WAYS OF WORLD-MAKING: LA PRODUZIONE DELLA SOGGETTIVITA’ NELLE ORGANIZZAZIONI LAVORATIVE (Annotazioni antropologico-culturali a cura di Fernando Salvetti) - INDICE - I – CORPI DISCIPLINATI E ANIME IN PENA 1. L’organizzazione scientifica del lavoro p. 1 2. L’ordine taylorista p. 7 3. Tempi e metodi p. 12 4. La disciplina dei corpi p. 18 5. Addestramento e disciplina dell’uomo-macchina p. 23 6. La sorveglianza gerarchizzata p. 30 1 7. Macchine, automi e hamburger II – ORGANIZZAZIONI p. 38 POST-MODERNE E SOGGETTI RAPPRESENTATIVI 1. Macchine, organismi, cellule, collages e altre metafore p. 43 2. La realtà del “come se” 3. La molteplicità degli p. 51 orizzonti di senso rappresentativo e il soggetto p. 55 4. Gli spazi polifonici del soggetto p. 59 5. Il soggetto rappresentativo e l’ombra di Dioniso p. 66 6. Le parole, lo straniamento e le cose p. 72 7. Taxis e cosmos p. 76 8. La vita è sogno p. 85 9. Complessità organizzativa, knowledge integration, empowerment e produzione di soggettività p. 91 10. Ways of world-making p. 102 Bibliografia p. 109 2 CAPITOLO I – CORPI DISCIPLINATI E ANIME IN PENA 1. L’organizzazione scientifica del lavoro “Nel passato l’uomo veniva al primo posto; nel futuro sarà il sistema. Questo peraltro non implica in nessun senso che le persone di valore non siano necessarie. Al contrario, il principale obiettivo di ogni buon sistema deve essere lo sviluppo di persone di livello elevato; e con l’organizzazione sistematica le persone migliori arrivano ai massimi livelli con più sicurezza e rapidità che nel passato”. Così scriveva Frederick Winslow Taylor, autore nel 1911 dei Principles of Scientific Management : il libro d’economia più venduto nella prima metà del ‘900 (e tradotto in molte lingue), volto a “dimostrare che l’organizzazione migliore è una vera scienza, che ha alla base leggi ben definite, regole e principi”, e, inoltre, per “dimostrare” che i principi fondamentali dell’organizzazione scientifica del lavoro “possono essere applicati ad ogni genere di attività umana, dall’atto individuale più semplice fino alle produzioni delle nostre 3 grandi imprese, che richiedono le forme di cooperazione più complesse”. E ancora: “Presto o tardi questi principi entreranno nell’uso generale di tutti i paesi civilizzati”, e quanto prima “ciò avverrà, maggiore sarà il vantaggio per le popolazioni” 1. L’organizzazione come scienza, la scienza come conoscenza del vero, il vero come codificazione di regole, leggi e principi universali (nei paesi “civilizzati”) utili per organizzare metodi di sistematicamente lavoro, per i tempi, analizzare i e carichi ed i riconfigurare sperimentalmente gli elementi del ciclo di lavoro nel modo più economico e razionale, per individuare e addestrare the right man to the right place , per definire la tipologia degli incentivi economici ed i criteri per la differenziazione delle retribuzioni. Scientific management 2: ovvero, il taylorismo come specializzazione delle conseguentemente dei macchine lavoratori, utensili semplificazione e dei processi di lavoro, standardizzazione dei prodotti e dei 1 Taylor (1975, pp. 2 e 16). Coniato da Brandeis nel 1910, il termine organizzazione scientifica del lavoro individua quel movimento di idee e di applicazioni che trova, certamente a ragione per le idee e invece con qualche discussione per le applicazioni, il suo padre riconosciuto in Taylor (1856-1915). Tant’è che, nonostante gli inviti dello stesso Taylor a non “personalizzare”, taylorismo e organizzazione 2 4 mezzi di produzione. Le tre S a cui si aggiunse ben presto la quarta: quella dello scandalo. Proprio nel 1911, il management scientifico divenne oggetto di indagine per il Congresso americano, che istituì un’apposita commissione: secondo molte voci, il sistema di Taylor sminuiva l’autorità dei lavoratori in quanto, da un lato, rafforzava il controllo e la supervisione dei manager e, d’altro lato, introduceva il salario differenziato che avrebbe minato la solidarietà tra compagni di lavoro 3. Taylor, a sua volta, considerava i sindacati “sviati”, ne condannava la politica di restrizione della produzione, attaccava la contrattazione collettiva e presumeva di aver tolto la ragion d’essere all’azione sindacale: se questa era giustificata a fronte di criteri arbitrari dei capi nel fissare modi e carichi di lavoro e nell’assegnare i dipendenti ai posti di lavoro, dove invece il lavoratore veniva destinato ad un lavoro congruo con le sue attitudini, addestrato ad un modo “razionale” di lavorare che gli consentiva di fornire una “scientificamente” quota e di premiato produzione se non si definita sottraeva a scientifica del lavoro vengono spesso usati in modo del tutto intercambiabile (cfr. ad esempio Isotta, 1996, p. 78). 3 Hatch (1999, pp. 30ss.). Su Taylor e il taylorismo cfr. Kakar (1970), Nelson (1988 e 1999, pp. 461ss.), Bonazzi (1997, pp. 27ss.), Novara e Sarchielli (1996, pp. 50ss.), Ceccanti (1996, pp. 35ss.), Drucker (1999, pp. 21ss.), Berta (1999, pp. 337ss.). 5 fornirla, lì il sindacalista non aveva nulla da opporre a difesa dell’operaio 4. In particolare, Taylor sosteneva che “non vi è dubbio che la persona media (di ogni classe sociale) tende ad un ritmo lento e facile e solo dopo molti ragionamenti e osservazioni individuali, o come risultato dell’esempio, della coscienza o di pressioni esterne, adotta un ritmo più rapido”. Inoltre, Taylor sottolineava che “il principio su cui si basano tutti i vecchi sistemi di organizzazione più diffusi comporta inevitabilmente che sia lasciata a ciascun lavoratore la responsabilità ultima di svolgere il suo lavoro in pratica come meglio ritiene, con un minimo di aiuto e assistenza da parte della direzione”. A causa di questo “isolamento del lavoratore”, in moltissimi casi “non è possibile per chi lavora con questi sistemi organizzativi seguire i principi e le regole teoriche o tecniche anche quando queste esistono” 5. 4 Sul principale episodio di conflittualità sindacale correlata allo scientific management, cfr. la sintesi di Novara e Sarchielli (1996, pp. 58ss.). 5 Taylor (1975, p. 10): “Naturalmente esistono persone di non comune energia, vitalità e ambizione che scelgono spontaneamente il ritmo più rapido, si prefiggono uno standard elevato e lavorano sodo, persino contro il proprio interesse. Tuttavia queste poche persone non comuni servono solo a evidenziare per contrasto la tendenza media. Questa diffusa tendenza a ‘prendersela calma’ è gradualmente aumentata con il numero delle persone che svolgono insieme un lavoro simile e con un livello di retribuzione giornaliera uniforme”. Altra causa addotta da Taylor per spiegare il rallentamento intenzionale della produzione è, poi, “l’errata convinzione” che un aumento della produttività provochi la perdita del lavoro per un numero notevole di persone. Per il nostro consulente di management, al contrario, lungi dal condurre al collasso economico, la maggiore produttività è la premessa per raggiungere un nuovo equilibrio 6 Sviluppando tale linea di riflessione e di azione, Taylor riconsidera tutta la del suo organizzazioni struttura tempo di direzione. applicavano principi Le di comando incentrati sulla gerarchia lineare di tipo militare, in cui un subordinato riceve ordini da un solo capo “completo”, mentre Taylor, ridefinendo la ripartizione “razionale” dei compiti, articola la funzione dei capi completi in più funzioni specializzate, impersonate da più “capi funzionari”, senza tuttavia disarticolare l’istanza gerarchica. Pertanto, nella “struttura funzionale gerarchica” proposta da Taylor ogni operaio, invece di ricevere tutti gli ordini (e l’aiuto) solo dal suo caposquadra, li riceve direttamente da otto capi diversi, ciascuno con una funzione particolare all’interno dell’organizzazione (quattro sono funzioni di esecuzione in officina, mentre le altre quattro sono funzioni di ufficio e programmazione). tra domanda ed offerta, con un conseguente aumento nel consumo di beni che precedentemente erano ristretti ad una élite di privilegiati. Una posizione che, secondo Bonazzi (1997, p. 37), può anche essere letta “come la proposta di uno scambio politico: da un lato si offre più benessere materiale raggiunto con il consumo di massa di beni prima riservati ad un’élite e, dall’altro, si richiede il consenso ad una struttura autoritaria di produzione, legittimata dalla sua efficienza”. 7 Il “codice di disciplina” dell’organizzazione, quindi, viene ad essere determinato capillarmente e in estremo dettaglio 6. 6 Non si può dire, comunque, che Taylor manifestasse una particolare sensibilità in ordine all’esigenza di una struttura organizzativa formalmente determinata: secondo Drucker (1999, pp. 21-22), mentre l’esigenza di una struttura organizzativa era ben chiara a tutti in quegli anni, Taylor non la vedeva affatto e continuò a parlare soprattutto in termini di “proprietari” e di loro “aiutanti”. Peraltro, “fu su questo concetto, in pratica l’assenza di una struttura organizzativa, che Henry Ford (1863-1947), fin quando morì, cercò di gestire quella che rimase per molti anni (fino alla fine degli anni ’20) la più grande azienda industriale del mondo. Ci volle la prima guerra mondiale per chiarire l’esigenza di una struttura organizzativa formale. Ma fu anche la prima guerra mondiale a dimostrare che la struttura funzionale disegnata da Henry Fayol (18411925) e da Andrew Carnegie non era l’unico modello organizzativo ideale. Subito dopo la prima guerra mondiale, prima Pierre DuPont (1870-1954) e poi Alfred Sloan (1875-1966) idearono la decentralizzazione. E adesso, in questi ultimi anni, siamo arrivati a decantare il team come la forma organizzativa ideale per ogni tipo di attività” (in proposito, al di là della letteratura specialistica, cfr. Balbo, 1966, pp. 570ss. e Actis Perinetti, 1956, pp. 37ss.). 8 2. L’ordine taylorista “Probabilmente la maggior parte dei lettori dirà che questa è pura teoria”, scriveva Taylor, sottolineando che, in realtà, scientifica “la teoria, cominciava o filosofia”, “appena ad dell’organizzazione essere compresa, poiché i metodi organizzativi hanno subito negli ultimi trenta anni una grande evoluzione” 7. Lo sforzo di Taylor implicava una “particolare combinazione di elementi che prima non esisteva, nel senso di coordinare, analizzare, raccogliere e classificare le conoscenze precedenti in leggi e regole in modo da formulare una teoria scientifica”, generando di conseguenza prassi frutto di un “completo capovolgimento di mentalità della manodopera così come dei dirigenti, sia nei rapporti reciproci sia nei confronti dei rispettivi compiti e responsabilità” 8. Riassumendo con le parole dello stesso Taylor: “Scienza e non empirismo, armonia e non discordia, cooperazione e non individualismo, massima 7 produzione Taylor (1975, p. 10). Per una sintesi efficace sulla storia produzione industriale cfr. Ceccanti (1996, pp. 36ss.), Hatch Sarchielli (1996, pp. 45ss.); più in generale si può rinviare a (1978), oltre ai classici studi di Sombart (1967, pp. 166 e 173) e 8 Taylor (1975, p. 112). 9 invece di della “razionalizzazione” della (1999, pp. 21ss.), Novara e Chandler (1976) ed a Landes Schumpeter (1955, p. 116). limitazione della stessa, sviluppo di ogni persona al massimo livello di efficienza e benessere” 9. Dunque, strategie di sviluppo organizzativo centrate sulle persone? No. Piuttosto, una microfisica del potere organizzativo come insieme di regole, tecniche e procedure indirizzate a dirigere, e quindi a disciplinare, i processi produttivi e i comportamenti dei lavoratori alla luce dell’equazione maggiore rendimento = maggiore benessere per tutti 10. In altri termini, il discorso taylorista contribuisce a conferire legittimità al management, soprattutto nella sua funzione di controllo, asserendo che le pratiche dell’organizzazione scientifica del lavoro devono essere accettate in quanto razionali 11. Un discorso che si snoda e, soprattutto, si fonda su un’immagine di scienza di matrice positivista e su una razionalità (ingegneristica) tendenzialmente assoluta, in uno scenario industriale ove 9 Taylor (1975, p. 112). Cfr. la sintesi di Bonazzi (1997, p. 36), ove si sottolinea, con riferimento all’equazione maggiore rendimento = maggiore benessere (“il postulato liberal-industrialistico che giustifica l’applicazione” dell’organizzazione scientifica del lavoro), che secondo Taylor “gli uomini non hanno ancora compreso che la via del benessere e del progresso passa attraverso la collaborazione tra le parti sociali per ingrandire la torta con mezzi scientifici e non attraverso la lotta di classe per dividersi mere porzioni”. In altri termini, nelle parole di Bonazzi si delinea un Taylor che auspica lo sviluppo di logiche di cooperazione sociale e di negoziazione che l’Harvard model, consolidatosi tra il 1960 e il 1970, definirà “win-win”: come dire, giochi a somma positiva… Purtroppo, Taylor non condivideva il principale presupposto del modello: non irrigidire le posizioni e non generare linee argomentative con la pretesa di monopolio della verità. 11 Hatch (1999, p. 31). 10 10 non esistevano metodi rigorosi e uniformi per impostare il lavoro e, al contempo, erano carenti anche gli strumenti amministrativi per calcolare i costi delle singole fasi produttive. In tale scenario, l’intera gestione dei processi produttivi era di fatto delegata alle gerarchie intermedie, quasi sempre di origine operaia, mentre il management si limitava a contrattare dall’esterno le quote globali di produzione: una specie di “impero dei capireparto” ai quali spettavano la maggior parte dei poteri e delle responsabilità in ordine alla definizione dei tempi e dei metodi di produzione, alla verifica dei costi e della qualità del lavoro, all’assunzione ed al licenziamento della manodopera. La concentrazione di potere nelle mani dei capireparto non si limitava ad impedire alle direzioni aziendali la conoscenza delle fasi interne al processo produttivo, ma comportava anche una diffusa “empiria”, approssimazione ed arbitrarietà dei metodi di conduzione dell’officina. Senza dimenticare gli episodi e le prassi di arbitrio e di corruzione che si stabilivano nei rapporti tra operai e capireparto: il drive system , traducibile come sistema della spinta o dello spintone, caratterizzato da controllo strettissimo, abuso, irriverenza e minacce per 11 spingere gli operai a muoversi più in fretta ed a lavorare più duramente 12. Nel disegno taylorista, i capireparto devono trasformarsi da una élite di piccoli capi dotati di completa autonomia locale in un esercito disciplinato di quadri intermedi, che garantiscono la realizzazione delle dettagliate direttive provenienti dalla direzione centrale; il criterio per giudicare il loro lavoro non deve più essere il dominio sui sottoposti, ma la conformità agli ordini impartiti dall’alto. I capi intermedi sono legittimati (burocraticamente, nel lessico weberiano) a comandare solo nell’ambito dei ranghi gerarchici stabiliti dalla direzione e nei ben delimitati campi di competenza a loro affidati 13. 12 Per questa ricostruzione cfr. Bonazzi (1997, pp. 32ss.) che, oltre allo strapotere dei capireparto, ricorda la grande diffusione nelle fabbriche americane dei “contrattisti”: operai qualificati e di grande esperienza che lavoravano all’interno delle officine con il duplice ruolo di dipendenti e di piccoli imprenditori che, definita una somma di denaro, si impegnavano ad eseguire – entro i locali dell’impresa e con uso di materiali, macchine ed energia - una data quantità di lavoro ad un prezzo fisso ed entro una data prestabilita, assumendo direttamente manovali ed aiutanti. Un sistema, quindi, che contribuiva ad accrescere l’ignoranza del management industriale sugli aspetti economici e tecnici del processo produttivo. Come sottolinea Bonazzi, ricordare queste “pratiche pre-tayloristiche consente di collocare il giudizio complessivo sul taylorismo in una prospettiva storica più adeguata”: quando si parla di dequalificazione di massa provocata dal taylorismo, “il nostro pensiero va in genere al mestiere perduto dagli operai qualificati, ma tende a dimenticare le condizioni in cui versava la manodopera meno qualificata e più debole sul mercato del lavoro. Si sottolinea l’irrigidimento delle maglie gerarchiche che tolgono discrezionalità ai dipendenti, ma si dimentica il precedente dispotismo dei capireparto”. 13 Bonazzi (1997, pp. 34-35) sottolinea che si tratta di un processo di burocratizzazione che presenta non poche analogie con la costruzione dello stato moderno descritta da Weber: alla stregua dei funzionari nominati in sostituzione dei feudatari per rappresentare il potere centrale 12 La direzione centrale deve assumere, a sua volta, l’iniziativa strategica di centralizzare il potere, stabilire ferree gerarchie, razionalizzare i metodi produttivi aumentando il rendimento di uomini e impianti (non solo attraverso trasparenza lavoro). la di riorganizzazione, costi, “Questa ma procedure, massima anche tempi affermazione organizzativo” - sottolinea Bonazzi - e del con metodi la di principio “ha bisogno di una legittimazione: Taylor la dà in nome della scienza” 14. in periferia, “in fabbrica i capi intermedi agiscono in quanto rappresentanti legali della direzione e non più come capi a cui è stato fiduciariamente delegato un potere senza controllo”. 13 3. Tempi e metodi L’illusione scientista di Taylor si fondava sul paradigma “razionale” dell’ homo oeconomicus , per il quale il rapporto di mercato tra gli interessi utilitari individuali è il regolatore dei comportamenti sociali. Pertanto, poiché l’uomo è motivato soprattutto da interessi economici e poiché altri irrazionale, interferiscano interessi o sentimenti l’organizzazione con il calcolo deve sono far razionale sì di natura che non dell’interesse economico: quindi, dato che gli incentivi economici sono controllati dall’organizzazione, il singolo è in essa un agente passivo, che deve essere guidato, motivato e controllato 15. 14 Bonazzi (1997, p. 35). Cfr. Novara e Sarchielli (1996, p. 71), Schein (1970) e Friedmann (1971, p. 83) che, con riferimento a Taylor ed ai suoi colleghi, scrive: “Indifferenti a qualunque modificazione di struttura, ignari perfino dei problemi posti da questa, pieni di sincera buona volontà (Taylor non ne mancava davvero), essi immaginavano di poter tranquillamente sovrapporre al caos del loro tempo un ordine quasi matematico, superare mediante un incessante sviluppo del rendimento i conflitti tra padroni e operai, e portare così il successo della ‘scienza industriale’ allo stesso livello dei trionfi delle scienze meccaniche. Il loro errore ‘tecnicista’, isolante l’impresa dall’insieme dei fenomeni fisiologici, psicologici, sociali e morali del gruppo umano di cui è parte, è stato omologo (per quanto più spiegabile) al grande errore degli ‘scientisti’. E’ infatti strabiliante che studiosi professionalmente avvezzi all’analisi complessa del reale abbiano fatto con tanta tranquilla baldanza tabula rasa dell’interrelazione dei diversi fatti della civiltà, e sacrificato così tutto un ordine di ripercussioni economiche, e di contraccolpi morali che un osservatore penetrante avrebbe potuto discernere fin dall’epoca in cui si levavano i loro inni al progresso continuo e, per così dire, fatale”. 15 14 Taylor ed i suoi colleghi e collaboratori 16 si attendevano dall’applicazione dei principi dell’organizzazione scientifica del lavoro la “rivoluzione mentale” che avrebbe portato alla “naturale cooperazione ed all’armonia in luogo della discordia” tra imprenditori e lavoratori. Nella realtà produttiva, invece, gli imprenditori applicavano il principio delle “paghe differenziali” senza alcuno studio razionale dei tempi o dei metodi di lavoro e senza alcuna ricerca della “persona giusta per il posto giusto”: così, il taylorismo si diffondeva generando “l’organizzazione dello sfruttamento”. Il principio metodologico generale dell’organizzazione scientifica del lavoro è rappresentato dalla one best way : ovvero, dall’assunzione che esiste sempre e comunque un 16 Tra i collaboratori di Taylor si possono ricordare Carl George Lang Barth, il suo primo collaboratore, che applicò i principi dell’organizzazione scientifica del lavoro in molte aziende e li insegno nelle Università di Chicago e di Harvard; in quest’ultima, oltre che nel Massachussetts Institute of Technology, insegnò anche Horace King Hataway, che “dimostrò” soprattutto come con i metodi tayloriani si salvassero aziende vicine al fallimento. Mentre Morris Lewellin Cooke fu il primo a riorganizzare il lavoro in molti enti pubblici, come il Municipio di Filadelfia, alcuni enti del Governo federale, varie università. Un rilievo storico particolare ebbe Henry Laurence Gantt: il suo famoso diagramma (progress chart), che ordina temporalmente i dati quantitativi, si affermò durevolmente come strumento di programmazione, analisi e controllo che ancora oggi viene comunemente utilizzato, con molte varianti, nei contesti organizzativi pubblici e privati più evoluti. Gantt, peraltro, diede rilievo anche ai problemi umani dell’organizzazione, che reputava non risolvibili solo con le forme di incentivazione economica, ed inoltre sottolineò l’importanza di uno stile gerarchico capace di generare consenso. Per ulteriori approfondimenti cfr. Novara e Sarchielli (1996, pp. 57ss.), i quali ricordano che nel 1918, in un articolo sulla “Pravda” rimasto famoso, Lenin affermava la necessità di utilizzare l’apporto dei lavori di Taylor e colleghi nello sforzo di industrializzazione, concludendo: “Il sistema ha eliminato i movimenti superflui quanto inutili. Noi dobbiamo introdurre immediatamente il cottimo e controllarne la 15 metodo unico compiere e migliore azioni per di risolvere problemi o genere 17. qualunque Conseguentemente, il taylorismo ha generato una serie di prescrizioni analitiche che hanno dato vita alla disciplina dell’ M.T.M. , cioè della Misurazione Tempi e Metodi che, rivista e modificata, ha avuto una vasta diffusione nella cultura industriale americana ed europea: 1. selezione di lavoratori un gruppo sperimentale particolarmente abili nel di 10-15 lavoro da analizzare; 2. scomposizione rapporto ai e analisi tempi di dei singoli esecuzione, movimenti posizione in fisica, forma, peso e frequenza d’uso degli attrezzi; 3. correzione ed eliminazione dei movimenti “falsi, inutili e pigri”, ossia che non presentano requisiti di razionalità rispetto allo scopo per cui sono eseguiti; 4. ricomposizione del comportamento lavorativo in base al montaggio dei singoli movimenti risultati più razionali; 5. standardizzazione degli utensili e delle attrezzature in base ai rapporti ottimali tra peso, forma, frequenza e pratica”; e, sulla strada dello stacanovismo, i diagrammi di Gantt venivano usati nella pianificazione quinquennale. 17 Taylor (1952). 16 modalità di uso, caratteristiche fisico-chimiche del materiale lavorato; 6. fissazione di un tempo teorico di lavorazione in base alla somma dei tempi registrati per i singoli movimenti; 7. addestramento del gruppo sperimentale dei lavoratori all’esecuzione del compito affidato secondo la nuova procedura; 8. osservazione sistematica dei tempi effettivamente impiegati, avendo cura delle necessità fisiologiche, delle pause per riposare, di eventuali inconvenienti; 9. calcolo dei coefficienti di correzione del tempo teorico in modo da aumentarlo di una percentuale sufficiente a far fronte a tutte le pause e inconvenienti prevedibili. Disciplina analitica e rigorosa dei tempi, dei corpi e dei loro gesti: è questa la parte più nota e, come ricorda Bonazzi 18, “più famigerata” del taylorismo, che confluisce nella dottrina e nella prassi del task management : ogni giorno dev’essere stabilito un determinato ammontare di lavoro, che gli operai dovranno eseguire senza apportarvi diminuzioni né aumenti, ottenendo così - secondo Taylor un lavoro standardizzato e 17 uniforme con una resa prevedibile e con un rendimento doppio e, talvolta, triplo rispetto a quello ottenuto con “i vecchi sistemi”. Con l’avvertenza che il ritmo ottimale di lavoro è quello per cui un lavoratore al termine della giornata sente il bisogno piacevole di riposarsi senza sentirsi spossato; inoltre, con l’obiettivo che possa mantenere quel ritmo a lungo negli anni senza logorarsi. Tuttavia, come sottolinea Bonazzi 19, è opportuno distinguere due livelli nel discorso tayloriano: il primo riguarda il campo delle applicazioni estreme del task management , che Taylor sperimenta soprattutto sul lavoro di manovali addetti al carico e allo scarico di materiali pesanti. E’ in questa categoria che rientrano gli “uomini bue”: manovali fortissimi, ignoranti e stupidi, incapaci di intendere nessun altro ragionamento se non quello dell’immediato aumento della paga giornaliera, ma docilissimi nel sottoporsi a ogni esperimento su quanti quintali di ghisa o di mattoni un uomo può “scientificamente” trasportare in una giornata. E Taylor mostra di muoversi a suo agio proprio con questa categoria di lavoratori, di cui descrive con prolissità come 18 19 Bonazzi (1997, p. 41). Bonazzi (1997, pp. 42ss.). 18 si debba insegnare loro a muoversi, riposarsi, camminare, usare gli attrezzi. Vi è poi un secondo livello del discorso, che riguarda l’applicabilità generale della metodologia a qualunque lavoro manuale: la vastità e la complessità dei lavori obbliga Taylor a prescrizioni più caute di quelle date per i lavori più elementari. In sostanza, egli si limita a raccomandare che ogni operaio compia quotidianamente un lavoro che è stato programmato con almeno un giorno di anticipo e per il cui svolgimento riceva istruzioni scritte dettagliate che precisano i particolari concernenti il lavoro assegnato e gli attrezzi necessari per l’esecuzione. Dunque, rigida separazione tra progettazione ed esecuzione del lavoro che, negli anni, ispirerà tutti i processi di “taylorizzazione” e in molte organizzazioni sarà estesa per cercare di disciplinare ogni forma di lavoro esecutivo, con riferimento sia alle “operazioni del corpo” che a quelle dello “spirito” 20. 20 Peraltro, come ricordano Novara e Sarchielli (1996, pp. 48ss.), nel tardo ‘800 si ritrovavano acuiti vecchi problemi del lavoro umano: quelli originati, nei tempi remoti che preparavano l’industrializzazione, dalla divisione del lavoro. Già nel ‘600 se ne era occupato William Petty, convinto che lo sviluppo della produttività dovesse risultare dall’effetto congiunto della specializzazione dei compiti e della concentrazione della popolazione. Nel ‘700, poi, Adam Smith nella sua Inquiry del 1776 sosteneva, tra l’altro, che la divisione del lavoro, nella misura in cui può essere introdotta, determina in ogni mestiere un aumento proporzionale delle capacità produttive complessivamente considerate in quanto, riducendo l’attività di ogni uomo ad una sola semplice operazione e facendo di quest’operazione l’unica occupazione della sua vita, non può che accrescere di molto la destrezza dell’operaio. Smith, tuttavia, era consapevole che la 19 4. La disciplina dei corpi Seconda metà dell’800: l’operaio è diventato qualcosa che si fabbrica attraverso la disciplina analitica e rigorosa dei tempi di lavoro, dei corpi e dei loro gesti 21 . standardizzazione e il conseguente impoverimento delle mansioni lavorative comportano un progressivo depauperamento dell’intelligenza e dell’inventiva individuale. Nel primo ‘800 Charles Babbage apportava allo studio della divisione del lavoro un’attenzione tecnologica nuova, rivolta ai vantaggi legati al miglioramento dei metodi e dell’uso degli strumenti, ai risparmi nello spreco dei materiali; inoltre, sottolineava che il principio della divisione del lavoro può applicarsi con egual vantaggio alle operazioni dello spirito come a quelle del corpo, portando come esempio la specializzazione delle attività di amministrazione delle miniere. Contemporanea a quella di Babbage è l’attività di Andrew Ure che, in The Philosophy of Manufactures del 1835, introduce il concetto di factory system ove la meccanizzazione è ormai evoluta ed una forza motrice centrale (la macchina a vapore) mette in moto una serie di macchine collegate che richiedono ai lavoratori – “adulti e fanciaulli” – un addestramento per operare coordinatamente e diligentemente secondo le regole precostituite in sede di elaborazione del processo produttivo, che costiuiscono il “codice della disciplina di fabbrica”. Se per Ure – come per molti altri suoi predecessori e contemporanei – l’integrazione con la macchina e la specializzazione dei lavoratori è particolarmente utile in quanto il lavoro fisico è alleggerito e le operazioni sono rese più agevoli e razionali, non mancano una serie di voci perplesse e contrarie. Si pensi alle considerazioni di Tocqueville: “L’uomo si avvilisce a misura che l’operaio si specializza (…). Persino il corpo avrà contratto abitudini fisse che non perderà più; in una parola, egli non appartiene più a se stesso ma al mestiere che si è scelto”. Marx, a sua volta, sottolinea la fastidiosa uniformità di un lavoro senza fine, generata da un lavoro meccanico sempre uguale che, “nello stesso tempo che sovreccita all’estremo limite il sistema nervoso, impedisce il movimento variato dei muscoli e comprime qualsiasi libera attività del corpo e dello spirito”. Tuttavia, può essere opportuno sottolineare – con Bonazzi (1997, p. 43) – che i processi di separazione tra progettazione ed esecuzione non provocarono soltanto dequalificazione assoluta e indifferenziata del lavoro operaio, ma favorirono piuttosto la formazione di una larga fascia di addetti-macchine, cioè operai semiqualificati (semiskilled) capaci di alimentare le macchine, controllarle, metterle in moto ed arrestarle. Questa fascia di operai fu il risultato di due movimenti contrapposti: il primo di dequalificazione degli operai di mestiere ed il secondo di parziale qualificazione di manovalanza semplice. 21 Sulla disciplina dei corpi, dei gesti e dei tempi, e, quindi, sul potere disciplinare come “anatomia del dettaglio” tesa a ridurre le potenzialità del corpo (e del soggetto) come “forza politica” ed a massimizzarla invece come “forza utile” cfr. Foucault (1976, pp. 148ss. e 1969). La fabbricazione dell’operaio segue quella del soldato, che Foucault (1976, p. 147) situa nella seconda metà del ‘700: nell’ordinanza francese del 20 marzo 1764 scompare il soldato come figura che si riconosce da lontano, in quanto porta dei segni naturali di vigore e coraggio che lo rendono, appunto, riconoscibile soprattutto in ragione di un corpo inteso quale “blasone della sua forza e del suo ardimento” (testa diritta, stomaco alto, spalle larghe, braccia lunghe, dita 20 L’organizzazione scientifica del lavoro, in coerenza con la metafora fondante dell’organizzazione come macchina, implica la scissione del movimento umano in operazioni elementari la cui sequenza dovrebbe consentire risparmi di forze e di tempi: il corpo diviene oggetto di un saperepotere che si estrinseca in procedure di organizzazione del lavoro tese ad aumentare l’efficienza degli individui ed a trasformarne la forza in un valore economico (da addestrare, finalizzare, retribuire e capitalizzare). Lo stesso Taylor era consapevole che, quanto meno come “prima impressione”, l’organizzazione scientifica del lavoro tendeva a generare “un semplice automa, l’uomo meccanico” 22. L’uomo prodotto da quello che Foucault definisce “l’umanesimo moderno” è l’ingranaggio di una forti, ventre piccolo…). Al suo posto, compare il soldato come qualcosa che si fabbrica: “Da una pasta informe, da un corpo inetto si è creata la macchina di cui si ha bisogno; sono state a poco a poco raddrizzate le posture; lentamente, una costrizione calcolata percorre ogni parte del corpo, se ne impadronisce, dà forma all’insieme, lo rende perpetuamente disponibile e si prolunga silenziosamente nell’automatismo delle abitudini; in breve, ‘il contadino è stato cacciato’ e gli è stata data ‘l’aria del soldato’. Si abituano le reclute ‘a portare la testa alta e diritta; a tenersi ritti senza curvare la schiena, a far avanzare il ventre, a far risaltare il petto e rientrare la schiena (… ). Si insegnerà loro parimenti a non fissare mai gli occhi a terra, ma a squadrare arditamente quelli davanti a cui passano”. Per una sintesi generale del discorso foucaltiano sul potere disciplinare cfr. Catucci (2000, pp. 98ss.). 22 Per un verso, come si è accennato nella nota 20, il nuovo sistema favoriva l’omogeneizzazione della manodopera nella categoria intermedia dei semiqualificati; per un altro verso, però, questa omogeneizzazione poteva facilmente divenire la base sociale di proteste collettive. Questo pericolo indusse Taylor a sottolineare l’importanza di lavori individuali e non di gruppo, nonché di paghe personalizzate il cui ammontare doveva essere calcolato tenendo conto di una pluralità di indicatori del valore monetario del lavoro svolto. In molti casi, si crearono addirittura carriere professionali artificiose con il solo scopo di differenziare la manodopera. In proposito cfr. Bonazzi (1987, p. 44) e Stone (1974). 21 macchina sociale e industriale “multisegmentaria”, che fa del corpo il suo principio di funzionamento e il suo principale organo di trasmissione: il corpo “che si manipola, che si allena, che obbedisce, che risponde, che diviene abile o le cui forze si moltiplicano” aumentarne la produttività e, quindi, l’efficacia sociale per 23 . “La disciplina” – ha scritto Foucault – “fabbrica così corpi sottomessi ed esercitati, corpi ‘docili’” 24. Molti dei procedimenti con i quali operano le discipline esistevano già da lungo tempo ed erano messi in pratica negli eserciti, nei conventi, nel lavoro artigianale, nei luoghi di cura o di studio, ma solo nel corso del XVII e del XVIII secolo le discipline dominazione” per pratiche diventano “formule generali di poi, con il XIX secolo, fondare le organizzative generate dalla rivoluzione industriale rispondendo alla “nuova esigenza” del tempo: costruire una “macchina il cui effetto sarà massimizzato 23 Foucault (1976, pp. 180 e 148): “Il grande libro dell’Uomo-macchina venne scritto simultaneamente su due registri: quello anatomo-metafisico, di cui Descartes aveva scritto le prime pagine e che medici e filosofi continuarono; quello tecnico-politico, costituito da tutto un insieme di regolamenti militari, scolastici, ospedalieri e da processi empirici e ponderati per controllare o correggere le operazioni del corpo. Due registri ben distinti poiché si trattava da una parte di sottomissione e utilizzazione, dall’altra di funzionamento e spiegazione: corpo utile, corpo intellegibile. E tuttavia, tra l’uno e l’altro, dei punti d’incrocio. L’Uomo-macchina di La Mettrie è insieme una riduzione materialistica dell’anima e una teoria generale dell’addestramento e al loro centro regna una nozione di ‘docilità’ che congiunge al corpo analizzabile il corpo manipolabile. E’ docile un corpo che può essere sottomesso, che può essere utilizzato, che può essere trasformato e perfezionato”. 24 Foucault (1976, p. 150). 22 dall’articolazione concertata delle parti elementari di cui è composta” per ottenere un apparato efficace 25. I dispositivi (foucaltiano) disciplinari, come che oggetto e costituiscono strumento del l’uomo potere- sapere, si concentrano intorno a un processo che tende alla standardizzazione ed alla “normalizzazione” attraverso forme di controllo intenso e continuo dei tempi e della rapidità di esecuzione delle operazioni lavorative, degli spazi e dei corpi, dei movimenti e dei gesti, delle attitudini, dei comportamenti e delle sequenze di attività: appare, attraverso le discipline, il “potere della Norma”, il normale come dell’organizzazione, industriali 26. Prima istanza dei di di regolamentazione procedimenti tutto, e quindi, dei prodotti una “nuova” microfisica del potere e un “potere infinitesimale sul corpo attivo”, controllo attraverso minuzioso delle metodi che operazioni 25 permettono del corpo, il che Foucault (1976, pp. 179 e 149): “Non è sicuramente la prima volta che il corpo è oggetto di investimenti così imperiosi e pressanti; in ogni società il corpo viene preso all’interno di poteri molto rigidi, che gli impongono costrizioni, divieti od obblighi. Molte cose, tuttavia, sono nuove in queste tecniche”. In generale, cfr. Remotti (1993) e Galimberti (1991 e 1999, pp. 116ss.). 26 Foucault (1976, p. 201): il potere della norma come “nuova legge della società moderna? Diciamo piuttosto che, dal secolo XVIII, esso è venuto ad aggiungersi ad altri poteri costringendoli a nuove delimitazioni; quello della Legge, quello della Parola e del Testo, quello della Tradizione. Il Normale si instaura come principio di coercizione nell’insegnamento, con l’introduzione di un’educazione standardizzata (…); si instaura nello sforzo di organizzare un corpo medico e un inquadramento ospedaliero nazionale, suscettibile di far funzionare norme generali di sanità; si instaura nella regolamentazione dei procedimenti e dei prodotti industriali. 23 “assicurano l’assoggettamento costante delle sue forze ed impongono loro un rapporto di docilità-utilità”: il potere disciplinare, sostiene Foucault, “è un potere che, in luogo di sottrarre e prevalere, ha come funzione principale quella di ‘addestrare’ o, piuttosto, di addestrare per meglio prelevare e sottrarre di più”. Non incatena le forze per ridurle, ma “cerca di legarle” facendo in modo di “moltiplicarle e utilizzarle” 27. Come la sorveglianza - ed insieme ad essa - la normalizzazione diviene uno dei grandi strumenti di potere”. 24 5. Addestramento e disciplina dell’uomo-macchina “Martin si rallegrò della precisione acquistata quasi automaticamente e fondata sull’osservazione di sintomi quasi imponderabili. Ma non aveva molto tempo per riflettere e rallegrarsi; tutto il suo io cosciente era applicato al compito; il suo cervello e il suo corpo, incessantemente attivi, erano ormai una macchina intelligente nella quale i problemi insondabili dell’universo non trovavano più adito né posto”: è il 1909, il protagonista è l’ormai celebre Martin Eden del romanzo di Jack London 28 . L’orizzonte di senso entro cui si muove Martin è quello dell’organizzazione scientifica del lavoro e, quindi, del meccanicismo e dell’uomo-macchina. In coerenza con il modello concettuale della macchina, nel taylorismo il movimento umano è scisso in operazioni elementari non ulteriormente divisibili, di cui è postulata l’interdipendenza reciproca: la complessità del processo lavorativo viene dominata suddividendo le funzioni e le competenze (e, quindi, le responsabilità) dei vari soggetti che vi partecipano, in modo che il risultato complessivo 27 28 Foucault (1976, pp. 148ss. e 201ss.). In proposito cfr. Varanini (2000, p. 87ss.). 25 finale possa essere raggiunto mediante la somma dei contributi parziali (e parcellizzati, quindi alienanti rispetto all’esito del lavoro) di tutti coloro che partecipano al ciclo produttivo. Gli operai devono osservare il mansionario ed eseguire le prescrizioni (definite dagli specialisti di produzione) senza pensare: il ritmo di lavoro e le quantità di produzione da effettuare giornalmente, peraltro, sono definiti e saggiati anche attraverso l’opera degli operaiallenatori. Considerando il livello impiegatizio e direzionale, poi, Taylor propone una rigida distinzione tra programmazione, esecuzione e controllo delle attività, assegnando ai quadri intermedi la routine esecutiva e lasciando liberi i dirigenti di trattare i casi eccezionali e le deviazioni dalla standardizzazione norma 29. e La rigorosa parcellizzazione 29 pianificazione, dei compiti Come ricorda Bonazzi (1997, pp. 48ss.), le prescrizioni di Taylor non si fermano all’officina. In tutta l’organizzazione il passaggio delle informazioni ai livelli superiori, e quindi anche le richieste di intervento, devono essere regolate secondo il cosiddetto “principio di eccezione”. Con questo principio Taylor estende ai livelli direttivi lo stesso criterio di eliminazione dei tempi morti e superflui che ispira la riorganizzazione delle mansioni esecutive. In una organizzazione tradizionale, egli osserva, è un fatto tutt’altro che insolito, per quanto sconsolante, vedere il direttore con la scrivania inondata da una marea di lettere e di rapporti su ognuno dei quali egli ritiene di dover apporre la propria firma e, con ciò, crede di essere in stretto contatto con l’intera azienda. Senonché questo è un’impresa faticosa e fallimentare. Per essere all’altezza dei suoi compiti, invece, un dirigente deve adottare un metodo opposto che è, appunto, quello suggerito dal principio di eccezione: in base ad esso, il direttore riceve soltanto dei rapporti riassuntivi che, prima di arrivare alla sua attenzione, sono attentamente esaminati da un assistente il quale metterà in evidenza tutte le eccezioni, ossia le deviazioni rispetto alla normalità. 26 dovrebbero contribuire, in modo decisivo, a porre fine al soggettivismo, all’empiria, alla casualità e al caos che troppo spesso, secondo Taylor, caratterizzano i contesti lavorativi. Addestramento mirato, dunque, nonchè rispetto scrupoloso degli ordini ricevuti fin nei minimi dettagli, all’interno di un ciclo produttivo dove l’integrazione tra uomini e macchine contribuisce al consolidamento del paradigma scientific meccanicistico management , dell’uomo-macchina: infatti, ogni per lo organizzazione lavorativa dovrebbe essere posta sotto il controllo di ingegneri in grado di progettare e gestire con efficienza meccanica 30. 30 Il meccanicismo rappresenta, come noto, uno dei paradigmi portanti nella storia della filosofia, della scienza e delle organizzazioni. Con riferimento a quest’ultimo ambito, si può ricordare che l’autore dell’Homme machine, La Mettrie, ebbe un ruolo importante nella corte di Federico il Grande di Prussia il quale, affascinato dai giocattoli automatici (in particolare dagli uomini meccanici), nella seconda metà del ‘700 cercò di rendere il suo esercito uno strumento affidabile ed efficiente attraverso la standardizzazione delle procedure e il disciplinamento dei soldati: attraverso l’introduzione dei gradi e delle uniformi, l’uso esteso di una normativa standardizzata, una marcata specializzazione dei compiti, l’utilizzo di un equipaggiamento standardizzato, la creazione di un linguaggio apposito per il comando nonché l’addestramento sistematico (sia all’uso delle armi che, più in generale, alla vita militare), Federico cercò di “ridurre i soldati a degli automi che obbedissero ciecamente ai comandi e alle istruzioni” (cfr. Morgan, 1998, pp. 417-418). Come ricorda Morgan (1998, pp. 28-29 e 417ss.), l’obiettivo di Federico era quello di rendere l’esercito un meccanismo efficiente che funzionasse avvalendosi di componenti standardizzate: le procedure di addestramento permettevano di creare queste componenti praticamente a partire dal materiale grezzo dei soggetti componenti la truppa (criminali, poveri, mercenari stranieri, coscritti riottosi). Per poter garantire l’efficienza bellica, gli uomini dovevavo imparare a temere i propri ufficiali più del nemico; inoltre, l’efficienza della macchina militare era garantita dalla separazione delle funzioni di comando da quelle consultive, attraverso l’enucleazione di specialisti con funzione di consiglieri (staff) dalla catena gerarchica ed assegnando a questi consiglieri la funzione di pianificare le operazioni. Con il tempo, poi, altri 27 In altri termini, ogni organizzazione dovrebbe essere rigorosamente disciplinata. E disciplinare, come si è detto, significa far crescere e moltiplicare le forze e le risorse a partire dalla strutturazione degli spazi e dalla ripartizione degli uomini nei luoghi di lavoro od in quelli di educazione, punizione, cura o preghiera. La disciplina, ricorda Foucault, talvolta esige la “clausura”, ovvero la specificazione di un luogo eterogeneo rispetto agli altri spazi e chiuso su se stesso come (furono e, a volte, ancora sono) i conventi, le caserme, le scuole, gli ospedali, gli opifici, le officine ed i laboratori. Tuttavia, la clausura non è un principio costante o indispensabile, né sufficiente negli apparati disciplinari: questi, infatti, configurano “lo spazio in maniera assai più duttile e sottile” e, prima di tutto, secondo il principio della localizzazione elementare che si articola in una serie di regole le più importanti delle quali richiedono che ad ogni individuo venga assegnato il suo posto e che in ogni miglioramenti organizzativi portarono a decentrare le attività di controllo in modo tale da creare una maggiore autonomia delle varie componenti dell’esercito nelle diverse situazioni belliche. Molte delle idee e dei metodi di Federico il Grande risultarono particolarmente utili per risolvere i problemi determinati dall’incremento delle dimensioni delle fabbriche e furono, progressivamente, adottati nel corso del secolo XIX dagli imprenditori che erano alla ricerca di forme organizzative adatte alla tecnologia delle macchine e la concezione federiciana di un esercito meccanizzato divenne sempre più una realtà, sia negli ambienti di fabbrica che in quelli burocratici. In proposito, si può ricordare che uno dei discepoli di Taylor, Henry Gantt, portò poi all’estremo la concezione meccanicistica proponendo addirittura un’organizzazione chiamata “la nuova macchina”. 28 posto disponibile sia presente un individuo, che si evitino le “distribuzioni a gruppi” e che si analizzino le strutture collettive scomponendo le pluralità confuse, massive o sfuggenti. In altri termini, lo spazio disciplinare tende a dividersi in altrettante particelle quanti sono i corpi o gli elementi da ripartire, in quanto “si tratta di stabilire le presenze e le assenze, di sapere come e dove ritrovare gli individui, di instaurare le comunicazioni utili, d’interrompere le altre, di potere in ogni istante sorvegliare la condotta di ciascuno, apprezzarla, sanzionarla, misurare le qualità od i meriti. E ancora, nelle istituzioni disciplinari emerge la regola e la tecnica delle ubicazioni funzionali e, quindi, la pratica della rigorosa suddivisione degli spazi e degli oggetti in essi contenuti per specifiche destinazioni d’uso: ad esempio, gli ambulatori medici ospedalieri per la sorveglianza delle malattie e dei contagi che prevedono letti con attaccato il nome del paziente, cartelle cliniche individuali, armadi chiusi per i medicamenti e altri mobili dedicati alla raccolta dei documenti per registrare l’utilizzo dei medicinali ed i controlli sui pazienti. 29 In particolare, nelle officine che appaiono alla fine del ‘700 e si sviluppano nel corso dell’800 per divenire poi, soprattutto con il ‘900, vere e proprie fabbriche, il principio della suddivisione spaziale individualizzante si complica in quanto si tratta di “distribuire gli individui in uno spazio dove si possa individuarli e reperirli, ma anche di articolare questa distribuzione su un apparato di produzione che ha esigenze proprie”. Di conseguenza, scrive Foucault, la produzione si divide ed il processo di lavoro si articola da una parte “secondo le sue fasi, i suoi stadi o le sue operazioni elementari e dall’altra secondo gli individui che le effettuano, i corpi singoli che vi si applicano: ogni prontezza, abilità, quindi variabile di costanza caratterizzato, questa – forza può – essere apprezzato, vigore, osservato, contabilizzato e rapportato a colui che ne è l’agente particolare” 31. Le discipline scompongono contempo e che ricompongono anche capitalizzare analizzano il come le spazio, attività, meccanismi tempo. lo Le per che operano al addizionare e discipline, infatti, contribuiscono alla codificazione e al consolidamento di un tempo lineare - “evolutivo” - i cui momenti 31 Foucault (1976, pp. 156ss.). Sullo spazio organizzativo cfr. la sintesi di Biggiero (1997, pp. 113ss.). 30 si integrano gli uni agli altri e si orientano verso un punto terminale e stabile. L’impiego del tempo (occidentale) è una vecchia eredità ricevuta dalle comunità monastiche: i suoi tre “grandi procedimenti” - “stabilire delle scansioni, costringere a determinate operazioni, regolare il ciclo di ripetizione” si sono ben presto ritrovati nei collegi, negli ospedali, nei laboratori e nelle fabbriche, dove il rigore del “tempo industriale” religioso. ha mantenuto Inoltre, come a lungo ricorda un Foucault, andamento in questi contesti si cerca anche di “assicurare la qualità del tempo impiegato: controllo ininterrotto, pressione dei sorveglianti, annullamento di tutto ciò che può disturbare o distrarre” al fine di “costituire un tempo integralmente utile”, senza impurità e difetti, “un tempo di buona qualità, lungo il quale il corpo resta applicato al suo esercizio” lavorativo. In definitiva, l’obiettivo (disciplinare) è “estrarre dal tempo sempre più istanti disponibili e da ogni istante sempre più forze utili” 32. 32 Foucault (1976, pp. 162ss.). Sul tempo nelle organizzazioni lavorative cfr. Pero (1997, pp. 134ss.). 31 6. La sorveglianza gerarchizzata Il successo del potere disciplinare deriva dall’uso di strumenti semplici: il controllo gerarchico, la sanzione normalizzatrice e la loro combinazione nella procedura dell’esame. L’esame non si limita, peraltro, a “fabbricare” individui utili (in primo luogo operai, poi anche impiegati, specialisti, quadri direttivi e dirigenti, piuttosto che soldati ed ufficiali), ma li coinvolge attivamente nelle modalità di funzionamento del potere stesso, sottoponendoli ad una logica di costi e benefici, di premi e castighi che indica a ognuno la propria convenienza 33. Il controllo gerarchico, a sua volta, nella dimensione disciplinare si connota quale fenomeno che mette in gioco relazioni di reciprocità, seppur asimmetriche, all’interno di un campo di “sguardi calcolati”: grazie alle tecniche di sorveglianza, la microfisica del potere e la “presa sul corpo” si effettuano secondo un “gioco di spazi, di linee, di schermi, di fasci, di gradi e senza ricorrere, almeno in linea di principio, all’eccesso, alla forza, alla violenza” 34. 33 Cfr. Catucci (2000, p. 102), il quale sottolinea che il regime disciplinare comporta la diffusione generalizzata di un principio di sorveglianza che nelle istituzioni più chiuse – prigioni, ospedali, fabbriche, scuole – prende la forma di una funzione specializzata, ma che nel campo aperto della società si traduce in un controllo reciproco dei sorveglianti e dei sorvegliati, cioè in un reticolo di relazioni che non funziona a senso unico, ma si diffonde in tutte le direzioni. 34 Foucault (1976, p. 194). 32 Più in generale, le componenti di base di questo scenario sono “la minuzia dei regolamenti, lo sguardo cavilloso delle ispezioni, il controllo sulle minime particelle della vita e del corpo” che contribuiscono a generare - nell’ambito delle scuole e delle caserme, come delle fabbriche e degli ospedali - la microeconomia disciplinare e la razionalità tecnica che contraddistingue il sapere-potere disciplinare come insieme di tattiche per mezzo delle quali “la forza del corpo viene, con la minima spesa, ridotta come forza ‘politica’ e massimizzata come forza utile” 35. Storicamente, la diffusione dell’organizzazione scientifica del lavoro fu molto favorita dal sensazionale sviluppo dell’industria automobilistica e dal successo 35 Per la genealogia del potere disciplinare cfr. Foucault (2000, pp. 173ss. e, soprattutto, 1976, pp. 186-187, 152-153, 237ss.): “La formazione della società disciplinare rinvia ad un certo numero di vasti processi storici all’interno dei quali essa prende posto: economici, giuridicopolitici, scientifici (…). Le discipline sono tecniche per assicurare la regolamentazione delle molteplicità umane” con una tattica di potere che “risponde a tre criteri: rendere l’esercizio del potere il meno costoso possibile (economicamente, con la spesa modesta che richiede; politicamente, per la sua discrezione, la sua esteriorizzazione limitata, la sua relativa invisibilità, la scarsa resistenza che suscita); fare sì che gli effetti di questo potere sociale siano portati al massimo d’intensità ed estesi quanto più lontano possibile, senza scacchi, né lacune; collegare infine questa crescita ‘economica’ del potere al rendimento degli apparati all’interno dei quali esso si esercita (che siano apparati pedagogici, militari, industriali, medici); in breve far crescere insieme la docilità e l’utilità di tutti gli elementi del sistema. Questo triplice obiettivo delle discipline risponde ad una congiuntura storica ben nota. E’, da una parte, la grande spinta demografica del secolo XVIII (…). L’altro aspetto della congiuntura è la crescita dell’apparato produttivo (…). Se il decollo economico dell’Occidente è cominciato coi processi che hanno permesso l’accumulazione del capitale, possiamo dire che, forse, i metodi per gestire l’accumulazione degli uomini hanno permesso un decollo politico in rapporto a forme di potere 33 incontrato dalla Ford Motor Company e dai suoi “rivoluzionari” metodi di produzione. Attorno al 1910 Henry Ford, infatti, “perfezionava” il taylorismo adottando la catena di montaggio semovente e incorporando nella tecnologia imposto meccanica alla costruttori della manodopera. d’automobili ingaggiavano catena consulenti il Quindi, americani tayloristi ritmo di lavoro numerosi e, poi, perché, altri europei, nella loro qualità di fabbricanti e assemblatori di migliaia di pezzi di precisione, traevano cospicui vantaggi dai sistemi di lavorazione in serie ed a catena 36. Il paradigma meccanicistico in campo organizzativo, dunque, che attorno al 1930 era ormai ampiamente diffuso soprattutto negli Stati Uniti d’America e in Europa, contribuiva a consolidare l’assunto che le organizzazioni dovrebbero essere sistemi razionali che funzionano nella maniera più efficiente possibile impiegando al meglio le risorse economiche, strumentali ed umane di cui tradizionali, rituali, costose, violente, che, ben presto cadute in desuetudine, sono state sostituite da tutta una tecnologia sottile e calcolata dell’assoggettamento”. 36 Il dibattito sulle analogie e sulle differenze tra taylorismo e fordismo è piuttosto ampio: in proposito, cfr. Accornero (1975). Per due prospettive parzialmente contrapposte cfr. Nelson (1999, p. 469), secondo cui Ford si tenne a debita distanza da Taylor e Bonazzi (1997, p. 139) che, invece, sostiene che a livello di fattualità storica il taylorismo può essere considerato come un elemento ricompreso nel più ampio sistema fordista di produzione, anche se a livello teorico taylorismo e fordismo hanno dato luogo a due dibattiti solo marginalmente connessi. In queste pagine l’elemento unificatore delle due prospettive, invece, è considerato il paradigma 34 dispongono. Quindi, organizzazioni volte a massimizzare l’utile ed a ridurre tendenzialmente a zero le diverse forme di dépense , di dispendio e perdita improduttiva di energie lavorative 37 denunciate da Taylor e dai consulenti suoi colleghi. In definitiva, conseguente lavorative, meccanicismo meccanizzazione sviluppatosi perfezionatosi produttive il soprattutto americane ed taylorista delle nel corso nelle grandi europee del con la organizzazioni del tempo e organizzazioni ‘900, consiste essenzialmente nella progettazione di mansionari analitici composti di attività tendenzialmente elementari, riducibili a sequenze di movimenti e comportamenti reiterabili secondo le necessità derivanti dai processi produttivi. meccanicistico che ispira sia le teorizzazioni e le prassi tayloriste che il contesto organizzativo fordista. 37 Per un excursus sulle dinamiche e sulle simbologie della dépense cfr. Bataille (1992, pp. 3ss. e 1991, pp. 27ss.) e il fondamentale saggio di Mauss (1996, pp. 160ss.), nonché Guidieri (1999, pp. 13ss.) e Pulcini (1997, pp. 7ss.). Per Galimberti (1991, pp. 58ss.), “l’economia politica è nata il giorno in cui si è cominciato ad accumulare l’eccedenza della produzione che i primitivi distruggevano nel potlàc per scongiurare quella che essi ritenevano fosse la parte maledetta, ossia quei beni che, sottratti allo scambio simbolico, perdevano la loro ambivalenza per accumulare progressivamente valore. Dallo scambio simbolico si passò così al valore di scambio, dalla distruzione dei beni alla loro sostituzione, che non poteva avvenire se non sottintendendo la nozione di ‘valore’, senza la quale sarebbe stato impossibile paragonare due beni tra loro per poterli scambiare ‘senza perdita’. Nella nozione di valore è quindi implicito il principio platonico dell’unità del molteplice, dell’equivalente generale che sottrae tutte le cose alla loro naturale ambivalenza, per la semplice ragione che ad esse non è più consentito scambiarsi tra loro, ma solo riflettersi in quell’equazione originaria che consente a ciascuna di trovare nell’altra la propria identità e indennità. Nel valore ogni cosa rinnega il suo corpo (…). Le forze del corpo, una volta messe in gioco nel mondo dello scambio, circolano sotto forma di valori di cui sono la sostanza misconosciuta”. 35 Correlativamente, il postulato (positivista) dell’ one best way e la pretesa che per ogni problema esista sempre una ed attraverso una sola soluzione l’adozione di ottimale, adeguati individuabile metodi “scientifici”, contribuiscono alla centralizzazione organizzativa e alla strutturazione gerarchico-piramidale dei rapporti nei contesti lavorativi. Pertanto, da un lato l’aumento di processi lavorativi uniformi, parcellizzati e impersonali e, d’altro lato, lo sviluppo di micro-specialismi professionali a ogni livello (non solo operaio, ma anche impiegatizio e direzionale), rappresentano le conseguenze dirette dello scientific management . La standardizzazione scientifica e la normalizzazione disciplinare, il controllo capillare e diffuso dei tempi, degli spazi, dei movimenti e dei comportamenti lavorativi consolidano le piramidi gerarchiche e, quindi, le relazioni asimmetriche organizzativo controllore-controllato: presuppone la questo formazione di sistema una scala gerarchica nella quale l’esecuzione efficace dei compiti lavorativi – attraverso l’applicazione corretta delle regole e l’adempimento puntuale dei doveri derivanti dalle procedure e routines lavorative – viene continuamente verificata e sanzionata. 36 Il potere “integrati”, disciplinare genera funzionando sistemi come organizzativi “potere multiplo, automatico ed anonimo” in quanto la sorveglianza si attua attraverso una rete di relazioni “dall’alto al basso, ma, anche, fino a un collateralmente”: matrice certo nei disciplinare punto, sistemi dal basso organizzativi (caratteristici del all’alto e evoluti di taylorismo o, anche, dell’attuale post-taylorismo maturo), è la rete delle relazioni, formali e informali, che fa “tenere” l’insieme e lo “attraversa integralmente con effetti di potere che si appoggiano gli uni sugli altri” fino al punto da creare “sorveglianti perpetuamente sorvegliati”. In altri termini, nella prospettiva foucaultiana si può dire che il potere, nella sorveglianza gerarchizzata discipline, non si detiene come una cosa” e delle non si trasferisce come una proprietà: piuttosto, “funziona come un meccanismo” teso a distribuire gli individui in un campo permanente e continuo di relazioni multidirezionali e di “sguardi calcolati” 38. Il potere (disciplinare) è dappertutto in quanto “viene da ogni dove”: raggruppare 38 non tutto perché sotto la Foucault (1976, p. 194) 37 avrebbe sua “il privilegio invincibile unità, di ma perché si produce in ogni istante, in ogni punto, o piuttosto in ogni relazione tra un punto ed un altro”. Il potere, quindi, si esercita a partire da innumerevoli punti e nel “gioco di relazioni diseguali e mobili” finalizzate non solo e non tanto a reprimere, ma soprattutto a produrre 39. 39 Foucault (1993, pp. 81ss.): “Il potere non è un’istituzione e non è una struttura, non è una certa potenza di cui alcuni sarebbero dotati: è il nome che si dà ad una situazione strategica complessa in una società data”. Il potere produce prima di reprimere, soprattutto perché ciò che reprime – le persone – sono già, in larga misura, suoi prodotti: per Foucault (1976, p. 212), infatti, il potere “produce il reale: produce campi di oggetti e rituali di verità. L’individuo e la conoscenza che possiamo assumerne derivano da questa produzione”. Chiarito ciò, l’unica maniera adeguata di intendere il potere è quella di considerarlo non in termini economici o repressivi, ma come lotta, scontro. Il potere, scrive ancora Foucault (1977, p. 175) parafrasando il motto di Clausewitz, “è la guerra continuata con altri mezzi”. Qualche anno dopo, il nostro (1993, pp. 82ss.) approfondisce ulteriormente la riflessione: “Bisogna allora capovolgere la formula e dire che la politica è la guerra continuata con altri mezzi? Forse, se si vuole conservare ancora una differenza fra guerra e politica, si dovrebbe avanzare piuttosto l’ipotesi che questa molteplicità di rapporti di forza può essere codificata – in parte e mai completamente – o nella forma della ‘guerra’ o nella forma della ‘politica’: sarebbero, queste, due strategie diverse (ma pronte a rovesciarsi l’una nell’altra) per integrare questi rapporti di forza squilibrati, eterogenei, instabili, tesi. In questa linea, si potrebbero avanzare un certo numero di proposizioni: che il potere non è qualcosa che si acquista, si strappa o si condivide, qualcosa che si conserva o che si lascia sfuggire; il potere si esercita a partire da innumerevoli punti e nel gioco di relazioni diseguali e mobili; che le relazioni di potere non sono in posizione di esteriorità nei confronti di altri tipi di rapporti (processi economici, rapporti di conoscenza, relazioni sessuali), ma che sono loro immanenti; sono gli effetti immediati delle divisioni, delle ineguaglianze e dei disequilibri che vi si producono, e sono reciprocamente le condizioni interne di queste differenziazioni; le relazioni di potere non sono in posizione di sovrastruttura, con un semplice ruolo di proibizione o di riproduzione; hanno, là dove sono presenti, un ruolo direttamente produttivo; che il potere viene dal basso: cioè che non c’è, all’origine delle relazioni di potere, e come matrice generale, un’opposizione binaria e globale fra i dominanti e i dominati, dualità che si ripercuoterebbe dall’alto in basso e su gruppi sempre più ristretti fin nelle profondità del corpo sociale (…); che le relazioni di potere sono contemporaneamente intenzionali e non soggettive (…); che là dove c’è potere c’è resistenza e che tuttavia, o piuttosto proprio per questo, essa non è mai in posizione di esteriorità rispetto al potere (…). Come la trama delle relazioni di potere finisce per formare uno spesso tessuto che attraversa gli apparati e le istituzioni senza localizzarsi esattamente in essi, così la dispersione dei punti di resistenza attraversa le stratificazioni sociali e le unità individuali”. 38 E le relazioni di potere contribuiscono anche, in modo determinante, a produrre la soggettività: l’individuo, sostiene Foucault, è “una realtà fabbricata da quella tecnologia specifica del potere che si chiama ‘la disciplina’” 40. Il potere foucaultiano non è, dunque, il potere come insieme di apparati e di istituzioni che garantiscono la sottomissione dei cittadini in uno stato determinato o l’obbedienza dei subordinati in una determinata organizzazione produttiva, né un tipo di assoggettamento che in opposizione alla violenza avrebbe la forma della regola, né, infine, un sistema generale di dominio esercitato da un elemento o da un gruppo su un altro. Invece, il potere si identifica con il plesso relazionale e la molteplicità diffusa dei rapporti di forza immanenti ad una determinata società o ad un altro contesto di vita collettiva organizzata. Come sottolinea Fornero (1993, p. 409), la novità di questa teorizzazione (che, secondo alcuni studiosi, rappresenta la parte più interessante dell’opera di Foucault), risulta evidente soprattutto se confrontata con la tradizionale dottrina marxista: a Marx, infatti, Foucault contesta innanzitutto l’impostazione economicistica, ossia l’idea del potere come “sovrastruttura” e la subordinazione delle forze politiche a quelle economiche. Sulle orme di Nietzsche, Foucault sostiene invece il carattere strutturale del potere, concepito come realtà fondante della vita associata (all’interno della quale non è tanto il rapporto di produzione a reggere il potere, ma la forma del potere a consentire il “prelievo dei beni”). In secondo luogo, Foucault contesta a Marx l’impostazione macrofisica, ossia la tendenza a trascurare le relazioni di potere elementari e locali a favore dei grandi rapporti di forza incarnati dalle classi sociali e da quella loro proiezione politica che sarebbe lo stato. Foucault esclude che il potere “dipenda” dallo stato – e quindi dalla classe al potere – e sia localizzato principalmente nei suoi “apparati”: coerentemente con la sua prospettiva microfisica, afferma invece la dipendenza dei macromeccanismi statali dai micro-meccanismi sociali, in quanto lo stato è “sovrastrutturale in rapporto a tutt’una serie di reti di potere che passano attraverso i corpi, la sessualità, la famiglia, gli atteggiamenti, i saperi, le tecniche” (1977, p. 16). In terzo luogo, Foucault critica Marx per la tendenza a pensare in termini di opposizioni globali e binarie (stato-sudditi, dominanti-dominati, borghesia-proletariato) ovvero per il dualismo fra soggetti ed oggetti di potere (con la relativa “drammatizzazione manichea” della storia). Secondo Foucault, invece, nella realtà microfisica del quotidiano non sono possibili grandi partizioni fra dominatori e dominati, poiché ogni individuo o gruppo risulta, simultaneamente, l’uno e l’altro. 40 Foucault (1976, p. 212 e 1998, p. 228). 39 7. Macchine, automi e hamburger Lo scientific management e le forme organizzative che hanno caratterizzato, nel XIX e nel XX secolo, il mondo produttivo industriale e, in parte, anche le pubbliche amministrazioni 41, si sono sviluppate in nome di una Scienza (positivista) piuttosto pretenziosa e imprudente quanto a promesse di efficienza ed efficacia. I modelli tayloristi (o taylor-fordisti), comunque, funzionano quando si è in presenza delle condizioni che tipicamente rendono possibile l’utilizzo delle macchine e dell’automazione: ovvero, quando vi sono compiti molto chiari, quando l’ambiente è sufficientemente stabile da garantire che i risultati prodotti siano adeguati alle condizioni d’effettivo uso e alle aspettative dei soggetti interessati, quando si vuole produrre esattamente lo stesso prodotto più volte, quando la conflittualità interna è bassa e le componenti umane della macchina organizzativa sono “docili” e rispettano i compiti loro assegnati. La catena rappresenta 41 un mondiale esempio dei ristoranti particolarmente In proposito cfr. Peters (1999). 40 McDonald’s rilevante di applicazione (e di successo) dei principi tayloristici: quest’azienda ha meccanicizzato l’organizzazione di tutti i suoi punti vendita nel mondo attraverso la centralizzazione della progettazione dei prodotti e dei servizi aziendali e la decentralizzazione della fase esecutiva, seppur mantenuta sotto uno stretto controllo. La McDonald’s si rivolge ad un mercato di massa analizzato e segmentato con estrema precisione dalle sue strutture di marketing, offrendo un servizio costante e regolare caratterizzato dalla precisione derivante dalla “scienza degli hamburger”: cioè, attraverso percorsi di formazione e, soprattutto, di addestramento aziendale dedicati a tale scienza e grazie ad una manualistica operativa molto analitica e prescrittiva; inoltre, attraverso politiche di reclutamento mirate a fasce non sindacalizzate di lavoratori, spesso individuati tra gli studenti liceali ed universitari in quanto particolarmente disponibili dell’azienda; ad adattarsi e ancora, alla struttura attraverso organizzativa l’elaborazione di documenti interni in cui sono definiti gli standard di qualità e i livelli di efficienza 42. 42 In proposito cfr. Morgan (1998, pp. 42-43) e Ritzer (1997), secondo cui il modello di organizzazione sociale che per Weber toccava la sua forma più compiuta nella burocrazia trova una realizzazione ottimale nel sistema McDonald’s, fondato sull’efficienza, la quantificazione, il calcolo, la prevedibilità, il controllo. Le dimensioni e il peso dell’hamburger sono uguali in tutti i 41 A titolo esemplificativo, può essere utile elencare i principali indicatori che confluiscono nello schema di verifica per controllare il comportamento del personale di banco dei fast-food: 1. Ricevimento del cliente: un sorriso, uno sguardo di saluto, uno sguardo d’intesa. 2. Come si prende l’ordine: il cameriere conosce bene il menu e non lo deve leggere, il cliente non deve ripetere l’ordine, gli ordini piccoli vngono memorizzati e non scritti, il cameriere propone suggerimenti. 3. Come si prepara l’ordine: c’è una precisa sequenza, le bevande ghiaccio, sono si fa servite con scendere la il giusta bicchiere quantità di di plastica spingendo il bottone con il dito, i bicchieri sono riempiti a livello, i bicchieri vengono coperti, il caffè non viene servito subito. 4. Come si serve l’ordine: panino confezionato con cura, incartato due volte, vassoi di plastica per il consumo paesi del mondo, la confezione è uniforme, le modalità di consumo sono preordinate, il prezzo viene usato dagli economisti per comparare il costo della vita a livello internazionale. Altri ambiti organizzativi che possono usare con successo modelli meccanicistici possono essere i reparti ospedalieri di chirurgia, le officine di manutenzione delle compagnie aeree così come tutta una lunga serie di organizzazioni in cui la precisione, la sicurezza e una chiara suddivisione delle responsabilità risultano essere di primaria importanza. I rischi, tuttavia, non possono essere sottaciuti: burocratizzazione e irrigidimento, deresponsabilizzazione rispetto a tutto quanto non espressamente previsto nel mansionario, incapacità di adeguamento al nuovo, conflittualità interna e scarsa integrazione tra livelli gerarchici, tra funzioni, ruoli e strutture. 42 in loco, si utilizza un nastro scorrevole per raccogliere i vassoi, i cibi vengono presentati con cura. 5. Pagamento: la cifra viene detta chiaramente e ad alta voce, l’ammontare ricevuto è dichiarato ad alta voce, il resto viene contato ad alta voce, il resto è contato rapidamente, la carta moneta viene appoggiata sul banco prima di consegnare il resto. 6. Il congedo: si ringrazia sempre, il ringraziamento è “sincero”, c’è uno sguardo di saluto, si invita a ritornare. E’ evidente la dimensione meccanica, quasi automatica, generata dalle organizzazioni che si ispirano al paradigma meccanicista. Al di là delle considerazioni in ordine all’efficienza ed all’efficacia dei processi organizzativi e di business che tali modelli contribuiscono a generare, l’approccio meccanicistico tende a limitare, piuttosto che a favorire, lo sviluppo delle capacità umane, modellando gli esseri umani in modo da renderli adatti ai requisiti propri della macchina organizzativa, invece di tentare un’operazione complessa e difficile: costruire l’organizzazione attorno alle capacità e alle potenzialità degli individui 43. 43 In proposito cfr. Morgan (1998, p. 47): in questo modo, “sia i dipendenti che l’organizzazione finiscono con l’essere svantaggiati da questo fatto. I dipendenti perdono l’opportunità di 43 crescere, spesso passando molte ore al giorno a fare un lavoro che non apprezzano e che non amano, laddove le organizzazioni perdono i possibili contributi creativi che molti dipendenti, 44 CAPITOLO II – ORGANIZZAZIONI POST-MODERNE E SOGGETTI RAPPRESENTATIVI 1. Macchine, organismi, culture, collages e altre metafore Il positivismo scientista ha lasciato il posto, quanto meno nella teoria organizzativa, ad altre epistemologie ed antropologie che contribuiscono a generare metafore e immagini dell’organizzazione lavorativa diverse rispetto alla macchina caratteristica del taylorismo: l’organismo e il sistema biologico, il cervello, la cultura, il sistema politico, lo strumento di potere, la prigione psichica, il racconto, il collage di testi scritti, discorsi, conoscenze contestuali e interpretazioni. La storia recente e, soprattutto, l’attualità del pensiero organizzativo occidentale e della consulenza sono ricche di teorizzazioni e di applicazioni di modelli che rinviano alle metafore appena individuate 44: root metaphors , posti nelle giuste condizioni, potrebbero offrire”. 44 Il testo per eccellenza sulle metafore dell’organizzazione è rappresentato dalle Images di Morgan (1998), a cui si rinvia soprattutto per le ricche note bibliografiche (pp. 415ss.). Un altro testo particolarmente utile per la ricostruzione delle teorie organizzative in prospettiva metaforica è quello di Hatch (1999). Più in generale, per una ricostruzione sistematica della 45 ovvero metafore generative di modi di pensare, vedere e parlare delle organizzazioni, a volte mutuamente incomparabili ed esclusive, che alimentano il pensiero e l’azione organizzativa. Metafore che, in alcuni casi, vantano genitori illustri e parentele altrettanto nobili anche se nessuna è blasonata, gettonata o vituperata quanto quella della macchina. L’immagine della macchina progettata e costruita dai manager, visti come ingegneri organizzativi, per svolgere certi compiti e ottenere specifici scopi, ha dominato non solo l’economia, dell’800 e del all’organizzazione, ma anche ‘900. infatti, molta Gli hanno letteratura approcci goduto e arte meccanicisti (e, sovente, ancora godono) di una “incredibile popolarità”, dovuta sia all’efficienza con cui - ancora oggi - riescono a realizzare certi obiettivi, sia al fatto che sono in grado di rinforzare e supportare modelli forti di potere e di controllo 45. Ancora oggi, come si è detto a proposito di McDonald’s, la macchina è una metafora portante e molto radicata nel lessico e nelle prassi organizzative, anche se le tecnologie microelettroniche e, soprattutto, la digitalizzazione e la storia e della sociologia organizzativa cfr. Bonazzi (1997), Costa e Nacamulli (1996), Clegg, Hardy e Nord (1996). 45 Morgan (1998, p. 47). 46 net-economy 46 degli ultimi tempi contribuiscono al consolidarsi di altre metafore e, quindi, alla progettazione e all’implementazione di diversi modelli organizzativi. Un paradigma con un forte potenziale euristico e ricco di implicazioni operative, presente nella storia del pensiero organizzativo soprattutto dagli anni ’60, è quello dell’organizzazione come organismo o sistema vivente: in base a questa metafora biologica l’organizzazione, come qualunque altro organismo, assorbirebbe dal proprio ambiente le risorse necessarie alla sua sopravvivenza. Invece di l’ambiente conoscenze, fornire cibo e dell’organizzazione forza-lavoro e riparo dalle fornisce capitali intemperie, materie – tutte prime, risorse necessarie ai processi di trasformazione che sostengono l’organizzazione, in modo non dissimile dai processi vitali negli organismi biologici 47. La metafora organica dell’organizzazione è anche associata alle idee del funzionamento e dell’adattamento degli esseri viventi all’interno di un sistema ecologico: non solo le organizzazioni svolgono funzioni essenziali alla propria sopravvivenza, come nel caso degli organismi 46 Sull’economia digitale e il culture change cfr. D’Egidio (2001), De Michelis (2001), Brown e Duguid (2001), Merli (2000), Kalakota e Robinson (2000), Naisbitt (2000), Rifkin (2000), Maldonado (1997). 47 Hatch (1999, p. 55). 47 biologici (digestione, respirazione e circolazione), ma, come tutti gli organismi, devono anche adattarsi al più vasto ambiente da cui dipendono per la loro sopravvivenza. La metafora organica, insomma, si focalizza sui processi organizzativi che garantiscono la sopravvivenza e, pertanto, sul mantenimento degli scambi con l’ambiente in modo che l’organizzazione possa ricevere le materie prime di cui ha bisogno. In questo contesto, il management diviene un elemento interdipendente di un sistema che si adatta all’ambiente. Come sottolinea Hatch, il riconoscimento che esistono diversi tipi di organizzazioni che si sono adattate ad ambienti diversi dovrebbe evidenziare che “non può esistere un unico modo di organizzare (che sia anche il migliore) che possa andare bene per tutte le organizzazioni”: diversi tipi di organizzazioni vivono in ambienti diversi, a cui rispondono in modi diversi 48. La metafora dell’organismo o, meglio, del sistema organico, evidenzia la dipendenza dell’organizzazione dall’ambiente, dalla tecnologia (intesa come processo di trasformazione delle risorse) e dall’adattamento strutturale strategie di sopravvivenza organizzativa. 48 come Le “difficoltà” insite nel paradigma meccanicistico hanno spinto molti teorici e consulenti organizzativi verso il modello organico-sistemico: “Non è più possibile ‘calcolare’ dall’alto e obbligare tutti a eseguire gli ordini del ‘grande stratega’” – scrive ad esempio Senge – il quale sostiene che, guardando al futuro, “le organizzazioni che riusciranno effettivamente ad eccellere saranno quelle che avranno scoperto come utilizzare l’impegno dei singoli e la capacità di apprendere a tutti i loro livelli” 49. La metafora del cervello e la configurazione cibernetica ed olistica delle organizzazioni rappresentano, almeno in parte, uno sviluppo del paradigma sistemico-organicista e, al contempo, un tentativo di risposta alternativa al taylorismo. Come ricorda Morgan, infatti, “le osservazioni di Taylor sollevano un problema interessante: è possibile progettare delle organizzazioni in grado di essere flessibili, elastiche e creative come un cervello?” 50. 48 Hatch (1999, p. 55.). Senge (1992, pp. 4ss.), secondo cui “anche le aziende e le altre imprese umane sono dei sistemi. Esse pure sono legate da tessuti invisibili di azioni interconnesse, che spesso richiedono anni per esercitare completamente i loro effetti reciproci”. L’approccio biologico e, poi, sistemico in senso ampio, peraltro, ha influenzato la teoria dell’organizzazione per lo meno a partire dal XVIII secolo: in proposito, cfr. Mayo (1933), Maslow (1943), Argyris (1957, 1964), McGregor (1960), Herzberg (1959), Blake e Mouton (1964), Bales (1950), Bertalanffy (1950, 1968), Miller (1978), Boulding (1956), Katz e Kahn (1978). 50 Morgan (1998, p. 96). Tra le voci che hanno contribuito all’elaborazione del paradigma si possono ricordare Ashby (1952 e 1960), Wiener (1967), Bateson (1976 e 1984), March e Olsen 49 49 Le strategie d’azione che il pensiero organizzativo degli ultimi tre decenni ha elaborato per rispondere a questa domanda sono molteplici: le più interessanti, soprattutto in una dimensione antropologica, rinviano alla prospettiva simbolico-interpretativa come orizzonte di senso entro cui analizzare le dinamiche organizzative. La dimensione simbolico-interpretativa e la metafora dell’organizzazione come cultura, cioè come insieme di significati creati e mantenuti da individui che vivono in collettività attraverso la condivisione di valori, tradizioni e usanze, può essere particolarmente utile per capire – e, se del caso, gestire – le abitudini e le routines, le storie, le rappresentazioni e i miti, i riti, gli artefatti ed i simboli dell’organizzazione 51. Citando Clifford Geertz, si può dire che “l’uomo è un animale sospeso in una rete di significati che egli stesso ha tessuto” e la cultura è “una di queste reti e la sua analisi, pertanto, non è una (1976). Peraltro, come ha sottolineato criticamente Morin (1983, p. 159), “il tutto non è tutto”: secondo Morin, la teoria dei sistemi ipostatizza il paradigma sistemico (l’olismo, il tutto in quanto più delle parti) così come l’approccio analitico della scienza tradizionale ipostatizzava gli oggetti (in quanto parti isolate ignare del tutto). Per Morin, invece, un metodo è efficace se è in grado di andare oltre il riduzionismo, ma anche oltre l’olismo, connettendo entrambi in un gioco di interrelazioni, in modo tale che nessuno dei due termini sia assorbito dall’altro o riducibile all’altro: così, le parti devono venire sì concepite in funzione del tutto, ma non solo del tutto, bensì anche anche in isolamento. 51 Tra i tanti autori si possono ricordare Schutz (1967), Berger e Luckman (1969), Garfinkel (1983), Hall (1959 e 1960), Sahlins (1972), Weick (1979), Ouchi (1981), Smircich (1983), Pondy (1983), Schein (1985), Mattalucci (1993), Alvesson e Berg (1993), Kets de Vries (2001), Piccardo e Benozzo (1996), Gagliardi (1995). 50 scienza sperimentale in cerca di leggi, ma una scienza interpretativa in cerca di significati” 52. L’approccio simbolico-interpretativo muove dall’assunto che le culture, in quanto reti di significati, sono realtà socialmente costruite: organizzazioni rappresentata e quando società dalle si la tratta realtà condizioni del di non gruppi, è mondo tanto fisico o naturale, ma è piuttosto definita attraverso legami e accordi interpersonali. E le entità socialmente costruite esistono soltanto fino a quando i loro membri pensano che esistono e si comportano di conseguenza. Il paradigma probabilmente, dell’analisi culturale la a sua principale organizzativa volta rappresenta, matrice post-moderna, generativa che procede attraverso il collage di testi scritti, discorsi, conoscenze locali e contestuali, interpretazioni e ricostruzioni “partecipanti” degli stili di vita e dei modi di produzione. Collage che si connota, ad un tempo, quale metafora dell’organizzazione e strumento euristico di comprensione ed azione consulenziale in un mondo denso di significati ma 52 senza “grandi racconti” Geertz (1998). 51 in grado di fondarli e legittimarli – o, eventualmente, di imporli gerarchicamente. Come ha scritto recentemente Geertz, anche nella dimensione organizzativa “ciò di cui abbiamo bisogno sono nuovi modi particolarità, di pensare, individualità, capaci di stranezze, frequentare discontinuità, contrasti e singolarità”, per riuscire a rispondere alla pluralità di “appartenenze e di modi tendono a connotare ogni soggetto 53. 53 Geertz (1999, p. 21). 52 di essere” che 2. La realtà del “come se” Con la secolarizzazione, la razionalizzazione e il disincanto del mondo, la nostra post-modernità si ritrova a fare i conti con l’impossibilità di individuare un ordine sicuro ed univoco della realtà. Con le geometrie fondamenti della non euclidee matematica e, e le dispute soprattutto, sui con la relatività einsteiniana, la fisica quantistica e la scoperta dell'irreversibilità dei processi termodinamici, è svanita la possibilità di concepire le teorie scientifiche come sistemi di proposizioni vere e certe, così come sono scomparse le grandi pretese di predire il futuro tipiche del determinismo meccanicista. L'ambiguità sfuggente del mondo subatomico, le oscurità di una materia sempre più smaterializzata e astratta, così come gli abissi dell'inconscio e della déraison comportano la frammentazione delle immmagini consolidate del mondo e dei suoi abitanti. L’uomo di oggi si ritrova immerso nella realtà dell’ als ob , del come se : consapevole della convenzionalità e dell’assenza di fondamenti assoluti delle scienze e di ogni forma di 53 sapere, come delle scelte politiche o morali e di ogni codice di condotta 54. La realtà ha perso “la chiarezza e la sicurezza” di un tempo 55: il mondo del come se è il luogo del sembra , ove la “totalità dell’essere” non si esaurisce più in manifestazioni che ne sono al contempo il “significantesignificato” e il linguaggio non costituisce più l’ analogon della realtà 56. Linguaggio e mondo si ritrovano irriducibili l’uno all’altro e vivono un rapporto travagliato, a rischio di semiosi illimitata . La categoria portante della “somiglianza” 57 e la semiologia speculare del Rinascimento hanno ceduto il passo agli abissi di non senso del Don Chisciotte: come ha detto Foucault, “le somiglianze e i segni hanno sciolto la loro antica intesa”, le parole “vagano all’avventura” oppure “dormono tra le pagine dei 54 Sulla “interiorizzazione della scienza come indebolimento del soggetto” cfr. Girard (1990, pp. 3ss.); in una prospettiva simile cfr. Barcellona (1987, p. 20): “Il sapere moderno è ipotetico, provvisorio, revisionabile, come il calcolo tecnologico. La verità è potenza della tecnica, potenza degli strumenti, controllo della natura. Ma poiché la tecnica è per definizione negazione di ogni verità definitiva, la civiltà occidentale è destinata all’angoscia più radicale. Più in generale, sulla condizione post-moderna cfr. Lyotard (1998), Touraine (1970), Bell (1973), Hassan (1971). 55 Girard (1983 e 1988), De Andrea (1991, p. 46). 56 Foucault (1969, pp. 113ss. e 223ss.). 57 Cfr. Foucault (1967, p. 31): “Sino alla fine del XVI secolo, la somiglianza ha svolto una parte costruttiva nel sapere della cultura occidentale. E’ essa che ha guidato in gran parte l’esegesi e l’interpretazione dei testi; è essa che ha organizzato il gioco dei simboli, permesso la conoscenza delle cose visibili ed invisibili, regolato l’arte di rappresentarle. Il mondo si avvolgeva su se medesimo: la terra ripeteva il cielo, i volti si contemplavano nelle stelle e l’erba accoglieva nei suoi steli i segreti che servivano all’uomo”. In proposito cfr. anche Baudrillard (1979). 54 libri in mezzo alla polvere”, senza alcuna garanzia che rispecchino fedelmente le cose. E anche Don Chisciotte “vaga all’avventura”, seppur ancora alla ricerca di una mathesis universale pensata come ordinabilità del mondo mediante la classificazione delle identità e delle differenze 58. Ricerca di un ordine universale e acronico, al contempo naturale e morale, che, tuttavia, svanisce nei rivoli e nei gorghi del fiume del tempo: cioè nella storia, intesa quale consapevolezza della finitudine umana e della contestualità di ogni sapere e di ogni agire 59. L’ordine universale si dissolve nel boudoir del Marchese de Sade: “Tutto è in rapporto ai nostri costumi e all’ambiente in cui abitiamo” 60. Descrivere il mondo, dunque, nella realtà del “come se” non vuol dire copiarlo, ma ricostruirne e rappresentarne immagini diverse a seconda dello sguardo (e degli occhiali teorici) con cui lo si coglie. L’aspirazione a vedere le cose dall’esterno - con l’occhio di Dio - non è che un miraggio: 58 Foucault (1967, pp. 31ss. e 62ss.), secondo cui “all’inizio del XVII secolo, nel periodo che a torto o a ragione viene chiamato barocco, il pensiero cessa di muoversi nell’elemento della somiglianza. La similitudine non è più la forma del sapere, ma piuttosto l’occasione dell’errore (…). La verità trova la sua manifestazione e il suo segno nella percezione evidente e distinta. Alle parola spetta ora tradurla, se possono, giacché non hanno più diritto ad esserne lo stampo”. 59 Foucault (1967, pp. 235ss.). 60 De Sade (1986, p. 61). 55 “Dio è morto... Noi lo abbiamo ucciso”, è l’annuncio che risuona nella Gaia scienza di Nietzsche 61. 61 Nietzsche (1984, p. 130); cfr. anche Babich (1996). 56 3. La molteplicità degli orizzonti di senso e il Girard e soggetto rappresentativo C’era una volta un mondo, raccontano Vecchiato, “in cui viaggiavano parole che quasi nessuno metteva in discussione. Anche perché non erano solo parole: erano fatti, realtà da toccare, da vivere, da perseguire... o almeno così sembrava” 62. Ormai, invece, la messa in discussione della “apparenza” è diffusa: è cresciuta, infatti, la capacità di lettura critica della realtà del “come se” che abitiamo e a cui apparteniamo, in quanto figli del disincanto del mondo moderno 63. L’età post-moderna consapevolezza soltanto entro che è tale possiamo l’orizzonte in quanto conoscere specifico e è diffusa ed limitato la operare di una prospettiva particolare, condizionata dal contesto storico e culturale in cui siamo “gettati”: se guardiamo il cielo di notte, vediamo stelle e pianeti; se fossimo vissuti in altre epoche ed in altri luoghi, avremmo probabilmente visto una serie di aperture attraversate dalla luce proveniente da un’altra sfera celeste. Non vi sono “dati” immediati, 62 Girard e Vecchiato (1988, p. 13). Come notano Girard e Vecchiato (1988, p. 9), chi di questa realtà fa un oggetto di ricerca entra, per certi versi sapendolo, in un gioco in cui si costituisce la realtà nel momento in cui si stendono dei resoconti di essa. 63 57 quindi, poiché viviamo sempre all’interno di orizzonti di senso di cui siamo solo in parte consapevoli: i nostri stessi processi percettivi e cognitivi sono condizionati ed orientati dai contesti a cui apparteniamo. Le parole, come le cose, non sono nulla al di fuori del sapere particolare in seno al quale significano 64. La lingua che parliamo, i sistemi concettuali e normativi che condividiamo (o in cui, comunque, siamo immersi) ci trascendono e, al contempo, ci abitano e “ci parlano”, costituendo l’orizzonte e il limite del nostro pensare e del nostro agire. Ogni parola ha “l’aroma” dei contesti nei quali ha trascorso la sua vita 65, dei dialoghi a cui ha partecipato, delle persone che ha frequentato, delle relazioni in cui è stata adoperata e che ha contribuito ad edificare. Facciamo parte di un contesto discorsivo e relazionale che condiziona e contribuisce a dar forma alla nostra stessa identità, per cui possiamo rappresentarci come un romanzo polifonico, abitato da una molteplicità di voci 66. 64 Cfr. ad esempio Nerhot (1994, p. 151), il quale sottolinea che il nostro mondo contemporaneo, stravolto dal positivismo, ha ancora grandi difficoltà ad ammettere una cosa del genere. 65 Bachtin (1997, pp. 101 e 148). 66 Cfr. ad esempio Watzlawick, Beavin e Jackson (1971, p. 21), Dewey e Bentley (1949), Hittleson (1970), Dilthey (1954, pp. 143ss.), Trevi (1986, p. 34), Bateson (1976), Bruner (1992, pp. 15ss. e 104), Brown e Zinkin (1996, p. 87), Harré e Gillett (1996, p. 21), Ricci Bitti e Zani (1983, p. 45), Meo (1991) e Neisser (1981, p. 207). Come ha sostenuto Bateson (1976, p. 58 Figli del disincanto, immersi nella realtà del come se , siamo profondamente coinvolti - come sostiene Girard dal “ problema del capire un mondo che si presenta disancorato dai suoi referenti fondativi e dalla possibilità stessa di una definizione dei fondamenti - vero, bello, giusto - in senso platonico” 67. Consapevole del politeismo dei criteri di verità e dei valori, il soggetto “debole” o – come lo definisce Girard, alludendo alla dimensione teatrale (e goffmaniana) dell’agire quotidiano – rappresentativo si ritrova a vivere in una molteplicità di orizzonti di senso e, quindi, di mondi frammentati e separati che, “a differenza di un tempo, non formano più le tessere di un mosaico simbolicamente e moralmente significativo” 68. I vecchi poli di attrazione costituiti dagli Stati-nazione, dai partiti, dalle professioni, dalle istituzioni e dalle tradizioni storiche perdono quello che Lyotard ha definito come “il loro potere di centralizzazione”: ognuno è “rinviato a sé. E ognuno sa che questo sé è ben poco” 69 e si ritrova - uomo senza qualità - a ripercorrere le 471), “il mondo mentale, la mente, il mondo dell’elaborazione dell’informazione, non è delimitato dall’epidermide”. 67 Girard (1996, p. 28, nota 8). 68 De Andrea (1991, pp. 46-47); cfr. anche Girard (1996, p. 22 e 1990, pp. 8 e 29ss.), Bauman (1996), Vattimo (1983, pp. 17ss.) e Lyotard (1981, p.31). 69 Lyotard (1996, p. 31). 59 Meditazioni del Chisciotte : circostanza” 70 70 Ortega y Gasset (1986, p. 44). 60 “Io sono io e la mia 4. Gli spazi polifonici del soggetto Negli scenari della nostra post-modernità, rispondere alla domanda “chi?” vuol dire raccontare la storia di una vita e richiede un coraggio simile a quello necessario per cominciare un romanzo 71: nessun io , nemmeno “il più ingenuo”, è un’unità monolitica, ma, come nei racconti di Hesse, “un mondo molto vario, un piccolo cielo stellato, un caos di forme, di gradi e situazioni, di eredità e possibilità” 72. La polifonia delle voci che ci abitano (senza quasi mai raggiungere le soglie della coscienza) crea, 71 Cfr. Ricoeur (1986, vol. III, p .375) e Hillman (1984, pp. 69-70), il quale sostiene che ci si deve confrontare con “persone interiori” la cui autonomia può modificare radicalmente e perfino dominare i nostri pensieri e i nostri sentimenti. Secondo Hillman (1983, p. 62), infatti, “più che un campo di forze” ciascuno di noi è “un campo di rapporti personali interni, una sorta di comunità interiore, di organismo politico. La psicodinamica diventa psicodrammatica”. Per un quadro di sintesi sulla narratologia e la costruzione (discorsiva) di sé come un testo cfr. Smorti (1994 e 1997). Come ricorda Bruner (1992, p. 109), soprattutto in ambito psicoanalitico (Spence e Schafer), tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, è comparso il Sé narratore: cioè, un “Sé che narra storie in cui la descrizione del Sé fa parte della storia” (novità dovuta alla teoria della letteratura e alle nuove teorie della cognizione narrativa). Questa svolta, come sottolinea Casonato (1994, p. 21), convergeva con i contributi di Bruner, Lakoff e Johnson che, insieme agli sviluppi della psicologia cognitivista, rompevano definitivamente con la tradizione comportamentale, riscoprendo il background pragmatista della psicologia americana. Al contempo, anche il pensiero sistemico che stava sviluppandosi rigogliosamente mostrava una forte attenzione alle narrazioni, in quanto – come diceva Bateson – gli esseri umani pensano per storie. 72 Hesse (1978, p. XXV), citato anche da Demetrio (1995, p. 30). In questa prospettiva, come ricorda Tagliagambe (1998, p. 106), ciò che definiamo io appare come qualcosa la cui natura può essere correttamente percepita e intesa solo se non viene considerato come un “sistema chiuso” e a sé stante, da indagare unicamente nei suoi nessi e nei suoi legami interni, bensì come un insieme complesso, la cui genesi va intesa come autocostruzione nel quadro delle esperienze di relazione, esito di un continuo lavoro di “assemblaggio”, mediante il quale pezzi di storia vissuta, selezionati e prescelti, vengono riutilizzati per costruire l’organizzazione psichica e la “narrazione personale”, le strategie di base, che guidano la visione di sé e il comportamento. 61 quindi, uno “spazio poetico e letterario” dentro di noi, che ci apre “alla molteplicità e al probabile” 73. L’identità del “chi?” è un fluire di racconti e di rappresentazioni: un’identità narrativa alla ricerca di una sintesi, seppur mutevole ed a volte imprevedibile - così come le nostre parole, che a volte sorprendono noi stessi e ci “insegnano” il nostro pensiero 74. “Chi si racconta?” Ancora una volta, dice Ricoeur, “la domanda chi? apre la via ad una ipotesi più che ad una ipostasi”. L’ idem , cioè il medesimo sempre identico, cede all’ ipse , mutevole nel tempo, che si ritrova rispecchiandosi negli occhi dell’altro: “L’altro cui debbo la risposta nel mantenermi lo stesso, l’altro da cui dipendo perché mi costituisce, l’altro dunque in me come il mio mondo, il mio partner, la tradizione che mi accoglie”, il contesto in cui sono radicato 75. 73 Demetrio (1995, pp. 17 e 20). Per una presa di posizione forte sulla poesia come forma alta di conoscenza, superiore al pensiero scientifico ed alla filosofia, cfr. Bachelard (1993). Sulla parola poetica come mezzo che conduce nell’ovunque dell’interrogazione e dell’esistenza cfr. Capello, De Stefani e Zucca (1997), Capello e D’Ambrosio (1993). 74 Cfr. ad es. Nerhot (1994, p. 178), che ripercorre in parte i sentieri del post-strutturalismo francese e quelli decostruzionisti di Derrida. 75 Ricoeur (1993, p. 55). In proposito cfr. Montani (1996, p. 161), secondo cui il concetto di identità narrativa in Ricoeur “si sottrae alla classica antinomia tra un soggetto inteso come un ‘medesimo’ (un idem) e un soggetto inteso come pura illusione sostanzialista (un fascio di emozioni, saperi e volizioni in equilibrio instabile) lasciando apparire il profilo di una identità ‘compresa nel senso di un se stesso (ipse)’, cioè di una figura processuale che può ‘includere il cambiamento e la mutabilità’. Una tale ipseità, com’è evidente, designa un soggetto che non finisce di ricostituirsi nel rifigurare la propria vita, cioè nel comprenderla sempre di nuovo come ‘un tessuto di storie raccontate’”. 62 Come dicono Harré e Gillett, cercare di comprendere una persona significa conoscere il modo in cui costruisce “il suo mondo e se stessa, come stanno le cose dal suo punto di vista, che esperienza fa di questo mondo, come lo valuta e lo giudica, anche attraverso le sue emozioni” senza dimenticare che le persone abitano molti contesti e molti discorsi differenti, non necessariamente in accordo tra loro 76. Se risultante di si un guarda all’identità processo personale interpersonale di come (mutuo) riconoscimento, delimitazione e collocazione sociale, la si può concepire sotto forma di narrazione autobiografica più o meno variabile, polifonica e discontinua nel tempo in funzione del contesto e degli atteggiamenti degli altri: siamo e diventiamo la mutevole narrazione che raccontiamo, a noi e agli altri, con le nostre parole e le nostre azioni. “Chi siamo noi, chi è ciascuno di noi se non una combinatoria d’esperienze, d’informazioni, d’immaginazioni?” 77. Siamo i desideri, sogni, bisogni i nostri nostri ricordi e di e letture, i nostri progetti, siamo l’immagine che il mondo restituisce di noi e il significato che attribuiamo alle nostre condotte: la nostra identità è 76 77 Cfr. Harré e Gillett (1996, pp. 255 e 25ss.). Calvino (1992, p. 120). 63 una storia risultante “dall’intreccio di mille storie”, per cui si può dire che siamo (anche) il racconto del nostro presente e del nostro passato - che è il presente della memoria 78. Chi siamo e chi siamo stati, comunque, sono sogni differenti, poiché nulla, se non l’istante, ci riconosce 79. Conoscere se stessi vuol dire continuare a cercarsi: l’ io è una ricerca un po’ iniziatica, non s i dà mai in modo definitivo, ma si costruisce (e si racconta, rappresentandosi) progressivamente “senza che esista, in senso vero e espressioni” 80. psicologia proprio, L’uomo, un’unità tra le sue varie soggetto e oggetto della post-moderna, si rappresenta in una molteplicità di teorie modificate e rimodellate dal tempo, come la sua identità. Il nostro stesso percepirci come individui è condizionato dalle prospettive teoriche e personali da cui guardiamo, come, più in generale, dal contesto culturale concezione a cui apparteniamo: non esiste una dell’identità personale univoca, universalmente condivisa. Anzi, si può dire con Kakar che 78 Cfr. Rella (1987, p. 154), Edwards e Potter (1992) nonché Sarbin (1986, pp. 7ss. e VII): “Long bifore there was a science of psychology, men and women created and told stories about the efforts of human beings to make sense of their problematics worlds”. 79 Libero adattamento di Fernando Pessoa (1993). 80 Maffesoli (1993, p. 267). 64 ogni uomo è sintesi di “ soma , psiche e polis ”, ovvero è contemporaneamente “corpo, individuo ed essere sociale” in modi diversi a seconda della cultura in cui vive 81. Guardando alla pluralità dei modelli di uomo elaborati nei programmi di ricerca in psicologia della personalità, possiamo percorrere una serie di sentieri (più o meno interrotti) che conducono, a seconda dei casi, all’uomo naturalistico, definito - come nota Capello - in base alle sue caratteristiche psicologico, a costituzionali; sua psicodinamiche, volta oppure differenziato personologiche e in all’uomo dimensioni psicometriche; o, ancora, all’uomo ambientalistico, fortemente modellato dal contesto sociale; fino all’uomo psico - sociale, che costituisce le sue competenze cognitive ed affettive a partire dalle interazioni sociali nelle quali si sviluppa 82. Forse si può dire, alla luce delle analisi di Foucault, che le più comuni concezioni dell’identità personale non sono che il frutto e l’eredità delle teorie e delle tecniche introspettive che, nel corso 81 della storia, l’uomo Kakar (1993, pp. 10-11). Capello (1993, pp. 70ss. e 102ss.). C f r . a n c h e G i r a r d ( 1 9 9 6 , p . 1 ) : a n c h e s e n e l nostro contesto culturale l’identità personale è spesso intesa - soprattutto a livello del senso comune - come stabile e coerente, persino monolitica, come può l’oggetto della psicologia continuare ad essere “l’uomo così come è implicitamente assunto, nella definitezza conferitagli dalla sua continuità, dalla sua memoria e dalla sua identità?”. 82 65 occidentale ha elaborato per cercare di sapere la “verità” su di sé. La genealogia del soggetto occidentale moderno proposta da Foucault - volta a mostrare come l’esercizio di determinate sanitarie, “tecnologie” confessionali, (educative, giudiziarie, lavorative, punitive...) abbia contribuito alla formazione di una certa immagine unitaria e costante nel tempo di noi stessi - postula tra l’altro il modello cristiano dell’uomo, espressione di una società confessionale e confessante in cui “ogni persona ha il dovere di cercare di conoscere che cosa accada nel proprio intimo, di ammettere le proprie colpe, di riconoscere le tentazioni” e di individuare i propri desideri reconditi. La nostra psiche, dunque, secondo Foucault si è storicamente strutturata sulla base delle tecniche (in primo luogo confessionali) utilizzate per “svelarne i segreti”: la sua analisi è volta alla ricerca di una (e non molte) “verità” e, quindi, implica un’unica identità , conoscibile dopo un lavoro di scavo profondo 83. Al di là delle pratiche ecclesiastiche e legali, nel corso dei secoli e soprattutto nell’800 la confessione, quale veicolo 83 di accesso alla verità, Foucault (1967, pp. 400ss.; 1976; 1992, pp. 135ss.). 66 ha assunto un ruolo fondamentale non solo nelle scienze psicologiche e psichiatriche, ma anche in molte altre discipline, fra cui la medicina e la pedagogia. L’aspetto centrale di tali “pratiche classificatorie” consiste nella ricerca della verità “in una sede che non solo è nascosta al soggetto, ma gli è permanentemente inaccessibile”, in quanto conoscibile soltanto da chi studia l’inconscio, o il cervello, o i correlati fisico-chimici del comportamento. La ricerca di una comprensione definitiva di noi stessi e dell’altro non è, forse, che un viaggio senza fine tra le immagini e le metafore dell’antropologia, della psicologia, dell’arte e della filosofia: chissà che “l’essenza” dell’uomo non si traduca proprio nell’assenza di un’unica e ben definita essenza 84. 84 Sulle metafore quali elementi costitutivi delle teorie cfr., con riferimento alla psicologia ed all’antropologia, Soyland (1994). 67 5. Il soggetto rappresentativo e l’ombra di Dioniso Essere (consapevolmente) imprevedibile anche a se stesso, il soggetto rappresentativo è un’entità tutt’altro che isolata rispetto al contesto sociale: nella prospettiva di Mead, ad esempio, “l’io è la risposta che l’individuo dà all’atteggiamento che gli altri assumono nei suoi confronti” 85. La “storicità” dell’uomo 86 e, quindi, il suo essere necessariamente parte di un contesto sociale e culturale è talmente condizionante che si dovrebbe sempre tener conto sia dei significati che delle relazioni in cui si trova “implicato” il soggetto. “The primary human reality is persons in conversation”, dice Harré. Ogni voce individuale è come se fosse tratta da un dialogo: in questa prospettiva, “essere” per l’uomo significa soprattutto “dialogare” con gli altri e con se 85 Cfr. Mead (1966, pp. 22ss. e 191ss.), secondo cui il Me è quella parte del Sé personale frutto dell’interazione con gli altri e delle conseguenti assunzioni di ruolo; mentre l’Io, in quanto “risposta che l’individuo dà all’atteggiamento che gli altri assumono nei suoi confronti”, è “qualche cosa di diverso da ciò che la situazione richiede”, cioè un unicum (“mai perfettamente determinabile”) che consente l’evoluzione reciproca dei soggetti e del sociale. Come sottolinea Inghilleri (1995, p. 26), la prospettiva di Mead è incentrata “sul concetto di una doppia valenza del sé personale: da un lato esso è uno specchio della struttura sociale organizzata e in quanto tale permette la comunicazione e la relazione con gli altri, dall’altro è un’entità irripetibile, unica e in sviluppo. Questa unicità permette il cambiamento progressivo della struttura sociale”. Quindi, come sottolinea Girard (1995, p. 216), “sia i nostri Sé che la realtà esterna, che ci appare così immutabile, sono dentro un gigantesco ed ininterrotto processo di costruzione sociale”. 86 Dilthey (1954, pp. 143ss.) e Trevi (1986, p. 34). 68 stesso 87. Il soggetto, quindi, può essere concepito come un “fenomeno di confine” tra l’individuale e il collettivo 88, in quanto le condotte umane ed i processi mentali sono “ancorati e vincolati” ai contesti conversazionali e agli orizzonti di senso in cui il soggetto vive 89. L’individuo isolato non è che un’astrazione: il soggetto è (anche) parte di un Noi, cioè di un sistema di significati collettivamente condivisi. Siam molti , come nella poesia di Neruda. La nostra identità può essere pensata come la mutevole risultante (anche) di una rete di rapporti sociali nei quali veniamo “riconosciuti, delimitati, collocati e definiti” 90. Il contesto sociale e culturale condiziona infatti in molti modi non solo il sapere e l’agire degli uomini, ma anche i processi di elaborazione e di ricostruzione dell’identità personale. La nostra psiche è un poliedro dalle mille 87 Harré (1983, p. 58); cfr. anche Bruner (1992, p. 15) e Tagliagambe (1996, p. 91). Come dice, seppur in una ben diversa prospettiva, Hillman (1983, p. 63), “più che un campo di forze”, noi siamo “un campo di rapporti personali interni, una sorta di comunità interiore, di organismo politico”. 88 Cfr. Tagliagambe (1996, pp. 89 e 91), il quale sottolinea che questa prospettiva, elaborata dal teorico dela letteratura Bachtin a partire dagli anni Venti del nostro secolo, “mette radicalmente in discussione un modello della mente centralizzato o unificato e fa progressivamente emergere l’idea che ‘essere’ è, fondamentalmente, ‘comunicare’, e comunicare in forma dialogica con gli altri ma anche all’interno di se stesso, secondo una prospettiva che considera ‘l’io’ come il risultato di un ‘racconto’ di fatti, di sensazioni e di sentimenti”. Cfr. anche Bruner (1992, p. 15): “Ogni voce individuale è tratta da un dialogo, come ci insegna Bachtin”. 89 Cfr. Ugazio (1995, p. 259). Sia consentito rinviare anche a Bertagni e Salvetti (1999, pp. 261ss., 1998, pp. 8ss., 1997), Salvetti (1997, pp. 23ss.). 69 facce. Siamo una comunità di molte persone: l’io , a seconda dei casi, all’atteggiamento è che confronti. Il insomma, dimensioni indipendenti: Pirandello, la gli mentale, in un “questa risposta il altri che e il considerare certo l’individuo assumono sociale da che senso, crediamo suoi culturale sono, tutt’altro come la nei cosa dà che ha scritto più intima nostra… vuole dire gli altri in noi ” 91. Consapevoli dell’assenza di “fondamenti” certi della realtà così come della soggettività, sospesi e “chini sul proprio nulla” 92, i soggetti rappresentativi della nostra post-modernità possono ritrovarsi a percorrere i sentieri di Dioniso: dio barcollante, personificazione immaginale dell’inconoscibile e degli abissi dell’indistinto, in grado di far vacillare le persone e le convenzioni sociali 93. Intuire, dietro e dentro gli oggetti ed i costrutti della realtà (sociale, familiare, lavorativa ed organizzativa), la molteplicità caotica, la fluidità e l’inafferrabilità delle cose, delle persone e dei valori, significa fare i conti con l’ombra di Dioniso : con le maschere, la teatralità e la 90 Cfr. Sparti (1996, pp. 11ss. e 82ss.). Pirandello (1967, p. 146), citato da Sparti (1996, p. 85). 92 Bataille (1980, p. 42). 93 Eliade (1981, pp. 393ss.), Cottino (1992, pp. 24ss.) e Ginzburg (1989, passim e partic. pp. 223). 91 70 finzionalità dell’esistenza sociale, ove “niente è importante perché tutto è importante” 94. L’incertezza del soggetto rappresentativo dipende forse anche, come dice Maffesoli, dal “fatto” che non esistono più legami forti di coesione sociale, o “un inferno e un paradiso da combattere o sostenere”, né un “unico Dio con il suo necesssario contrario”, quanto piuttosto un Pantheon indù 95. La Gemeinschaft , ovvero la condivisione di una specifica identità di gruppo e di un elevato senso di appartenenza (ad una comunità) , si è dissolta in tante collettività multiformi percorse dai “ Credo ” più disparati: così, il pluralismo etico e culturale, la caduta più o meno rovinosa del principio d’autorità e dell’accettazione (tendenzialmente indiscussa) delle tradizioni, ovvero la pluralità senz’ordine dei simbolismi sociali e culturali, alimentano il “dubbio sistematico” e l’insicurezza dell’individuo 96. Cartesio poteva esercitare il dubbio rimanendo certo di se stesso, mentre “il nostro dubbio” (post-moderno) sostiene Morin - “dubita di se stesso: scopre l’impossibilità di fare tabula rasa poiché le condizioni 94 Maffesoli (1990, p. 39). Cfr. anche Girard (1990, p. 39): “Il riconoscimento delle basi convenzionali e spesso simulative della realtà è uno choc per tutti”. 95 Maffesoli (1990, p. 50). 71 logiche, linguistiche, culturali del pensiero sono indubbiamente dei preconcetti”; e questa consapevolezza ci porta a mettere in dubbio il principio stesso del metodo cartesiano, la disgiunzione assoluta dell’oggetto e del soggetto 97. L’irrequietezza 98 del soggetto rappresentativo, peraltro, convive con la consapevolezza che è opportuno restare flessibili e pronti all’improvvisazione, perché la scena cambia così rapidamente che nessuno, tranne forse i titolisti dei quotidiani, riesce a tenere il passo 99 - e, comunque, anche loro sanno che la “descrizione” giornalistica è “costruzione” (disorientante e, a volte, labirintica) di universi paralleli, che per un lettore non particolarmente esperto possono anche risultare incomparabili. Sempre più in divenire, consapevole della mutevolezza continua della propria trama costitutiva - al contempo disincantato biologica, e relazionale disincarnato da uno e linguistica specifico - micro- contesto sociale, economico e culturale interpretabile con 96 Girard (1990, passim e partic. pp. 38-39). Cfr. Morin (1983, p. 20), secondo cui “oggi il nostro bisogno storico è di trovare un metodo che riveli e non nasconda i legami, le articolazioni, le solidarietà, le implicazioni, le connessioni, le interdipendenze, le complessità (…), non il chiaro e distinto, ma l’oscuro e l’incerto”. 98 Sull’essenziale irrequietezza della vita (post) moderna sono particolarmente interessanti le pagine di Georg Simmel (1971, pp. 376ss.). 99 Cfr. Geertz (1999, p. 8). 97 72 una certa univocità, il soggetto rappresentativo si ritrova coinvolto in un tessuto di relazioni “più complesse e mobili che mai” 100 ed immerso nel teatro del quotidiano tematizzato da Goffman - popolato da équipes teatrali che si muovono in uno spazio scenico diviso in ribalta e retroscena 101. 100 Lyotard (1996, p. 32). Sullo sviluppo della soggettività post-moderna cfr. Wood (1988) e Zurcher jr. (1977). 101 Goffman (1969). 73 6. Le parole, lo straniamento e le cose “Posso dire di essere questo linguaggio che io parlo e in cui il mio pensiero penetra al punto da trovarvi il sistema di tutte le proprie possibilità, ma che tuttavia esiste soltanto nella pesantezza di sedimentazioni che esso non potrà mai interamente attualizzare? Posso dire di essere questo lavoro che faccio con le mie mani, ma che mi sfugge non solo quando l’ho finito, ma prima ancora che l’abbia iniziato? Posso dire di essere questa vita che sento in fondo a me, ma che mi avvolge col tempo formidabile che spinge con sé e che mi issa per un istante sulla sua cresta, ma anche col tempo imminente che mi prescrive la mia morte? Io posso dire con pari diritto che sono e non sono tutto questo; il cogito non conduce a un’affermazione d’essere, ma apre precisamente su tutta una serie di domande nelle quali l’essere viene messo in questione” 102. Una pagina famosa di Foucault, che si sviluppa lungo una traiettoria di decostruzione del cogito (ergo sum) , del soggetto di coscienza cartesiano: il capire che molta parte della realtà umana e naturale si fa e si disfa nel 102 Foucault (1967, p. 349). 74 linguaggio de-fonda il soggetto nel senso della sua costruzione di coscienza ed identità, consentendogli (a volte) di intuire discorsivo, il suo piuttosto essere che parte possessore di un sistema di pensieri, convincimenti, credenze predeterminate nella sua mente ordinante 103. E’ il paradosso epistemico dell’uomo che si pensa “soggetto” nello stesso tempo in cui si scopre “oggetto” dei processi biologici, linguistici, economici ed organizzativi in cui è immerso al punto tale che lo abitano e lo costituiscono in quanto uomo. Parliamo e, al contempo, siamo “parlati” dalla lingua che usiamo e che è già sempre una lingua altrui, elaborata, ascoltata e ricevuta da altri 104. La lingua, le strutture della famiglia e della parentela, le istituzioni lavorative, sociali e politiche, i rituali, le forme culturali ed artistiche influenzano profondamente la “costruzione” (e la costrizione) del mentale 105: 103 la nostra mente, Girard (1990, p. 21). Cfr. anche Bauman (1999, pp. 27ss.). Montani (1996, p. 178): la “situazione narrativa” dell’analisi personale, ad esempio, “esemplifica mirabilmente l’orizzonte dialogico della parola messo in luce da Bachtin: non meno della parola romanzesca, la parola analitica è da cima a fondo parola altrui e il ‘romanzo analitico’ è un romanzo polifonico, abitato da una molteplicità di voci (a partire da quelle che l’inconscio ha sequestrato e congelato nella sua scena senza tempo)”. 105 Grene (1976, p. 120). Ugazio ( 1998, p. 11) avanza alcune ipotesi sulla costruzione del significato, e dell’identità, nei contesti conversazionali, facendo riferimento, in particolare, al concetto di opposizione polare. “I contesti semantici, presenti in tutte le lingue, costituirebbero un ‘universale’ il cui scopo è rendere indipendenti gli individui. Ciascun partner conversazionale, 104 75 pertanto, può essere considerata, secondo la proposta di Harré e Gillett, come il punto di incontro di un ampio raggio di influenze strutturanti, la cui natura può essere raffigurata solo su una tela più ampia di quella fornita dallo studio degli organismi individuali 106. Sul palco-segnico della vita, soprattutto lavorativa, il soggetto rappresentativo recita - brechtianamente - “straniato” ed è consapevole, a un qualche livello più o meno esplicito (od esplicitabile), che gli oggetti e i soggetti di un sistema disciplinare di sapere-potere si delineano quale prodotto di un complesso ventaglio di rapporti e relazioni che, a s econda delle epoche e dei contesti, si stabiliscono tra istituzioni, processi (macro e micro) sistemi economici di e norme, sociali, forme tecniche, tipi di di comportamento, classificazione, consuetudini di pensiero, prassi e così via 107. ‘con-ponendosi’ rispetto alle polarità semantiche rilevanti nel suo gruppo, àncora la propria storia, e con essa la propria identità, alla trama narrativa del contesto”. 106 Harré e Gillett (1996, p. 25). Cfr. anche Stolorow e Alwood (1996), Moscovici (1997), Siegel (2001). 107 Cfr. Foucault (1998): “Bisognerebbe cercare di studiare il potere non a partire dai termini primitivi della relazione, ma a partire dalla relazione stessa, in quanto è proprio questa relazione a determinare gli elementi sui quali verte. Invece di chiedere a dei soggetti ideali ciò che hanno potuto cedere di se stessi o dei loro poteri per lasciarsi assoggettare, si deve analizzare in che modo le relazioni di assoggettamento possono fabbricare soggetti. Allo stesso modo, invece di ricercare la forma unica, il punto centrale dal quale deriverebbero, come conseguenza o sviluppo, tutte le forme di potere, occorrerebbe innanzitutto lasciarle valere nella loro molteplicità, nelle loro differenze, nella loro specificità, nella loro reversibilità. Si tratta cioè di 76 Al contempo, il soggetto rappresentativo è (o può divenire) consapevole che la realtà, soprattutto quella organizzativa, può essere “negoziata”, modellata, plasmata, creata e ricreata a seconda dei “giochi” di potere e di sapere che generano la pluralità di mondi in cui vive. In altri termini, come è se il soggetto rappresentativo avesse letto Goodman e condividesse la sua teoria della rappresentazione, “sottratta alle concezioni deformate che la assimilano ad un processo peculiarmente fisico quale il rispecchiamento” e riconosciuta come una “relazione simbolica, relativa e variabile” 108. studiarle come dei rapporti di forza che si intersecano, rinviano gli uni agli altri, convergono o al contrario si oppongono e tendono ad annullarsi”. 108 Goodman (1998, p. 44). Sul costruzionismo goodmaniano cfr. Handjaras (1991). 77 7. Taxis e Cosmos “Sognare, creare, esplorare, inventare, essere pionieri, immaginare: questi verbi descrivono ciò che state facendo? Se la risposta è no, siete già sorpassati dalla storia e con voi probabilmente anche la vostra organizzazione”. Parola di Gary Hamel, uno dei nuovi guru del management: siamo nel 2000, a meno di cent’anni dalla pubblicazione Principles dei of Scientific Management di Taylor. Il mondo post-moderno è così complesso ed incerto che le organizzazioni incapaci di sognare, cioè a forte connotazione gerarchica, con sistemi di controllo molto forti e, al contempo, livelli di partecipazione ed integrazione bassi, sono “destinate a fallire” 109. Infatti il controllo, se costituisce il fulcro delle prassi gestionali e dei modelli gerarchia propensione organizzativi, e, al genera contempo, all’esecuzione, accentramento passività, demotivazione, e dipendenza, alienazione sia rispetto ai processi che agli esiti di lavoro. La maggior parte delle organizzazioni private e pubbliche di oggi (aziende di grandi, medie e piccole 109 Hamel (2001, p. 31). 78 dimensioni, enti pubblici economici, ministeri, regioni ed enti locali, teatri ed enti lirici, musei, scuole, chiese, aziende sanitarie locali ed ospedaliere, enti del “terzo settore”, etc.) incontrano molte difficoltà di fronte alle “sfide lanciate dall’economia digitale” e, più in generale, dai fenomeni di globalizzazione che caratterizzano la società della conoscenza e l’economia della nostra postmodernità. In Italia il modello gerarchico-funzionale, che - come sottolinea D’Egidio - “dovrebbe essere morto e sepolto”, in quanto tipico dell’era industriale, è tuttora presente in oltre il 90% delle organizzazioni” (private o pubbliche) produttrici di beni e servizi 110. La parte restante ha adottato modelli organizzativi a matrice 111 o similari (cioè per progetti, come in alcune organizzazioni operanti ad 110 D’Egidio (2001, pp. 86ss.). Cfr. Megginson, Mosley e Pietri (2001, pp. 350ss.) per una sintesi sui modelli organizzativi (funzionali, divisionali, dipartimentalizzati, etc.), con un agile focus anche sulle forme più evolute tra cui le strutture a matrice, quali organizzazioni ibride nelle quali, oltre alla tradizionale divisione per funzioni (amministrazione, qualità, progettazione, ricerca e sviluppo, etc.), viene anche adottata una ripartizione per compiti ed obiettivi (riferiti generalmente a progetti od iniziative con una durata limitata nel tempo). Per un approfondimento sul project management cfr. Archibald (2001), Baldini, Miola e Neri (1998). Per un’analisi approfondita sui modelli organizzativi in generale cfr. Costa e Nacamulli (1998), ove sono analizzati tra gli altri la struttura dello stato e della pubblica amministrazione centrale e locale italiana, con riferimenti comparatistici, le principali tipologie aziendali pubbliche e private, i sindacati, le organizzazioni religiose, quelle post-socialiste, le piccole e medie imprese, le multinazionali, le cooperative, le organizzazioni internazionali, quelle del terzo settore (non-profit), etc. Sulla progettazione della struttura organizzativa cfr. Comai (1998): uno dei pochissimi testi (italiani) attenti soprattutto alla dimensione meta-progettuale. 111 79 esempio nell’ information and communication technology , o a rete, come nei distretti del nord-est d’Italia o nelle Marche), che consentono maggior agilità nell’adeguarsi ai mutamenti del mercato di riferimento (quello dei pneumatici, piuttosto che quelli delle calzature, delle cucine, dei servizi finanziari formazione professionale condivisione delle presenti all’interno e conoscenze o della così e sanità, via), delle dell’organizzazione, della maggior competenze standard più elevati di negoziazione interna (per la definizione dei criteri di allocazione delle risorse, per l’individuazione degli obiettivi e la ripartizione dei carichi di lavoro, oltre che per la soluzione non conflittuale delle situazioni controverse), quindi, più velocità nei processi decisionali e nella loro conseguente traduzione in strategie operative efficaci. Guardando al presente (più che al futuro) prossimo venturo dell’economia post-moderna, si può dire che le organizzazioni caratterizzate da assetti gerarchici e da strutture di potere verticali, tipiche dell’economia industriale moderna, segnano sempre più il passo. La net- economy , infatti, richiede modelli differenti di esercizio del potere basati e, “non quindi, più di sul strutturazione controllo 80 dei organizzativa, dipendenti” nell’accezione taylorista del termine, ma sulla delega di funzioni a gruppi di lavoro capaci di autogestirsi” 112, sul coinvolgimento intellettuale” comunque, e sul dei per potenziamento soggetti che lavorano l’organizzazione dell’organizzazione, i del (come dipendenti, i “capitale dentro i o, consulenti collaboratori ed i consulenti di società partner che forniscono beni o servizi o che presidiano, magari in outsourcing 113, funzioni e processi vitali per l’organizzazione-madre). Il incessante, eracliteo, sembra dell’economia Zineldin, divenire essere una post-moderna. anche cambiamento il se sempre la più cambiamento poche scrive verso crescente 112 il delle Come tendenza e non ad un costanti esempio tasso di rappresenta Cfr. ad esempio gli esiti della ricerca del gruppo americano Forrester pubblicati su “Il Sole 24 Ore” – supplemento New Economy, del 6 dicembre 2000 (p. 2): Forrester Research propone di paragonare Internet, il Web, il commercio e la creazione di mercati elettronici alle rivoluzioni dell’aratro e del vapore. Dopo l’avvento di queste innovazioni epocali, le organizzazioni sociali ed economiche non sono state più le stesse. L’aratro ha portato all’abbandono del nomadismo e alla creazione di comunità agricole stanziali. La macchina di Watt ha, invece, fatto germogliare la prima rivoluzione industriale. Ora Internet porta a cambiamenti radicali nei modelli di business e nei modi di produzione di beni e servizi e, conseguentemente, nelle strutture organizzative.Si viene così a creare una forma di “iperpartenariato” nel quale le organizzazioni interagiscono sulla rete elettronica in tempo reale: internet, infatti, consente di creare “imprese estese” che raggruppano clienti e fornitori. 113 Sull’outsourcing, cioè sull’utilizzo dei fornitori per svolgere servizi o far produrre beni, mantenendo comunque la responsabilità nei confronti del cliente finale, cfr. Valentini (1999): per far fronte alla crescente competizione, ormai presente in qualunque genere di mercato, le aziende si stanno organizzando per avere strutture sempre più snelle e tempi di risposta sempre più brevi, cercando al tempo stesso di migliorare costantemente la qualità dei loro prodotti – beni o servizi che siano. Lungo questa direttrice, l’outsourcing è tra le strategie più utili per far 81 niente di nuovo, in quanto si evidenzia lungo tutta la storia umana, questo tasso in costante aumento impone una pressione produttrici di scientifiche, cambiano strutture senza e sulle organizzazioni servizi. Cambiano le i sistemi economici e tecnologie, cambia l’organizzazione cambiano le e beni precedenti cambiano le relazioni tra soggetti teorie politici, delle e tra organizzazioni: in questo contesto di evoluzione rapida e continua, “i manager devono affrontare problemi di gestione e pianificazione di notevole complessità per rispondere alle sollecitazioni di un ambiente dinamico, in cui spesso domina l’incertezza” 114. L’economia digitale, oltre ad una maggiore e più rapida risposta alle richieste del mercato (dei consumatori, dei cittadini, dei pazienti, dei produttori e così via, a seconda dei casi), tende a generare sempre più concorrenza tra organizzazioni e, al contempo, sempre più rapporti e relazioni di cooperazione organizzazioni impegnate ( partnership e, lungo e spesso, la all’interno delle anche organizzazioni stessa alleanze tra “catena strategiche, del singole valore” associazioni svolgere all’esterno (spesso a costi minori e con maggiore specializzazione) processi aziendali che, in alternativa, l’organizzazione deve presidiare direttamente. 114 Cfr. Zineldin (1998, p. IX). 82 temporanee, joint-ventures e consorzi, subappalti e altre relazioni contrattuali come il franchising o il sistema delle licenze in esclusiva) 115: saper creare e mantenere una rete di rapporti soddisfacenti con i clienti e, prima ancora, con i partners dell’organizzazione, i colleghi ed i collaboratori, diviene – come sottolinea Zineldin – “una filosofia, una strategia vitale per il progresso competitivo e lo sviluppo economico” 116. Pertanto, le organizzazioni post-moderne non sono più (o, meglio, saranno sempre meno) guidate da un vertice con funzioni di totale controllo sull’indirizzo strategico e, poi, sui processi organizzativi e produttivi, ma sono - e, soprattutto, saranno - governate da leader in grado di influenzare e incanalare attività e processi non solo nei gruppi di lavoro interni, ma anche all’esterno delle tradizionali barriere delle organizzazioni per integrare con varie strategie cooperative - i team operativi di altre strutture connesse in rete e con le quali si condividono interessi ed obiettivi 117. Nell’universo della teoria e della consulenza organizzativa ricorrono, non a caso, riflessioni che si 115 In proposito cfr. Zineldin (1998, pp. 239ss.). Zineldin (1998, p. 1). 117 Oltre agli studi di Zineldin e di Forrester Research, precedentemente citati, cfr. anche De Geus (1999), Kamp (2000), Mollona (2000), Micelli (2000). 116 83 possono riassumere così: l’economia digitale richiede organizzazioni che si ispirano ad un modello reticolare, capaci di anticipare la mutevolezza dell’ambiente esterno con elevata creatività e flessibilità. Le organizzazioni flessibili sapranno essere efficaci e “proattive” nei mercati di riferimento grazie, soprattutto, allo sviluppo di quel peculiare fattore competitivo rappresentato dalla conoscenza e dalle relative competenze distintive delle diverse possano culture aziendali. svilupparsi lungo un’articolazione in basate team su E perché questa piccole e le organizzazioni direttrice medie unità occorrono produttive autogestiti 118, interfunzionali l’implementazione di networks informatici integrati, la capacità di stabilire con il cliente – grazie anche all’ information technology e alla digitalizzazione – una relazione tendenzialmente stabile, e, last but not least , “l’uso attivo del cervello di ogni persona”. Con riferimento a quest’ultimo aspetto, come ha detto Lester Thurow, ciò che è importante in una piramide qualsiasi non si trova arrampicandosi sulla cima, ma individuando i percorsi che conducono ai tesori nascosti all’interno” 119. 118 Sul valore del gruppo e sull’”atteggiamento di gruppo” nella società industriale cfr. le interessanti pagine di Actis Perinetti (1956-b), che anticipano molti dei temi che solo successivamente la letteratura specialistica italiana ha saputo sviluppare. 119 Cfr. in proposito D’Egidio (2000, p. 86). 84 In un’economia prevalentemente immateriale, centrata sulla conoscenza e sull’informazione, le strutture organizzative tendono ad appiattirsi e si affermano forme di organizzazione del lavoro che somigliano sempre più a collages o, forse, a patchworks , che riducono la gerarchia come forma di coordinamento e controllo e dove invece l’integrazione decentrata e la rete divengono le forme di governo sempre caratteristiche. più il assumere la finalizzati alla ruolo Conseguentemente, del funzione management, di creazione che facilitazione di spazi e dei cambia tende ad processi luoghi dove l’innovazione, l’iniziativa e l’imprenditorialità diventano le dimensioni fondamentali dell’agire organizzativo – per quanto sempre all’interno dei parametri e dei confini definiti dagli obiettivi strategici e nei budget previsionali. In definitiva, l’organizzazione come nell’economia , cioè post-moderna ordine costruito attraverso una rigorosa pianificazione razionale ed un rigido controllo verticistico, dovrebbe cedere molto spazio al , l’ ordine spontaneo che si autogenera in quanto emerge dall’interno dello stesso sistema organizzativo 120 120 Per queste categorie cfr. l’interessante studio di Hayek (1986, p. 51), che si muove in parte all’interno del paradigma sistemico elaborato da Bertalanffy, ma, soprattutto, nella prospettiva dell’individualismo metodologico, secondo cui la comprensione delle azioni e dei punti di vista degli attori sociali è il momento essenziale di ogni analisi. In proposito cfr. anche il commento di 85 sotto forma di “invenzioni” basate sulla capacità degli attori organizzativi di formare modelli alternativi della realtà e di obiettivi attivare tali modelli dell’organizzazione - in - nel rispetto situazioni degli d’azione specifica 121. Licci (2000, pp. 142ss.) e di Tagliagambe e Usai (1999, pp. 36ss.). Hayek (1986, p. 51) sostiene che i Greci del periodo classico “erano più fortunati, perché possedevano due parole distinte per i due tipi di ordine, cioè taxis per ordine costruito, come per esempio l’ordine di uno schieramento di battaglia, e cosmos per un ordine formatosi spontaneamente e che significava in origine ‘un ordine giusto all’interno di uno stato o di una comunità’ (…). Non sarebbe un’esagerazione dire che la teoria sociale comincia con – e ha un proprio oggetto solo a causa della – scoperta che esistono strutture ordinate le quali sono il prodotto dell’azione di molti uomini, ma che non sono il risultato di una progettazione umana. Sebbene ci sia stato un tempo in cui gli uomini credevano che ogni linguaggio o ogni codice di costumi fosse stato ‘inventato’ da qualche genio del passato, ora tutti riconoscono che tali strutture sono il risultato di un processo di evoluzione che nessuno ha previsto o progettato”. Anche se un’organizzazione lavorativa è strutturata come taxis, ovvero come ordine “costruito artificialmente”, cioè deliberatamente progettato e che “mira alla realizzazione di scopi concreti", in questa sede si propone di estendere l’accezione di cosmos per ricomprendere alcune dinamiche autoorganizzative che si sviluppano nelle piramidi appiattite e knowledge driven della net-economy: dinamiche auto-organizzative che non consistono soltanto in semplici risposte adattive all’ambiente (come si potrebbe sostenere all’interno di una visione sistemica tradizionale), ma che si concretizzano in strategie e tattiche d’azione elaborate (consapevolmente o meno, tacitamente o esplicitamente a seconda dei casi) in situazioni specifiche dagli attori organizzativi. Il che implica, seguendo l’ipotesi di Lanzara (1993, pp. 11ss.), la negative capability, cioè la capacità di “essere” nell’incertezza, di agire in situazioni complesse e di disordine mantenendosi orientati alla “attivazione di contesti e di mondi possibili”. Essa, sottolinea Lanzara, è la qualità distintiva del man of achievement e consiste nella capacità di gestire anche “momenti di indeterminatezza e di assenza di direzione”, ristrutturando eventualmente il proprio modello d’azione e sviluppando nuove routines cogliendo le potenzialità d’azione che “possono rivelarsi in tali momenti”. 121 Cfr. Lanzara (1993, p. 11), che ha elaborato la prospettiva accennata nella nota precedente dopo aver avuto occasione di osservare il comportamento di individui e organizzazioni durante la grave crisi nazionale provocata dal violento terremoto che nel novembre 1980 colpì un’area molto estesa del sud Italia. 86 8. La vita è sogno Se si considerano macchine, allora il macchine generano le organizzazioni controllo piramidi è come indispensabile. gerarchiche delle Ma le rigide e prospettive monoculari 122 o, al massimo, binoculari. Il controllo come strategia prioritaria di management, soprattutto a medio ed a lungo termine, genera trappole: interpretazioni di ruolo (dirigenziale, professionale, impiegatizio, operaio) rigide e tendenzialmente incapaci di aprirsi al confronto, sistemi chiusi e autoreferenziali di atteggiamenti, credenze e abitudini di pensiero. Le macchine sono l’ambiente (disciplinare) ove può esistere, come istanza organizzativa, il modo imperativo allo stato puro: un ambiente monodimensionale, in cui si presuppone che l’ output venga univocamente determinato dall’ input , che assume le forme 122 del comando e che Peraltro, come notano Kaneklin e Olivetti Manoukian (1990, pp. 31-32), all’interno delle organizzazioni di lavoro si incontrano sovente persone che hanno dell’organizzazione “un’idea compiuta e forte, unidimensionale, piatta: l’ambiguità delle comunicazioni, la pluralità delle variabili con cui vanno confrontate le decisioni, l’esistenza di relazioni multiple, differenziate, contraddittorie, il verificarsi di intoppi e disconferme, l’insorgere di nuove esigenze, tutto ciò che è vita dell’organizzazione non può essere visto, preso in considerazione, tenuto in conto (…). Per queste persone - per usare un’efficace espressione di Bion (1971, p. 125) – ‘le parole sono cose: quelle cose che si suppone la parola rappresenti, per loro sono indistinguibili dal nome che le designa e viceversa’. Da qui una sorta di impossibilità di passare dal caso specifico a una generalizzazione trasversale, a una astrazione, o anche di coniugare un principio generale con una situazione determinata”. 87 contribuisce a generare prigioni psichiche ed a produrre soggetti disciplinati, demotivati, alienati. La multiprospetticità appartiene ad un altro universo, dove l’istanza gerarchica viene non certo cancellata, ma mediata e indebolita da altri principi organizzativi (il coordinamento e il team interfunzionale, l’integrazione, la negoziazione per la definizione degli obiettivi e per la ripartizione dei carichi di lavoro, la “budgettizzazione” e, quindi, ancora la negoziazione delle risorse e dei criteri per la loro allocazione), organizzazioni come e dove organismi o si considerano cervelli, o, le meglio ancora, come culture se non addirittura come collages di conoscenze contestuali parziali, e, quindi, di interpretazioni come strutture provvisorie e processi e in evoluzione 123, sintesi instabili di che si apre al . In questi universi, paralleli rispetto agli universi gerarchico-funzionali, uno degli obiettivi prioritari dei 123 Secondo il contributo, spesso considerato quasi “eversivo” dagli addetti ai lavori, di Landier (1988, pp. 63-70), che sembra ispirarsi soprattutto all’epistemologia di Edgar Morin, gli schemi, i concetti ed i linguaggi della tradizione organizzativa risultano completamente inadeguati di fronte alle nuove condizioni della competizione mondiale caratterizzate dall’incertezza, dalla turbolenza, dalla globalità e dall’interdipendenza dei fenomeni, mentre risposte organizzative adeguate possono essere fornite guardando ai modelli scientifici della complessità: pertanto, l’organizzazione si deve articolare in cellule secondo la logica sistemico-cibernetica, sorpassando tutto quanto rinvia all’organizzazione piramidale, alle reti di comunicazione “centralizzate ed arborescenti”, alla crescita non differenziata delle varie parti ed articolazioni organizzative, alla 88 manager è quello di sognare sogni innovativi dai contenuti imprenditoriali 124. Come dice Vello, forse nessuna scuola di business administration e nessun manuale di gestione aziendale sottolineano con la necessaria enfasi come la “produzione di sogni imprenditoriali” - ovvero la creazione e l’implementazione di idee vincenti - sia parte integrante delle prestazioni richieste al management 125. Con un po’ di enfasi, anche Hamel si incammina lungo la via regia del sogno: “Oggi siamo limitati unicamente dalla nostra capacità immaginativa”, per cui nelle organizzazioni “dobbiamo diventare tutti dei sognatori”. Nell’epoca della net-economy , come m ai in passato, “i sogni sono l’anticamera di nuove realtà” e quindi “anche i nostri sé collettivi – le nostre organizzazioni – devono imparare a sognare” 126. Il mondo, prosegue Hamel, è sempre più diviso in due tipi di organizzazioni: quelle che “non possono che seguire la strada dei miglioramenti continui” e quelle che hanno “spiccato il volo verso l’innovazione radicale”. Il chiusura rispetto all’imprenditorialità o all’inter-imprenditorialità tra le cellule (interne ed esterne) di un sistema organizzativo articolato in gruppi autoregolati, autonomi e agili. 124 Vello (1995, p. 19). 125 Vello (1995, p. 19). 126 Hamel (2001, p. 13). 89 primo successo della rivoluzione industriale fu la nozione di miglioramento continuo: esso rimane il credo condiviso (o, quanto meno, proclamato) nella maggior parte delle organizzazioni. La sua “prima incarnazione” fu il management scientifico di Taylor, mentre “tra i suoi molti discendenti” si annoverano il concetto giapponese di kaizen e le versioni anni Novanta del reenginering e della pianificazione delle risorse dell’organizzazione 127. Ma in un mondo non lineare, solo le idee non lineari creano e, ancor più, creeranno ricchezza: l’innovazione “non lineare, radicale”, dice Hamel, è il solo modo per sfuggire alla spietata ipercompetizione che, settore dopo settore, sta schiacciando i margini” di profitto. E questa forma di innovazione richiede alle organizzazioni di “sfuggire ai legami della consuetudine e di immaginare soluzioni interamente nuove ai bisogni della clientela”: le 127 Hamel (pp. 15ss.): “Taylor è il padrino spirituale di ogni manager e consulente che abbia cercato di descrivere, misurare e dare forma a un processo aziendale”. Per una panoramica analiticamente più approfondita e meditata sul kaizen cfr Tanaka (1998) e Imai (2001). Per un approfondimento del modello giapponese della qualità totale, delle sue potenzialità e dei suoi limiti (e delle differenze rispetto ai modelli di matrice direttamente tayloristica) cfr. Ohno (1993). Sul reenginering cfr. ad esempio Merli e Biroli (1996), Pierantozzi (1998), Davenport (1997) e Oriani (1997), che sottolinea come per rispondere alle sfide comeptitive del Duemila molte organizzazioni debbano abbandonare il paradigma organizzativo classico incentrato sulla gerarchia, la specializzazione e la logica del comando-controllo, per orientarsi verso quello dell’organizzazione orizzontale incentrata sui processi, le competenze multiple, l’empowerment e la flessibilità. Mutatis mutandis, il discorso di Hamel sembra ripercorrere le orme della riflessione di Thomas Kuhn (1978 e 1980, pp. 313ss.) e della polemica con Karl Popper a proposito della dicotomia tra scienza normale e scienza rivoluzionaria. 90 intuizioni innovative, infatti, non scaturiscono da un processo di pianificazione o dal miglioramento continuo incrementale, ma dalla “decostruzione” del sistema di credenze consolidato in un certo contesto organizzativo attraverso “ cocktail un predisposizione al soggettivo” cambiamento, fatto desiderio, di curiosità, ambizione e bisogno" 128. La capacità di mantenersi orientati agli obiettivi strategici per l’organizzazione anche in situazioni di forte incertezza e, quindi, la capacità di agire con efficacia in situazioni complesse e, magari, di “disordine” derivante anche dall’assenza di direttive precise, è la com petenza distintiva per decostruire e ricostruire gli orizzonti di senso e gli universi, al contempo simbolici e pragmatici, entro cui si sviluppa l’azione organizzativa in molti contesti produttivi della net-economy . E per il soggetto rappresentativo oggettualizzazione - che della ha interiorizzato realtà” ed ha la “de- maturato la capacità di “vede re e di veder si ‘in filigrana’” con più 128 Hamel (2001, pp. 15, 28, nonché pp. 150 e 168ss.): “L’obiettivo non è quello di speculare su che cosa potrebbe accadere, ma di immaginare che cosa voi potreste far accadere (…). Guardate il movimento cubista negli anni Trenta. Dapprima fu un movimento artistico, poi si estese alla costruzione degli edifici e, infine, influenzò la struttura della maggior parte delle organizzazioni (…). Gli eretici, non i profeti, creano le organizzazioni (…). Voi e i vostri colleghi dovete imparare a decostruire sistematicamente le credenze in uso relativamente a: ‘Qual è il nostro business’, ‘Come facciamo soldi’, ‘Chi sono i nostri clienti’, ecc. il primo passo per 91 facilità di altri 129 - si possono delineare molteplici chances di potenziamento e sviluppo personale (oltre che di “carriera”), sempre che sappia e possa navigare nella realtà del come se alla ricerca di ways of world-making . Il che è tanto più possibile quanto più si sviluppano organizzazioni in grado di promuovere, riconoscere e, possibilmente, premiare l’innovazione e “l’invenzione” 130. diventare degli eretici consiste nell’ammettere che vivete all’interno di un modello mentale, di un costrutto che magari non è nemmeno opera vostra”. 129 Girard (1990, p. 70) 130 Spaltro e De Vito Piscicelli (1990, p. 219), peraltro, sostengono che da qualche anno a questa parte ci troviamo di fronte a quattro importanti “dilemmi organizzativi”, ovvero: 1. La velocità delle innovazioni è maggiore della velocità di apprendimento. Alcune minoranze veloci sorpassano continuamente le maggioranze più lente. Meglio rallentare le innovazioni o accellerare l’apprendimento? 2. L’influenza delle innovazioni è spesso sconvolgente. Meglio abituarci a viverle quotidianamente o riservarne alcune ad altri? 3. Le minoranze trascinano continuamente con sé le maggioranze: i pochi innovano e i molti resistono. Meglio specializzarsi a trattare le resistenze o adattarsi alle maggioranze e specializzarsi a trattare le novità? 92 9. Complessità integration , knowledge organizzativa, empowerment e produzione di soggettività “L’organizzazione non è più oggi il modo per rendere semplici le cose complicate, ma il modo per renderle complesse, cioè vivendoci dentro, rifiutando processi ossessivi di semplificazione e unificazione e trasformando la soggettività e la pluralità da difetti in risorse dell’organizzazione”: così Enzo Spaltro, una delle voci più importanti della psicologia del lavoro italiana, che sottolinea come per moltissimi anni si sia creduto che organizzare significasse semplificare, per poi iniziare a capire che le situazioni complesse, nonostante l’organizzazione, restano complesse e che quello che si può raggiungere è, al massimo, “l’illusione di semplicità, cioè un errore”. Adesso, invece, si pensa sempre di più che organizzare significhi abituare se stessi e gli altri alla complessità: imparare, quindi, ad apprezzare la complessità “non come complicazione o confusione, ma come ricchezza e varietà” 131. 4. Chi innova spesso resta solo, chi resiste spesso è in compagnia, la compagnia della paura. Meglio puntare in alto da soli, o abbassare i risultati e mantenersi in compagnia? 131 Spaltro e De Vito Piscicelli (1990, pp. 11 e 219). 93 Il pensiero “complesso”, utile per la progettazione e la gestione di organizzazioni d’eccellenza, si caratterizza per un insieme di aspetti che – seguendo Spaltro – possono, seppur riduttivamente, essere sintetizzati come segue: 1. Usa la metafora e tutti “i modi capaci di allontanare dall’immediatezza del problema” il solutore, per consentirgli quella creatività che “lo stare dentro ai problemi” impedisce. 2. Propone una continua auto-organizzazione dei dati e una continua invenzione di modelli organizzativi interni. 3. Usa il valore costruttivo del disequilibrio (dionisiaco): ad esempio, considerando i conflitti come risorsa ed utilizzandoli in chiave “disequilibrante”, come occasione per affacciarsi su nuove realtà e per vedere le cose all’interno di un diverso orizzonte di senso, per generare rivoluzioni paradigmatiche. 4. E’ consapevole della distinzione tra sistemi complessi (a numero di variabili elevato, ma finito) e sistemi complicati (a numero di variabili infinito). 5. Considera l’organizzazione non certo come sistema chiuso e pienamente controllabile, ma come sistema 94 aperto, incerto e imprevedibile 132 - ovvero come che si apre al . La concezione complessa dell’organizzazione afferma che non vi è un solo modo, migliore, di concepire l’agire collettivo, ma che ne esistono molti. L’organizzazione è un fenomeno complesso, non riducibile entro classificazioni risolutive e conclusive: un fenomeno di cui si possono anche avere “cognizioni sofisticate ma una comprensione sempre approssimata”, parziale, orientata da obiettivi e interessi solo in parte manifesti e manifestabili 133. Una leadership organizzativa consapevole della complessità, pertanto, è orientata a facilitare al massimo “la spazio/tempo ricostruzione della organizzativi” 134, in soggettività quanto nello organizzare significa non solo differenziare i ruoli e definire norme e regole, o ingegnerizzare e presidiare processi e procedure, ma significa - secondo le rappresentazioni oggi più dibattute - soprattutto apprendere a creare e gestire conoscenza dotata di valore competitivo. 132 In proposito cfr. gli ormai classici studi di Prigogine e Stengers (1981), nonché Stacey (1996). 133 Cfr. Kaneklin e Olivetti Manoukian (1990, p. 29). Per Morin (1983, p. 74), “oggi sappiamo che tutto ciò che la fisica antica concepiva come elemento semplice è organizzazione. L’atomo è organizzazione; la molecola è organizzazione; l’astro è organizzazione; la vita è organizzazione; la società è organizzazione. Ma ignoriamo tutto del significato di questo termine: organizzazione”. 134 Spaltro e De Vito Piscicelli (1990, pp. 53-54). 95 L’organizzazione “basata sulla conoscenza” (e knowledge driven ) 135 è uno spazio - eventualmente fisico, sicuramente culturale e mentale e, quindi, virtuale - in cui “le persone continuano a scoprire le modalità attraverso le quali creano la loro realtà” e anche quelle attraverso cui possono modificarla 136. Il successo delle organizzazioni knowledge driven dell’epoca post-moderna dipende - questa è la tesi – dallo loro capacità di creare conoscenza organizzativa, ovvero di attivare il circolo virtuoso esperienza-condivisione esperienza, in cui le della conoscenze conoscenza- condivise a livello organizzativo diventano base di nuove applicazioni, di nuove esperienze e, così, di nuove conoscenze. La capacità di gestire il “capitale intellettuale” è, in questa prospettiva, una delle principali competenze distintive della leadership organizzativa: secondo Reich, addirittura, il solo autentico vantaggio competitivo sarà 135 Cfr. ad esempio Iacono (2000): le organizzazioni d’eccellenza sono oggi alla ricerca di un modello di funzionamento che consenta loro non soltanto di raggiungere il successo, ma anche e soprattutto di mantenerlo, un modello che le renda dinamicamente “vincenti”. I modelli imperanti negli anni Ottanta e Novanta (Business Process Reengineering, Total Quality Management) non sono più sufficienti: occorrono modelli che consentano di acquisire la capacità di innovarsi, sulla base della conoscenza specifica del “chi si è” e “dove”, strategicamente fondati sul patrimonio cognitivo aziendale. Occorrono, cioè, modelli che rendano sempre possibile il cambiamento: apprendere a creare e gestire conoscenza dotata di valore comeptitivo significa non solo poter cogliere le opportunità che si presentano e fornire prodotti e servizi di elevata qualità, ma soprattutto poter creare nuove opportunità, nuovi servizi, nuovi prodotti. 136 Cfr. Senge (1992, pp. 12-13) e, soprattutto, Nonaka e Takeuchi (1997, p. 85). 96 costituito in futuro dalla presenza nelle organizzazioni di “analisti simbolici”, cioè di persone che dispongono delle conoscenze neces sarie per definire, riconfigurare, negoziare, mediare e, quindi, risolvere nuovi problemi facilitando i processi collettivi di knowledge integration e di invenzione di nuove prospettive d’azione 137 - soprattutto attraverso l’esplicitazione delle percezioni, dei vissuti emozionali, soggettive e, poi, degli con insights la e delle formalizzazione credenze a livello organizzativo dei modelli mentali e degli schemi cognitivi considerati più efficaci 138. 137 Reich (1991). In proposito cfr. lo studio, molto interessante, di Nonaka e Takeuchi (1997, pp. 33ss.): “La difficoltà degli osservatori occidentali a prendere in esame la questione della creazione di conoscenza organizzativa ha un fondamento nell’adesione a priori all’assunto per cui l’organizzazione è una macchina deputata alla ‘elaborazione di informazioni’. Questo assunto è profondamente radicato nella storia del management in occidente, da Frederick Taylor a Herbert Simon, e si traduce in una visione della conoscenza come evento necessariamente ‘esplicito’, e in qualche misura formale e sistematico. La conoscenza esplicita può trovare espressione numerica e verbale ed essere facilmente comunicata e condivisa in forma di dati grezzi, formule, procedure codificate o assiomi. Essa viene spesso assimilata a un codice informatico, a una formula chimica o a un sistema di regole generali (…). La rappresentazione della conoscenza nelle imprese giapponesi è, peraltro, radicalmente diversa. Per esse la conoscenza verbale e numerica non è che la punta di un iceberg, la conoscenza essendo in primis un evento ‘tacito’, qualcosa cioè di difficilmente afferrabile ed esprimibile. La conoscenza tacita è eminentemente personale e poco formalizzabile, caratteristiche queste che complicano la sua comunicazione ad altri o la sua condivisione con altri. Essa è una categoria comprensiva nella quale ricadono insight soggettivi, intuizioni e indizi. Essa, infine, ha le sue radici più profonde nell’azione e nell’esperienza individuale, oltre che negli ideali, nei valori e nelle emozioni personali. Più precisamente, è possibile distinguere due dimensioni di conoscenza tacita. La prima è quella tecnica, che comprende l’insieme di abilità e di forze informali difficili da cogliere sussunte nel termine know-how (…). Nel contempo, nella conoscenza tacita è implicita una dimensione cognitiva rilevante, di schemi, di modelli mentali, di credenze e di percezioni così consolidate da essere diventate assiomatiche. Questa dimensione cognitiva della conoscenza tacita riflette la nostra rappresentazione della realtà (l’essere) e la nostra visione del 138 97 Le condizioni per l’attivazione e la gestione efficace del processo di creazione di nuova conoscenza dovrebbero consentire, da un lato, la valorizzazione e l’accrescimento del know-how organizzativo, che a livello individuale spesso è un capitale cognitivo “tacito”, di cui a volte lo stesso soggetto detentore non è consapevole; d’altro lato, dovrebbero consentire la valorizzazione e l’accrescimento della conoscenza organizzativa esplicita (condivisibile e “riutilizzabile” nell’organizzazione sotto forma di istruzioni, procedure, modelli o meta-modelli, strumenti e metodologie). Una volta riconosciuta l’importanza della conoscenza, anche di quella tacita, e della knowledge integration , si comincia elaborata a pensare l’innovazione soprattutto nel in pensiero una prospettiva organizzativo giapponese: come sostengono Nonaka e Takeuchi, “non si tratta semplicemente di aggregare dati e informazioni eterogenee, ma di percorrere un processo assolutamente individuale di rinnovamento personale e organizzativo” che, tra l’altro, richiede un forte impegno personale dei dipendenti e l’organizzazione di nei tutti coloro termini - che tipici lavorano del per contesto futuro (il dover essere). Nonostante la loro difficile formulabilità, questi modelli impliciti determinano il nostro modo di percepire il mondo circostante”. 98 produttivo giapponese “identificazione” con – la della “dedizione” missione ed i e della valori-guida dell’impresa (comune) 139. Le organizzazioni basate sulla conoscenza non possono, dunque, che valori” 140, tra essere cui anche quello “organizzazioni della basate soggettività, poiché sui la centralità della persona è strategica in quanto il capitale intellettuale rappresenta il principale asset strategico dell’organizzazione. Le organizzazioni quindi, al loro effettivamente interno “sempre knowledge di più driven , produrranno benessere” 141 e crescita soggettiva: potenziamento delle competenze e delle capacità professionali, sviluppo di potenzialità, responsabilizzazione, delega e trasferimento di potere, chances per l’apertura degli attori organizzativi a nuovi mondi possibili. In una parola, empowerment : una parola-simbolo, nel lessico organizzativo, spesso utilizzata per riproporre un messaggio lanciato più di vent’anni or sono ma ancora in larga misura disatteso. 139 Nonaka e Takeuchi (1997, p. 36). Iacono (2000, p. 35). 141 Spaltro e De Vito Piscicelli (1990, p. 13). 140 99 Empowerment 142: un messaggio che si riassume nella considerazione che ogni sviluppo è possibile solo se a crescere sono, in primo luogo, gli attori organizzativi, le risorse umane, i soggetti che animano l’organizzazione. Mera ideologia? Forse. Comunque, diceva Oscar Wilde, una carta geografica che non registri il paese Utopia non merita uno sguardo. eventualmente, (ricerca e) consolatorio? letteratura sponsorizzata Discorso in modo manipolatorio Sicuramente organizzativa non certo è sì: ed, molta finanziata disinteressato. e Al contempo, però, non solo nella teoria organizzativa, ma anche nella consulenza e in alcune pratiche evolute di management (che trovano spazio d’analisi nei repertori delle best practices delle scuole di amministrazione aziendale e, a volte, generano emulazione e qualche riconfigurazione quotidiana), è paradigmatica dato registrare, nell’operatività particolarmente negli ultimi cinque anni, che soltanto il riconoscimento forte della “centralità dell’uomo e della significatività della sua vita di lavoro” 143 possono generare organizzazioni capaci di apprendere e di svilupparsi attraversando le turbolenze continue dell’economia post-moderna. 142 143 Molto interessante, in proposito, lo studio di Piccardo (1995). Cfr. Piccardo (1995, pp. 3ss.). 100 “La dimensione soggettiva significa essenzialmente” nota Spaltro - un aumento di importanza della posizione e del punto di vista del singolo rispetto “ai suoi tradizionali oppositori e cioè le masse, le cose e le autorità”. La dimensione soggettiva si configura come un “recupero di energia psichica, quindi un investimento in allegria, un interesse per il proprio lavoro, voglia di contare, richiesta di potere”. La soggettività è quindi ricerca di benessere, “del proprio benessere, di potere, del proprio potere, di tempo, del proprio tempo, nel proprio lavoro”. Tra breve, sostiene Spaltro, la risorsa più scarsa sarà quella psichica, perché “la gente sarà sempre di più pagata per pensare e anzi sarà addirittura ‘pagata in pensiero’, in possibilità di pensare (libertà, tempo libero, sviluppo, creatività, cultura, potere, etc.)” 144. Conseguentemente, aumenteranno e si istituzionalizzeranno le pratiche organizzative volte alla massimizzazione attitudini, le della capacità “risorsa e, psichica”, dunque, la cioè le soggettività: assessment and development centers per valutare quello che le persone sanno fare nel presente e per individuare le conoscenze e le capacità che potranno sviluppare nel 144 Spaltro e De Vito Piscicelli (1990, pp. 20ss.). 101 prossimo futuro, magari all’esito di un percorso di formazione e sviluppo professionale e con il supporto di un personal trainer ; riqualificazione esubero”, per all’interno delle nuove stessa magari al di riconversione professionalità generare della all’esterno, centri “obsolete” prospettive organizzazione termine di un e di o in soggettive lavorativa processo o (oggi solitamente doloroso e “stigmatizzante”) di outplacement ; job rotation e mobilità intensiva, interna od esterna (proprio in questi mesi se ne parla, in Italia, con riferimento alla dirigenza ed al funzionariato pubblico); outdoor or indoor training , camminate sui carboni ardenti o teatro d’azienda come riti generatori di coesione, senso di appartenenza, “noità” o rimotivazione. L’elenco non può che essere incompleto ed aperto, mentre il messaggio di fondo è tendenzialmente univoco: una risorsa umana è sempre anche “potenziale, futura e solo parzialmente pianificabile”. Una risorsa umana (postmoderna) è polifonica in quanto “composta da progetti e destini, da cromosomi e apprendimenti, da eredità e cultura, da limiti biologici, fisiologici, sociali e psicologici, da potenzialità e attuazioni, da attitudini e competenze, da proprietà e immagini, da conformismo e devianza, da informazioni e sentimenti, da ripetizione e creatività, da 102 pratica e teoria, da passato e futuro, da singolare e plurale, eccetera” 145. 145 Spaltro e De Vito Piscicelli (1990, p. 56). 103 10. Ways of world-making Sviluppare la polifonia interiore e dar voce al virtuale che alimenta i sogni delle persone che lavorano nelle organizzazioni basate sulla conoscenza: ecco l’obiettivo delle (pochissime, per ora) organizzazioni post-moderne knowledge driven . Nella filosofia scolastica, virtuale è ciò che esiste in potenza e non in atto: secondo Pierre Lévy, il virtuale è trasformazione da una modalità dell’essere a un’altra, ovvero una dimensione in cui i confini della realtà e del sogno si incrociano. Il virtuale “non è affatto il contrario del reale”, ma è come il complesso problematico, il nodo di tendenze e di forze che accompagna una situazione, un evento, un oggetto o un’entità qualsiasi e che richiede un processo di trasformazione: l’attualizzazione. In questo senso l’attualizzazione appare come la soluzione di un problema, una soluzione che non era già presupposta nell’enunciato: l’attualizzazione, insomma, è “creazione, invenzione di una forma a partire da una configurazione dinamica di forme e di finalità”. Il virtuale, pertanto, “schiude prospettive future”, genera processi di creazione, “scava pozzi di senso al di sotto della piattezza della presenza fisica immediata”. In questa prospettiva, il 104 virtuale non ha niente a che vedere con il falso, l’illusorio, l’immaginario, ma rappresenta piuttosto uno degli eventuali modi di essere - o, m eglio, di divenire della “realtà” 146. Quale è la condizione di possibilità di questo discorso? Uscire da una logica binaria (vero/falso), alimentata da una teoria della verità come rappresentazione speculare di una realtà monodimensionale 147 e condividere, invece, una logica (o, forse, un’a-logica) consapevole che vedere significa costruire e ricostruire il mondo 148 e, soprattutto, che l’astratto di oggi sarà il concreto di domani in quanto il virtuale è il germe di un diverso modo di essere del reale. In altri termini, l’alternativa principale che si pone nella post-modernità non mette contrapposizione schematica 146 tra di fronte reale e a virtuale, una ma Lévy (1997, pp. 2ss.): diversi filosofi hanno già lavorato al concetto di virtuale, e “tra questi vi sono pensatori come Gilles Deleuze e Michel Serres. Che cosa si prefigge dunque questa mia opera? E’ molto semplice: non mi sono limitato a definire il virtuale come una specifica modalità dell’essere, ma ho voluto analizzare e illustrare un processo di trasformazione da una modalità dell’essere a un’altra. In questo libro, infatti, viene analizzata la virtualizzazione che dal reale o dall’attuale risale al virtuale. La tradizione filosofica, fino aai lavori più recenti, analizza il passaggio dal possibile al reale o dal virtuale all’attuale. Che io sappia, nessuno studio ha ancora analizzato la trasformazione inversa, quella in direzione del virtuale. Ora, proprio questo tornare a monte sembra caratterizzare sia il movimento di autocreazione che ha determinato la comparsa della specie umana, sia la transizione culturale accelerata che oggi stiamo vivendo”. Per un excursus storico-filosofico sul virtuale cfr. l’introduzione di Bettetini al testo di Lévy (1997, pp. XIIIss.). 147 Cfr. Rabinow (1987, pp. 293ss.). 148 In proposito cfr. Goodman (1988). 105 piuttosto a una scelta tra diverse modalità di dell’intelligenza” e virtualizzazione, così come di attualizzazione. Attraverso le “l’intelligenza “tecnologie collettiva” che rappresentano l’ asset organizzativo strategico, l’attualizzazione del virtuale si configura come creazione, “invenzione di una forma a partire da una configurazione dinamica di forze e di finalità”: una produzione di “qualità nuove”, sostiene Lévy, una trasformazione delle idee, un “divenire che di rimando alimenta il virtuale stesso”. Per esempio, scrive ancora Lévy, mentre lo svolgersi puramente logico di un programma informatico possibile/reale, è l'interazione riconducibile tra l'uomo alla e i coppia sistemi informatici fa capo alla dialettica del virtuale e della sua (eventuale) attualizzazione. Ogni équipe di programmatori ridefinisce e risolve diversamente il problema che ha di fronte. Più a valle, l’attualizzazione del programma in sede di utilizzo, per esempio in un collettivo di lavoro, “squalifica talune competenze, fa emergere nuovi meccanismi, scatena conflitti, sblocca situazioni, instaura una nuova dinamica di collaborazione” e così via. Il software , in definitiva, è portatore di una virtualità di 106 cambiamento che il gruppo attualizza in modo più o meno creativo 149. Per concludere, lavorativa si knowledge può dire driven si che l’organizzazione configura come una dimensione cognitiva e sociale caratterizzata da processi in costante evoluzione, dove “conoscere” non vuol dire “riconoscere”, cioè apprendere qualcosa di dato e di “esterno a noi”, ma significa percorrere le molteplici ways of world-making che possono consentire di creare e costruire non solo nuovi prodotti, ma nuovi modi di pensare e di agire, quindi nuovi orizzonti e scenari di senso – secondo i limiti e le forme consentite dalla struttura organizzativa entro cui si opera. L’organizzazione apre e genera, dunque, una dimensione in cui le persone si ritrovano immerse in “mondi di pensiero” 150 e, al contempo, di azione che a loro volta possono generare nuovi mondi: forse, è come vivere nel eracliteo dove il divenire e il cambiamento generano l’innovazione continua, che, per chi lavora nell’organizzazione basata sulla conoscenza, si configura 149 Lévy (1997, p. 7). Per un’apertura interessante alla costruzione dei mondi di pensiero teorizzata da Goodman (1988) cfr. Douglas (1990, pp. 42ss. e 101ss.) che ne propone una traduzione con il “collettivo di pensiero” tematizzato da Fleck (1983). 150 107 come un processo di “ricreazione del mondo” 151 - alla luce di un ideale o di una visione particolari, distintivi della cultura organizzativa entro cui si è “gettati”. 151 Cfr. Nonaka e Takeuchi (1997, p. 36). 108 BIBLIOGRAFIA ACCORNERO A., Dove 1975, cercare le origini del taylorismo e del fordismo , “Il Mulino”. 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