Enrico Guglielminetti IL MIRACOLO ECONOMICO

© SpazioFilosofico 2013 – ISSN: 2038-6788
Enrico Guglielminetti
IL MIRACOLO ECONOMICO
Abstract
The essay begins with an analysis of Malthus’ Essay on the Principle of Population, in which one
can retrace a physicalism of space: the want of room implies the failure of all politics of distribution that
are not first concerned with a decrease in the birth rate. Following up on this, Aristotle’s principle of
non-contradiction (that is, philosophy itself) is interpreted as an economic device that creates room where
there is none—something like a space generator. Whereas in the traditional static interpretation of it the
principle of non-contradiction does not leave the realm of distribution, in a dynamic interpretation it
actualizes an addition (it generates space). On its turn, economy does not simply distribute the already
existing space but rather generates added space. Economics is therefore a philosophical science.
Nelle riflessioni che seguono paragono la concezione statica dell’economia – qual è
espressa da Malthus e della quale a mio giudizio le attuali teorie della decrescita
rimangono concettualmente debitrici – all’interpretazione statica del principio di non
contraddizione come punto di vista dell’intelletto astratto. Entrambe le concezioni
vanno a mio avviso rifiutate come insufficienti, in quanto restano ancorate alla logica
della distribuzione, della divisione in parti di uno spazio (naturale o logico che sia)
concepito come finito, non comprimibile ma neppure estensibile oltre i limiti dati in
partenza. La prospettiva malthusiana non rende ragione del reale funzionamento
dell’economia, che attraverso lo sviluppo aggiunge. Questo reale funzionamento trova
invece il proprio corrispettivo in un’interpretazione dinamica del principio di non
contraddizione (e più in generale della filosofia) come generatore di spazio. L’economia
appare dunque come una scienza filosofica, in quanto entrambe – economia e filosofia –
non si limitano a occupare (distribuendo o re-distribuendo) uno spazio già dato, ma
fanno l’aggiunta.
1. Il brutale punto di vista del capitale
Se – come scriveva Marx – la teoria di Malthus è importante solo perché «egli ha dato
espressione brutale al brutale punto di vista del capitale»1, nessun brano di Malthus è
1
K. MARX, Ökonomische Manuskripte 1857/58, in MARX e F. ENGELS, Gesamtausgabe (MEGA), Akademie
Verlag, Berlin 1975ss., vol. II.1 (Text), p. 494; trad. it. G. Backhaus, Scritti economici (1857-1858), in
MARX e F. ENGELS, Opere Complete, vol. 29, Editori Riuniti, Roma 1986, p. 543; per un’antologia dei
brani marxiani su Malthus, cfr. K. MARX, Malthus, a cura di C. Perrotta, Editori Riuniti, Roma 1979.
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forse più rappresentativo2 del famigerato paragrafo della seconda edizione (1803)
dell’Essay on the Principle of Population (I ed. 1798) sul grande banchetto della natura,
paragrafo che fu infatti cassato nelle edizioni successive:
«Un uomo che nasce in un mondo già occupato (A man who is born into a world already possessed), se non
può ottenere di che sussistere (subsistence) dai suoi genitori, verso cui è portatore di una giusta domanda,
e se la società non vuole il suo lavoro (and if the society do not want his labour), non ha il diritto di pretendere
la più piccola porzione di cibo (the smallest portion of food), e, di fatto, è di troppo in questo mondo (has no
business to be where he is). Nel grande banchetto della natura (At nature’s mighty feast), non c’è alcun coperto
vacante per lui (there is no vacant cover for him). La natura gli dice di andarsene (She tells him to be gone), e non
tarderà a eseguire da sé i proprî ordini, se egli non lavora sulla compassione di qualcuno degli ospiti. Se
questi ospiti si alzano e gli fanno spazio (make room for him), altri intrusi (intruders) immediatamente
appariranno domandando lo stesso favore (favour). La notizia che vi sono provviste per tutti quelli che
vengono, riempirà (fills) la sala di una moltitudine di richiedenti. L’ordine e l’armonia della festa saranno
disturbati (The order and harmony of the feast is disturbed), l’abbondanza (plenty) che regnava prima si
cambierà in scarsità (scarcity); e la felicità degli ospiti sarà distrutta dallo spettacolo di miseria e
dipendenza in ogni parte della sala (and the happiness of the guests is destroyed by the spectacle of misery and
dependence in every part of the hall) e dai clamori importuni (by the clamorous importunity) di coloro che sono
giustamente furiosi di non trovare le provviste che si era insegnato loro ad aspettarsi. Gli ospiti
riconosceranno troppo tardi l’errore di essersi opposti agli stretti ordini emanati verso tutti gli intrusi
dalla grande padrona della festa, la quale – desiderando che tutti i suoi ospiti avessero in abbondanza e
Com’è noto, Marx sostituisce alla presunta legge naturale (malthusiana) della popolazione la legge
naturale della produzione capitalistica, e al concetto assoluto di sovrappopolazione, quale si trova in
Malthus, il concetto di sovrappopolazione relativa: l’esercito industriale di riserva dei disoccupati e sottooccupati, che con la sua calca preme contro il proletariato occupato, è il “segreto” della naturalizzazione
(oggi diremmo: dell’ontologizzazione) dell’economia capitalistica operata da Malthus. La variazione
della composizione organica del capitale, con la diminuzione della parte variabile rispetto a quella
costante, produce sovrappopolazione relativa indipendentemente dall’aumento assoluto della
popolazione. Non è forse esagerato intendere il pensiero marxiano come un’assunzione-rovesciamento
della teoria malthusiana sulla popolazione, volta a mostrare le condizioni storiche concrete della
produzione di soprannumerari, cioè di lavoratori in aggiunta. Cfr. il cap. 23 del I libro del Capitale.
Può non essere inutile osservare che il principio di sovrappopolazione, come principio della mancanza
di spazio disponibile, conosce una sorta di declinazione mistica nei Pensieri sulla morte e l’immortalità
feuerbachiani (1830): qui l’infinito occupa tutto lo spazio, talché per il finito non resta, alla lettera, nessuno
spazio: il finito è sovrannumerario, come l’esercito dei disoccupati secondo Marx: «Se ti rappresenti
l’Essere come una sfera, come uno spazio, ti risulta chiaro che l’infinito non occupa una parte di questa
sfera, che non occupa un qualche luogo di essa e qualche altro lascia vuoto, bensì che riempie l’intero
spazio, senza che si trovi un posto libero per altre cose ancora […]. Ma ora, proprio dal punto di vista
di questa osservazione […], come è possibile l’Essere del finito?» (L. FEUERBACH, Gedanken über Tod und
Unsterblichkeit, in ID., Sämtliche Werke, vol. XI, a cura di H.-M. Sass, Frommann, Stuttgart-Bad Cannstatt
1962, p. 112; trad. it. F. Bazzani, Pensieri sulla morte e sull’immortalità, Editori Riuniti, Roma 1997, pp. 5051).
Dal punto di vista della storia della cultura, ci si può chiedere se questo sentimento di mancanza di
spazio non sia all’origine della crisi di plausibilità della rappresentazione della risurrezione della carne
nella mentalità diffusa. Pensare che miliardi di esseri umani risorgano ciascuno col proprio corpo,
sembra davvero troppo. Si tende dunque a fare economia della risurrezione, tramite rappresentazioni
alternative, come quella della reincarnazione, che effettivamente garantisce un importante risparmio di
anime. L’esercito di sovrannumerari in terra rischia con ciò di essere soprannumerario anche in cielo.
2
La brutalità è, beninteso, anche il motivo d’interesse di questo pensiero, che risulta più utile di molte
sdolcinate interpretazioni della dinamica demografica alla luce di un ottimismo provvidenzialistico. Cfr.,
sul tema, il saggio di A. LA VERGATA, Nonostante Malthus, Bollati Boringhieri, Torino 1990.
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sapendo di non poter provvedere per numeri illimitati (she could not provide for unlimited numbers) –, aveva
umanamente rifiutato di ammettere nuovi venuti quando la sua tavola era già piena (humanely refused to
admit fresh comers when her table was already full)»3.
Col crudo realismo dei pensatori di destra, rovesciando cinicamente la parabola
evangelica del banchetto escatologico, Malthus osserva che non c’è posto per tutti. Non
è possibile riempire due volte un posto già occupato.
La questione dello spazio, e della sua mancanza, la questione cioè della saturazione è
cruciale nel Saggio sul principio di popolazione:
«Attraverso i regni animale e vegetale, la natura ha sparso dappertutto i semi della vita con mano
quanto mai prodiga e generosa. Essa è stata relativamente parsimoniosa nel fornire lo spazio
(comparatively sparing in the room) e il nutrimento necessari per allevarli. I germi di vita contenuti in questo
pezzetto di terra, con abbondante cibo ed ampio spazio per espandersi (ample room to expand in),
riempirebbero milioni di mondi nel corso di poche migliaia di anni. Ma la necessità, questa imperiosa
legge di natura che tutto pervade, li limita entro i confini prescritti. La razza delle piante e la razza degli
animali si contraggono sotto questa grande legge restrittiva. E la razza umana non può sfuggirle, per
quanti sforzi faccia con la sua ragione. Tra le piante e gli animali i suoi effetti sono la dispersione del
seme, la malattia e la morte prematura. Tra gli esseri umani, la miseria e il vizio (misery and vice)»4.
Le piante e gli animali «sono spinti da un possente impulso a moltiplicare la loro specie»,
senza preoccuparsi delle possibilità concrete di sostentamento della loro discendenza:
«Perciò essi esercitano il loro potere di incremento dovunque ve ne sia possibilità, e i
soggetti in sovrannumero (the superabundant effects) vengono poi eliminati dalla mancanza
di spazio (want of room) e di nutrimento, o anche, nel caso degli animali, dagli attacchi dei
predatori»5.
L’aumento della popolazione crea problemi di quote, problemi cioè di distribuzione:
«La costante tendenza al popolamento, che agisce anche nelle società più viziose, fa
aumentare il numero degli abitanti prima che siano aumentati i mezzi di sussistenza.
Perciò gli alimenti che prima sostentavano sette milioni di persone debbono ora essere
ripartiti tra sette milioni e mezzo oppure otto milioni di abitanti. I poveri, di
conseguenza, vivranno assai peggio, e molti di loro si troveranno ridotti in grave
miseria»6.
L’umanità è alle prese con una «lotta perpetua per lo spazio e per il cibo (perpetual
struggle for room and food)»7. Malthus pensa che la miseria di una parte dell’umanità sia
inevitabile, e si oppone con decisione a ogni forma di welfare, ritenendo che le leggi sui
poveri non facciano che aggravare il problema che vorrebbero alleviare. Oggi – rileva
3
T.R. MALTHUS, An Essay on the Principle of Population or a View of its past and present Effects on Human
Happiness; with an Inquiry into our Prospects respecting the future Removal or Mitigation of the Evils which it occasions,
The Version Published in 1803, with the Variora of 1806, 1807, 1817 and 1826, ed. by P. James,
Cambridge U.P., Cambridge-New York 1989, vol. I, pp. 127-128 [d’ora in poi = PP2ss.]; trad. mia.
4
T.R. MALTHUS, An Essay on the Principle of Population, as it affects the future Improvement of Society,
Macmillan, London 1966, pp. 14-15 [d’ora in poi PP1]; trad. it. G. Maggioni, Saggio sul principio di
popolazione (1798), Einaudi, Torino 1977, p. 14.
5
PP1, p. 27; it., p. 19.
6
PP1, pp. 29-30; it., p. 20.
7
PP1, p. 48; it., p. 29.
53
Malthus – non c’è carne abbastanza, «perché tutti possano avere una quota decente (a
decent share)», ma un’eventuale sottoscrizione da parte dei ricchi che facesse lievitare il
salario dei poveri «non farebbe aumentare la quantità di carne esistente nel paese»8. «La
verità è che la pressione delle privazioni (the pressure of distress) su questa parte della
comunità è un male tanto profondamente insediatosi, che l’ingegno dell’uomo non può
curarlo»9. Le leggi sui poveri avrebbero come unico effetto l’aumento della popolazione
senza un corrispettivo aumento della produzione, sicché la «conseguenza inevitabile sarà
che lo stesso prodotto dovrà essere diviso tra un numero maggiore di persone, e di
conseguenza con la paga giornaliera si potrà acquistare una minore quantità di alimenti,
così che i poveri in generale vivranno in condizioni ancora peggiori»10.
Viceversa, «tutte le nuove colonie insediate in paesi salubri dove non manchino spazio
e cibo (room and food) hanno sempre visto crescere la loro popolazione con straordinaria
rapidità»11. La stessa cosa non può avvenire in Gran Bretagna: «La causa, ovvia e
fondamentale, di questo fenomeno è la mancanza di spazio e di alimenti, ovvero, in altre
parole, la miseria (the want of room and food, or, in other words, misery)»12.
Se il numero degli abitanti aumenta più rapidamente di quello degli alloggi, le case
dovranno «accogliere un numero maggiore di persone (a greater number would be crowded
together in one house)»: «Supponendo che il numero delle case rimanga lo stesso, in ogni
abitazione ci sarebbero sette o otto persone invece di cinque o sei»13. Il periodico ritorno
di epidemie e stagioni insane trova una delle sue cause principali nella «mancanza di
spazio e di cibo (a scantiness of room and food)»14.
Da questa impostazione, deriva coerentemente il rifiuto malthusiano delle Poor Laws15.
Esse costituiscono un sistema generale di soccorso,
«ma si deve temere che, sebbene esso possa avere alleviato un po’ l’intensità della disgrazia
individuale, esso abbia sparso il male su una superficie molto più estesa (it has spread the evil over a much
larger surface)»16.
Di nuovo, è la questione dello spazio quella decisiva per Malthus. Lo spazio finito della
ricchezza non può essere distribuito, se non a prezzo di ridurre la quota pro-capite, il che
– oltre un certo segno – diventa insostenibile. L’unico rimedio diventa dunque la
diminuzione del denominatore, cioè del numero di persone tra cui devono essere
8
PP1, pp. 75-76; it., p. 43.
PP1, p 95; it., pp. 51-52.
10
PP1, p. 135; it., p. 71.
11
PP1, p. 101; it., p. 55.
12
PP1, p. 109; it., p. 59.
13
PP1, pp. 116-117; it., p. 63.
14
PP1, p. 118; it., p. 64.
15
Sul tema, cfr. F. DI SCIULLO, Gestire l'indigenza. I poveri nel pensiero politico inglese da Locke a Malthus,
Aracne, Roma 2012. Per una rilettura critica del malthusianesimo dal punto di vista della demografia
contemporanea, cfr. altresì A. ROSINA e M. L. TANTURRI, Goodbye Malthus. Il futuro della popolazione dalla
crescita della quantità alla qualità della crescita, Rubbettino, Soveria Mannelli 2011.
16
PP2ss, vol. I, p. 348; trad. mia. Cfr. altresì la traduzione italiana, basata però su una versione successiva,
del Saggio sul principio di popolazione, con introduzione G. Prato, Utet, Torino 1965, p. 334 [rist.
dell’edizione del 1868, d’ora in poi = Utet].
9
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distribuite le risorse disponibili: il povero deve semplicemente capire che non deve
«mettere al mondo esseri per i quali non è in grado di trovare i mezzi di sostentamento»:
«Se non può nutrire i suoi figli, è inevitabile che muoiano di fame (they must starve)»17. La
soluzione sta dunque nel diminuire il numero: nel rallentare la corsa della lepre
demografico-distributiva, in modo da consentire alla tartaruga della produzione di
raggiungerla e sorpassarla18. Parimenti, l’unico mezzo di innalzare i salari sta nel
diminuire il numero di lavoratori disponibili sul mercato19.
Pretendere di assistere tutti i poveri, quale che sia il loro numero, «è un’impossibilità
fisica (is a physical impossibility)»20. Il punto è – per Malthus – il limite fisico delle risorse. Se
l’economia non diventa metafisica (e la questione è appunto se e come potrebbe farlo),
ne consegue che non può esistere «il diritto dei poveri al mantenimento (the right of the
poor to support)» a spese dello Stato21. Anche il diritto è infatti preso in questa cattura
fisicalistica: esiste un diritto, per Malthus, solo se è razionalmente possibile soddisfarlo.
Malthus nega qualsiasi trascendenza del diritto: se è vera la tesi dei due differenti modi di
accrescimento della popolazione e dei viveri, allora «segue irresistibilmente che non tutti
possono avere un diritto a essere mantenuti»22:
«Infatti, checché si dica, introducendo in questo argomento le più sterili declamazioni, quasi tutta la
nostra condotta è fondata sulla non-esistenza di questo diritto. Se i poveri potessero esigere davvero
(really) il diritto di essere mantenuti, nessuno potrebbe giustificarsi per il fatto di portare un vestito di
panno largo (broadcloth) o di mangiare tutta la carne di cui ha voglia per cena»23.
La realtà, per Malthus, è che, dato uno spazio finito, nessuno può stare largo (nel suo
vestito, o dove che sia), senza togliere spazio a qualcun altro. Ne risulta che c’è aggiunta,
cioè ci sono «membri soprannumerari (supernumerary members)» della società24, che non
possono e dunque non hanno alcun diritto di essere nutriti. Il diritto si fonda infatti sulle
«leggi di natura, che sono le leggi di Dio (the laws of nature, which are the laws of God)»25, che
non danno alcun diritto all’assistenza. Si tratta di leggi esatte, sicché ciascuno dovrà
convenire che «non vi è in Euclide proposizione più convincente di questa»26, che è
impossibile migliorare la sorte del popolo senza diminuire il numero delle nascite.
Occorre comprendere, secondo Malthus, che nel nostro «stato di prova», non è
possibile sperare in un «miglioramento fondamentale e del tutto straordinario della
società umana»: chi si abbandona a vane speranze, tende a dare la colpa di tutti i mali
alla «perversità» e alla «malvagità» di «coloro che hanno influenza sulle umane
istituzioni», e vive dunque in uno «stato costante d’irritazione e di delusione»27. La teoria
17
PP2ss, vol. II, p. 105; cfr. Utet, p. 461.
Cfr. PP2ss, vol. II, p. 108; Utet, p. 464.
19
Cfr. PP2ss, vol. II, p. 109; Utet, pp. 464-465.
20
PP2ss, vol. II, p. 201; Utet, p. 553.
21
PP2ss, vol. II, p. 212; Utet, p. 567.
22
Ibidem, ivi.
23
PP2ss, vol. II, p. 213; cfr. Utet, p. 568.
24
PP2ss, vol. II, p. 219; Utet, p. 575.
25
PP2ss, vol. II, p. 216; Utet, p. 571.
26
PP2ss, vol. II, p. 220; Utet, p. 576.
27
PP2ss, vol. II, p. 229; cfr. Utet, p. 585-586.
18
55
di Malthus ha l’importante effetto collaterale di evitare questo pericoloso fomite della
rivolta politica.
2. La filosofia come dispositivo economico-politico
Quella malthusiana è un’economia della decrescita. Dato uno spazio finito,
incomprimibile e inestensibile (se non in tempi assai lunghi), l’unica risorsa è quella di
consumare di meno, facendo meno figli o riducendo i consumi pro-capite. Si tratta –
potremmo dire, mutuando un’espressione di Hegel – di un’economia dell’intelletto
astratto; contro di essa occorre obiettare che l’economia – come tale – aggiunge.
L’economia dispiega anzi le proprie migliori risorse filosofiche proprio in quanto
economia dello sviluppo, che non chiude la realtà in una gabbia, imponendole leggi
claustrofobiche. Per fare ciò, l’economia deve però avvalersi di un’interpretazione
dinamica del principio di non contraddizione, che occorre qui precisare.
Tenendo sullo sfondo le riflessioni di Malthus, è possibile tentare un’interpretazione
del principio di non contraddizione, dunque in solido della filosofia, come dispositivo
economico, come dispositivo – cioè – che consente un decisivo ampliamento di spazio,
realizzando un’aggiunta. La differenza principale tra filosofia ed economia sarebbe, sotto
questo profilo, che la filosofia realizza il guadagno di spazio sul posto, mentre
l’economia esternalizza l’aggiunta, e solo come economia politica – in un senso
idiosincratico dell’espressione –, o economia filosofica, può auto-emendarsi,
internalizzando l’aggiunta.
Indubbiamente, il principio di non contraddizione, nella sua interpretazione statica,
filologicamente legittima e storicamente prevalente, si limita a distinguere aspetti
differenti della cosa, senza fare l’aggiunta. In questo senso, esso corrisponde al momento
economico della distribuzione: non crea spazio aggiunto, ma mette in ordine lo spazio che
c’è28. Da questo punto di vista, non è in grado di affrontare la crisi, cioè il momento della
sovrapproduzione relativa, vale a dire – filosoficamente – il momento della saturazione29,
e – per questo motivo – risulta insoddisfacente in una prospettiva dialettica:
«Questa proposizione non è una vera legge del pensiero, ma soltanto la legge dell’intelletto astratto
(Dieser Satz, statt ein wahres Denkgesetz zu seyn, ist nichts als das Gesetz des abstrakten Verstandes)»30.
28
Più esattamente, il principio da un lato si limita a distribuire entro uno spazio logico dato, dall’altro
moltiplica a piacere le distinzioni, e dunque gli spazi. Per un verso ha che fare con uno spazio
potenzialmente illimitato, per l’altro con uno spazio rigido. In entrambe queste versioni però il
principio non pone problemi di spazio, si adatta perfettamente allo spazio che c’è, o che si crea ad
libitum moltiplicando le distinzioni. Viceversa, nella sua interpretazione dialettica, il principio va
innanzitutto incontro a uno scacco. Non c’è spazio a sufficienza per fare una distinzione. Solo a questo
patto, è possibile parlare di “aggiunta”. Nella prima versione, di spazio ce n’è quanto basta; nella
seconda, siamo per così dire in riserva. Qui si apre, se si apre, lo spazio per una concezione dinamica
del principio.
29
Cfr. “Spaziofilosofico” 06 (3/2012), Saturazione.
30
G.W.F. HEGEL, Enzyklopädie der Philosophischen Wissenschaften im Grundrisse (1830), hrsg. von W.
Bonsiepen und H.-C. Lucas, in ID., Gesammelte Werke, Bd. 20, Felix Meiner Verlag, Hamburg 1992, p.
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È però possibile offrire un’interpretazione alternativa del principio di non
contraddizione che lo avvicini al momento economico della produzione: il principio, così
interpretato, assicura una genesi, diventa generativo dello spazio entro cui avviene la
distribuzione. In termini economici, si tratterebbe insomma di qualcosa come di una
distribuzione produttiva (o di una produzione distributiva)31.
Nella formulazione tradizionale, prevale invece il mero momento distributivo, che
risulta così evidente da scotomizzare del tutto l’altro. Secondo Aristotele,
«È questo il più sicuro di tutti i princìpi […]. Infatti, è impossibile a chicchessia credere che una
stessa cosa sia e non sia, come, secondo alcuni, avrebbe detto Eraclito»32.
Analogamente, nella Metaphysica di Baumgarten (Pars I, Ontologia), in cui è evidente
l’influenza scotista, il principio di non contraddizione è il principio assolutamente primo:
«Nihil negativum (cfr. § 54), irrepraesentabile, impossibile, repugnans (absurdum, cfr. § 13), contradictionem
involvens, implicans, contradictorium, est A et non-A […]. 0 = A + non-A. Haec propositio dicitur principium
contradictionis, et absolute primum (Il nulla negativo [cfr. § 54], l’irrappresentabile, impossibile, che
ripugna [assurdo, cfr. § 13], che involve o implica contraddizione, contraddittorio: è A e non-A […]. 0 =
A + non-A. Questa proposizione si chiama principio di contraddizione ed è il principio assolutamente primo)»33.
La questione (di una distribuzione produttiva e/o produzione distributiva) sembra
coinvolgere anche il ruolo del tempo nell’ambito del principio. Kant opportunamente
rifiuta quella formulazione del principio,
«la quale contiene una sintesi, che v’è stata mescolata per inavvertenza e senza necessità alcuna. Essa
suona: “È impossibile che qualche cosa sia e non sia nello stesso tempo”. Oltre che qui è superflua
l’aggiunta della certezza apodittica (con la parola impossibile) (Außer dem, daß hier die apodiktische Gewißheit
[durch das Wort unmöglich] überflüssiger Weise angehängt worden), che si desume da sé dal principio, il
principio è affetto dalla condizione del tempo […]. Ora, il principio di contraddizione, in quanto
principio semplicemente logico, non deve assolutamente limitare le sue enunciazioni ai rapporti di
tempo (gar nicht auf die Zeitverhältnisse einschränken): quindi una tale formula è affatto contraria allo scopo
di esso»34.
147; trad. it. V. Cicero, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1830), Bompiani, Milano 2000, p.
273 (§ 115).
31
Il momento distributivo puro va incontro a uno scacco, si determina una situazione in cui non c’è
spazio a sufficienza. Che fare? Qui non è data la via d’uscita di produrre ex nihilo spazi suppletivi esterni,
come se dicessi che una biro blu non può essere nera (spazio rigido), ma può invece essere a punta
morbida o dura, e così via (spazio aggiunto esterno). Lo spazio aggiunto cui facciamo riferimento è –
viceversa – uno spazio interno. Per questo, partire dalla distribuzione (e dal suo fallimento) resta
essenziale. Il problema è come dare a tutti abbondantemente senza escludere nessuno, non
semplicemente come aumentare la ricchezza disponibile.
32
Metaph. Γ, 3, 1005 b 22-25; trad. it. G. Reale, Metafisica, Bompiani, Milano 2000, p. 145.
33
A.G. BAUMGARTEN, Metaphysica/Metaphysik, Historisch-Kritische Ausgabe, hrsg. von G. Gawlick u.
L. Kreimendahl, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 2011, p. 56 (§ 7).
34
I. KANT, Kritik der reinen Vernunft, 2. Auflage (1787), in ID., Kant’s gesammelte Schriften, a cura della Reale
Accademia Prussiana delle Scienze, Akademie-Verlag, Berlin-Leipzig 1900ss., vol. III, pp. 191-192; trad.
57
Un’interpretazione dinamica del principio, quale qui la proponiamo, non potrebbe
limitarsi all’aggiunta allotria del tempo. È infatti evidente, per riprendere l’esempio di
Kant, che un uomo giovane non può, nello stesso tempo, essere vecchio. Non c’è
bisogno di aggiungerlo. Se di aggiunta si deve trattare, allora dev’essere intrinseca.
Vi sono casi, in cui il principio di non contraddizione fa spazio, guadagna per la prima
volta lo spazio, entro il quale la distribuzione aspettuale può poi successivamente essere
posta.
Un uso siffatto del principio è implicitamente proprio – non per motivi logici, ma per
motivi teologici – al pensiero della Scolastica. Quando distinguono tra Cristo in quanto
uomo e in quanto Dio, allo scopo di affermare verità contro-intuitive, come per esempio
che lo stesso individuo inchiodato sulla croce soffrirebbe e non soffrirebbe nello stesso
tempo (ma non sotto lo stesso aspetto), i filosofi scolastici, contro la loro stessa
intenzione (che resta esplicitamente aristotelica), inaugurano un uso aggiuntistico del
principio. Certamente, per un verso il principio continua a distinguere – come una
fotografia – aspetti già precedentemente distinti (la natura umana e la natura divina della
persona divina). In questo senso, esso viene dopo l’aggiunta, non la produce. Per un altro
verso però, questa fotografia è possibile solo perché prima è successo qualcosa. Il
principio di non contraddizione mostra – a un livello statico – l’esito di una vicenda
(l’assunzione della natura umana da parte della persona divina), il che significa che – a un
livello dinamico – (si) fa spazio, fa l’aggiunta, crea lo spazio entro il quale soltanto due
aspetti (dio/uomo) possono poi anche essere distinti.
Quella che potrebbe sembrare solo una fantasia teologica disvela invece, secondo
quanto propongo, il significato radicale del principio come generatore di spazio, significato
che corrisponde alla natura dell’essere come aggiunta. Se però genera lo spazio in cui
solo può poi collocare le sue distinzioni35, il principio è marcato a tempo, non si limita a
organizzare uno spazio ma lo produce. In questo senso, il principio – diversamente da
quanto ritiene Kant – fa necessariamente riferimento a un rapporto temporale, ma
questa aggiunta non è superflua, come invece quella stigmatizzata da Kant.
In quanto pone per la prima volta quello che distingue, il principio fa l’aggiunta: crea
uno spazio supplementare, così come aggiunge il tempo (ch’è un operatore aggiuntistico
per eccellenza): non però come appendice estrinseca, giustamente rifiutata da Kant (non
c’entra che domani qualcuno sarà vecchio, se si sta parlando del fatto che è giovane), ma
come carica interna, come sentimento interno del tempo.
La filosofia appare così come un dispositivo economico, che produce valore aggiunto;
ma che – diversamente dall’economia – non lo produce al di fuori. Il tempo qui non
determina avvicendamento, perché il subentrante non toglie spazio a ciò cui subentra.
it. G. Gentile e G. Lombardo-Radice, riveduta da V. Mathieu, Critica della ragion pura, Laterza, RomaBari 2000, p. 144 (Analitica dei princìpi, cap. II, sez. I).
35
Di nuovo: non si tratta qui di colonie (o di emigrazione). Il problema non è trovare spazi esterni, là
dove non ve ne siano più di interni (o nella madrepatria). Se così fosse, si potrebbe sempre sperare che
questi spazi siano infiniti. Il problema è, piuttosto, come fare spazio dove non ce n’è, senza che ciò
implichi una exit strategy. L’uso teologico del principio mette in campo appunto una contraddizione, e la
non contraddizione è il superamento della contraddizione, non il suo evitamento o la sua
sterilizzazione; e nemmeno la sua esportazione all’esterno, allo scopo di rimuoverla.
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Da questa natura economica della filosofia, che costituisce come il lato luminoso della
teologia economica36, derivano forse due indicazioni per l’economia, una confermativa e
l’altra emendativa: quella confermativa è, appunto, il pieno riconoscimento
dell’economia in quanto agire che realizza l’aggiunta. È vero che – come affermano i
teorici della decrescita – in uno spazio finito non può stare alcunché d’infinito; ma è
altresì vero che, differentemente da quanto si pensa di solito, è proprio l’infinito, non il
finito, ciò che contiene di più di quanto non possa starvi37. L’infinito è con ciò acquisito
come quel finito che contiene di più di quanto non possa, il che costituisce appunto il
miracolo. Se l’economia, dunque il lavoro dell’uomo, con un capriccio teologico positivo
realizza il piccolo miracolo di aumentare la realtà, non si comprende come questo possa
esserle rimproverato. L’indicazione emendativa è invece che la vera aggiunta non fa
spazio a qualcosa, togliendolo a qualcos’altro. La marca temporale non è una marca della
sostituzione, perché non crea spazio per il successivo a danno del precedente, ma è
piuttosto l’evento, che rende possibile una simultaneità, la compresenza cioè nello stesso
luogo di contrari che sembravano incompossibili, e che il principio appunto distribuisce
e distingue. In questo senso, l’economia a venire dovrà imparare ad aggiungere di più,
non di meno. Dovrà, in una parola, essere più economica, e proprio e solo per questo
anche più politica.
Il merito di Malthus è richiamare con brutalità i limiti fisici dell’economia. La sua
visione asfittica dell’agire economico ci rammenta che, innanzitutto e perlopiù, non c’è
spazio per tutti, che i più – addirittura – sono in sovrannumero. Sempre e di nuovo
economia e politica si sforzano – talora con successo e talora no – di dare torto a
Malthus, e sempre e di nuovo le concrete fantasie malthusiane tornano ad assillarci. Nel
suo sforzo inesausto di assorbire il soprannumero (l’altro lato del suo interesse bieco a
gettare la gente sul lastrico), l’economia – anche a prescindere dalle politiche statuali di
distribuzione – mostra un’insospettata vocazione metafisica, che fa tutt’uno con un suo
penchant politico intrinseco. L’economia è dunque speculazione, ma non solo in un senso
negativo38.
Proprio perché avvicina drammaticamente la tentazione del cinismo, della creazione di
un esercito industriale o di una sovrappopolazione relativa di riserva, la tentazione cioè
di ri-proletarizzare l’Europa per renderla più competitiva con le economie asiatiche e con
quelle americane, la crisi economica può essere anche l’occasione di una scelta e di una
scommessa diversa: quella di un’economia a basso grado di temperatura sociale, che
faccia più aggiunte con meno scorie e residui, materiali o umani che siano. Un’economia
2.0 che faccia meglio e con minor dispersione di energia quello che ha sempre fatto: fare
aggiunte, provare a produrre il miracolo (economico, appunto) del transito dalla fisica,
con i suoi limiti angusti, alla metafisica, in cui ciascuno occupa lo spazio che aggiunge, e
che dunque non toglie ad altri.
36
Per il suo lato oscuro, cfr., in questo numero, l’articolo di Laura Bazzicalupo.
Come fa un soggetto numericamente identico a essere tre soggetti numericamente identici?
Questione della Trinità.
38
Per il senso negativo dell’equazione tra economia (finanza) e speculazione, cfr., in questo numero,
l’articolo di G. Chiurazzi.
37
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Quello che insomma non dovremmo dimenticare, soprattutto nei prossimi 20 anni, che
saranno presumibilmente dedicati alla necessità di rientrare a tappe forzate dal debito
pubblico, è che non esiste solo la “finanza creativa”, perché anche e soprattutto il lavoro
è creativo. Sarebbe assurdo rigettare la creatività dal lato della “speculazione”,
identificare la creatività con i derivati o le cartolarizzazioni, opponendo ad essa il
realismo statico della macchina calcolatrice. È sempre il male che prende a prestito
illegittimamente le caratteristiche del bene, mai viceversa. Regalare alla “speculazione” il
concetto di “creatività”, per il fatto che essa lo ha rubato all’economia, non è una buona
politica. Perfino il famigerato Originate-to-Distribute39 altro non è che la deformazione di
un principio vero, che non è saggio archiviare solo per evitare le sue aberrazioni40. Se,
sempre più spesso, sentiamo opporre, forse un po’ vacuamente, la finanza all’economia
reale, occorre ricordare non solo che anche la finanza è reale (se non altro perché genera
la liquidità, senza la quale il ciclo economico non potrebbe funzionare), ma anche – e
soprattutto – che la realtà non è uno spazio malthusiano, divisibile in lotti di grandezza
accettabile se e solo se siamo in pochi (ch’è poi il realismo leghista), ma che ciò che c’è –
per rispondere alla domanda di Quine41 – è l’aggiunta. La realtà, è l’aggiunta42.
39
Cfr., in questo numero, l’articolo di A. Miglietta.
Bisogna imparare da Benjamin: se l’omino gobbo è l’immagine della vita distorta, l’immagine della
redenzione sarà – con una piccolissima differenza – un nano gobbo, non certo un gigante eretto. Cfr.,
sul tema, E. GUGLIELMINETTI, “Due” di filosofia, Jaca Book, Milano 2007, cap. V («L’omino gobbo/un
nano gobbo).
41
W.V. QUINE, On What There Is, in “Review of Metaphysics”, 2 (1948/1949), pp. 21-38; trad. it. A.
Meotti, Su ciò che vi è, in L. LINSKY (a cura di), Semantica e filosofia del linguaggio, il Saggiatore, Milano 1969,
pp. 239-259.
42
Il prossimo fascicolo di Spaziofilosofico (08 [2/2013]) sarà dedicato a “Realtà”.
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