativo, può essere utile elencare i
principali indicatori che confluiscono nello schema di
verifica per controllare il comportamento del personale di
banco dei fast-food:
1. Ricevimento del cliente: un sorriso, uno sguardo di
saluto, uno sguardo d’intesa.
2. Come si prende l’ordine: il cameriere conosce bene il
menu e non lo deve leggere, il cliente non deve
ripetere l’ordine, gli ordini piccoli vngono memorizzati
e non scritti, il cameriere propone suggerimenti.
3. Come si prepara l’ordine: c’è una precisa sequenza, le
bevande
ghiaccio,
sono
si
fa
servite
con
scendere
la
il
giusta
bicchiere
quantità
di
di
plastica
spingendo il bottone con il dito, i bicchieri sono
riempiti a livello, i bicchieri vengono coperti, il caffè
non viene servito subito.
4. Come si serve l’ordine: panino confezionato con cura,
incartato due volte, vassoi di plastica per il consumo
paesi del mondo, la confezione è uniforme, le modalità di consumo sono preordinate, il prezzo
viene usato dagli economisti per comparare il costo della vita a livello internazionale. Altri ambiti
organizzativi che possono usare con successo modelli meccanicistici possono essere i reparti
ospedalieri di chirurgia, le officine di manutenzione delle compagnie aeree così come tutta una
lunga serie di organizzazioni in cui la precisione, la sicurezza e una chiara suddivisione delle
responsabilità risultano essere di primaria importanza. I rischi, tuttavia, non possono essere
sottaciuti: burocratizzazione e irrigidimento, deresponsabilizzazione rispetto a tutto quanto non
espressamente previsto nel mansionario, incapacità di adeguamento al nuovo, conflittualità
interna e scarsa integrazione tra livelli gerarchici, tra funzioni, ruoli e strutture.
42
in loco, si utilizza un nastro scorrevole per raccogliere
i vassoi, i cibi vengono presentati con cura.
5. Pagamento: la cifra viene detta chiaramente e ad alta
voce, l’ammontare ricevuto è dichiarato ad alta voce, il
resto viene contato ad alta voce, il resto è contato
rapidamente, la carta moneta viene appoggiata sul
banco prima di consegnare il resto.
6. Il congedo: si ringrazia sempre, il ringraziamento è
“sincero”,
c’è
uno
sguardo
di
saluto,
si
invita
a
ritornare.
E’ evidente la dimensione meccanica, quasi automatica,
generata dalle organizzazioni che si ispirano al paradigma
meccanicista.
Al di là delle considerazioni in ordine all’efficienza ed
all’efficacia dei processi organizzativi e di business che
tali
modelli
contribuiscono
a
generare,
l’approccio
meccanicistico tende a limitare, piuttosto che a favorire,
lo sviluppo delle capacità umane, modellando gli esseri
umani in modo da renderli adatti ai requisiti propri della
macchina organizzativa, invece di tentare un’operazione
complessa e difficile: costruire l’organizzazione attorno
alle capacità e alle potenzialità degli individui 43.
43
In proposito cfr. Morgan (1998, p. 47): in questo modo, “sia i dipendenti che l’organizzazione
finiscono con l’essere svantaggiati da questo fatto. I dipendenti perdono l’opportunità di
43
crescere, spesso passando molte ore al giorno a fare un lavoro che non apprezzano e che non
amano, laddove le organizzazioni perdono i possibili contributi creativi che molti dipendenti,
44
CAPITOLO II – ORGANIZZAZIONI POST-MODERNE E
SOGGETTI RAPPRESENTATIVI
1. Macchine, organismi, culture, collages e altre
metafore
Il positivismo scientista ha lasciato il posto, quanto
meno nella teoria organizzativa, ad altre epistemologie ed
antropologie che contribuiscono a generare metafore e
immagini dell’organizzazione lavorativa diverse rispetto
alla macchina caratteristica del taylorismo: l’organismo e
il sistema biologico, il cervello, la cultura, il sistema
politico, lo strumento di potere, la prigione psichica, il
racconto, il collage di testi scritti, discorsi, conoscenze
contestuali e interpretazioni.
La storia recente e, soprattutto, l’attualità del pensiero
organizzativo occidentale e della consulenza sono ricche
di teorizzazioni e di applicazioni di modelli che rinviano
alle
metafore
appena
individuate 44:
root
metaphors ,
posti nelle giuste condizioni, potrebbero offrire”.
44
Il testo per eccellenza sulle metafore dell’organizzazione è rappresentato dalle Images di
Morgan (1998), a cui si rinvia soprattutto per le ricche note bibliografiche (pp. 415ss.). Un altro
testo particolarmente utile per la ricostruzione delle teorie organizzative in prospettiva
metaforica è quello di Hatch (1999). Più in generale, per una ricostruzione sistematica della
45
ovvero metafore generative di modi di pensare, vedere e
parlare
delle
organizzazioni,
a
volte
mutuamente
incomparabili ed esclusive, che alimentano il pensiero e
l’azione
organizzativa.
Metafore
che,
in
alcuni
casi,
vantano genitori illustri e parentele altrettanto nobili anche se nessuna è blasonata, gettonata o vituperata
quanto quella della macchina.
L’immagine della macchina progettata e costruita dai
manager, visti come ingegneri organizzativi, per svolgere
certi compiti e ottenere specifici scopi, ha dominato non
solo
l’economia,
dell’800
e
del
all’organizzazione,
ma
anche
‘900.
infatti,
molta
Gli
hanno
letteratura
approcci
goduto
e
arte
meccanicisti
(e,
sovente,
ancora godono) di una “incredibile popolarità”, dovuta sia
all’efficienza con cui - ancora oggi - riescono a realizzare
certi obiettivi, sia al fatto che sono in grado di rinforzare
e supportare modelli forti di potere e di controllo 45.
Ancora oggi, come si è detto a proposito di McDonald’s,
la macchina è una metafora portante e molto radicata nel
lessico e nelle prassi organizzative, anche se le tecnologie
microelettroniche e, soprattutto, la digitalizzazione e la
storia e della sociologia organizzativa cfr. Bonazzi (1997), Costa e Nacamulli (1996), Clegg,
Hardy e Nord (1996).
45
Morgan (1998, p. 47).
46
net-economy 46
degli
ultimi
tempi
contribuiscono
al
consolidarsi di altre metafore e, quindi, alla progettazione
e all’implementazione di diversi modelli organizzativi.
Un paradigma con un forte potenziale euristico e ricco
di
implicazioni
operative,
presente
nella
storia
del
pensiero organizzativo soprattutto dagli anni ’60, è quello
dell’organizzazione come organismo o sistema vivente: in
base a questa metafora biologica l’organizzazione, come
qualunque
altro
organismo,
assorbirebbe
dal
proprio
ambiente le risorse necessarie alla sua sopravvivenza.
Invece
di
l’ambiente
conoscenze,
fornire
cibo
e
dell’organizzazione
forza-lavoro
e
riparo
dalle
fornisce
capitali
intemperie,
materie
–
tutte
prime,
risorse
necessarie ai processi di trasformazione che sostengono
l’organizzazione, in modo non dissimile dai processi vitali
negli organismi biologici 47.
La
metafora
organica
dell’organizzazione
è
anche
associata alle idee del funzionamento e dell’adattamento
degli esseri viventi all’interno di un sistema ecologico:
non solo le organizzazioni svolgono funzioni essenziali
alla propria sopravvivenza, come nel caso degli organismi
46
Sull’economia digitale e il culture change cfr. D’Egidio (2001), De Michelis (2001), Brown e
Duguid (2001), Merli (2000), Kalakota e Robinson (2000), Naisbitt (2000), Rifkin (2000),
Maldonado (1997).
47
Hatch (1999, p. 55).
47
biologici (digestione, respirazione e circolazione), ma,
come tutti gli organismi, devono anche adattarsi al più
vasto
ambiente
da
cui
dipendono
per
la
loro
sopravvivenza.
La
metafora
organica,
insomma,
si
focalizza
sui
processi organizzativi che garantiscono la sopravvivenza
e,
pertanto,
sul
mantenimento
degli
scambi
con
l’ambiente in modo che l’organizzazione possa ricevere le
materie prime di cui ha bisogno. In questo contesto, il
management diviene un elemento interdipendente di un
sistema che si adatta all’ambiente.
Come sottolinea Hatch, il riconoscimento che esistono
diversi tipi di organizzazioni che si sono adattate ad
ambienti
diversi
dovrebbe
evidenziare
che
“non
può
esistere un unico modo di organizzare (che sia anche il
migliore)
che
possa
andare
bene
per
tutte
le
organizzazioni”: diversi tipi di organizzazioni vivono in
ambienti diversi, a cui rispondono in modi diversi 48. La
metafora dell’organismo o, meglio, del sistema organico,
evidenzia la dipendenza dell’organizzazione dall’ambiente,
dalla tecnologia (intesa come processo di trasformazione
delle
risorse)
e
dall’adattamento
strutturale
strategie di sopravvivenza organizzativa.
48
come
Le
“difficoltà”
insite
nel
paradigma
meccanicistico
hanno spinto molti teorici e consulenti organizzativi verso
il
modello
organico-sistemico:
“Non
è
più
possibile
‘calcolare’ dall’alto e obbligare tutti a eseguire gli ordini
del ‘grande stratega’” – scrive ad esempio Senge – il
quale
sostiene
che,
guardando
al
futuro,
“le
organizzazioni che riusciranno effettivamente ad eccellere
saranno
quelle
che
avranno
scoperto
come
utilizzare
l’impegno dei singoli e la capacità di apprendere a tutti i
loro livelli” 49.
La metafora del cervello e la configurazione cibernetica
ed olistica delle organizzazioni rappresentano, almeno in
parte, uno sviluppo del paradigma sistemico-organicista
e, al contempo, un tentativo di risposta alternativa al
taylorismo. Come ricorda Morgan, infatti, “le osservazioni
di Taylor sollevano un problema interessante: è possibile
progettare
delle
organizzazioni
in
grado
di
essere
flessibili, elastiche e creative come un cervello?” 50.
48
Hatch (1999, p. 55.).
Senge (1992, pp. 4ss.), secondo cui “anche le aziende e le altre imprese umane sono dei
sistemi. Esse pure sono legate da tessuti invisibili di azioni interconnesse, che spesso richiedono
anni per esercitare completamente i loro effetti reciproci”. L’approccio biologico e, poi, sistemico
in senso ampio, peraltro, ha influenzato la teoria dell’organizzazione per lo meno a partire dal
XVIII secolo: in proposito, cfr. Mayo (1933), Maslow (1943), Argyris (1957, 1964), McGregor
(1960), Herzberg (1959), Blake e Mouton (1964), Bales (1950), Bertalanffy (1950, 1968), Miller
(1978), Boulding (1956), Katz e Kahn (1978).
50
Morgan (1998, p. 96). Tra le voci che hanno contribuito all’elaborazione del paradigma si
possono ricordare Ashby (1952 e 1960), Wiener (1967), Bateson (1976 e 1984), March e Olsen
49
49
Le strategie d’azione che il pensiero organizzativo degli
ultimi tre decenni ha elaborato per rispondere a questa
domanda sono molteplici: le più interessanti, soprattutto
in una dimensione antropologica, rinviano alla prospettiva
simbolico-interpretativa come orizzonte di senso entro cui
analizzare le dinamiche organizzative.
La dimensione simbolico-interpretativa e la metafora
dell’organizzazione come cultura, cioè come insieme di
significati creati e mantenuti da individui che vivono in
collettività attraverso la condivisione di valori, tradizioni
e usanze, può essere particolarmente utile per capire – e,
se del caso, gestire – le abitudini e le routines, le storie,
le rappresentazioni e i miti, i riti, gli artefatti ed i simboli
dell’organizzazione 51. Citando Clifford Geertz, si può dire
che
“l’uomo
è
un
animale
sospeso
in
una
rete
di
significati che egli stesso ha tessuto” e la cultura è “una
di queste reti e la sua analisi, pertanto, non è una
(1976). Peraltro, come ha sottolineato criticamente Morin (1983, p. 159), “il tutto non è tutto”:
secondo Morin, la teoria dei sistemi ipostatizza il paradigma sistemico (l’olismo, il tutto in
quanto più delle parti) così come l’approccio analitico della scienza tradizionale ipostatizzava gli
oggetti (in quanto parti isolate ignare del tutto). Per Morin, invece, un metodo è efficace se è in
grado di andare oltre il riduzionismo, ma anche oltre l’olismo, connettendo entrambi in un gioco
di interrelazioni, in modo tale che nessuno dei due termini sia assorbito dall’altro o riducibile
all’altro: così, le parti devono venire sì concepite in funzione del tutto, ma non solo del tutto,
bensì anche anche in isolamento.
51
Tra i tanti autori si possono ricordare Schutz (1967), Berger e Luckman (1969), Garfinkel
(1983), Hall (1959 e 1960), Sahlins (1972), Weick (1979), Ouchi (1981), Smircich (1983),
Pondy (1983), Schein (1985), Mattalucci (1993), Alvesson e Berg (1993), Kets de Vries (2001),
Piccardo e Benozzo (1996), Gagliardi (1995).
50
scienza sperimentale in cerca di leggi, ma una scienza
interpretativa in cerca di significati” 52.
L’approccio simbolico-interpretativo muove dall’assunto
che le culture, in quanto reti di significati, sono realtà
socialmente
costruite:
organizzazioni
rappresentata
e
quando
società
dalle
si
la
tratta
realtà
condizioni
del
di
non
gruppi,
è
mondo
tanto
fisico
o
naturale, ma è piuttosto definita attraverso legami e
accordi interpersonali. E le entità socialmente costruite
esistono soltanto fino a quando i loro membri pensano
che esistono e si comportano di conseguenza.
Il
paradigma
probabilmente,
dell’analisi
culturale
la
a
sua
principale
organizzativa
volta
rappresenta,
matrice
post-moderna,
generativa
che
procede
attraverso il collage di testi scritti, discorsi, conoscenze
locali
e
contestuali,
interpretazioni
e
ricostruzioni
“partecipanti” degli stili di vita e dei modi di produzione.
Collage che si connota, ad un tempo, quale metafora
dell’organizzazione e strumento euristico di comprensione
ed azione consulenziale in un mondo denso di significati
ma
52
senza
“grandi
racconti”
Geertz (1998).
51
in
grado
di
fondarli
e
legittimarli
–
o,
eventualmente,
di
imporli
gerarchicamente.
Come
ha
scritto
recentemente
Geertz,
anche
nella
dimensione organizzativa “ciò di cui abbiamo bisogno
sono
nuovi
modi
particolarità,
di
pensare,
individualità,
capaci
di
stranezze,
frequentare
discontinuità,
contrasti e singolarità”, per riuscire a rispondere alla
pluralità
di
“appartenenze
e di
modi
tendono a connotare ogni soggetto 53.
53
Geertz (1999, p. 21).
52
di
essere” che
2. La realtà del “come se”
Con
la
secolarizzazione,
la
razionalizzazione
e
il
disincanto del mondo, la nostra post-modernità si ritrova
a fare i conti con l’impossibilità di individuare un ordine
sicuro ed univoco della realtà.
Con
le
geometrie
fondamenti
della
non
euclidee
matematica
e,
e
le
dispute
soprattutto,
sui
con
la
relatività einsteiniana, la fisica quantistica e la scoperta
dell'irreversibilità dei processi termodinamici, è svanita la
possibilità di concepire le teorie scientifiche come sistemi
di proposizioni vere e certe, così come sono scomparse le
grandi
pretese
di
predire
il
futuro
tipiche
del
determinismo meccanicista.
L'ambiguità
sfuggente
del
mondo
subatomico,
le
oscurità di una materia sempre più smaterializzata e
astratta,
così
come
gli
abissi
dell'inconscio
e
della
déraison comportano la frammentazione delle immmagini
consolidate del mondo e dei suoi abitanti. L’uomo di oggi
si ritrova immerso nella realtà dell’ als ob , del come se :
consapevole
della
convenzionalità
e
dell’assenza
di
fondamenti assoluti delle scienze e di ogni forma di
53
sapere, come delle scelte politiche o morali e di ogni
codice di condotta 54.
La realtà ha perso “la chiarezza e la sicurezza” di un
tempo 55: il mondo del come se è il luogo del sembra , ove
la
“totalità
dell’essere”
non
si
esaurisce
più
in
manifestazioni che ne sono al contempo il “significantesignificato” e il linguaggio
non costituisce più l’ analogon
della realtà 56. Linguaggio e mondo si ritrovano irriducibili
l’uno all’altro e vivono un rapporto travagliato, a rischio
di
semiosi
illimitata .
La
categoria
portante
della
“somiglianza” 57 e la semiologia speculare del Rinascimento
hanno ceduto il passo agli abissi di non senso del Don
Chisciotte: come ha detto Foucault, “le somiglianze e i
segni hanno sciolto la loro antica intesa”, le parole
“vagano all’avventura” oppure “dormono tra le pagine dei
54
Sulla “interiorizzazione della scienza come indebolimento del soggetto” cfr. Girard (1990, pp.
3ss.); in una prospettiva simile cfr. Barcellona (1987, p. 20): “Il sapere moderno è ipotetico,
provvisorio, revisionabile, come il calcolo tecnologico. La verità è potenza della tecnica, potenza
degli strumenti, controllo della natura. Ma poiché la tecnica è per definizione negazione di ogni
verità definitiva, la civiltà occidentale è destinata all’angoscia più radicale. Più in generale, sulla
condizione post-moderna cfr. Lyotard (1998), Touraine (1970), Bell (1973), Hassan (1971).
55
Girard (1983 e 1988), De Andrea (1991, p. 46).
56
Foucault (1969, pp. 113ss. e 223ss.).
57
Cfr. Foucault (1967, p. 31): “Sino alla fine del XVI secolo, la somiglianza ha svolto una parte
costruttiva nel sapere della cultura occidentale. E’ essa che ha guidato in gran parte l’esegesi e
l’interpretazione dei testi; è essa che ha organizzato il gioco dei simboli, permesso la
conoscenza delle cose visibili ed invisibili, regolato l’arte di rappresentarle. Il mondo si
avvolgeva su se medesimo: la terra ripeteva il cielo, i volti si contemplavano nelle stelle e l’erba
accoglieva nei suoi steli i segreti che servivano all’uomo”. In proposito cfr. anche Baudrillard
(1979).
54
libri in mezzo alla polvere”, senza alcuna garanzia che
rispecchino fedelmente le cose. E anche Don Chisciotte
“vaga all’avventura”, seppur ancora alla ricerca di una
mathesis universale pensata come ordinabilità del mondo
mediante
la
classificazione
delle
identità
e
delle
differenze 58.
Ricerca di un ordine universale e acronico, al contempo
naturale e morale, che, tuttavia, svanisce nei rivoli e nei
gorghi del fiume del tempo: cioè nella storia, intesa quale
consapevolezza
della
finitudine
umana
e
della
contestualità di ogni sapere e di ogni agire 59. L’ordine
universale si dissolve nel boudoir del Marchese de Sade:
“Tutto è in rapporto ai nostri costumi e all’ambiente in cui
abitiamo” 60.
Descrivere il mondo, dunque, nella realtà del “come se”
non vuol dire copiarlo, ma ricostruirne e rappresentarne
immagini diverse a seconda dello sguardo (e degli occhiali
teorici) con cui lo si coglie. L’aspirazione a vedere le cose
dall’esterno - con l’occhio di Dio - non è che un miraggio:
58
Foucault (1967, pp. 31ss. e 62ss.), secondo cui “all’inizio del XVII secolo, nel periodo che a
torto o a ragione viene chiamato barocco, il pensiero cessa di muoversi nell’elemento della
somiglianza. La similitudine non è più la forma del sapere, ma piuttosto l’occasione dell’errore
(…). La verità trova la sua manifestazione e il suo segno nella percezione evidente e distinta.
Alle parola spetta ora tradurla, se possono, giacché non hanno più diritto ad esserne lo
stampo”.
59
Foucault (1967, pp. 235ss.).
60
De Sade (1986, p. 61).
55
“Dio è morto... Noi lo abbiamo ucciso”, è l’annuncio che
risuona nella Gaia scienza di Nietzsche 61.
61
Nietzsche (1984, p. 130); cfr. anche Babich (1996).
56
3.
La
molteplicità
degli
orizzonti
di
senso
e
il
Girard
e
soggetto rappresentativo
C’era
una
volta
un
mondo,
raccontano
Vecchiato, “in cui viaggiavano parole che quasi nessuno
metteva in discussione. Anche perché non erano solo
parole: erano fatti, realtà da toccare, da vivere, da
perseguire... o almeno così sembrava” 62. Ormai, invece, la
messa
in
discussione
della
“apparenza”
è
diffusa:
è
cresciuta, infatti, la capacità di lettura critica della realtà
del “come se” che abitiamo e a cui apparteniamo, in
quanto figli del disincanto del mondo moderno 63.
L’età
post-moderna
consapevolezza
soltanto
entro
che
è
tale
possiamo
l’orizzonte
in
quanto
conoscere
specifico
e
è
diffusa
ed
limitato
la
operare
di
una
prospettiva particolare, condizionata dal contesto storico
e culturale in cui siamo “gettati”: se guardiamo il cielo di
notte, vediamo stelle e pianeti; se fossimo vissuti in altre
epoche ed in altri luoghi, avremmo probabilmente visto
una serie di aperture attraversate dalla luce proveniente
da un’altra sfera celeste. Non vi sono “dati” immediati,
62
Girard e Vecchiato (1988, p. 13).
Come notano Girard e Vecchiato (1988, p. 9), chi di questa realtà fa un oggetto di ricerca
entra, per certi versi sapendolo, in un gioco in cui si costituisce la realtà nel momento in cui si
stendono dei resoconti di essa.
63
57
quindi, poiché viviamo sempre all’interno di orizzonti di
senso di cui siamo solo in parte consapevoli: i nostri
stessi processi percettivi e cognitivi sono condizionati ed
orientati dai contesti a cui apparteniamo.
Le parole, come le cose, non sono nulla al di fuori del
sapere particolare in seno al quale significano 64. La lingua
che
parliamo,
i
sistemi
concettuali
e
normativi
che
condividiamo (o in cui, comunque, siamo immersi) ci
trascendono e, al contempo, ci abitano e “ci parlano”,
costituendo l’orizzonte e il limite del nostro pensare e del
nostro agire. Ogni parola ha “l’aroma” dei contesti nei
quali ha trascorso la sua vita 65, dei dialoghi a cui ha
partecipato,
delle
persone
che
ha
frequentato,
delle
relazioni in cui è stata adoperata e che ha contribuito ad
edificare. Facciamo parte di un contesto discorsivo e
relazionale che condiziona e contribuisce a dar forma alla
nostra stessa identità, per cui possiamo rappresentarci
come un romanzo polifonico, abitato da una molteplicità
di voci 66.
64
Cfr. ad esempio Nerhot (1994, p. 151), il quale sottolinea che il nostro mondo
contemporaneo, stravolto dal positivismo, ha ancora grandi difficoltà ad ammettere una cosa
del genere.
65
Bachtin (1997, pp. 101 e 148).
66
Cfr. ad esempio Watzlawick, Beavin e Jackson (1971, p. 21), Dewey e Bentley (1949),
Hittleson (1970), Dilthey (1954, pp. 143ss.), Trevi (1986, p. 34), Bateson (1976), Bruner (1992,
pp. 15ss. e 104), Brown e Zinkin (1996, p. 87), Harré e Gillett (1996, p. 21), Ricci Bitti e Zani
(1983, p. 45), Meo (1991) e Neisser (1981, p. 207). Come ha sostenuto Bateson (1976, p.
58
Figli del disincanto, immersi nella realtà del come se ,
siamo profondamente coinvolti - come sostiene Girard dal “ problema del capire un mondo che si presenta
disancorato dai suoi referenti fondativi e dalla possibilità
stessa di una definizione dei fondamenti - vero, bello,
giusto - in senso platonico” 67.
Consapevole del politeismo dei criteri di verità e dei
valori, il soggetto “debole” o – come lo definisce Girard,
alludendo
alla
dimensione
teatrale
(e
goffmaniana)
dell’agire quotidiano – rappresentativo si ritrova a vivere
in una molteplicità di orizzonti di senso e, quindi, di
mondi frammentati e separati che, “a differenza di un
tempo,
non
formano
più
le
tessere
di
un
mosaico
simbolicamente e moralmente significativo” 68.
I vecchi poli di attrazione costituiti dagli Stati-nazione,
dai partiti, dalle professioni, dalle istituzioni e dalle
tradizioni storiche perdono quello che Lyotard ha definito
come
“il
loro
potere
di
centralizzazione”:
ognuno
è
“rinviato a sé. E ognuno sa che questo sé è ben poco” 69 e
si
ritrova
-
uomo senza qualità - a ripercorrere le
471), “il mondo mentale, la mente, il mondo dell’elaborazione dell’informazione, non è
delimitato dall’epidermide”.
67
Girard (1996, p. 28, nota 8).
68
De Andrea (1991, pp. 46-47); cfr. anche Girard (1996, p. 22 e 1990, pp. 8 e 29ss.), Bauman
(1996), Vattimo (1983, pp. 17ss.) e Lyotard (1981, p.31).
69
Lyotard (1996, p. 31).
59
Meditazioni
del
Chisciotte :
circostanza” 70
70
Ortega y Gasset (1986, p. 44).
60
“Io
sono
io
e
la
mia
4. Gli spazi polifonici del soggetto
Negli scenari della nostra post-modernità, rispondere
alla domanda “chi?” vuol dire raccontare la storia di una
vita e richiede un coraggio simile a quello necessario per
cominciare un romanzo 71: nessun io , nemmeno “il più
ingenuo”, è un’unità monolitica, ma, come nei racconti di
Hesse, “un mondo molto vario, un piccolo cielo stellato,
un caos di forme, di gradi e situazioni, di eredità e
possibilità” 72. La polifonia delle voci che ci abitano (senza
quasi mai raggiungere le soglie della coscienza) crea,
71
Cfr. Ricoeur (1986, vol. III, p .375) e Hillman (1984, pp. 69-70), il quale sostiene che ci si
deve confrontare con “persone interiori” la cui autonomia può modificare radicalmente e perfino
dominare i nostri pensieri e i nostri sentimenti. Secondo Hillman (1983, p. 62), infatti, “più che
un campo di forze” ciascuno di noi è “un campo di rapporti personali interni, una sorta di
comunità interiore, di organismo politico. La psicodinamica diventa psicodrammatica”. Per un
quadro di sintesi sulla narratologia e la costruzione (discorsiva) di sé come un testo cfr. Smorti
(1994 e 1997). Come ricorda Bruner (1992, p. 109), soprattutto in ambito psicoanalitico
(Spence e Schafer), tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, è comparso il Sé
narratore: cioè, un “Sé che narra storie in cui la descrizione del Sé fa parte della storia” (novità
dovuta alla teoria della letteratura e alle nuove teorie della cognizione narrativa). Questa svolta,
come sottolinea Casonato (1994, p. 21), convergeva con i contributi di Bruner, Lakoff e Johnson
che, insieme agli sviluppi della psicologia cognitivista, rompevano definitivamente con la
tradizione comportamentale, riscoprendo il background pragmatista della psicologia americana.
Al contempo, anche il pensiero sistemico che stava sviluppandosi rigogliosamente mostrava
una forte attenzione alle narrazioni, in quanto – come diceva Bateson – gli esseri umani
pensano per storie.
72
Hesse (1978, p. XXV), citato anche da Demetrio (1995, p. 30). In questa prospettiva, come
ricorda Tagliagambe (1998, p. 106), ciò che definiamo io appare come qualcosa la cui natura
può essere correttamente percepita e intesa solo se non viene considerato come un “sistema
chiuso” e a sé stante, da indagare unicamente nei suoi nessi e nei suoi legami interni, bensì
come un insieme complesso, la cui genesi va intesa come autocostruzione nel quadro delle
esperienze di relazione, esito di un continuo lavoro di “assemblaggio”, mediante il quale pezzi di
storia vissuta, selezionati e prescelti, vengono riutilizzati per costruire l’organizzazione psichica e
la “narrazione personale”, le strategie di base, che guidano la visione di sé e il comportamento.
61
quindi, uno “spazio poetico e letterario” dentro di noi,
che ci apre “alla molteplicità e al probabile” 73.
L’identità
del
“chi?”
è
un
fluire
di
racconti
e
di
rappresentazioni: un’identità narrativa alla ricerca di una
sintesi, seppur mutevole ed a volte imprevedibile - così
come le nostre parole, che a volte sorprendono noi stessi
e ci “insegnano” il nostro pensiero 74. “Chi si racconta?”
Ancora una volta, dice Ricoeur, “la domanda chi? apre la
via ad una ipotesi più che ad una ipostasi”. L’ idem , cioè il
medesimo sempre identico, cede all’ ipse , mutevole nel
tempo,
che
si
ritrova
rispecchiandosi
negli
occhi
dell’altro: “L’altro cui debbo la risposta nel mantenermi lo
stesso, l’altro da cui dipendo perché mi costituisce, l’altro
dunque in me come il mio mondo, il mio partner, la
tradizione
che
mi
accoglie”,
il
contesto
in
cui
sono
radicato 75.
73
Demetrio (1995, pp. 17 e 20). Per una presa di posizione forte sulla poesia come forma alta
di conoscenza, superiore al pensiero scientifico ed alla filosofia, cfr. Bachelard (1993). Sulla
parola poetica come mezzo che conduce nell’ovunque dell’interrogazione e dell’esistenza cfr.
Capello, De Stefani e Zucca (1997), Capello e D’Ambrosio (1993).
74
Cfr. ad es. Nerhot (1994, p. 178), che ripercorre in parte i sentieri del post-strutturalismo
francese e quelli decostruzionisti di Derrida.
75
Ricoeur (1993, p. 55). In proposito cfr. Montani (1996, p. 161), secondo cui il concetto di
identità narrativa in Ricoeur “si sottrae alla classica antinomia tra un soggetto inteso come un
‘medesimo’ (un idem) e un soggetto inteso come pura illusione sostanzialista (un fascio di
emozioni, saperi e volizioni in equilibrio instabile) lasciando apparire il profilo di una identità
‘compresa nel senso di un se stesso (ipse)’, cioè di una figura processuale che può ‘includere il
cambiamento e la mutabilità’. Una tale ipseità, com’è evidente, designa un soggetto che non
finisce di ricostituirsi nel rifigurare la propria vita, cioè nel comprenderla sempre di nuovo come
‘un tessuto di storie raccontate’”.
62
Come dicono Harré e Gillett, cercare di comprendere
una persona significa conoscere il modo in cui costruisce
“il suo mondo e se stessa, come stanno le cose dal suo
punto di vista, che esperienza fa di questo mondo, come
lo valuta e lo giudica, anche attraverso le sue emozioni” senza dimenticare che le persone abitano molti contesti e
molti discorsi differenti, non necessariamente in accordo
tra
loro 76.
Se
risultante
di
si
un
guarda
all’identità
processo
personale
interpersonale
di
come
(mutuo)
riconoscimento, delimitazione e collocazione sociale, la si
può concepire sotto forma di narrazione autobiografica
più o meno variabile, polifonica e discontinua nel tempo
in funzione del contesto e degli atteggiamenti degli altri:
siamo
e
diventiamo
la
mutevole
narrazione
che
raccontiamo, a noi e agli altri, con le nostre parole e le
nostre azioni.
“Chi siamo noi, chi è ciascuno di noi se non una
combinatoria
d’esperienze,
d’informazioni,
d’immaginazioni?” 77.
Siamo
i
desideri,
sogni,
bisogni
i
nostri
nostri
ricordi
e
di
e
letture,
i
nostri
progetti,
siamo
l’immagine che il mondo restituisce di noi e il significato
che attribuiamo alle nostre condotte: la nostra identità è
76
77
Cfr. Harré e Gillett (1996, pp. 255 e 25ss.).
Calvino (1992, p. 120).
63
una storia risultante “dall’intreccio di mille storie”, per cui
si può dire che siamo (anche) il racconto del nostro
presente e del nostro passato - che è il presente della
memoria 78. Chi siamo e chi siamo stati, comunque, sono
sogni
differenti,
poiché
nulla,
se
non
l’istante,
ci
riconosce 79.
Conoscere se stessi vuol dire continuare a cercarsi: l’ io
è una ricerca un po’ iniziatica, non s i dà mai in modo
definitivo,
ma
si
costruisce
(e
si
racconta,
rappresentandosi) progressivamente “senza che esista, in
senso
vero
e
espressioni” 80.
psicologia
proprio,
L’uomo,
un’unità
tra
le
sue
varie
soggetto
e
oggetto
della
post-moderna,
si
rappresenta
in
una
molteplicità di teorie modificate e rimodellate dal tempo,
come la sua identità. Il nostro stesso percepirci come
individui
è
condizionato
dalle
prospettive
teoriche
e
personali da cui guardiamo, come, più in generale, dal
contesto culturale
concezione
a cui apparteniamo: non esiste una
dell’identità
personale
univoca,
universalmente condivisa. Anzi, si può dire con Kakar che
78
Cfr. Rella (1987, p. 154), Edwards e Potter (1992) nonché Sarbin (1986, pp. 7ss. e VII):
“Long bifore there was a science of psychology, men and women created and told stories about
the efforts of human beings to make sense of their problematics worlds”.
79
Libero adattamento di Fernando Pessoa (1993).
80
Maffesoli (1993, p. 267).
64
ogni uomo è sintesi di “ soma , psiche e polis ”, ovvero è
contemporaneamente “corpo, individuo ed essere sociale”
in modi diversi a seconda della cultura in cui vive 81.
Guardando alla pluralità dei modelli di uomo elaborati
nei programmi di ricerca in psicologia della personalità,
possiamo percorrere una serie di sentieri (più o meno
interrotti) che conducono, a seconda dei casi, all’uomo
naturalistico, definito - come nota Capello - in base alle
sue
caratteristiche
psicologico,
a
costituzionali;
sua
psicodinamiche,
volta
oppure
differenziato
personologiche
e
in
all’uomo
dimensioni
psicometriche;
o,
ancora, all’uomo ambientalistico, fortemente modellato
dal
contesto
sociale;
fino
all’uomo
psico - sociale,
che
costituisce le sue competenze cognitive ed affettive a
partire dalle interazioni sociali nelle quali si sviluppa 82.
Forse si può dire, alla luce delle analisi di Foucault, che
le più comuni concezioni dell’identità personale non sono
che il frutto e l’eredità delle teorie e delle tecniche
introspettive
che,
nel
corso
81
della
storia,
l’uomo
Kakar (1993, pp. 10-11).
Capello (1993, pp. 70ss. e 102ss.). C f r . a n c h e G i r a r d ( 1 9 9 6 , p . 1 ) : a n c h e s e n e l
nostro contesto culturale l’identità personale è spesso intesa - soprattutto
a livello del senso comune - come stabile e coerente, persino monolitica,
come può l’oggetto della psicologia continuare ad essere “l’uomo così
come è implicitamente assunto, nella definitezza conferitagli dalla sua
continuità, dalla sua memoria e dalla sua identità?”.
82
65
occidentale ha elaborato per cercare di sapere la “verità”
su di sé. La genealogia del soggetto occidentale moderno
proposta da Foucault - volta a mostrare come l’esercizio
di
determinate
sanitarie,
“tecnologie”
confessionali,
(educative,
giudiziarie,
lavorative,
punitive...)
abbia
contribuito alla formazione di una certa immagine unitaria
e costante nel tempo di noi stessi - postula tra l’altro il
modello cristiano dell’uomo, espressione di una società
confessionale e confessante in cui “ogni persona ha il
dovere di cercare di conoscere che cosa accada nel
proprio
intimo,
di
ammettere
le
proprie
colpe,
di
riconoscere le tentazioni” e di individuare i propri desideri
reconditi.
La
nostra
psiche,
dunque,
secondo
Foucault
si
è
storicamente strutturata sulla base delle tecniche (in
primo
luogo
confessionali)
utilizzate
per
“svelarne
i
segreti”: la sua analisi è volta alla ricerca di una (e non
molte)
“verità”
e,
quindi,
implica
un’unica
identità ,
conoscibile dopo un lavoro di scavo profondo 83.
Al di là delle pratiche ecclesiastiche e legali, nel corso
dei secoli e soprattutto nell’800 la confessione, quale
veicolo
83
di
accesso
alla
verità,
Foucault (1967, pp. 400ss.; 1976; 1992, pp. 135ss.).
66
ha
assunto
un
ruolo
fondamentale
non
solo
nelle
scienze
psicologiche
e
psichiatriche, ma anche in molte altre discipline, fra cui la
medicina
e
la
pedagogia.
L’aspetto
centrale
di
tali
“pratiche classificatorie” consiste nella ricerca della verità
“in una sede che non solo è nascosta al soggetto, ma gli
è permanentemente inaccessibile”, in quanto conoscibile
soltanto da
chi studia l’inconscio,
o
il cervello,
o i
correlati fisico-chimici del comportamento.
La ricerca di una comprensione definitiva di noi stessi e
dell’altro non è, forse, che un viaggio senza fine tra le
immagini e le metafore dell’antropologia, della psicologia,
dell’arte e della filosofia: chissà che “l’essenza” dell’uomo
non si traduca proprio nell’assenza di un’unica e ben
definita essenza 84.
84
Sulle metafore quali elementi costitutivi delle teorie cfr., con riferimento alla psicologia ed
all’antropologia, Soyland (1994).
67
5. Il soggetto rappresentativo e l’ombra di Dioniso
Essere (consapevolmente) imprevedibile anche a se
stesso, il soggetto rappresentativo è un’entità tutt’altro
che isolata rispetto al contesto sociale: nella prospettiva
di Mead, ad esempio, “l’io è la risposta che l’individuo dà
all’atteggiamento
che
gli
altri
assumono
nei
suoi
confronti” 85. La “storicità” dell’uomo 86 e, quindi, il suo
essere necessariamente parte di un contesto sociale e
culturale
è
talmente
condizionante
che
si
dovrebbe
sempre tener conto sia dei significati che delle relazioni
in cui si trova “implicato” il soggetto.
“The primary human reality is persons in conversation”,
dice Harré. Ogni voce individuale è come se fosse tratta
da un dialogo: in questa prospettiva, “essere” per l’uomo
significa soprattutto “dialogare” con gli altri e con se
85
Cfr. Mead (1966, pp. 22ss. e 191ss.), secondo cui il Me è quella parte del Sé personale frutto
dell’interazione con gli altri e delle conseguenti assunzioni di ruolo; mentre l’Io, in quanto
“risposta che l’individuo dà all’atteggiamento che gli altri assumono nei suoi confronti”, è
“qualche cosa di diverso da ciò che la situazione richiede”, cioè un unicum (“mai perfettamente
determinabile”) che consente l’evoluzione reciproca dei soggetti e del sociale. Come sottolinea
Inghilleri (1995, p. 26), la prospettiva di Mead è incentrata “sul concetto di una doppia valenza
del sé personale: da un lato esso è uno specchio della struttura sociale organizzata e in quanto
tale permette la comunicazione e la relazione con gli altri, dall’altro è un’entità irripetibile, unica
e in sviluppo. Questa unicità permette il cambiamento progressivo della struttura sociale”.
Quindi, come sottolinea Girard (1995, p. 216), “sia i nostri Sé che la realtà esterna, che ci
appare così immutabile, sono dentro un gigantesco ed ininterrotto processo di costruzione
sociale”.
86
Dilthey (1954, pp. 143ss.) e Trevi (1986, p. 34).
68
stesso 87. Il soggetto, quindi, può essere concepito come
un “fenomeno di confine” tra l’individuale e il collettivo 88,
in quanto le condotte umane ed i processi mentali sono
“ancorati e vincolati” ai contesti conversazionali e agli
orizzonti di senso in cui il soggetto vive 89. L’individuo
isolato non è che un’astrazione: il soggetto è (anche)
parte
di
un
Noi,
cioè
di
un
sistema
di
significati
collettivamente condivisi. Siam molti , come nella poesia
di Neruda.
La nostra identità può essere pensata come la mutevole
risultante (anche) di una rete di rapporti sociali nei quali
veniamo “riconosciuti, delimitati, collocati e definiti” 90. Il
contesto sociale e culturale condiziona infatti in molti
modi non solo il sapere e l’agire degli uomini, ma anche i
processi di elaborazione e di ricostruzione dell’identità
personale. La nostra psiche è un poliedro dalle mille
87
Harré (1983, p. 58); cfr. anche Bruner (1992, p. 15) e Tagliagambe (1996, p. 91). Come dice,
seppur in una ben diversa prospettiva, Hillman (1983, p. 63), “più che un campo di forze”, noi
siamo “un campo di rapporti personali interni, una sorta di comunità interiore, di organismo
politico”.
88
Cfr. Tagliagambe (1996, pp. 89 e 91), il quale sottolinea che questa prospettiva, elaborata
dal teorico dela letteratura Bachtin a partire dagli anni Venti del nostro secolo, “mette
radicalmente in discussione un modello della mente centralizzato o unificato e fa
progressivamente emergere l’idea che ‘essere’ è, fondamentalmente, ‘comunicare’, e
comunicare in forma dialogica con gli altri ma anche all’interno di se stesso, secondo una
prospettiva che considera ‘l’io’ come il risultato di un ‘racconto’ di fatti, di sensazioni e di
sentimenti”. Cfr. anche Bruner (1992, p. 15): “Ogni voce individuale è tratta da un dialogo,
come ci insegna Bachtin”.
89
Cfr. Ugazio (1995, p. 259). Sia consentito rinviare anche a Bertagni e Salvetti (1999, pp.
261ss., 1998, pp. 8ss., 1997), Salvetti (1997, pp. 23ss.).
69
facce. Siamo una comunità di molte persone: l’io , a
seconda
dei
casi,
all’atteggiamento
è
che
confronti.
Il
insomma,
dimensioni
indipendenti:
Pirandello,
la
gli
mentale,
in
un
“questa
risposta
il
altri
che
e
il
considerare
certo
l’individuo
assumono
sociale
da
che
senso,
crediamo
suoi
culturale
sono,
tutt’altro
come
la
nei
cosa
dà
che
ha
scritto
più
intima
nostra… vuole dire gli altri in noi ” 91.
Consapevoli dell’assenza di “fondamenti” certi della
realtà così come della soggettività, sospesi e “chini sul
proprio nulla” 92, i soggetti rappresentativi della nostra
post-modernità possono ritrovarsi a percorrere i sentieri
di Dioniso: dio barcollante, personificazione immaginale
dell’inconoscibile e degli abissi dell’indistinto, in grado di
far vacillare le persone e le convenzioni sociali 93. Intuire,
dietro e dentro gli oggetti ed i costrutti della realtà
(sociale,
familiare,
lavorativa
ed
organizzativa),
la
molteplicità caotica, la fluidità e l’inafferrabilità delle
cose, delle persone e dei valori, significa fare i conti con
l’ombra di Dioniso : con le maschere, la teatralità e la
90
Cfr. Sparti (1996, pp. 11ss. e 82ss.).
Pirandello (1967, p. 146), citato da Sparti (1996, p. 85).
92
Bataille (1980, p. 42).
93
Eliade (1981, pp. 393ss.), Cottino (1992, pp. 24ss.) e Ginzburg (1989, passim e partic. pp.
223).
91
70
finzionalità
dell’esistenza
sociale,
ove
“niente
è
importante perché tutto è importante” 94.
L’incertezza del soggetto rappresentativo dipende forse
anche, come dice Maffesoli, dal “fatto” che non esistono
più legami forti di coesione sociale, o “un inferno e un
paradiso da combattere o sostenere”, né un “unico Dio
con il suo necesssario contrario”, quanto piuttosto un
Pantheon indù 95. La Gemeinschaft , ovvero la condivisione
di una specifica identità di gruppo e di un elevato senso
di appartenenza (ad una comunità) , si è dissolta in tante
collettività multiformi percorse dai “ Credo ” più disparati:
così, il pluralismo etico e culturale, la caduta più o meno
rovinosa
del
principio
d’autorità
e
dell’accettazione
(tendenzialmente indiscussa) delle tradizioni, ovvero la
pluralità senz’ordine dei simbolismi sociali e culturali,
alimentano
il
“dubbio
sistematico”
e
l’insicurezza
dell’individuo 96.
Cartesio poteva esercitare il dubbio rimanendo certo di
se stesso, mentre “il nostro dubbio” (post-moderno) sostiene
Morin
-
“dubita
di
se
stesso:
scopre
l’impossibilità di fare tabula rasa poiché le condizioni
94
Maffesoli (1990, p. 39). Cfr. anche Girard (1990, p. 39): “Il riconoscimento delle basi
convenzionali e spesso simulative della realtà è uno choc per tutti”.
95
Maffesoli (1990, p. 50).
71
logiche,
linguistiche,
culturali
del
pensiero
sono
indubbiamente dei preconcetti”; e questa consapevolezza
ci porta a mettere in dubbio il principio stesso del metodo
cartesiano, la disgiunzione assoluta dell’oggetto e del
soggetto 97.
L’irrequietezza 98 del soggetto rappresentativo, peraltro,
convive con la consapevolezza che è opportuno restare
flessibili e pronti all’improvvisazione, perché la scena
cambia così rapidamente che nessuno, tranne forse i
titolisti dei quotidiani, riesce a tenere il passo 99 - e,
comunque,
anche
loro
sanno
che
la
“descrizione”
giornalistica è “costruzione” (disorientante e, a volte,
labirintica) di universi paralleli, che per un lettore non
particolarmente
esperto
possono
anche
risultare
incomparabili. Sempre più in divenire, consapevole della
mutevolezza continua della propria trama costitutiva - al
contempo
disincantato
biologica,
e
relazionale
disincarnato
da
uno
e
linguistica
specifico
-
micro-
contesto sociale, economico e culturale interpretabile con
96
Girard (1990, passim e partic. pp. 38-39).
Cfr. Morin (1983, p. 20), secondo cui “oggi il nostro bisogno storico è di trovare un metodo
che riveli e non nasconda i legami, le articolazioni, le solidarietà, le implicazioni, le connessioni,
le interdipendenze, le complessità (…), non il chiaro e distinto, ma l’oscuro e l’incerto”.
98
Sull’essenziale irrequietezza della vita (post) moderna sono particolarmente interessanti le
pagine di Georg Simmel (1971, pp. 376ss.).
99
Cfr. Geertz (1999, p. 8).
97
72
una certa univocità, il soggetto rappresentativo si ritrova
coinvolto in un tessuto di relazioni “più complesse e
mobili che mai” 100 ed immerso nel teatro del quotidiano
tematizzato da Goffman - popolato da équipes teatrali che
si muovono in uno spazio scenico diviso in ribalta e
retroscena 101.
100
Lyotard (1996, p. 32). Sullo sviluppo della soggettività post-moderna cfr. Wood (1988) e
Zurcher jr. (1977).
101
Goffman (1969).
73
6. Le parole, lo straniamento e le cose
“Posso dire di essere questo linguaggio che io parlo e
in cui il mio pensiero penetra al punto da trovarvi il
sistema di tutte le proprie possibilità, ma che tuttavia
esiste soltanto nella pesantezza di sedimentazioni che
esso non potrà mai interamente attualizzare? Posso dire
di essere questo lavoro che faccio con le mie mani, ma
che mi sfugge non solo quando l’ho finito, ma prima
ancora che l’abbia iniziato? Posso dire di essere questa
vita che sento in fondo a me, ma che mi avvolge col
tempo formidabile che spinge con sé e che mi issa per un
istante sulla sua cresta, ma anche col tempo imminente
che mi prescrive la mia morte? Io posso dire con pari
diritto che sono e non sono tutto questo; il cogito non
conduce
a
un’affermazione
d’essere,
ma
apre
precisamente su tutta una serie di domande nelle quali
l’essere viene messo in questione” 102.
Una pagina famosa di Foucault, che si sviluppa lungo
una traiettoria di decostruzione del cogito (ergo sum) , del
soggetto di coscienza cartesiano: il capire che molta
parte della realtà umana e naturale si fa e si disfa nel
102
Foucault (1967, p. 349).
74
linguaggio
de-fonda
il
soggetto
nel
senso
della
sua
costruzione di coscienza ed identità, consentendogli (a
volte)
di
intuire
discorsivo,
il
suo
piuttosto
essere
che
parte
possessore
di
un
sistema
di
pensieri,
convincimenti, credenze predeterminate nella sua mente
ordinante 103.
E’
il
paradosso
epistemico
dell’uomo
che
si
pensa
“soggetto” nello stesso tempo in cui si scopre “oggetto”
dei
processi
biologici,
linguistici,
economici
ed
organizzativi in cui è immerso al punto tale che lo abitano
e lo costituiscono in quanto uomo.
Parliamo e, al contempo, siamo “parlati” dalla lingua
che
usiamo
e
che
è
già
sempre
una
lingua
altrui,
elaborata, ascoltata e ricevuta da altri 104. La lingua, le
strutture della famiglia e della parentela, le istituzioni
lavorative, sociali e politiche, i rituali, le forme culturali
ed artistiche influenzano profondamente la “costruzione”
(e
la
costrizione)
del
mentale 105:
103
la
nostra
mente,
Girard (1990, p. 21). Cfr. anche Bauman (1999, pp. 27ss.).
Montani (1996, p. 178): la “situazione narrativa” dell’analisi personale, ad esempio,
“esemplifica mirabilmente l’orizzonte dialogico della parola messo in luce da Bachtin: non meno
della parola romanzesca, la parola analitica è da cima a fondo parola altrui e il ‘romanzo
analitico’ è un romanzo polifonico, abitato da una molteplicità di voci (a partire da quelle che
l’inconscio ha sequestrato e congelato nella sua scena senza tempo)”.
105
Grene (1976, p. 120). Ugazio ( 1998, p. 11) avanza alcune ipotesi sulla costruzione del
significato, e dell’identità, nei contesti conversazionali, facendo riferimento, in particolare, al
concetto di opposizione polare. “I contesti semantici, presenti in tutte le lingue, costituirebbero
un ‘universale’ il cui scopo è rendere indipendenti gli individui. Ciascun partner conversazionale,
104
75
pertanto, può essere considerata, secondo la proposta di
Harré e Gillett, come il punto di incontro di un ampio
raggio di influenze strutturanti, la cui natura può essere
raffigurata solo su una tela più ampia di quella fornita
dallo studio degli organismi individuali 106.
Sul palco-segnico della vita, soprattutto lavorativa, il
soggetto
rappresentativo
recita
-
brechtianamente
-
“straniato” ed è consapevole, a un qualche livello più o
meno esplicito (od esplicitabile), che gli oggetti e i
soggetti di un sistema disciplinare di sapere-potere si
delineano quale prodotto di un complesso ventaglio di
rapporti e relazioni che, a s econda delle epoche e dei
contesti, si stabiliscono tra istituzioni, processi (macro e
micro)
sistemi
economici
di
e
norme,
sociali,
forme
tecniche,
tipi
di
di
comportamento,
classificazione,
consuetudini di pensiero, prassi e così via 107.
‘con-ponendosi’ rispetto alle polarità semantiche rilevanti nel suo gruppo, àncora la propria
storia, e con essa la propria identità, alla trama narrativa del contesto”.
106
Harré e Gillett (1996, p. 25). Cfr. anche Stolorow e Alwood (1996), Moscovici (1997), Siegel
(2001).
107
Cfr. Foucault (1998): “Bisognerebbe cercare di studiare il potere non a partire dai termini
primitivi della relazione, ma a partire dalla relazione stessa, in quanto è proprio questa relazione
a determinare gli elementi sui quali verte. Invece di chiedere a dei soggetti ideali ciò che hanno
potuto cedere di se stessi o dei loro poteri per lasciarsi assoggettare, si deve analizzare in che
modo le relazioni di assoggettamento possono fabbricare soggetti. Allo stesso modo, invece di
ricercare la forma unica, il punto centrale dal quale deriverebbero, come conseguenza o
sviluppo, tutte le forme di potere, occorrerebbe innanzitutto lasciarle valere nella loro
molteplicità, nelle loro differenze, nella loro specificità, nella loro reversibilità. Si tratta cioè di
76
Al contempo, il soggetto rappresentativo è (o può
divenire) consapevole che la realtà, soprattutto quella
organizzativa,
può
essere
“negoziata”,
modellata,
plasmata, creata e ricreata a seconda dei “giochi” di
potere e di sapere che generano la pluralità di mondi in
cui
vive.
In
altri
termini,
come
è
se
il
soggetto
rappresentativo avesse letto Goodman e condividesse la
sua
teoria
della
rappresentazione,
“sottratta
alle
concezioni deformate che la assimilano ad un processo
peculiarmente
fisico
quale
il
rispecchiamento”
e
riconosciuta come una “relazione simbolica, relativa e
variabile” 108.
studiarle come dei rapporti di forza che si intersecano, rinviano gli uni agli altri, convergono o al
contrario si oppongono e tendono ad annullarsi”.
108
Goodman (1998, p. 44). Sul costruzionismo goodmaniano cfr. Handjaras (1991).
77
7. Taxis e Cosmos
“Sognare, creare, esplorare, inventare, essere pionieri,
immaginare:
questi
verbi
descrivono
ciò
che
state
facendo? Se la risposta è no, siete già sorpassati dalla
storia
e
con
voi
probabilmente
anche
la
vostra
organizzazione”. Parola di Gary Hamel, uno dei nuovi guru
del management: siamo nel 2000, a meno di cent’anni
dalla
pubblicazione
Principles
dei
of
Scientific
Management di Taylor.
Il mondo post-moderno è così complesso ed incerto che
le
organizzazioni
incapaci
di
sognare,
cioè
a
forte
connotazione gerarchica, con sistemi di controllo molto
forti
e,
al
contempo,
livelli
di
partecipazione
ed
integrazione bassi, sono “destinate a fallire” 109. Infatti il
controllo, se costituisce il fulcro delle prassi gestionali e
dei
modelli
gerarchia
propensione
organizzativi,
e,
al
genera
contempo,
all’esecuzione,
accentramento
passività,
demotivazione,
e
dipendenza,
alienazione
sia rispetto ai processi che agli esiti di lavoro.
La
maggior
parte
delle
organizzazioni
private
e
pubbliche di oggi (aziende di grandi, medie e piccole
109
Hamel (2001, p. 31).
78
dimensioni, enti pubblici economici, ministeri, regioni ed
enti locali, teatri ed enti lirici, musei, scuole, chiese,
aziende sanitarie locali ed ospedaliere, enti del “terzo
settore”, etc.) incontrano molte difficoltà di fronte alle
“sfide lanciate dall’economia digitale” e, più in generale,
dai fenomeni di globalizzazione che caratterizzano la
società della conoscenza e l’economia della nostra postmodernità.
In Italia il modello gerarchico-funzionale, che - come
sottolinea D’Egidio - “dovrebbe essere morto e sepolto”,
in quanto tipico dell’era industriale, è tuttora presente in
oltre il 90% delle organizzazioni” (private o pubbliche)
produttrici di beni e servizi 110. La parte restante ha
adottato modelli organizzativi a matrice 111 o similari (cioè
per progetti, come in alcune organizzazioni operanti ad
110
D’Egidio (2001, pp. 86ss.).
Cfr. Megginson, Mosley e Pietri (2001, pp. 350ss.) per una sintesi sui modelli organizzativi
(funzionali, divisionali, dipartimentalizzati, etc.), con un agile focus anche sulle forme più
evolute tra cui le strutture a matrice, quali organizzazioni ibride nelle quali, oltre alla tradizionale
divisione per funzioni (amministrazione, qualità, progettazione, ricerca e sviluppo, etc.), viene
anche adottata una ripartizione per compiti ed obiettivi (riferiti generalmente a progetti od
iniziative con una durata limitata nel tempo). Per un approfondimento sul project management
cfr. Archibald (2001), Baldini, Miola e Neri (1998). Per un’analisi approfondita sui modelli
organizzativi in generale cfr. Costa e Nacamulli (1998), ove sono analizzati tra gli altri la
struttura dello stato e della pubblica amministrazione centrale e locale italiana, con riferimenti
comparatistici, le principali tipologie aziendali pubbliche e private, i sindacati, le organizzazioni
religiose, quelle post-socialiste, le piccole e medie imprese, le multinazionali, le cooperative, le
organizzazioni internazionali, quelle del terzo settore (non-profit), etc. Sulla progettazione della
struttura organizzativa cfr. Comai (1998): uno dei pochissimi testi (italiani) attenti soprattutto
alla dimensione meta-progettuale.
111
79
esempio nell’ information and communication technology ,
o a rete, come nei distretti del nord-est d’Italia o nelle
Marche), che consentono maggior agilità nell’adeguarsi ai
mutamenti
del
mercato
di
riferimento
(quello
dei
pneumatici, piuttosto che quelli delle calzature, delle
cucine,
dei
servizi
finanziari
formazione
professionale
condivisione
delle
presenti
all’interno
e
conoscenze
o
della
così
e
sanità,
via),
delle
dell’organizzazione,
della
maggior
competenze
standard
più
elevati di negoziazione interna (per la definizione dei
criteri di allocazione delle risorse, per l’individuazione
degli obiettivi e la ripartizione dei carichi di lavoro, oltre
che per la soluzione non conflittuale delle situazioni
controverse), quindi, più velocità nei processi decisionali
e nella loro conseguente traduzione in strategie operative
efficaci.
Guardando al presente (più che al futuro) prossimo
venturo dell’economia post-moderna, si può dire che le
organizzazioni caratterizzate da assetti gerarchici e da
strutture
di
potere
verticali,
tipiche
dell’economia
industriale moderna, segnano sempre più il passo. La net-
economy , infatti, richiede modelli differenti di esercizio
del
potere
basati
e,
“non
quindi,
più
di
sul
strutturazione
controllo
80
dei
organizzativa,
dipendenti”
nell’accezione taylorista del termine, ma sulla delega di
funzioni a gruppi di lavoro capaci di autogestirsi” 112, sul
coinvolgimento
intellettuale”
comunque,
e
sul
dei
per
potenziamento
soggetti
che
lavorano
l’organizzazione
dell’organizzazione,
i
del
(come
dipendenti,
i
“capitale
dentro
i
o,
consulenti
collaboratori
ed
i
consulenti di società partner che forniscono beni o servizi
o che presidiano, magari in outsourcing 113, funzioni e
processi vitali per l’organizzazione-madre).
Il

incessante,
eracliteo,
sembra
dell’economia
Zineldin,
divenire
essere
una
post-moderna.
anche
cambiamento
il
se
sempre
la
più
cambiamento
poche
scrive
verso
crescente
112
il
delle
Come
tendenza
e
non
ad
un
costanti
esempio
tasso
di
rappresenta
Cfr. ad esempio gli esiti della ricerca del gruppo americano Forrester pubblicati su “Il Sole 24
Ore” – supplemento New Economy, del 6 dicembre 2000 (p. 2): Forrester Research propone di
paragonare Internet, il Web, il commercio e la creazione di mercati elettronici alle rivoluzioni
dell’aratro e del vapore. Dopo l’avvento di queste innovazioni epocali, le organizzazioni sociali
ed economiche non sono state più le stesse. L’aratro ha portato all’abbandono del nomadismo e
alla creazione di comunità agricole stanziali. La macchina di Watt ha, invece, fatto germogliare
la prima rivoluzione industriale. Ora Internet porta a cambiamenti radicali nei modelli di
business e nei modi di produzione di beni e servizi e, conseguentemente, nelle strutture
organizzative.Si viene così a creare una forma di “iperpartenariato” nel quale le organizzazioni
interagiscono sulla rete elettronica in tempo reale: internet, infatti, consente di creare “imprese
estese” che raggruppano clienti e fornitori.
113
Sull’outsourcing, cioè sull’utilizzo dei fornitori per svolgere servizi o far produrre beni,
mantenendo comunque la responsabilità nei confronti del cliente finale, cfr. Valentini (1999):
per far fronte alla crescente competizione, ormai presente in qualunque genere di mercato, le
aziende si stanno organizzando per avere strutture sempre più snelle e tempi di risposta sempre
più brevi, cercando al tempo stesso di migliorare costantemente la qualità dei loro prodotti –
beni o servizi che siano. Lungo questa direttrice, l’outsourcing è tra le strategie più utili per far
81
niente di nuovo, in quanto si evidenzia lungo tutta la
storia umana, questo tasso in costante aumento impone
una
pressione
produttrici
di
scientifiche,
cambiano
strutture
senza
e
sulle
organizzazioni
servizi.
Cambiano
le
i
sistemi
economici
e
tecnologie,
cambia
l’organizzazione
cambiano
le
e
beni
precedenti
cambiano
le
relazioni
tra
soggetti
teorie
politici,
delle
e
tra
organizzazioni: in questo contesto di evoluzione rapida e
continua,
“i
manager
devono
affrontare
problemi
di
gestione e pianificazione di notevole complessità per
rispondere alle sollecitazioni di un ambiente dinamico, in
cui spesso domina l’incertezza” 114.
L’economia digitale, oltre ad una maggiore e più rapida
risposta alle richieste del mercato (dei consumatori, dei
cittadini, dei pazienti, dei produttori e così via, a seconda
dei casi), tende a generare sempre più concorrenza tra
organizzazioni e, al contempo, sempre più rapporti e
relazioni
di
cooperazione
organizzazioni
impegnate
( partnership
e,
lungo
e
spesso,
la
all’interno
delle
anche
organizzazioni
stessa
alleanze
tra
“catena
strategiche,
del
singole
valore”
associazioni
svolgere all’esterno (spesso a costi minori e con maggiore specializzazione) processi aziendali
che, in alternativa, l’organizzazione deve presidiare direttamente.
114
Cfr. Zineldin (1998, p. IX).
82
temporanee, joint-ventures e consorzi, subappalti e altre
relazioni contrattuali come il franchising o il sistema delle
licenze in esclusiva) 115: saper creare e mantenere una rete
di rapporti soddisfacenti con i clienti e, prima ancora, con
i partners dell’organizzazione, i colleghi ed i collaboratori,
diviene – come sottolinea Zineldin – “una filosofia, una
strategia vitale per il progresso competitivo e lo sviluppo
economico” 116.
Pertanto, le organizzazioni post-moderne non sono più
(o, meglio, saranno sempre meno) guidate da un vertice
con funzioni di totale controllo sull’indirizzo strategico e,
poi, sui processi organizzativi e produttivi, ma sono - e,
soprattutto, saranno - governate da leader in grado di
influenzare e incanalare attività e processi non solo nei
gruppi
di
lavoro
interni,
ma
anche
all’esterno
delle
tradizionali barriere delle organizzazioni per integrare con varie strategie cooperative - i team operativi di altre
strutture connesse in rete e con le quali si condividono
interessi ed obiettivi 117.
Nell’universo
della
teoria
e
della
consulenza
organizzativa ricorrono, non a caso, riflessioni che si
115
In proposito cfr. Zineldin (1998, pp. 239ss.).
Zineldin (1998, p. 1).
117
Oltre agli studi di Zineldin e di Forrester Research, precedentemente citati, cfr. anche De
Geus (1999), Kamp (2000), Mollona (2000), Micelli (2000).
116
83
possono
riassumere
così:
l’economia
digitale
richiede
organizzazioni che si ispirano ad un modello reticolare,
capaci di anticipare la mutevolezza dell’ambiente esterno
con elevata creatività e flessibilità. Le organizzazioni
flessibili
sapranno
essere
efficaci
e
“proattive”
nei
mercati di riferimento grazie, soprattutto, allo sviluppo di
quel peculiare fattore competitivo rappresentato dalla
conoscenza e dalle relative competenze distintive delle
diverse
possano
culture
aziendali.
svilupparsi
lungo
un’articolazione
in
basate
team
su
E
perché
questa
piccole
e
le
organizzazioni
direttrice
medie
unità
occorrono
produttive
autogestiti 118,
interfunzionali
l’implementazione di networks informatici integrati, la
capacità
di
stabilire
con
il
cliente
–
grazie
anche
all’ information technology e alla digitalizzazione – una
relazione tendenzialmente stabile, e, last but not least ,
“l’uso attivo del cervello di ogni persona”. Con riferimento
a quest’ultimo aspetto, come ha detto Lester Thurow, ciò
che è importante in una piramide qualsiasi non si trova
arrampicandosi sulla cima, ma individuando i percorsi che
conducono ai tesori nascosti all’interno” 119.
118
Sul valore del gruppo e sull’”atteggiamento di gruppo” nella società industriale cfr. le
interessanti pagine di Actis Perinetti (1956-b), che anticipano molti dei temi che solo
successivamente la letteratura specialistica italiana ha saputo sviluppare.
119
Cfr. in proposito D’Egidio (2000, p. 86).
84
In un’economia prevalentemente immateriale, centrata
sulla
conoscenza
e
sull’informazione,
le
strutture
organizzative tendono ad appiattirsi e si affermano forme
di organizzazione del lavoro che somigliano sempre più a
collages o, forse, a patchworks , che riducono la gerarchia
come forma di coordinamento e controllo e dove invece
l’integrazione decentrata e la rete divengono le forme di
governo
sempre
caratteristiche.
più
il
assumere
la
finalizzati
alla
ruolo
Conseguentemente,
del
funzione
management,
di
creazione
che
facilitazione
di
spazi
e
dei
cambia
tende
ad
processi
luoghi
dove
l’innovazione, l’iniziativa e l’imprenditorialità diventano le
dimensioni fondamentali dell’agire organizzativo – per
quanto sempre all’interno dei parametri e dei confini
definiti dagli obiettivi strategici e nei budget previsionali.
In
definitiva,
l’organizzazione
come
nell’economia
 ,
cioè
post-moderna
ordine
costruito
attraverso una rigorosa pianificazione razionale ed un
rigido controllo verticistico, dovrebbe cedere molto spazio
al  , l’ ordine spontaneo che si autogenera in quanto
emerge dall’interno dello stesso sistema organizzativo 120
120
Per queste categorie cfr. l’interessante studio di Hayek (1986, p. 51), che si muove in parte
all’interno del paradigma sistemico elaborato da Bertalanffy, ma, soprattutto, nella prospettiva
dell’individualismo metodologico, secondo cui la comprensione delle azioni e dei punti di vista
degli attori sociali è il momento essenziale di ogni analisi. In proposito cfr. anche il commento di
85
sotto forma di “invenzioni” basate sulla capacità degli
attori organizzativi di formare modelli alternativi della
realtà
e di
obiettivi
attivare tali modelli
dell’organizzazione
-
in
- nel
rispetto
situazioni
degli
d’azione
specifica 121.
Licci (2000, pp. 142ss.) e di Tagliagambe e Usai (1999, pp. 36ss.). Hayek (1986, p. 51) sostiene
che i Greci del periodo classico “erano più fortunati, perché possedevano due parole distinte per
i due tipi di ordine, cioè taxis per ordine costruito, come per esempio l’ordine di uno
schieramento di battaglia, e cosmos per un ordine formatosi spontaneamente e che significava
in origine ‘un ordine giusto all’interno di uno stato o di una comunità’ (…). Non sarebbe
un’esagerazione dire che la teoria sociale comincia con – e ha un proprio oggetto solo a causa
della – scoperta che esistono strutture ordinate le quali sono il prodotto dell’azione di molti
uomini, ma che non sono il risultato di una progettazione umana. Sebbene ci sia stato un tempo
in cui gli uomini credevano che ogni linguaggio o ogni codice di costumi fosse stato ‘inventato’
da qualche genio del passato, ora tutti riconoscono che tali strutture sono il risultato di un
processo di evoluzione che nessuno ha previsto o progettato”. Anche se un’organizzazione
lavorativa è strutturata come taxis, ovvero come ordine “costruito artificialmente”, cioè
deliberatamente progettato e che “mira alla realizzazione di scopi concreti", in questa sede si
propone di estendere l’accezione di cosmos per ricomprendere alcune dinamiche autoorganizzative che si sviluppano nelle piramidi appiattite e knowledge driven della net-economy:
dinamiche auto-organizzative che non consistono soltanto in semplici risposte adattive
all’ambiente (come si potrebbe sostenere all’interno di una visione sistemica tradizionale), ma
che si concretizzano in strategie e tattiche d’azione elaborate (consapevolmente o meno,
tacitamente o esplicitamente a seconda dei casi) in situazioni specifiche dagli attori
organizzativi. Il che implica, seguendo l’ipotesi di Lanzara (1993, pp. 11ss.), la negative
capability, cioè la capacità di “essere” nell’incertezza, di agire in situazioni complesse e di
disordine mantenendosi orientati alla “attivazione di contesti e di mondi possibili”. Essa,
sottolinea Lanzara, è la qualità distintiva del man of achievement e consiste nella capacità di
gestire anche “momenti di indeterminatezza e di assenza di direzione”, ristrutturando
eventualmente il proprio modello d’azione e sviluppando nuove routines cogliendo le
potenzialità d’azione che “possono rivelarsi in tali momenti”.
121
Cfr. Lanzara (1993, p. 11), che ha elaborato la prospettiva accennata nella nota precedente
dopo aver avuto occasione di osservare il comportamento di individui e organizzazioni durante
la grave crisi nazionale provocata dal violento terremoto che nel novembre 1980 colpì un’area
molto estesa del sud Italia.
86
8. La vita è sogno
Se
si
considerano
macchine,
allora
il
macchine
generano
le
organizzazioni
controllo
piramidi
è
come
indispensabile.
gerarchiche
delle
Ma
le
rigide
e
prospettive monoculari 122 o, al massimo, binoculari. Il
controllo
come
strategia
prioritaria
di
management,
soprattutto a medio ed a lungo termine, genera trappole:
interpretazioni
di
ruolo
(dirigenziale,
professionale,
impiegatizio, operaio) rigide e tendenzialmente incapaci
di aprirsi al confronto, sistemi chiusi e autoreferenziali di
atteggiamenti,
credenze
e
abitudini
di
pensiero.
Le
macchine sono l’ambiente (disciplinare) ove può esistere,
come istanza organizzativa, il modo imperativo allo stato
puro:
un
ambiente
monodimensionale,
in
cui
si
presuppone che l’ output venga univocamente determinato
dall’ input , che
assume
le
forme
122
del
comando
e
che
Peraltro, come notano Kaneklin e Olivetti Manoukian (1990, pp. 31-32), all’interno delle
organizzazioni di lavoro si incontrano sovente persone che hanno dell’organizzazione “un’idea
compiuta e forte, unidimensionale, piatta: l’ambiguità delle comunicazioni, la pluralità delle
variabili con cui vanno confrontate le decisioni, l’esistenza di relazioni multiple, differenziate,
contraddittorie, il verificarsi di intoppi e disconferme, l’insorgere di nuove esigenze, tutto ciò che
è vita dell’organizzazione non può essere visto, preso in considerazione, tenuto in conto (…).
Per queste persone - per usare un’efficace espressione di Bion (1971, p. 125) – ‘le parole sono
cose: quelle cose che si suppone la parola rappresenti, per loro sono indistinguibili dal nome
che le designa e viceversa’. Da qui una sorta di impossibilità di passare dal caso specifico a una
generalizzazione trasversale, a una astrazione, o anche di coniugare un principio generale con
una situazione determinata”.
87
contribuisce a generare prigioni psichiche ed a produrre
soggetti disciplinati, demotivati, alienati.
La multiprospetticità appartiene ad un altro universo,
dove l’istanza gerarchica viene non certo cancellata, ma
mediata e indebolita da altri principi organizzativi (il
coordinamento e il team interfunzionale, l’integrazione, la
negoziazione per la definizione degli obiettivi e per la
ripartizione dei carichi di lavoro, la “budgettizzazione” e,
quindi, ancora la negoziazione delle risorse e dei criteri
per
la
loro
allocazione),
organizzazioni
come
e
dove
organismi
o
si
considerano
cervelli,
o,
le
meglio
ancora, come culture se non addirittura come collages di
conoscenze
contestuali
parziali,
e,
quindi,
di
interpretazioni
come
strutture
provvisorie
e
processi
e
in
evoluzione 123, sintesi instabili di  che si apre al
 .
In
questi
universi,
paralleli
rispetto
agli
universi
gerarchico-funzionali, uno degli obiettivi prioritari dei
123
Secondo il contributo, spesso considerato quasi “eversivo” dagli addetti ai lavori, di Landier
(1988, pp. 63-70), che sembra ispirarsi soprattutto all’epistemologia di Edgar Morin, gli schemi,
i concetti ed i linguaggi della tradizione organizzativa risultano completamente inadeguati di
fronte alle nuove condizioni della competizione mondiale caratterizzate dall’incertezza, dalla
turbolenza, dalla globalità e dall’interdipendenza dei fenomeni, mentre risposte organizzative
adeguate possono essere fornite guardando ai modelli scientifici della complessità: pertanto,
l’organizzazione si deve articolare in cellule secondo la logica sistemico-cibernetica, sorpassando
tutto quanto rinvia all’organizzazione piramidale, alle reti di comunicazione “centralizzate ed
arborescenti”, alla crescita non differenziata delle varie parti ed articolazioni organizzative, alla
88
manager
è
quello
di
sognare
sogni
innovativi
dai
contenuti imprenditoriali 124.
Come dice Vello, forse nessuna scuola di business
administration e nessun manuale di gestione aziendale
sottolineano con la necessaria enfasi come la “produzione
di
sogni
imprenditoriali”
-
ovvero
la
creazione
e
l’implementazione di idee vincenti - sia parte integrante
delle prestazioni richieste al management 125.
Con un po’ di enfasi, anche Hamel si incammina lungo
la via regia del sogno: “Oggi siamo limitati unicamente
dalla
nostra
capacità
immaginativa”,
per
cui
nelle
organizzazioni “dobbiamo diventare tutti dei sognatori”.
Nell’epoca della net-economy , come m ai in passato, “i
sogni sono l’anticamera di nuove realtà” e quindi “anche i
nostri sé collettivi – le nostre organizzazioni – devono
imparare a sognare” 126.
Il mondo, prosegue Hamel, è sempre più diviso in due
tipi
di
organizzazioni:
quelle
che
“non
possono
che
seguire la strada dei miglioramenti continui” e quelle che
hanno “spiccato il volo verso l’innovazione radicale”. Il
chiusura rispetto all’imprenditorialità o all’inter-imprenditorialità tra le cellule (interne ed
esterne) di un sistema organizzativo articolato in gruppi autoregolati, autonomi e agili.
124
Vello (1995, p. 19).
125
Vello (1995, p. 19).
126
Hamel (2001, p. 13).
89
primo successo della rivoluzione industriale fu la nozione
di miglioramento continuo: esso rimane il credo condiviso
(o, quanto meno, proclamato) nella maggior parte delle
organizzazioni.
La
sua
“prima
incarnazione”
fu
il
management scientifico di Taylor, mentre “tra i suoi molti
discendenti”
si
annoverano
il
concetto
giapponese
di
kaizen e le versioni anni Novanta del reenginering e della
pianificazione delle risorse dell’organizzazione 127.
Ma in un mondo non lineare, solo le idee non lineari
creano e, ancor più, creeranno ricchezza: l’innovazione
“non lineare, radicale”, dice Hamel, è il solo modo per
sfuggire alla spietata ipercompetizione che, settore dopo
settore, sta schiacciando i margini” di profitto. E questa
forma
di
innovazione
richiede
alle
organizzazioni
di
“sfuggire ai legami della consuetudine e di immaginare
soluzioni interamente nuove ai bisogni della clientela”: le
127
Hamel (pp. 15ss.): “Taylor è il padrino spirituale di ogni manager e consulente che abbia
cercato di descrivere, misurare e dare forma a un processo aziendale”. Per una panoramica
analiticamente più approfondita e meditata sul kaizen cfr Tanaka (1998) e Imai (2001). Per un
approfondimento del modello giapponese della qualità totale, delle sue potenzialità e dei suoi
limiti (e delle differenze rispetto ai modelli di matrice direttamente tayloristica) cfr. Ohno
(1993). Sul reenginering cfr. ad esempio Merli e Biroli (1996), Pierantozzi (1998), Davenport
(1997) e Oriani (1997), che sottolinea come per rispondere alle sfide comeptitive del Duemila
molte organizzazioni debbano abbandonare il paradigma organizzativo classico incentrato sulla
gerarchia, la specializzazione e la logica del comando-controllo, per orientarsi verso quello
dell’organizzazione orizzontale incentrata sui processi, le competenze multiple, l’empowerment e
la flessibilità. Mutatis mutandis, il discorso di Hamel sembra ripercorrere le orme della riflessione
di Thomas Kuhn (1978 e 1980, pp. 313ss.) e della polemica con Karl Popper a proposito della
dicotomia tra scienza normale e scienza rivoluzionaria.
90
intuizioni
innovative,
infatti,
non
scaturiscono
da
un
processo di pianificazione o dal miglioramento continuo
incrementale, ma dalla “decostruzione” del sistema di
credenze consolidato in un certo contesto organizzativo
attraverso
“ cocktail
un
predisposizione
al
soggettivo”
cambiamento,
fatto
desiderio,
di
curiosità,
ambizione e bisogno" 128.
La
capacità
di
mantenersi
orientati
agli
obiettivi
strategici per l’organizzazione anche in situazioni di forte
incertezza e, quindi, la capacità di agire con efficacia in
situazioni complesse e, magari, di “disordine” derivante
anche dall’assenza di direttive precise, è la com petenza
distintiva per decostruire e ricostruire gli orizzonti di
senso e gli universi, al contempo simbolici e pragmatici,
entro
cui
si
sviluppa
l’azione
organizzativa
in
molti
contesti produttivi della net-economy . E per il soggetto
rappresentativo
oggettualizzazione
-
che
della
ha
interiorizzato
realtà”
ed
ha
la
“de-
maturato
la
capacità di “vede re e di veder si ‘in filigrana’” con più
128
Hamel (2001, pp. 15, 28, nonché pp. 150 e 168ss.): “L’obiettivo non è quello di speculare su
che cosa potrebbe accadere, ma di immaginare che cosa voi potreste far accadere (…).
Guardate il movimento cubista negli anni Trenta. Dapprima fu un movimento artistico, poi si
estese alla costruzione degli edifici e, infine, influenzò la struttura della maggior parte delle
organizzazioni (…). Gli eretici, non i profeti, creano le organizzazioni (…). Voi e i vostri colleghi
dovete imparare a decostruire sistematicamente le credenze in uso relativamente a: ‘Qual è il
nostro business’, ‘Come facciamo soldi’, ‘Chi sono i nostri clienti’, ecc. il primo passo per
91
facilità di altri 129 - si possono delineare molteplici chances
di
potenziamento
e
sviluppo
personale
(oltre
che
di
“carriera”), sempre che sappia e possa navigare nella
realtà del come se alla ricerca di ways of world-making .
Il che è tanto più possibile quanto più si sviluppano
organizzazioni in grado di promuovere, riconoscere e,
possibilmente, premiare l’innovazione e “l’invenzione” 130.
diventare degli eretici consiste nell’ammettere che vivete all’interno di un modello mentale, di
un costrutto che magari non è nemmeno opera vostra”.
129
Girard (1990, p. 70)
130
Spaltro e De Vito Piscicelli (1990, p. 219), peraltro, sostengono che da qualche anno a
questa parte ci troviamo di fronte a quattro importanti “dilemmi organizzativi”, ovvero:
1. La velocità delle innovazioni è maggiore della velocità di apprendimento. Alcune minoranze
veloci sorpassano continuamente le maggioranze più lente. Meglio rallentare le innovazioni
o accellerare l’apprendimento?
2. L’influenza delle innovazioni è spesso sconvolgente. Meglio abituarci a viverle
quotidianamente o riservarne alcune ad altri?
3. Le minoranze trascinano continuamente con sé le maggioranze: i pochi innovano e i molti
resistono. Meglio specializzarsi a trattare le resistenze o adattarsi alle maggioranze e
specializzarsi a trattare le novità?
92
9.
Complessità
integration ,
knowledge
organizzativa,
empowerment
e
produzione
di
soggettività
“L’organizzazione non è più oggi il modo per rendere
semplici le cose complicate, ma il modo per renderle
complesse,
cioè
vivendoci
dentro,
rifiutando
processi
ossessivi di semplificazione e unificazione e trasformando
la
soggettività
e
la
pluralità
da
difetti
in
risorse
dell’organizzazione”: così Enzo Spaltro, una delle voci più
importanti
della
psicologia
del
lavoro
italiana,
che
sottolinea come per moltissimi anni si sia creduto che
organizzare significasse semplificare, per poi iniziare a
capire
che
le
situazioni
complesse,
nonostante
l’organizzazione, restano complesse e che quello che si
può raggiungere è, al massimo, “l’illusione di semplicità,
cioè un errore”. Adesso, invece, si pensa sempre di più
che organizzare significhi abituare se stessi e gli altri alla
complessità:
imparare,
quindi,
ad
apprezzare
la
complessità “non come complicazione o confusione, ma
come ricchezza e varietà” 131.
4.
Chi innova spesso resta solo, chi resiste spesso è in compagnia, la compagnia della paura.
Meglio puntare in alto da soli, o abbassare i risultati e mantenersi in compagnia?
131
Spaltro e De Vito Piscicelli (1990, pp. 11 e 219).
93
Il pensiero “complesso”, utile per la progettazione e la
gestione di organizzazioni d’eccellenza, si caratterizza per
un insieme di aspetti che – seguendo Spaltro – possono,
seppur riduttivamente, essere sintetizzati come segue:
1. Usa la metafora e tutti “i modi capaci di allontanare
dall’immediatezza
del
problema”
il
solutore,
per
consentirgli quella creatività che “lo stare dentro ai
problemi” impedisce.
2. Propone una continua auto-organizzazione dei dati e
una
continua
invenzione
di
modelli
organizzativi
interni.
3. Usa il valore costruttivo del disequilibrio (dionisiaco):
ad esempio, considerando i conflitti come risorsa ed
utilizzandoli
in
chiave
“disequilibrante”,
come
occasione per affacciarsi su nuove realtà e per vedere
le cose all’interno di un diverso orizzonte di senso, per
generare rivoluzioni paradigmatiche.
4. E’ consapevole della distinzione tra sistemi complessi
(a numero di variabili elevato, ma finito) e sistemi
complicati (a numero di variabili infinito).
5. Considera l’organizzazione non certo come sistema
chiuso e pienamente controllabile, ma come sistema
94
aperto, incerto e imprevedibile 132 - ovvero come 
che si apre al  .
La concezione complessa dell’organizzazione afferma
che non vi è un solo modo, migliore, di concepire l’agire
collettivo, ma che ne esistono molti. L’organizzazione è
un
fenomeno
complesso,
non
riducibile
entro
classificazioni risolutive e conclusive: un fenomeno di cui
si possono anche avere “cognizioni sofisticate ma una
comprensione sempre approssimata”, parziale, orientata
da
obiettivi
e
interessi
solo
in
parte
manifesti
e
manifestabili 133. Una leadership organizzativa consapevole
della complessità, pertanto, è orientata a facilitare al
massimo
“la
spazio/tempo
ricostruzione
della
organizzativi” 134,
in
soggettività
quanto
nello
organizzare
significa non solo differenziare i ruoli e definire norme e
regole,
o
ingegnerizzare
e
presidiare
processi
e
procedure, ma significa - secondo le rappresentazioni
oggi più dibattute - soprattutto apprendere a creare e
gestire conoscenza dotata di valore competitivo.
132
In proposito cfr. gli ormai classici studi di Prigogine e Stengers (1981), nonché Stacey
(1996).
133
Cfr. Kaneklin e Olivetti Manoukian (1990, p. 29). Per Morin (1983, p. 74), “oggi sappiamo
che tutto ciò che la fisica antica concepiva come elemento semplice è organizzazione. L’atomo è
organizzazione; la molecola è organizzazione; l’astro è organizzazione; la vita è organizzazione;
la società è organizzazione. Ma ignoriamo tutto del significato di questo termine:
organizzazione”.
134
Spaltro e De Vito Piscicelli (1990, pp. 53-54).
95
L’organizzazione
“basata
sulla
conoscenza”
(e
knowledge driven ) 135 è uno spazio - eventualmente fisico,
sicuramente culturale e mentale e, quindi, virtuale - in
cui
“le
persone
continuano
a
scoprire
le
modalità
attraverso le quali creano la loro realtà” e anche quelle
attraverso cui possono modificarla 136. Il successo delle
organizzazioni knowledge driven dell’epoca post-moderna
dipende - questa è la tesi – dallo loro capacità di creare
conoscenza organizzativa, ovvero di attivare il circolo
virtuoso
esperienza-condivisione
esperienza,
in
cui
le
della
conoscenze
conoscenza-
condivise
a
livello
organizzativo diventano base di nuove applicazioni, di
nuove esperienze e, così, di nuove conoscenze.
La capacità di gestire il “capitale intellettuale” è, in
questa
prospettiva,
una
delle
principali
competenze
distintive della leadership organizzativa: secondo Reich,
addirittura, il solo autentico vantaggio competitivo sarà
135
Cfr. ad esempio Iacono (2000): le organizzazioni d’eccellenza sono oggi alla ricerca di un
modello di funzionamento che consenta loro non soltanto di raggiungere il successo, ma anche
e soprattutto di mantenerlo, un modello che le renda dinamicamente “vincenti”. I modelli
imperanti negli anni Ottanta e Novanta (Business Process Reengineering, Total Quality
Management) non sono più sufficienti: occorrono modelli che consentano di acquisire la
capacità di innovarsi, sulla base della conoscenza specifica del “chi si è” e “dove”,
strategicamente fondati sul patrimonio cognitivo aziendale. Occorrono, cioè, modelli che
rendano sempre possibile il cambiamento: apprendere a creare e gestire conoscenza dotata di
valore comeptitivo significa non solo poter cogliere le opportunità che si presentano e fornire
prodotti e servizi di elevata qualità, ma soprattutto poter creare nuove opportunità, nuovi
servizi, nuovi prodotti.
136
Cfr. Senge (1992, pp. 12-13) e, soprattutto, Nonaka e Takeuchi (1997, p. 85).
96
costituito in futuro dalla presenza nelle organizzazioni di
“analisti simbolici”, cioè di persone che dispongono delle
conoscenze
neces sarie
per
definire,
riconfigurare,
negoziare, mediare e, quindi, risolvere nuovi problemi
facilitando i processi collettivi di knowledge integration e
di
invenzione
di
nuove
prospettive
d’azione 137
-
soprattutto attraverso l’esplicitazione delle percezioni, dei
vissuti
emozionali,
soggettive
e,
poi,
degli
con
insights
la
e
delle
formalizzazione
credenze
a
livello
organizzativo dei modelli mentali e degli schemi cognitivi
considerati più efficaci 138.
137
Reich (1991).
In proposito cfr. lo studio, molto interessante, di Nonaka e Takeuchi (1997, pp. 33ss.): “La
difficoltà degli osservatori occidentali a prendere in esame la questione della creazione di
conoscenza organizzativa ha un fondamento nell’adesione a priori all’assunto per cui
l’organizzazione è una macchina deputata alla ‘elaborazione di informazioni’. Questo assunto è
profondamente radicato nella storia del management in occidente, da Frederick Taylor a
Herbert Simon, e si traduce in una visione della conoscenza come evento necessariamente
‘esplicito’, e in qualche misura formale e sistematico. La conoscenza esplicita può trovare
espressione numerica e verbale ed essere facilmente comunicata e condivisa in forma di dati
grezzi, formule, procedure codificate o assiomi. Essa viene spesso assimilata a un codice
informatico, a una formula chimica o a un sistema di regole generali (…). La rappresentazione
della conoscenza nelle imprese giapponesi è, peraltro, radicalmente diversa. Per esse la
conoscenza verbale e numerica non è che la punta di un iceberg, la conoscenza essendo in
primis un evento ‘tacito’, qualcosa cioè di difficilmente afferrabile ed esprimibile. La conoscenza
tacita è eminentemente personale e poco formalizzabile, caratteristiche queste che complicano
la sua comunicazione ad altri o la sua condivisione con altri. Essa è una categoria comprensiva
nella quale ricadono insight soggettivi, intuizioni e indizi. Essa, infine, ha le sue radici più
profonde nell’azione e nell’esperienza individuale, oltre che negli ideali, nei valori e nelle
emozioni personali. Più precisamente, è possibile distinguere due dimensioni di conoscenza
tacita. La prima è quella tecnica, che comprende l’insieme di abilità e di forze informali difficili
da cogliere sussunte nel termine know-how (…). Nel contempo, nella conoscenza tacita è
implicita una dimensione cognitiva rilevante, di schemi, di modelli mentali, di credenze e di
percezioni così consolidate da essere diventate assiomatiche. Questa dimensione cognitiva della
conoscenza tacita riflette la nostra rappresentazione della realtà (l’essere) e la nostra visione del
138
97
Le condizioni per l’attivazione e la gestione efficace del
processo di creazione di nuova conoscenza dovrebbero
consentire, da un lato, la valorizzazione e l’accrescimento
del
know-how organizzativo, che a livello individuale
spesso è un capitale cognitivo “tacito”, di cui a volte lo
stesso soggetto detentore non è consapevole; d’altro
lato,
dovrebbero
consentire
la
valorizzazione
e
l’accrescimento della conoscenza organizzativa esplicita
(condivisibile e “riutilizzabile” nell’organizzazione sotto
forma di istruzioni, procedure, modelli o meta-modelli,
strumenti e metodologie).
Una volta riconosciuta l’importanza della conoscenza,
anche di quella tacita, e della knowledge integration , si
comincia
elaborata
a
pensare
l’innovazione
soprattutto
nel
in
pensiero
una
prospettiva
organizzativo
giapponese: come sostengono Nonaka e Takeuchi, “non si
tratta semplicemente di aggregare dati e informazioni
eterogenee, ma di percorrere un processo assolutamente
individuale di rinnovamento personale e organizzativo”
che, tra l’altro, richiede un forte impegno personale dei
dipendenti
e
l’organizzazione
di
nei
tutti
coloro
termini
-
che
tipici
lavorano
del
per
contesto
futuro (il dover essere). Nonostante la loro difficile formulabilità, questi modelli impliciti
determinano il nostro modo di percepire il mondo circostante”.
98
produttivo
giapponese
“identificazione”
con
–
la
della
“dedizione”
missione
ed
i
e
della
valori-guida
dell’impresa (comune) 139.
Le organizzazioni basate sulla conoscenza non possono,
dunque,
che
valori” 140,
tra
essere
cui
anche
quello
“organizzazioni
della
basate
soggettività,
poiché
sui
la
centralità della persona è strategica in quanto il capitale
intellettuale
rappresenta
il
principale
asset strategico
dell’organizzazione.
Le
organizzazioni
quindi,
al
loro
effettivamente
interno
“sempre
knowledge
di
più
driven ,
produrranno
benessere” 141 e crescita soggettiva: potenziamento delle
competenze e delle capacità professionali, sviluppo di
potenzialità, responsabilizzazione, delega e trasferimento
di potere, chances per l’apertura degli attori organizzativi
a nuovi mondi possibili. In una parola, empowerment :
una
parola-simbolo,
nel
lessico
organizzativo,
spesso
utilizzata per riproporre un messaggio lanciato più di
vent’anni or sono ma ancora in larga misura disatteso.
139
Nonaka e Takeuchi (1997, p. 36).
Iacono (2000, p. 35).
141
Spaltro e De Vito Piscicelli (1990, p. 13).
140
99
Empowerment 142: un messaggio che si riassume nella
considerazione che ogni sviluppo è possibile solo se a
crescere sono, in primo luogo, gli attori organizzativi, le
risorse umane, i soggetti che animano l’organizzazione.
Mera ideologia? Forse. Comunque, diceva Oscar Wilde,
una carta geografica che non registri il paese Utopia non
merita
uno
sguardo.
eventualmente,
(ricerca
e)
consolatorio?
letteratura
sponsorizzata
Discorso
in
modo
manipolatorio
Sicuramente
organizzativa
non
certo
è
sì:
ed,
molta
finanziata
disinteressato.
e
Al
contempo, però, non solo nella teoria organizzativa, ma
anche nella consulenza e in alcune pratiche evolute di
management (che trovano spazio d’analisi nei repertori
delle
best
practices
delle
scuole
di
amministrazione
aziendale e, a volte, generano emulazione e qualche
riconfigurazione
quotidiana),
è
paradigmatica
dato
registrare,
nell’operatività
particolarmente
negli
ultimi cinque anni, che soltanto il riconoscimento forte
della “centralità dell’uomo e della significatività della sua
vita di lavoro” 143 possono generare organizzazioni capaci
di apprendere e di svilupparsi attraversando le turbolenze
continue dell’economia post-moderna.
142
143
Molto interessante, in proposito, lo studio di Piccardo (1995).
Cfr. Piccardo (1995, pp. 3ss.).
100
“La dimensione soggettiva significa essenzialmente” nota Spaltro - un aumento di importanza della posizione e
del punto di vista del singolo rispetto “ai suoi tradizionali
oppositori e cioè le masse, le cose e le autorità”. La
dimensione soggettiva si configura come un “recupero di
energia psichica, quindi un investimento in allegria, un
interesse per il proprio lavoro, voglia di contare, richiesta
di potere”. La soggettività è quindi ricerca di benessere,
“del proprio benessere, di potere, del proprio potere, di
tempo, del proprio tempo, nel proprio lavoro”. Tra breve,
sostiene
Spaltro,
la
risorsa
più
scarsa
sarà
quella
psichica, perché “la gente sarà sempre di più pagata per
pensare e anzi sarà addirittura ‘pagata in pensiero’, in
possibilità di pensare (libertà, tempo libero, sviluppo,
creatività, cultura, potere, etc.)” 144.
Conseguentemente,
aumenteranno
e
si
istituzionalizzeranno le pratiche organizzative volte alla
massimizzazione
attitudini,
le
della
capacità
“risorsa
e,
psichica”,
dunque,
la
cioè
le
soggettività:
assessment and development centers per valutare quello
che le persone sanno fare nel presente e per individuare
le conoscenze e le capacità che potranno sviluppare nel
144
Spaltro e De Vito Piscicelli (1990, pp. 20ss.).
101
prossimo
futuro,
magari
all’esito
di
un
percorso
di
formazione e sviluppo professionale e con il supporto di
un
personal
trainer ;
riqualificazione
esubero”,
per
all’interno
delle
nuove
stessa
magari
al
di
riconversione
professionalità
generare
della
all’esterno,
centri
“obsolete”
prospettive
organizzazione
termine
di
un
e
di
o
in
soggettive
lavorativa
processo
o
(oggi
solitamente doloroso e “stigmatizzante”) di outplacement ;
job rotation e mobilità intensiva, interna od esterna
(proprio
in
questi
mesi
se
ne
parla,
in
Italia,
con
riferimento alla dirigenza ed al funzionariato pubblico);
outdoor or indoor training , camminate sui carboni ardenti
o teatro d’azienda come riti generatori di coesione, senso
di appartenenza, “noità” o rimotivazione.
L’elenco non può che essere incompleto ed aperto,
mentre il messaggio di fondo è tendenzialmente univoco:
una risorsa umana è sempre anche “potenziale, futura e
solo parzialmente pianificabile”. Una risorsa umana (postmoderna) è polifonica in quanto
“composta da progetti e
destini, da cromosomi e apprendimenti, da eredità e
cultura, da limiti biologici, fisiologici, sociali e psicologici,
da potenzialità e attuazioni, da attitudini e competenze,
da proprietà e immagini, da conformismo e devianza, da
informazioni e sentimenti, da ripetizione e creatività, da
102
pratica e teoria, da passato e futuro, da singolare e
plurale, eccetera” 145.
145
Spaltro e De Vito Piscicelli (1990, p. 56).
103
10. Ways of world-making
Sviluppare la polifonia interiore e dar voce al virtuale
che alimenta i sogni delle persone che lavorano nelle
organizzazioni basate sulla conoscenza: ecco l’obiettivo
delle (pochissime, per ora) organizzazioni post-moderne
knowledge driven .
Nella filosofia scolastica, virtuale è ciò che esiste in
potenza e non in atto: secondo Pierre Lévy, il virtuale è
trasformazione da una modalità dell’essere a un’altra,
ovvero una dimensione in cui i confini della realtà e del
sogno si incrociano. Il virtuale “non è affatto il contrario
del reale”, ma è come il complesso problematico, il nodo
di tendenze e di forze che accompagna una situazione, un
evento, un oggetto o un’entità qualsiasi e che richiede un
processo di trasformazione: l’attualizzazione. In questo
senso l’attualizzazione appare come la soluzione di un
problema, una soluzione che non era già presupposta
nell’enunciato: l’attualizzazione, insomma, è “creazione,
invenzione di una forma a partire da una configurazione
dinamica di forme e di finalità”. Il virtuale, pertanto,
“schiude
prospettive
future”,
genera
processi
di
creazione, “scava pozzi di senso al di sotto della piattezza
della presenza fisica immediata”. In questa prospettiva, il
104
virtuale
non
ha
niente
a
che
vedere
con
il
falso,
l’illusorio, l’immaginario, ma rappresenta piuttosto uno
degli eventuali modi di essere - o, m eglio, di divenire della “realtà” 146.
Quale è la condizione di possibilità di questo discorso?
Uscire da una logica binaria (vero/falso), alimentata da
una teoria della verità come rappresentazione speculare
di una realtà monodimensionale 147 e condividere, invece,
una logica (o, forse, un’a-logica) consapevole che vedere
significa costruire e ricostruire il mondo 148 e, soprattutto,
che l’astratto di oggi sarà il concreto di domani in quanto
il virtuale è il germe di un diverso modo di essere del
reale.
In altri termini, l’alternativa principale che si pone nella
post-modernità
non
mette
contrapposizione
schematica
146
tra
di
fronte
reale
e
a
virtuale,
una
ma
Lévy (1997, pp. 2ss.): diversi filosofi hanno già lavorato al concetto di virtuale, e “tra questi
vi sono pensatori come Gilles Deleuze e Michel Serres. Che cosa si prefigge dunque questa mia
opera? E’ molto semplice: non mi sono limitato a definire il virtuale come una specifica modalità
dell’essere, ma ho voluto analizzare e illustrare un processo di trasformazione da una modalità
dell’essere a un’altra. In questo libro, infatti, viene analizzata la virtualizzazione che dal reale o
dall’attuale risale al virtuale. La tradizione filosofica, fino aai lavori più recenti, analizza il
passaggio dal possibile al reale o dal virtuale all’attuale. Che io sappia, nessuno studio ha
ancora analizzato la trasformazione inversa, quella in direzione del virtuale. Ora, proprio questo
tornare a monte sembra caratterizzare sia il movimento di autocreazione che ha determinato la
comparsa della specie umana, sia la transizione culturale accelerata che oggi stiamo vivendo”.
Per un excursus storico-filosofico sul virtuale cfr. l’introduzione di Bettetini al testo di Lévy
(1997, pp. XIIIss.).
147
Cfr. Rabinow (1987, pp. 293ss.).
148
In proposito cfr. Goodman (1988).
105
piuttosto
a
una
scelta
tra
diverse
modalità
di
dell’intelligenza”
e
virtualizzazione, così come di attualizzazione.
Attraverso
le
“l’intelligenza
“tecnologie
collettiva”
che
rappresentano
l’ asset
organizzativo strategico, l’attualizzazione del virtuale si
configura come creazione, “invenzione di una forma a
partire da una configurazione dinamica di forze e di
finalità”: una produzione di “qualità nuove”, sostiene
Lévy, una trasformazione delle idee, un “divenire che di
rimando alimenta il virtuale stesso”. Per esempio, scrive
ancora Lévy, mentre lo svolgersi puramente logico di un
programma
informatico
possibile/reale,
è
l'interazione
riconducibile
tra
l'uomo
alla
e
i
coppia
sistemi
informatici fa capo alla dialettica del virtuale e della sua
(eventuale) attualizzazione. Ogni équipe di programmatori
ridefinisce e risolve diversamente il problema che ha di
fronte. Più a valle, l’attualizzazione del programma in
sede di utilizzo, per esempio in un collettivo di lavoro,
“squalifica
talune
competenze,
fa
emergere
nuovi
meccanismi, scatena conflitti, sblocca situazioni, instaura
una nuova dinamica di collaborazione” e così via. Il
software , in definitiva, è portatore di una virtualità di
106
cambiamento che il gruppo attualizza in modo più o meno
creativo 149.
Per
concludere,
lavorativa
si
knowledge
può
dire
driven
si
che
l’organizzazione
configura
come
una
dimensione cognitiva e sociale caratterizzata da processi
in costante evoluzione, dove “conoscere” non vuol dire
“riconoscere”, cioè apprendere qualcosa di dato e di
“esterno a noi”, ma significa percorrere le molteplici ways
of world-making che possono consentire di creare e
costruire non solo nuovi prodotti, ma nuovi modi di
pensare e di agire, quindi nuovi orizzonti e scenari di
senso – secondo i limiti e le forme consentite dalla
struttura organizzativa entro cui si opera.
L’organizzazione
apre
e
genera,
dunque,
una
dimensione in cui le persone si ritrovano immerse in
“mondi di pensiero” 150 e, al contempo, di azione che a loro
volta possono generare nuovi mondi: forse, è come vivere
nel  eracliteo dove il divenire e il cambiamento
generano
l’innovazione
continua,
che,
per
chi
lavora
nell’organizzazione basata sulla conoscenza, si configura
149
Lévy (1997, p. 7).
Per un’apertura interessante alla costruzione dei mondi di pensiero teorizzata da Goodman
(1988) cfr. Douglas (1990, pp. 42ss. e 101ss.) che ne propone una traduzione con il “collettivo
di pensiero” tematizzato da Fleck (1983).
150
107
come un processo di “ricreazione del mondo” 151 - alla luce
di un ideale o di una visione particolari, distintivi della
cultura organizzativa entro cui si è “gettati”.
151
Cfr. Nonaka e Takeuchi (1997, p. 36).
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