Diritto del lavoro

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Autore: Davide Cavallino
Diritto del lavoro
Diritto del lavoro 2013/2014
(Parte V,VI,VII,VIII)
Anno accademico 2013/2014
Riassunto di “Diritto del lavoro” di M.V.Ballestrero,G.De Simone,M.Novella
Integrati con appunti presi a lezione
A cura di Davide Cavallino.
La condivisione pubblica di questo documento non era premeditata,pertanto:
-Troverete numerosi rimandi al libro di testo, talvolta addirittura in riferimento ad interi paragrafi;
-Troverete errori di battitura,errori di ortografia ,tempi verbali sballati,oltre a possibili ripetizioni di
concetti.
Non sono sufficienti ai fini della preparazione dell’esame
Parte V
Capitolo I: I Poteri del datore di lavoro: (leggere sul libro paragrafo 2.1 pag 318)
Il potere e i poteri del datore di lavoro:
Art.2086 C.c.(direzione e gerarchia nell’impresa): L’imprenditore è il capo dell’impresa e da lui dipendono
gerarchicamente i suoi collaboratori.
Art.2094 C.C.(prestare di lavoro subordinato) È prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante
retribuzione a collaborare nell'impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e
sotto la direzione dell'imprenditore.
Art.41
1. L'iniziativa economica privata è libera.
2. L’iniziativa economica non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da
recare danno alla sicurezza,alla libertà,alla dignità umana.
Gli articoli sopra proposti legittimano la figura del datore di lavoro come detentore di una serie di poteri
nei confronti del prestatore di lavoro, ma,allo stesso tempo,contribuiscono,in solido con i diritti fondamentali
del lavoratore e con la stessa disciplina dei poteri tipici del datore di lavoro, a porre dei limiti circa la
modalità d’esercizio del potere loro legittimato.
Jus variandi e tutela della professionalità:
Una prima analisi dei limiti posti al potere direttivo del datore di lavoro è desumibile dall’2103 c.c. il quale,
affermando che “il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto”, pone
un limite al potere del datore di modificare il contenuto della prestazione lavorativa dedotta in contratto,in
relazione alle esigenze organizzative che si manifestino durante lo svolgimento del rapporto di lavoro.
La limitazione di tal potere,noto anche come “jus variandi”, rappresenta una forma di tutela della
professionalità del lavoratore nonché strumento di protezione della dignità della persona del lavoratore
subordinato..
Con l’enunciazione di tale articolo possiamo inoltre cogliere quanto sia importante l’esatta definizione delle mansioni del lavoratore
(determinate e determinabili)e la sua corretta comunicazione informativa,utili come già visto, oltre che ai fini della valutazione del
corretto/non corretto adempimento della prestazione,della valutazione della diligenza per un’eventuale esercizio disciplinare anche
per valutare la correttezza di possibili modifiche delle mansioni volute da datore.
Categorie legali dei prestatori di lavoro (fare sul libro pagg.318-319-320)
Modifica delle mansioni e acquisizione della qualifica:
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Autore: Davide Cavallino
Diritto del lavoro 2013/2014
Art.2103 c.c. "Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle
corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime
effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il
prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all'attività svolta, e l'assegnazione stessa diviene definitiva, ove la
medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo
un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a tre mesi. Egli non può essere trasferito da una
unità produttiva ad un'altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Ogni patto contrario è
nullo."
a .Demansionamento:
Gli spostamenti verso il basso prendono il nome di demansionamento,ovvero lo spostamento ad una
mansione inferiore nel contenuto professionale del lavoro che il lavoratore svolgeva fino a quel
momento:tale diminuzione del contenuto professionale può essere sia di carattere quantitativo che di
carattere qualitativo; a tal proposito secondo la cassazione, la riduzione quantitativa delle mansioni è
legittima nei limiit in cui comporti una riduzione qualitativa delle mansioni e quindi una dequalificazione
professionale.
Il demansionamento del lavoratore costituisce un illecito previsto nell'art. 2103, dove nell'ultimo comma
(come modificato dall'art. 13 dello Statuto dei lavoratori) dice che ogni atto o patto contrario è nullo:questa
disposizione sancisce la nullità non solo degli atti unilaterali del datore di lavoro per il demansionamento, ma
anche dell'eventuale patto stipulato fra lavoratori e datore di lavoro per lo spostamento a mansioni
inferiori-->Il demansionamento costituisce quindi un illecito e come tale è un atto nullo.
In caso di demansionamento , il lavoratore può agire in giudizio al fine della reintegrazione alla originaria
mansione: a tal proposito è importante ricordare che, oltre a subire un danno di carattere economico dovuto
ad un eventuale diminuzione della retribuzione, il lavoratore può essere soggetto ad un danno professionale
derivante dalla violazione dell’art. 2103 c.c.: in tal caso, secondo l’orientamnto prevalente (cass.2006),grava sul
lavoratore l’onere di provare il danno subito (essendo quest’utlimo una conseguenza possibile ma non
necessaria),dimostrando l’esistenza di un nesso di causalità tra inadempimento e il danno fornendo ogni
elemento utile per la valutazione della sua entiità.
Vi sono però casi in cui la legge consente l'adibizione a mansioni inferiori ,casi nei quali la legge lo
consente alla contrattazione collettiva e casi,nei quali la giurisprudenza ha riconosciuto la legittimità del
patto fra datore di lavoro e lavoratore:
1. La lavoratrice madre: se la lavoratrice è addetta a mansioni che si rivelano non adeguate o pericolose per
la salute della madre e del feto, deve essere spostata ad altre mansioni:si intende ad altre mansioni
equivalenti, ma nel caso in cui non fossero disponibili mansioni equivalenti la legge prevede che possa essere
spostata a mansioni inferiori mantenendo la retribuzione che aveva e che debba tornare alle mansioni
precedenti il più presto possibile (deve essere una adibizione temporanea).
2. Casi in cui la contrattazione collettiva è autorizzata alla riduzione delle mansioni:si trattta di accordi che
vengono stipulati durante la negoziazione di un licenziamento per riduzione del personale; al fine di ridurre il
numero dei licenziati è prevista la possibilità che siano stipulati degli accordi collettivi a livello aziendale nei
quali si stabilisce che un certo numero di persone viene passato a mansioni inferiori, questo per ridurne il
costo e per ridurre l'impatto della riduzione del personale.
3. Casi in cui la giurisprudenza ammette l'adibizione a mansioni inferiori(casi dell'inidoneità sopravvenuta):
facciamo riferimento a situazioni in cui la modifica in pejus delle mansioni sia stata concordata nell’interesse
del lavoratore al fine di evitare il licenziamento del medesimo non più in grado,per ragioni di salute,di
svolgere in modo adeguato le mansioni precedenti. In tal caso si procederà al licenziamento solo qualora la
riorganizzazione da parte del datore risultasse eccessivmanete costosa e complicata.
In questo caso l’interesse superiore del lvaroatore (salvaguardia del posto)prevale la rigida logica
dell’art.2103 secondoo ilquale non sono ammessi patti ai fini del demansionamento tra dat. E lav..
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Autore: Davide Cavallino
Diritto del lavoro 2013/2014
b.Spostamento orizzontale
L’art.2013 c.c. consente l’adibizione del lavoratore a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente
svolte,senza alcuna diminuzione della retribuzione.
L'equivalenza cui si fa riferimento è innanzitutto quella retributiva,al valore eocnomico delle mansioni è però
affiancato un valore professionale:infatti sono equivalenti quelle mansioni che consentono al lavoratore di
utilizzare il patrimonio professionale acquisito in una prospettiva dinamica: pur essendo le mansioni alle
quali viene adibito radicalmente diverse da quelle di provenienza, siano però coerenti con la formazione e
con le competenze del lavoratore, anche in vista del potenziale sviluppo della sua professionalità e della sua
carriera.
L’esigenza è avvertita in particolar modo in casi di ricorso al mutamento di mansioni al fine di evitare provvedimenti espulsivi di
lavoratori in esubero. Ad esempio, la cassazione ammette chei lavoratori adibiti a mansioin impiegatizie possano essere succ.
utilizzati come operai,doop aver frequentato specifici corsi di riqualificazione professionale durante il perido di CIGS.
c.Mobilità verticale:
Quest’ultima p ammessa solo verso l’alto e comporta due conseguenze: il diritto al trattamento retributivo
corrispondente alla mansione superiore e ildiritto ad acquisire la qualifica superiore; sec.l’art.2103 infatti,il
lav. Può essere adibito a mansioni corrispondenti alla categoria superiore che abbia succ. acquisito, in tal
caso egli ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta e l’assegnazione stessa diviene definitiva
ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione
del posto,dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a 3 mesi.
I problemi applicativi si pongono in capo a due questioni:
1. il computo del periodo di assegnazione, sec. il quale il periodo di adibizione a mansione superiore deve
essere effettivo e continuativo,salvo che il lavoratore provi un comportamento del datore in firde alla legge
(spesso infatti l’utilizzo frazionato del lav. Può essere utilizzato a fini elusivi per evitare il passaggio alla
qualifica superiore.
2.casi nei quali la sostituzione non da diritto all’acquisizione della mansione superiore:anche l’assenza epr
ferie, cosi come disposto nei casi di malattia,infortunio,maternità ecc..non da diritto al passaggio di livello
per coprire l’esigenza.
Resta infine da considerare il possibile rilievo del consenso del lavoratore:l’adibizione a mansioni superiori,
comportando un maggior impegno complessivo nonché una maggiore responsabilità, parrebbe ragione ola
possa avvenire solo con il consenso del lavoratore; dall’altra parte bidogna però constatare che
effettivamente l’adibizione a mansioni superiori riamnga comunque un atto unilaterale del datore di lavoro
che non richiede sec legge il consenso del lavoratore.
Modificazione del luogo di esecuzione della prestazione:
Al potere direttivo del datore di lavoro si può ricondurre il potere di modificare il luogo di svolgimento della
prestazione lavorativa (jus variandi) la cui disciplina è contenuta nell’ultimo comma dell’art.2103 secondo il
quale il lavoratore non può essere trasferito da un’unità produttiva(*) all’altra se non per comprovate ragioni
tecniche,organizzative e produttive.
A partire da questa disposizione possiamo dunque asserire che elemento qualificante della disciplina resta la
necessaria giustificazione del provvedimento; l’onere di giustificare il trasferimento trasforma l’arbitrio del
datore di alvoro in discrezionalità,come tale valutabile dal giudice il cui controllo,è limitato all’accertamento
delle ragioni tecniche,organizzative e produttive senza alcuna estensione al diritto di sindacare l’opportunità
del trasferimento,la scelta tra più soluzioni alternative o la scelta del lavoratore da trasferire (salvo diversa
disposizione della contrattazione collettiva e fatti salvi principi di correttezza,buona fede e non
discriminazione ovviamente). Allo stesso modo è da tempo tramontata la lettura del trasferimento quale extrema ratio sec.la
quale il dat.lav. era tenuto a dimostrare l’inevitabilità del trasferimento.
-Tutt’altro che necessarie sono invece il consenso del lavoratore oggetto di trasferimento e l’obbligo da parte
del datore di comunicare le ragioni giustificative del trasferimento:l’art.2103 richiede l’onere delle
indicazioni delle ragioni del trasferimento solo qualora queste vengano contestate dal lavoratore ( a tal
proposito,in mancanza di effettive ragioni o in caso di trasferimento discriminatorio il trasferimento è
considerato illegittimo con il conseguente reinserimento del lavoratore nella originaria unità produttiva).
(*) A proposito di unità produttiva, possiamo precisare alcune questioni:
-Anzitutto gli spostamenti interni ad una stessa unità produttiva (ad esempio tra reparti non autonomi che
dunque non costituiscano una unità produttiva),non sono soggetti alla necessaria giustificazione.
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Autore: Davide Cavallino
Diritto del lavoro 2013/2014
Caso particolare,dovuto al rilievo de ruolo investito rispetto ai lavoratori di un det.contesto lavorativo,è quello del trasferimento di
un dirigente delle rappresentanze sindacali aziendali che,sec,art.22 star.lav.è ritenuto nullo in mancanza del nulla osta
dell'organizzazione sindacale di appartenenza .
-Difficoltà di nozione di “unità produttiva”:
a.Unità produttiva come ogni sede,filiale,stabilimento,ufficio o reparto dell’impresa (in rif. All’art.35
stat.lav.) : definizione presa come riferimento nel caso di spostamento del lavoratore all’interno dello stesso
complesso aziendale;
b.Unità produttiva come la più consistente e vasta entità aziendale,eventualmente articolata in organismi
minori caratt. da sostanziali condizioni di indipendenza tecnica e amministrativa tali da esaurire il ciclo
relativo a una frazione/momento essenziale dell’attività produttiva: presa come punto di riferimento qualora
lo spostamento avvenga a distanza tale da comportare per il lavoratore disagi personali o familiari.
Il potere disciplinare e i suoi limiti:
Art. 2106 (Sanzioni disciplinari) L'inosservanza delle disposizioni contenute nei due articoli precedenti
(obbligo di diligenza e obbligo di fedeltà) può dar luogo all'applicazione di sanzioni disciplinari, secondo la
gravità dell'infrazione (e in conformità delle norme corporative)
La legge attribuisce al datore di lavoro un potere eccezionale: a fronte di un comportamento scorretto del
lavoratore, un inadempimento, infedeltà del lavoratore, può utilizzare uno strumento particolare per
correggere il comportamento del lavoratore, le sanzioni disciplinari.
Ad integrare la disciplina delll’art.2016 è l’art.7 St.lav. il quale muta significativamente le condizioni d’uso
del potere disciplinare:
A fianco al rigoroso criterio della proporzionalità fra l'infrazione e la sanzione(secondo la quale la sanzione
inflitta deve essere proporzionale alla gravità dell'infrazione e spetta al giudice in ogni caso valutarne la
prop.) troviamo:
A) Il riferimento a contratti collettivi di lavoro ai fini dell’applicazione delle sanzioni: in tal senso si riprende
una concezione tipica del diritto penale,secondo il quale nessun comportamento può essere qualificato come
reato se non è qualificato dalla legge come tale; la stessa regola vale in materia disciplinare: nessun
comportamento può essere punito se non esiste una regolamentazione che preveda l'infrazione e la relativa
sanzione. Questa predeterminazione è contenuta abitualmente nei contratti collettivi eventualmente integrati
o sostituiti dal regolamento d'impresa.. (che, in tal senso, solidalmente costituiscono il cosiddetto codice
disciplinare).
B)Secondo il comma è necessario rendere conoscibile a tutti i lavoratori tale codice disciplinare: Le norme
disciplinari relative alle sanzioni, alle infrazioni in relazione alle quali ciascuna di esse può essere applicata
ed alle procedure di contestazione delle stesse, devono essere portate a conoscenza dei lavoratori mediante
affissione in luogo accessibile a tutti.)
C) Vengono imposti,secondo quanto riportato dal comma 4 dei cosiddetti limiti qualitativi(:Fermo restando
quanto disposto dalla legge 15 luglio 1966, n. 604, non possono essere disposte sanzioni disciplinari che
comportino mutamenti definitivi del rapporto di lavoro) e dei limiti quantitativi ( inoltre la multa non può
essere disposta per un importo superiore a quattro ore della retribuzione base e la sospensione dal servizio e
dalla retribuzione per più di dieci giorni.
D) Al rigoroso rispetto di proporzionalità tra infrazione e sanzione è affiancato il c.d. divieto di recidiva di
cui all’utlimo comma dell’art.7 secondo cui Non può tenersi conto ad alcun effetto delle sanzioni disciplinari
decorsi due anni dalla loro applicazione.
Trasferimento disciplinare
A rigor di ligica,poiché il lavoratore non può essere trasferito da un’unità produttiva ad un’altra se non per
ragioni tecniche,organizzative e produttive, la funzione disciplinare dle trasferimento sembrerebbe esclusa;
A tal proposito si possono riscontrare diversi pareri:
A) un primo orientamento giurisprudenziale riconosce la legittimità dle trasferimento disciplinare solo
laddove incluso da parte della contrattazione collettiva nella tipologia della sanzioni contemplate dal relativo
codice;
B)una parte minoritaria della giurisprudenza ritiene in igni caso illegittimo il trasferimento disciplinare
affermando che il comma 4 dell’art.7 st.lav.vieta sanzioni disciplinari che comportino mutamenti definitivi
del rapporto di lavoro quali sono ritenuti i trasferimenti da un’unità produttiva ad un’altra;
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Autore: Davide Cavallino
Diritto del lavoro 2013/2014
Tuttavia a volte la giurisprudenza si è pronunciata a favore del trasferimento motivato dalla c.d.
“incompatibilità ambientale” che verrebbe in considerazione non come colpa del dipendente ma come
disfunzione del servizio: È il caso classico del lavoratore che abbia avuto una rissa con i propri compagni di
lavoro e simili. ( si tratta di una sorta di escamotage)
C) un terzo più recente orientamento sembra invece favorevole riconoscere senz’altro la legittimità delk
trasferimento disciplinare affermando che questo non comporta un mutamento definitivo del rapporto di
lavoro quanto piuttosto espressione di un carattere conservativo:in tal caso, si risolve la questione
“mutamento definitivo” riconoscendo il lugo di adempimento dell prestazione come un elmento non
immutabile dle rapporto di lavoro.
L’irrogazione delle sanzioni disciplinari:
-L’art.7 comma 2 st.lav. prevede che “Il datore di lavoro non può adottare alcun provvedimento
disciplinare nei confronti del lavoratore senza avergli preventivamente contestato l'addebito e senza averlo
sentito a sua difes”:se il datore di lavoro infligge una sanzione al lavoratore deve contestargli l'infrazione
con atto scritto a meno che non sia un rimprovero verbale. Se siamo di fronte ad un rimprovero scritto ci
vuole la contestazione e deve essere data al lavoratore la possibilità di difendersi da solo o con un
rappresentante sindacale.
Il lavoratore potrà farsi assistere da un rappresentante dell'associazione sindacale cui aderisce o conferisce
mandato.
-Secondo il comma 5 dello stesso articolo, in ogni caso, i provvedimenti disciplinari più gravi del
rimprovero verbale non possono essere applicati prima che siano trascorsi cinque giorni dalla
contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa;
A tale proposito vi sono diverse interpretazioni:
a.secondo alcuni giudici il termine è tassativo, indipendentemente dal fatto che il lavoratore abbia chiesto o
meno l'esercizio del proprio diritto di essere ascoltato dal datore;tale orientamento vuole quindi garantire due
cose: che il datore adotti l’eventuale sanzione solo dopo aver note le giustificazione del lavoratore, nochè
fornire un tempo di ripensamento per far si che il datore non adotti provvedimenti “a caldo” senza adeguata
riflessione.
b.secondo altri se il lavoratore non vuole difendersi il datore può procedere all'applicazione della sanzione
prima del decorrere dei 5 giorni. Questa soluzione è stata adottata dalla cassazione a sezioni unite, ovvero è
stata seguita la derogabilità dei 5 giorni poiché considerati funzionali solo a dare la possibilità di discolpa al
soggetto accusato.
-Impugnazione sanzioni disciplinari :l’impugnazione delle sanzioni può avvenire, oltre che in via
ordinaria ,anche davanti a un collegio di conciliazione e arbitrato presente nelle rappresentazioni territoriali
del lavoro: vi è in questo caso una sospensione dell'applicazione della sanzione disciplinare (non se
licenziamento) fino alla sentenza del consiglio che non può superare i 25 giorni.: Salvo analoghe procedure
previste dai contratti collettivi di lavoro e ferma restando la facoltà di adire l'autorità giudiziaria, il
lavoratore al quale sia stata applicata una sanzione disciplinare può promuovere, nei venti giorni
successivi, anche per mezzo dell'associazione alla quale sia iscritto ovvero conferisca mandato, la
costituzione, tramite l'ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione, di un collegio di
conciliazione ed arbitrato, composto da un rappresentante di ciascuna delle parti e da un terzo membro
scelto di comune accordo o, in difetto di accordo, nominato dal direttore dell'ufficio del lavoro. La sanzione
disciplinare resta sospesa fino alla pronuncia da parte del collegio. Qualora il datore di lavoro non
provveda, entro dieci giorni dall'invito rivoltogli dall'ufficio del lavoro, a nominare il proprio
rappresentante in seno al collegio di cui al comma precedente, la sanzione disciplinare non ha effetto. Se il
datore di lavoro adisce l'autorità giudiziaria, la sanzione disciplinare resta sospesa fino alla definizione del
giudizio.
Potere di vigilanza e controllo del datore di lavoro:
Per quanto riguarda il potere di controllo, le regole e la disciplina sono contenute negli artt. 2-6 St.lav. i quali
da un lato salvaguardato il potere di vigilanza e controllo del datore di lavoro, dall'altro lato si prefiggono l
obbiettivo di tutelare la sfera di riservatezza,la libertà e la dignità del lavoratore.
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Autore: Davide Cavallino
Diritto del lavoro 2013/2014
-L’art.2 (guardie giurate) cita che il dat.lav. può impiegare le guardie giurate soltanto per scopi di tutela del
patrimonio aziendale. Questi,non possono contestare ai lavoratori azioni o fatti diversi da quelli che
attengono alla tutela del patrimonio aziendale; è inoltre fatto divieto alle guardie di di accedere nei ocali
dove si svolge l’attività lavorativa durante lo svolgimento della stessa, se non per specifiche e motivate
esigenze pur sempre attinenti ai compiti di tuttela del patrimonio aziendale.
In caso di inosservanza da parte di una gurdia giurata delle disposizione soipra citate ,l’ispettorato del lavoro
può promuovere presso il questore la sospensione dal servizio e, nei casi più gravi il prefetto può revoarcne
la licenza.
-controlli sullo svolgimento dell’attività lavorativa possono invece essere svolti da personale incaricato dello
specifico compito:ma i nominativi e le mansioni specifiche del personale addetto alla vigilanza dell’attività
lavorativa debbono essere comunicati ai lavoratori interessati (Art.3 St.lav.).
-L'art. 4 è intitolato "impianti audiovisivi", in riferimento agli impianti previsti nel 1970(impianti
essenzialmente di videoripresa che vengono installati per la tutela del patrimonio aziendale e del normale
andamento dell'attività produttiva);oggi il controllo si può avvalere di dispositivi molto più complicati e
tecnologici i quali,pur mantenendo una funzione legittima di controllo,proprio attraverso l'esercizio di
questa finiscono per essere uno strumento lesivi della riservatezza e della personalità dei lavoratori;per tale
ragione È vietato l'uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza
dell'attività dei lavoratori; Gli impianti e le apparecchiature di controllo che siano richiesti da esigenze
organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma ai quali derivi anche la possibilità di
controllo a distanza dell'attività dei lavoratori, possono essere installati soltanto previo accordo con le
rappresentanze sindacali aziendali(RSA), oppure, in mancanza di queste, con la commissione interna.
.In mancanza di accordo non possono essere installate ma ci si può rivolgere ai servizi ispettivi (che hanno
potere di ordinanza) che possono disporre l'installazione qualora ritengano che non ci siano ragioni
sufficienti perché le RSA rifiutino l'installazione di questi impianti.
-Gli stessi limiti li ritroviamo nell'art.6 in riferimento alle Visite personali di controllo:
1. Le visite personali di controllo sul lavoratore sono vietate fuorché nei casi in cui siano indispensabili ai
fini della tutela del patrimonio aziendale, in relazione alla qualità degli strumenti di lavoro o delle materie
prime o dei prodotti.
2. In tali casi le visite personali potranno essere effettuate soltanto a condizione che eseguite all'uscita dei
luoghi di lavoro, che siano salvaguardate la dignità e la riservatezza del lavoratore e che avvengano con
l'applicazione di sistemi di selezione automatica riferiti alla collettività o a gruppi di lavoratori. (Sono
apparecchiature dotate di un sensore che si illumina casualmente al passaggio di alcuni lavoratori)
3. Le ipotesi nelle quali possono essere disposte le visite personali, nonché, ferme restando le condizioni di
cui al secondo comma del presente articolo, le relative modalità debbono essere concordate dal datore di
lavoro con le rappresentanze sindacali aziendali oppure, in mancanza di queste, con la commissione interna.
In difetto di accordo, su istanza del datore di lavoro, provvede l'Ispettorato del lavoro.
4. Contro i provvedimenti dell'Ispettorato del lavoro di cui al precedente comma, il datore di lavoro, le
rappresentanze sindacali aziendali o, in mancanza di queste, la commissione interna, oppure i sindacati dei
lavoratori di cui al successivo articolo 19 possono ricorrere, entro 30 giorni dalla comunicazione del
provvedimento, al Ministro per il lavoro e la previdenza sociale."
N.B.:Uno degli esempi tipici sono le industrie orafe dove questi controlli sono effettuati sistematicamente.
L'art. 5 ,intitolato "Accertamenti sanitari" , prevede due fattispecie distinte:
1)controllo della malattia del lavoratore; 2) accertamenti dell'idoneità del lavoratore, sia attraverso le visite
pre-assuntive, sia attraverso le visite previste durante lo svolgimento del rapporto di lavoro.
1)Mentre precedentemente, per prevenire fenomeni di assenteismo, i datori di lavoro avevano il diritto di far
accertare la malattia del lavoratore dal medico di fabbrica di sua fiducia,oggigiorno l'art. 5 vieta
accertamenti da parte del datore di lavoro sulla idoneità e sulla infermità per malattia o infortunio del
lavoratore dipendente. L’interesse del datore di lavoro è salvaguardato dallo stesso art.5 comma2 affermando
che Il controllo delle assenze per infermità può essere effettuato soltanto attraverso i servizi ispettivi degli
istituti previdenziali competenti, i quali sono tenuti a compierlo quando il datore di lavoro lo richieda.
Le ASL o l'INAIL o l'INPS, nell'elenco dei medici disponibili (che è interessato a questo in quanto è il
pagatore dell'indennità di malattia), debbono rispondere alla richiesta del datore di lavoro mandando al
domicilio del lavoratore la visita cosiddetta "fiscale" (il controllo di malattia per infermità o infortunio
eseguito dalle strutture pubbliche competenti).
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Autore: Davide Cavallino
Diritto del lavoro 2013/2014
Allo stesso tempo il lavoratore “malato” deve rispettare un determinato comportamento:il lavoratore assente
per malattia deve immediatamente comunicarlo al datore di lavoro mostrandogli il certificato prescritto dal
medico il quale invierà quest’utlimo o all'INAIL o INPS (dipende se è un certificato relativo a malattia o ad
un infortunio provocato sul lavoro)a fini informativi.
A partire da quel momento il lavoratore è assente con diritto alla conservazione del posto, soggetto alla visita
fiscale che eventualmente il datore di lavoro abbia richiesto. Per la visita fiscale sono imposte al lavoratore
due fasce orarie di reperibilità quotidiana al mattino e pomeriggio\sera; Il lavoratore ammalato deve farsi
trovare disponibile nelle fasce indicate;qualora il lavoratore sia assente, è ammessa giustificazione
dell'assenza ma solo per motivi seri(per esempio il fatto che l lavoratore abbia dovuto recarsi presso uno specialista oppure
che sia andato all'ospedale per esami clinici) Se si assenta senza giustificazione ammissibile il lavoratore subisce la
perdita parziale del trattamento indennitario di malattia, in caso di due assenze ingiustificate consecutive ne
perde il 50% .
Qualora il lavoratore che si sia dato malato con certificato sottoposto a visita fiscale, venga visto (e il datore
di lavoro, direttamente o indirettamente, ne venga a conoscenza) fare cose incompatibili con il suo stato di
malattia, pur essendo sospeso l'adempimento della prestazione lavorativa e pur non avendo obbligo di curarsi
(vedi diritto tedesco), il lavoratore deve avere dei comportamenti compatibili con il suo stato di malattia e
può essere perfino licenziato quando la violazione dell'obbligo di buonafede e correttezza sia particolarmente
rilevante.
2)La possibilità di attivare accertamenti in via indiretta attraverso strutture pubbliche, è prevista anche per
le visite pre-assuntive e i controlli di idoneità durante lo svolgimento del rapporto di lavoro (art.5 comma 3)
purchè riferibili solamente all'idoneità fisica relativa alla mansione per la quale è prevista l'assunzione o la
mansione che il lavoratore sta svolgendo, perché altrimenti c'è il rischio di andare a toccare l'art.8 dello SDL
ovvero il divieto di indagini sulle opinioni (non rilevanti a fini professionali)
Regole particolari riguardano la sieropositività perché quando si tratti di persone che abbiano rapporti con i terzi e dove la infezione
possa rappresentare un pericolo per i terzi, si deroga alle regole generali e sono previste specifiche discipline; tutto il resto è regolato
dall'art. 5 ma sempre con il divieto di accertare direttamente e con il necessario ricorso alle strutture pubbliche .
Capitolo II:
Gli obblighi del lavoratore:
Noti anche come obblighi nominati, sono disciplinati dagli artt.21105,2105 C.c..
Obbligo di obbedienza:
Art.2104 comma 2: (...)Deve inoltre osservare le disposizioni per l'esecuzione e per la disciplina del lavoro
impartite dall'imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende.
L’obbligo di obbedienza rappresenta il fulcro della posizione debitoria del prestatore di lavoro,in quanto
costituisce un obbligo assunto da prestatore attraverso il contratto di lavoro subordinato;tale obbligo è
strettamente connesso all’assoggettamento al potere direttivo del datore (vedi art.2094)tanto che
l’obbedienza è considerata intrinseca alla prestazione di lavoro subordinato( e non invece una “misura” del corretto
adempimento della prestazione dedotta in contratto: vedi diligenza) e ne costituisce un elemento qualificante: il mancato
rispetto delle disposizioni impartite per l’esecuzione del lavoro comporta il mancato adempimento
dell’obbligazione principale,dal quale ne discendono sia la responsabilità per inadempimento sia le
responsabilità disciplinare.
La soggezione cui si fa riferimento ovviamente non deve essere considerata una condizione assoluta, anche
l’obbligo di obbedienza è soggetto a dei limiti:
-il lavoratore debitore della prestazione di lavoro può infatti rifiutare di adempiere ad una prestazione
eccedente quanto previsto dal contratto;
-il lavoratore è obbligato a compiere,sec. i principi di buona fede e correttezza,anche tutti quegli obblighi
preparatori ed accessori necessari per rendere possibile la prestazione cui si è obbligato verso il datore; sono
fatti salvi, in alcune circostanze,le disposizioni del datore che attengono alla cura dell’aspetto personale del
lavoratore e del suo abbigliamento, ritenuti legittime solo qualora necessarie al fine di svolgere l’attività
aziendale in modo sicuro e proficuo;
-non costituisce violazione dell’obbligo di obbedienza neppure i lmancato rispetto di disposizioni datoriali
che risultino illecite: secondo il diritto comunitariol’ordine di discriminare persone è considerato
discriminazione.
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Autore: Davide Cavallino
Diritto del lavoro 2013/2014
Non sempre tuttavia la soluzione del conflitto tra violazione dell’obbligo di obbedienza o meno è così chiara,
soprattutto quando la volontà del datore trovi di fronte eventuali violazione di diritti fondamentali del
lavoratore: esemplare è il caso del diritto di critica da parte del prestatore che ben si contrappone ad un
comando sancito dal datore (basti pensare ad una disposizione del datore che vieti ai propri dipendenti il
contatto con i giornalisti previa nulla osta del datore stesso).
Obbligo di diligenza:
Per adempiere “esattamente “ all’obbligazione lavorativa,il prestaotre deve (Oltre che osservare le
disposizioni impartite) operare conla specifica diligenza richiesta dal seguente articolo :
Art. 2104:Il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta,
dall'interesse dell'impresa e da quello superiore della produzione nazionale(…)
Tradizionalmente si dice che il parametro della diligenza sia misuratore dell’entità della collaborazione
richiesta al lavoratore per la soddisfazione dell’interesse del creditore,individuando nella diligenza un
criterio di valutazione della esattezza dell’adempimento.
I criteri di individuazione della diligenza dovuta da prestatore sono tre:
1. l’interesse superiore della produzione nazionale: tale criterio è ritenuto ormai accantonato;l’impresa oggi,
nel nostro ordinamento, non è funzionale all'interesse nazionale ma alla realizzazione dell'interesse
dell'imprenditore delimitato da quanto disposto dall’art.41 C.c.: " Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o
in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana ”:
2. la natura della prestazione dovuta: tale disposizione allarga quanto disposto dall’1176 c.c. comma2 anche
alle obbligazioni di carattere non professionale( sec. il quale nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’es. di
un’attività professionale,la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata );ai fini dell’adempimento
dell’obbligo di diligenza è richiesto un comportamento connesso alla qualifica del lavoratore e al contenuto
delle sue mansioni.
3. l’interesse dell’impresa: tale terzo criterio è ciò che contraddistingue la regola lavoristica (art.2104)
dall’art,civilistico 2176, rendendo la nozione di diligenza particolarmente “ampia e pregnante”: ai limiti
oggettivi sopra disposti, si aggiunge , ai fini dell’adempimento dell’obbligo di diligenza, il soddisfacimento
dell’impresa il quale, affinchè possa essere considerato criterio oggettivo, deve essere inteso come interesse
dell’imprenditore (perché l'impresa non è una entità a sé, è attività economica che l'imprenditore svolge nell'ambito della
garanzia costituzionale della libertà di impresa ).
Organizzazioni di tendenza :
L’adempimento all’obbligo di diligenza diventa particolarmente rilevante nel contesto delle organizzazioni
di tendenza,ovvero organizzazioni ideologicamente connotate; il quesito essenziale che ci si pone è se
l’adesione alla ideologia dell’organizzazione arriva a conformare l’obbligazione lavorativa o meno: da una
parte si sostiene infatti che ,in un organizzazione ideologicamente connotata, le opinioni del lavoratore e il
suo comportamento privato possono influire sull’attitudine professionale e sullo standard professionale
giustamente atteso dal datore di lavoro, dall’altra una tale ammissione di rlevanza sembrerebbe andare oltre
il rispetto dei diritti costituzionali della persona del lavoratore.
A tal proposito,l’orientamento giurisprudenziale prevalente ha ritenuto che un’ideologia può considerarsi
obbligazione del lavoratore di un organizzazione di tendenza e a definirne la diligenza solo se:
1. tale adesione ideologica sia strettamente connessa con la mansione svolta dal lavoratore; in questo senso la
giurisprudenza fa distinzioni tra mansioni neutre e mansioni connotate ideologicamente ( esemplare è il caso del
licenziamento di un insegnante di educazione fisica presso una scuola cattolica:l’insegnante, avendo contratto un matrimonio civile e
NON religioso, era stato licenziato per ragioni ideologiche: in tal caso la giurisprudenza, considerando la mansione dell’insegnante,
seppur svolta entro un ambiente ideologicamente connotato,neutra, ha ritenuto il licenziamento illegittimo )
2. la connotazione ideologica del datore di lavoro deve essere chiaramente nota al prestatore di
lavoro,attraverso opportune preventive informazioni, al fine di conoscere sin dall’inizio i termini e le
condizioni del contratto liberamente sottoscritto.
In questo caso l’adesione a una det. Ideologia può esser resa nota esplicitamente attraverso una clausola
esplicita appunto, oppure può esser considerata come un presupposto di fatto derivante implicitamente
dall’obbligo di informazione sulla identità delle parti del contratto di cui all’art.1 d.lgs 152/1997 (gravante
sul datore di lavoro).
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Autore: Davide Cavallino
Diritto del lavoro 2013/2014
Obbligo di fedeltà
Art. 2105 Obbligo di fedeltà Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in
concorrenza con l'imprenditore, né divulgare notizie attinenti all'organizzazione e ai metodi di produzione
dell'impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio.
Sebbene il lemma fedeltà non compaia nel teto della disposizione cui sopra è venuto consolidandosi
l’orientamento giurisprudenziale tendente a interpretare la fedeltà menzionata come espressione sintetica di
un più generale dovere di perseguire e proteggere l’interesse del creditore nell’ambito dell’adempimento
dell’obbligazione contrattuale.
La fedeltà in tal senso viene utilizzata,insieme all’obbligo di dilegnza,per denotare quell’elemento fiduciario
ritenuto elemento essenziale del contratto.
La norma prevede espressamente l’obbligo di fedeltà ponendo due distinti doveri:
1)Il divieto di concorrenza: il lavoratore, essendo inserito in una organizzazione di lavoro, trae da questa
delle conoscenze tecniche, conosce una organizzazione del lavoro, un processo produttivo, una governance
dell'impresa della quale può fare uso per conto proprio oppure per conto di terzi traendone ovviamente
profitto. Questo farne uso, durante il rapporto di lavoro, in modo tale da svolgere una attività che entra
direttamente in concorrenza con quella del datore di lavoro ,è vietato.
L'obbligo di fedeltà consiste dunque prioritariamente nel non fare concorrenza per conto proprio o di terzi, il
cui divieto opera solo in costanza di rapporto.
Patto di non concorrenza:
Alla cessazione del rapporto può intervenire una situazione diversa, regolata dall'art. 2125 del CC, il "Patto
di non concorrenza".
Art. 2125 Patto di non concorrenza Il patto con il quale si limita lo svolgimento dell'attività del prestatore di
lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto, è nullo se non risulta da atto scritto (2725), se
non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro e se il vincolo non è contenuto entro
determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo. La durata del vincolo non può essere superiore a cinque
anni se si tratta di dirigenti, e a tre anni negli altri casi. Se è pattuita una durata maggiore, essa si riduce
nella misura suindicata (2557, 2596; att. 198).
Il patto di non concorrenza non è un contratto che si stipula fra il datore e il lavoratore alla cessazione del rapporto di lavoro e
riguarda il periodo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro. Spesso, in alcuni settori (soprattutto in quello bancario), il patto
viene stipulato durante il rapporto di lavoro, inserendolo come clausola del contratto di lavoro.
Questo patto di non concorrenza è assoggettato a dei limiti, che sono limiti di oggetto, durata, luogo e ad un
vincolo ulteriore: la previsione del corrispettivo. Perché tutti questi limiti? Si tratta della limitazione della
libertà di lavoro di una persona che cessato un contratto ritorna sul mercato, tornando sul mercato esercita la
propria libertà di lavoro (art.4 cost.). In questa libertà di lavoro può risultare limitato fortemente dalla
stipulazione di questo patto che gli inibisce di svolgere delle attività. La legge allora ci dice che l'oggetto
deve essere determinato: non si può inibire tutto un settore di attività. A questa limitazione deve
corrispondere un compenso perché si perdono delle chances di lavoro: il corrispettivo non è specificato dalla
legge, ma dalla giurisprudenza che fa delle valutazioni in termini di adeguatezza rispetto al sacrificio
imposto. Deve avere durata determinata e i limiti massimi inderogabili sono dettati dalla legge. Deve essere
determinato anche il luogo, deve essere determinato, circoscritto e ragionevole. Spesso il compenso viene
corrisposto attraverso una retribuzione mensile aggiuntiva: alla retribuzione mensile si aggiunge una
maggiorazione che va a compensare il patto di non concorrenza. Si dubita che questa formula sia legittima
perché il compenso deve essere anch'esso determinato e determinabile (come la durata del rapporto di
lavoro) senza riferimento al periodo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro.
2) Obbligo di riservatezza (obbligo di segreto aziendale): elemento qualificante di tale divieto sta nel fatto
che il lavoratore sia venuto a conoscenza di quelle notizie in ragione del suo inserimento in azienda.
Due orientamenti:
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Autore: Davide Cavallino
Diritto del lavoro 2013/2014
-Una parte consolidata della giurisprudenza afferma che l’obbligo di fedeltà cui è tenuto il dipendente
nell’esecuzione del contratto di lavoro,deve essere riferito esclusivamente ad attività lecite
dell’imprenditore.
-La giurisprudenza prevalente pare invece orientata a riconoscere la violazione dell’obbligo di fedeltà nella
sottrazione di documenti aziendali indipendentemente dal fine processuale perseguito dal lavoratore; tuttavia
ha anche riconosciuto che non costituisce violazione dell’obbligo di fedeltà da parte del lavoratore sottrarre
documenti relativi alla sua prestazione lavorativa e produrli in giudizio a propria difesa.
In queste ipotesi ci si trova spesso di fronte a difficile rapporto tra obbligo di fedeltà e diritto di critica e
diritti costituzionalmente protetti alla difesa e alla libertà di espressione dell’art.21 Cost.
Permane anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro per un lasso di tempo ragionevole.
L’interesse del dat. Alla non divulgazione della notizia soccombe di fronte a interessi altrui ala conoscenza della notizia: ma non
quando non presenti alcun interesse dal pv economico,politico,sindacale scientifico o di cronocaca o quando alla cognizione della
notizia si identifichi un motivo illecito.
Capitolo III (Fare sul libro :da pag 367 a pag 377, da pag 389 a pag 400)
La retribuzione
La retribuzione è un attribuzione patrimoniale e costituisce il corrispettivo dovuto dal datore di lavoro per la
prestazione del lavoratore subordinato; Lo scambio tra lavoro e retribuzione è un elemento essenziale del
contratto di lavoro,tanto che, qualora la disciplina del rapporto sia tale da escludere lo scambio a titolo
oneroso,il rapporto non può essere definito come rapp.la.sub.
La retribuzione è un diritto fondamentale previsto dalla costituzione all’art.36 sec il quale:”il lavoratore ha
diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro prestato e in ogni caso
sufficiente a garantire a sé ed alla sua famiglia un’esistenza dignitosa e libera”
Da quanto detto sopra notiamo come l’art. contenga due principi distinti seppur correlati:
-principio di sufficienza, che guarda alla funzione di retribuzione come mezzo di sostentamento nonché al
valore sociale della sua adeguatezza;
-principio di proporzionalità,collegato non tanto al valore che la retrb. Assume ai fini sociali,quanto piuttosto
al valore che il lavoro ha nella valutazione delle parti contraenti.
Fermi restando i principi dettati dall’art.36,spetta all’autonomia privata e in primo luogo alla contrattazione
collettiva stabilire l’ammontare della retribuzione,le voci di cui è composta,le modalità di erogazione ed i
meccanismi della sua variazione (vedremo meglio in “forma della retribuzione voci variabili ecc..”)
Nel nostro ordinamento la competenza in materia di retribuzione spetta alla contrattazione collettiva,seppur
non in maniera assoluta:il legislatore può infatti intervenire sui salari dei lavoratori quando vi siano interessi
pubblici da salvaguardare.
Precedentemente una soluzione era stata proposta con la legge Vigorelli (legge n.741/1959) che,seppur
temporaneamente,aveva garantito salari minimi per tutte le categorie per le quali i contratti sono stati estesi.
Oggigiorno in Italia non è dunque previsto un salario minimo garantito; questo viene formulato dalla
contrattazione collettiva e,nella specie attraverso l’applicazione indiretta dei contratti di categoria (minimi
tabellari) attraverso i quali è stata in parte colmata la lacuna presentata dalla mancanza di contratti collettivi
efficaci erga omnes.
Proporzionalità e sufficienza della retribuzione:
Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza l’art.36 Cost. è una disposizione immediatamente
precettiva : il lavoratore che lamenti l’inadeguatezza della retribuzione corrispostagli dal datore di lavoro può
invocare dirett. L’art.36 chiedendo che il giudice ridetermini la retribuzione. Il giudice,ove ritenga che la
retribuzione prevista dal contratto individuale di lavoro sia contraria ai principi di proporzionalità e
sufficienza di cui all’art.36 Cost.,dichiara la nullità della clausola del contratto individuale, e facendo ricorso
all’art. 2099 c.c. (sec. Cui in mancanza dinorme corporative o accordo tra le parti la retribuzione è det. Dalla
legge), colma la lacuna così creatasi nel contratto,determinando egli stesso la retribuzione proporzionale e
sufficiente.
Ai fini del calcolo di questa,il giudice, essendo i minimi della contrazione collettiva parametro non
vincolante (ricordiamo che i contratti collettivi non hanno efficacia erga omnes), non effettuerà una
meccanica traspozione delle clausole della contrattazione (cosa che si farebbe in caso si dovesse realizzare
un principio di parità di trattamento), ma terrà conto in linea di massima dei minimi salariali (detti minimi
tabellari) in solido con fattori quali le condizioni di mercato,la dimensione dell’impresa,il potere di acquisto
del salario.
-Sostanzialmente, ai fini della proporzionalità alla qualità del lavoro prestato si farà riferimento (non in via
esclusiva) ai minimi tabellari fissati dal contratto collettivo di categoria in relazione alla qualifica e alle
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Autore: Davide Cavallino
Diritto del lavoro 2013/2014
mansioni del lavoratore; si potrà eventualmente tenere conto anche di elementi quali l’esperienza ( questa
infatti,garantendo una maggior qualità del alvoro prestato, può essere fonte di un incremento della
retribuzione), o di altri trattmaneti individuali aggiuntivi (premio di rendimento)
-Ai fini della prop. Alla quanità del lavoro prestato si farà invece riferimento alla durata della prestazione,
ovvero all’orario di lavoro.
Eccezione al riguardo risulta essere il c.d. contratto d’ingresso, trattamento economico corrispondente a un
livello di inquadramento inferiore rispetto a quello di destinazione,oggi previsto per il contratto di
apprendistato: la retribuzione ridotta in questo caso è ritenuta legittima in quanto essendo un contratto a
causa mista (retribuzione VS prestazione di lavoro/formazione), l’attività del lavoratore doveva considerarsi
inequivocabilmente ridotta ,sia sul piano qualitativo che quantitativo, rispetto ai lavoratori di pari
inquadramento ma non in formazione.
(…)
Il trattamento di fine rapporto:
Il TFR è una tipica forma di retribuzione differita consistente in un trattamento economico la cui somma di
denaro viene corrisposta al lavoratore al momento della cessazione del rapporto.
Excursus storico:
Originariamente l’art.2120 c.c. del codice originario del 1942 sanciva una sorta di diritto condizionato
all’indennità di anzianità: L'indennità di anzianità era prevista come una somma di denaro corrisposta al
lavoratore al momento della cessazione del rapporto solo in caso di cessazione del contratto di lavoro a
tempo indeterminato e non spettava al lavoratore in caso di licenziamento per sua colpa o per dimissioni
volontarie;
Si trattava di un trattamento economico di natura (o quanto meno avente funzione) previdenziale concepito
come una sorta di premio di fedeltà nonché di tutela della stabilità nell’interesse del datore erogato solo a
condizioni specifiche.
-Il pagamento differito risponde alla funzione previdenziale, perché al lavoratore viene imposto di risparmiare per fare
fronte al momento della cessazione del rapporto, quando dovrà affrontare le difficoltà di ricollocarsi e ad un eventuale
periodo di disoccupazione.
-Il vantaggio ovviamente è anche del datore di lavoro perché questo accantonamento di parte della retribuzione in realtà
è liquidità per l'impresa, perché è una parte di retribuzione che l'impresa non paga ma pagherà e accantona virtualmente.
Con l’art.9 della legge n.604/1966 si ebbe l’estensione dell’indennità di anzianità verso tutti,senza alcun
vincolo limitativo (“L'indennità di anzianità é dovuta al prestatore di lavoro in ogni caso di risoluzione del
rapporto di lavoro".) Infatti la corte costituzionale aveva bocciato le due esclusioni sopra proposte
affermando si trattasse di una illegittimità:si tratta infatti di un credito retributivo che si può
ragionevolmente ritenere maturi durante lo svolgimento del rapporto,e che al momento della cessazione di
questo diviene un diritto esigibile del prestatore.
Questa disciplina dell'indennità di anzianità collegava l'importo dell'indennità a due parametri: l'anzianità di
servizio e la qualifica del lavoratore al momento della cessazione del rapporto;il calcolo
dell’indennità,consistente nella moltiplicazione dell’ultima retribuzione del lavoratore per il numero di anni
di anzianità,portava a fenomeni di "liquidazioni d'oro” (perché magari si attuava un passaggio rapido di livello )con un
conseguente eccessivo aggravio del costo del lavoro. Per risolvere tale questione,nel 1977,per attenuare
l’effetto esponenziale del sistema di calcolo,si assistette alla cosiddetta sterilizzazione della di contingenza
sull’indennità di anzianità.
Tale azione fu temporanea e,solo con l’introduzione della legge n.297/1982 si arrivò ad una nuova
disciplina:l’indennità di anzianità venne sostituita da trattamento di fine rapporto.
Questo presenta elementi di continuità,quali il riconoscimento del diritto al TFR in ogni caso di cessazione
del rapporto di lavoro subordinato nonché la stessa natura retributiva, ed elementi di discontinuità;
-Primo tra questi è la modalità per il computo del TFR, la quale consisteva in una somma di quote della
retribuzione annua accantonate(entrano in questa retribuzione tutte le voci corrisposte a titolo di corrispettivo
e di carattere non occasionale esclusi i rimborsi spesa salvo quanto eventualmente previsto dalla
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Autore: Davide Cavallino
Diritto del lavoro 2013/2014
contrattazione collettiva):al fine di evitare la perdita del valore effettivo del TFR per effetto dell’inflazione,le
quote accantonate vengono rivalutate annualmente sulla base di un indice composto:l’1,5% fisso al quale si
aggiunge il 75% della variazione dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo;tenuto conto di questa
rivalutazione annua,al fine dell’ottenimento della cifra annuale, la retribuzione viene divisa per un divisore
fisso pari a 13,5.
-Altra novità consiste nella possibilità del lavoratore di ottenere una,seppur parziale,anticipazione TFR per
far fronte ad esigenza primarie; è infatti previsto che:
a. sec.art.2120 il lavoratore che dispone di almeno 8 anni di servizio presso lo stesso datore di lavoro può
chiedere un’anticipazione non superiore al 70% (con la nuova riforma 266(296)/2006= 75%) del TFR ove
tale richiesta sia giustificata dall’acquisto della prima casa,per sé o per i figli,documentata con atto notarile ( il
termine acquisto è riferibile sia all’acquisto definitivo sia a quello in itinere a condizione che l’esigenza sia attuale )
b. sec.art.2120 è possibile un’anticipazione di fronte a necessarie spese sanitarie per terapie o interventi
straordinari (nel senso di rilievo dal pv medico-economico)riconosciuto dalle competenti strutture
pubbliche .Oggigiorno,secondo quanto sancito dalla nuova riforma,per tale ragione giustificatrice viene
meno ogni requisito di anzianità contributiva minima.
c. sec.l’art.7 legge n.53/2000 si aggiungono alle ipotesi giustificatrici anche le spese da sostenere sdurante i
periodi di congedo parentale e durante i periodi di congedo per la formazione e per la formazione continua;
sec.la nuova disciplina queste ipotesi non sono previste;tuttavia può rientrare nelle ulteriori esigenze degli
aderenti che legittimano la richiesta di una anticipazione nella misura pari al 30% del matura rato decosris
otto anni dall’iscrizione al fondo (cui parleremo in seguito)
d. altre giustificazioni possono essere previste dai contratti collettivi (è inoltre sancita la possibilità,sec.
nuova riforma,di garantire un finanziamento utilizzando il credito maturato del fondo (es. cessione del
quinto).
N.b.: la mancata corrispondenza tra finalità dichiarata della richiesta di anticipazione TFR e finalità effettvia dell’uso che
dell’antcipazione ha fatto il lavoratore non costituisce di per sé un inadempimento di un obbligo del lavoratore quanto piuttosto può
tuttavia riflettersi sul rapporto di fiducia tra lav. e datore con possibilità,in casi estremi,di un licenziamento per giusta causa.
La possibilità del lavoratore di chiedere ed ottenere l'anticipo sul TFR limita un po' l'autofinanziamento
dell'impresa, la quale però,ritenuta cmq,al pari dello scopo previdenziale,uno fine del TFR, è tutelata dao
cosiddetti limiti dimensionali che fanno dell’anticipazione un diritto condizionato: sec. la vecchia riforma
infatti, l’anticipazione TFR era garantita ai soli lavoratori di imprese con un numero di dipendenti
>25;inoltre questa era garantita al solo 10% degli aventi titolo e comunque al 4% del numero totale dei
dipendenti . Con la nuova riforma vengono meno tali limitazioni,garantendo a tutti gli stessi diritti.
Destinazione TFR a fondi pensioni:
Questa nuova disciplina è nata dalla considerazione delle prospettive e aspettative pensionistiche di un certo
numero di generazioni di lavoratori italiani: con l'introduzione del sistema pensionistico obbligatorio(seganto
dal passaggio dal metodo retributivo al metodo contributivo) è risultato evidente che le prospettive dei
lavoratori delle generazioni più giovani sono al di sotto del 50% delle retribuzioni e comunque il range è fra
il 30 e il 50. Per tale ragione,sono state istiuite le c.d. pensioni complementari, avente il fine di integrare
quella pubblica;Per alimentare queste pensioni complementari,ad eccezione dei dipendenti delle piccole
imprese (fino a 50 addetti),tutti i lavoratori dovranno obbligatoriamente devolvere le quote TFR maturate dal
2005 e maturande,ad un fondo da loro espressamente indicato o,in caso di lavoratori silenti,ad in fondo
residuale costituito e gestito dall’INPS (fondo per l’erog. Ai lav.dip. del settore privato dei TFR)
Con l’introduzione delle pensioni complementari viene meno la funzione di finanziamento per le imprese del
TFR:il datore non accantona più virtualmente, ,perché ogni anno versa le quote dei TFR ai fondi o all'INPS.
Il finanzicziamento permane solo qualora i lavoratori manifestino espressamente la volontà di mantenere il
vecchio TFR o in caso di impresa <50 addetti.
Per quanto riguarda la disciplina delle anticipazioni nel nuovo sistema,queste dipendono dalle regole fissate
nei fondi.
N.b.: In caso di versmaneto ai fondi complementari,i lavoratori possono beneficiare dei risultati perseguiti dai gstori dei fondi (in
termini di maggir rendimento rispetto a quello attuale del TFR); allo stesso tempo però,in caso di versamento ai fondi complementari
viene meno il meccanismo di rivalutazioni degli importi per la costituzione del TFR.
N.b.: con l’introduzione di questi fondi pensionistici complementari, diviene limitata la possibilità da parte del lav. di ottenere una
somma di denaro da gestire liberamente al termine del suo rapporto di lavoro: infatti, mentre prima il rischio di disoccupazione era
coperta dalla corresponsione del TFR maturato in ogni ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro, con la nuova riforma sono
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Autore: Davide Cavallino
Diritto del lavoro 2013/2014
previste ipotesi di riscatto parziale o totale di quanto maturato solo di fronte a perdita della capacità lavorativa o alla disoccupazione
di lungo periodo >12 mesi.
Il fondo di garanzia:
La legge n.297/1982 ha istituito,a tutela del lavoratore, un Fondo di garanzia presso l’iINPS alimentato dai
datori li lavoro,che funge da sostituto qualora il datore di lavoro risulti insolvente per la corresponsione del
TFR.
Con l’avvento della nuova riforma e della relativa costituzione dei fondi complementari,tale istituto e il
relativo funzionamento risultano necessariamente modificati: la legge prevede infatti l’esonero del datore
dall’obbligo di versare il contributo al fondo di garanzia del TFR per le quote di TFR conferite ai c.d. fondi
complementari (si tratta sicuramente una riduzione dei costi per il datore, controbilanciata però dalla perdita di fonti di
finanziamento).lo stesso tempo i lavoratori perde la garanzia di tale fondo per la quota conferita ai fondi
complementari.
Resta infine l’obbligo per i dat.lav. di continuare a versare il contributo di solidarietà.tramite il quale è
finanziato uno specifico fondo,che provvede alla integrazione dei contributi omessi da parte del datore di
lavoro tutelando seppur parzialmente il lavoratore che rilavi il mancato versamento dei contributi
previdenziali complementari,sub specie quota TFR.
Parte VI (Fare sul libro da pag 403 a pag 443)
Capitolo III:Strumenti di esternalizzazione di attività dell'impresa
Distacco:
Il distacco è una tipica forma di utilizzazione indiretta della manodopera, che si ha qualora il datore di lavro
(distaccante),destina la prestazione del lavoratore (distaccato) al soddisfacimento dell’interesse di un terzo
(disctaccatario) il quale, può utilizzare la prestazione lavorativa dei lavoratori distaccati attraverso un mero
accordo che con il distaccante di quel lavoratore che ha distaccato e non attraverso un contratto stipulato
direttamente coi lavoratori.
Fino al decreto 276\2003 questa disciplina non era chiaramente enunciata; la disciplina era infatti ridotta alla
dottrina della giurisprudenza.
Anche nel rigore del divieto di interposizione, a suo tempo sancito dalla legge 1369\1960(divieto di
dissociazione fra il datore di lavoro e il lavoratore) la giurisprudenza era arrivata ad affermare la legittimità
del distacco a due condizioni, che dovevano essere rigorosamente verificate:
1) temporaneità del distacco: non vuole dire che necessariamente debba esserci una durata predeterminata e
definita al momento dell'inizio del distacco,ma si riferisce al fatto che la durata debba coincidere con quella
dell’interesse del datore di lavoro.
2) sussistenza di una persistenza di un interesse al distacco in capo al soggetto distaccante (non necess. Di
natura economica);
Queste due condizioni le ritroviamo oggi nell'art. 30 del decreto 276 che dice: "L'ipotesi del distacco si
configura quando un datore di lavoro, per soddisfare un proprio interesse, pone temporaneamente uno o più
lavoratori a disposizione di altro soggetto per l'esecuzione di una determinata attività lavorativa."
N.b.:sostanziale diversità con la somministrazione: il somministratore è un soggetto che professionalmente
fornisce ad altri soggetti della manodopera e non ha un suo interesse.
Secondo l'art. 30 2° comma: "In caso di distacco il datore di lavoro rimane responsabile del trattamento
economico e normativo a favore del lavoratore." Il rapporto di lavoro permane in testa al soggetto
distaccante,che mantiene la piena responsabilità del rapporto
L'art. 30 interviene poi su due altre questioni: (esplicitate nel comma 3)
a) la tutela della professionalità del lavoratore: "Il distacco che comporti un mutamento di mansioni deve
avvenire con il consenso del lavoratore interessato."(in caso contrario non è richiesto il consenso)
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Autore: Davide Cavallino
Diritto del lavoro 2013/2014
Insomma, in caso di distacco,il lavoratore non deve subire alcun pregiudizio in rel. Alla propria
professionalità (in caso di adibizione a mansioni superiori ildat.lav.dovrà corrispondere un trattamento economico relat. Q uelle
mansioni svolte).
b) la rilevanza della modifica del luogo determinata dal distacco: "Quando comporti un trasferimento a una
unità produttiva sita a più di 50 km da quella in cui il lavoratore é adibito, il distacco può avvenire soltanto
per comprovate ragioni tecniche, organizzative,produttive o sostitutive." In passato si accomunava al
trasferimento del lavoratore, ma semmai il trasferimento in senso di mutamento del luogo di lavoro del
lavoratore è una conseguenza del distacco che può avvenire o meno. Il legislatore si preoccupa di quegli
spostamenti geograficamente rilevanti. C'è una parziale simmetria con la disciplina del trasferimento anche
se rileva solamente quando ci sia un trasferimento geograficamente rilevante con la sussistenza delle ragioni
giustificatrici.
Rispetto al testo originario del decreto 276 c'è stata una modifica introdotta nel 2004 con un comma 4 bis
che prevede che: "Quando il distacco avvenga in violazione di quanto disposto dal comma 1, il lavoratore
interessato può chiedere, mediante ricorso giudiziale a norma dell'articolo 414 del codice di procedura
civile, notificato anche soltanto al soggetto che ne ha utilizzato la prestazione, la costituzione di un rapporto
di lavoro alle dipendenze di quest'ultimo. In tale ipotesi si applica il disposto dell'articolo 27, comma 2.
(DLGS 251/2004)". Qui il sistema sanzionatorio è parallelo, costruito sulla base del sistema previsto per la
somministrazione: imputazione del rapporto di lavoro presso l'effettivo datore di lavoro.
-->Il distacco è quindi uno strumento messo a disposizione dell'impresa per favorire un loro interesse
indiretto che può essere perseguito attraverso appunto un'altra società nella quale si distacca un proprio
dipendente. L'accentuazione della dissociazione diventa strutturale e definitiva nel caso della
somministrazione.
Appalto:
Un altro strumento utilizzato spesso per esternalizzare o internalizzare è l'appalto considerato anch’esso una
forma di utilizzazione indiretta della manodopera (l'impresa, per la realizzazione di una parte delle sue
attività, anziché utilizzare il proprio personale utilizza l'organizzazione dell'impresa di un appaltatore)
La disciplina degli appalti ha visto grossi interventi della giurisprudenza negli ultimi 70 anni:
-la legge 1369\1960 distingueva gli appalti in tre categorie:
1) appalti illeciti: la legge vietava l'interposizione e quindi l'appalto di mere prestazioni di lavoro ( si
configurava un appalto di mere prestazioni di lavoro quando l’appaltatore,pur titolare di effettiva organizazione aziendale,metteva a
disposizione del committente una prestazione lavorativa svolgendo esclusivamente compitidi gestione amministrativa del
rapporto,senza che da parte sua ci fosse una reale organizzazione della prestazione stessa ).
2) appalti regolati: tutti quegli appalti di tipo aziendale, che si svolgevano all'interno delle aziende,
all'interno in senso fisico (nelle mura aziendali, come il servizio di mensa) o del ciclo produttivo dell'azienda.
In tal caso,ai dipendenti dell'appaltatore era garantita la parità di trattamento economico-normativo non
inferiore a quello garantito dall'appaltante ai suoi dipendenti ( Equiparando così i costi diretti e indiretti) oltre alla
responsabilità solidale fra appaltante e appaltatore.
3) appalti liberi: appalti che seppur si svolgevano all'interno del ciclo produttivo o altri tipi di appalti
specificatamente regolati della legge., non godevano delle regole sopra indicate (attività di
costruzione,installazione,montaggio ecc..).
Abrogata la legge, tutte queste distinzioni sono venute meno e bisognava ridefinire le condizioni d'uso
dell'appalto ;
-La nozione di appalto è presente da sempre nel nostro codice civile all'art. 1655: "Nozione. L'appalto è il
contratto col quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio
rischio, il compimento di un'opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro."
Ciò che caratterizza l'appalto è l'esistenza di una organizzazione di mezzi e una gestione del rischio da parte
dell'appaltatore. L’appaltatore non deve essere necessariamente un imprenditore, deve essere un soggetto
capace di assumere su di sé il rischio di impresa.
-l’appalto è inoltre più specificatamente disciplinato dall’art.29 d.lgs.276/2003 il quale aggiunge una
precisazione un po' sibillina, perché dice: "Ai fini della applicazione delle norme contenute nel presente
titolo, il contratto di appalto, stipulato e regolamentato ai sensi dell'articolo 1655 del codice civile, si
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Autore: Davide Cavallino
Diritto del lavoro 2013/2014
distingue dalla somministrazione di lavoro per la organizzazione dei mezzi necessari da parte
dell'appaltatore, che può anche risultare, in relazione alle esigenze dell'opera o del servizio dedotti in
contratto, dall'esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati
nell'appalto, nonché per la assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio d'impresa".
L’art.29 no introduce quindi una nuova disciplina di appalto diversa da quella prevista dal codice civile,
quanto piuttosto definisce le condizione d’uso di quel particolare tipo di contratto per distinguerlo dalla
somministrazione;l’elemento discretivo fondamentale è rappresentato proprio proprio dall’indicazione del
fatto che “l’organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore si traduce nell’esercizio del potere
organizzativo/direttivo esercitato dall’appaaltatore: nell’appalto dunque,diversamente da quanto previsto
nella somministrazione, l’appaltante non è titolare del potere direttivo e di controllo verso i dipendenti
dell’appaltatore.
Se si verifica un’intromissione dell’appaltante nell’organizzazione dell’appaltatore o si riscontra la
traslazione del rischio di impresa il lavoratore può ottenere con ricorso giudiziale la costituzione di un
rapporto di lavoro alle dipendenze del soggetto che ne ha utilizzato la prestazione.
Tale tutela può essere particolarmente importante a fronte di una potenziale maggiore solvibilità e credibilità
dell'appaltante rispetto all'appaltatore e quindi con garanzia di effettività dei crediti dei lavoratori dipendenti
dall'appaltatore.
-La legge prevede inoltre che, con appositi accordi fra le parti sociali si possa estendere e regolare
liberamente introducendo altre forme di controllo di garanzia e di verifica della regolarità degli appalti:tutto
questo è un onere dell'organizzazione sindacale che rischia di far perdere tutele individuali dei lavoratori.
-Un forma di tutela,seppur non solidale,è prevista dal codice civile nella disciplina degli ausiliari
dell'appaltatore (art. 1676): Coloro che, alle dipendenze dell'appaltatore, hanno dato la loro attività per
eseguire l'opera o per prestare il servizio possono proporre azione diretta [1595, 1705 2 ] contro il
committente per conseguire quanto è loro dovuto, fino alla concorrenza del debito che il committente ha
verso l'appaltatore nel tempo in cui essi propongono la domanda). Questa azione diretta è però limitata al
solo periodo in cui vi è il contratto di durata dell'appalto ed è limitata anche all'estinzione del debito che il
committente abbia ancora nei confronti dell'appaltante.
Con l’abrogazione delle precedente disciplina viene dunque meno la parità di trattamento tra dipendenti
dell’appaltante e dipendenti dell’appaltatore; questa resta invece garantita per gli appalti e distacchi
transnazionali (resa da dipendenti di una società di nazionalità diversa rispetto a quelli del luogo dove si
realizza l'opera o il servizio):si tratta di una disciplina proposta dallla direttiva 1996\71 ,recepita nel nostro
ordinamento con una disciplina ad hoc, il decreto legislativo 72\2000; Il punto è che la disciplina è stata
recepita nel 2000, l'art. 29 è del 2003: nel momento in cui, nel 2000, il legislatore ha recepito la direttiva sui
servizi transfrontalieri, aveva in mente ancora il modello della vecchia legge 1369\1960. Nel recepire i
principi di quella direttiva ha imposto la parità di trattamento e la solidarietà, stabilendo un regime che era
quello dei vecchi appalti regolati. Il problema che sta emergendo è che in caso di appalti internazionali, sugli
appaltatori stranieri gravano oneri e costi più elevati di quelli che gravano sugli appaltatori italiani, perché
l'appaltatore straniero dovrà garantire oltre alla responsabilità solidale anche la parità di trattamento.
Concludendo l'appalto è sicuramente uno strumento che consente di esternalizzare qualsiasi attività interna o
esterna, a costi potenzialmente convenienti, consentendo di ridurre i costi anche in termini di costi indiretti(i
lavoratori dell’appaltatore sono infatti lavoratori invisibili,perché non computabili nell’organico dell’impresa
dell’appaltante.
Trasferimento d’azienda:
Il trasferimento di azienda si verifica ogni volta che, a seguito di operazioni societarie di vario genere
(cessione, scissione, fusione, affitto, usufrutto), il titolare dell’attività viene a mutare;
Questa forma di esternalizzazione è disciplinata rispettivamente dagli artt. 2558 c.c. (secondo il quale,se non
è pattuito diversamente,l’acquirente dell’azienda subentra nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda
stessa che non abbiano carattere personale) e dall’art.2112 che, a seguito delle direttive UE, è stato
perfezionato subendo alcune modifiche.
Originariamente l’art.2112 già prevedeva la continuazione del rapporto di lavoro con l’acquirente ma non
conteneva alcuna tutela verso i lavoratori che,al ,momento della cessione erano liberamente licenziabili da
cedente e cessionario.
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Autore: Davide Cavallino
Diritto del lavoro 2013/2014
A partire dalla legge n.604/1966, la prospettiva mutò: venne parzialmente modificato quanto sancito
dall’art.2112 del codice civile ,introducendo il divieto di licenziamento per causa cessione d’azienda;
A fornte di questo primo intervento ,che prevedeva una tutlela meramente di carattere individuale del
lavoratore, seguì una più ampia regolamentazione: con l’art.47 della legge n.428/1990 e poi con il d.lgs
81/2000 l’italia si adeguò, seppur in netto ritardo, alle direttiva CE 77/18, CE 98/50, alle quali seguì il
d.lgs,276/2003 a fronte della direttiva CE 2001/23.
La fattispecie:
Il comma 5 dell’art.2112 c.c. stabilisce che: “
Dalla definizione qui proposta notiamo che :
-si deve trattare del proseguimento o della ripresa della stessa attività precedentmente svolta dal cedente o di attività ad esse analoga;
-lo strumento giuridico utilizzato può essere considerato indifferente; (vedi caso provvedimento pag.464)
I diritti dei lavoratori:
a)tutela individuale: tale tutela è affidata a 2 regole:
1.la continuità del rapporto: in caso di trasferimento di azienda il rapporto continua con il cessionario ed il
lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano;con questa disposizione viene meno ovviamente anche il
consenso del lavoratore che, in caso di trasferimento d’azienda,non è ritenuto necessario essendo il passaggio
del lavoratore una automatica conseguenza della fattispecie trasferimento d'azienda.
La volontà del lavoratore rileva indirettamente in un altro senso, l'art. 2112 prevede che: "Il lavoratore, le
cui condizioni di lavoro subiscono una sostanziale modifica nei tre mesi successivi al trasferimento
d'azienda, può rassegnare le proprie dimissioni con gli effetti di cui all'articolo 2119, primo comma
(disciplina del recesso per giusta causa)".
Ma quando si verifica una sostanziale modifica del rapporto di lavoro? Ogni qual volta vi siano
modificazioni importanti e sfavorevoli nei confronti del lavoratore:caso tipico è il demansionamento.
La maggior parte delle volte,tali modifiche sostanziali alle condizioni di lavoro derivano dal contratto
collettivo legittimamente applicato dal nuovo datore di alvro che potrebbe appunto prevedere condizioni
complessivamente meno favorevoli rispetto al contratto coletttivo applicato dal cedente: secodno l’attuale
formulazione dell’art.2112 Il cessionario è tenuto ad applicare i trattamenti economici e normativi previsti
dai contratti collettivi nazionali, territoriali ed aziendali vigenti alla data del trasferimento, fino alla loro
scadenza, salvo che siano sostituiti da altri contratti collettivi applicabili all'impresa del cessionario.
L'effetto di sostituzione si produce esclusivamente fra contratti collettivi del medesimo livello"
2. la responsabilità solidale tra cedente e cessionario sec. qnt considerato nelle altre forme di esternalizzazioni.
b)tutela collettiva/indiretta: introdotta per la prima volta dall’art.42 della legge 428/1990, essa consiste esclusivamente nell’obbligo
di informazione e consultazione preventiva che grava congiuntamente su cedente e cessionario;
l’art.47 afferma che : “
La disposizione e le difficoltà del suo significato vertono su due temi:
-il momento dell’informazione:La questione del termine fisso dei 25 giorni ha dato luogo ad una copiosa
giurisprudenza:come calcolarli?
In questo caso è importante tenere conto del fine di questa disposizione: l'obiettivo è quello che
l'informazione e la consultazione si realizzino in tempo utile perché abbiano un senso e per garantirne
l'effettività di tempi e contenuti.
-il contenuto dell’informazione preventiva: sec. l’art.47 deve riguardare la data o la data proposta del
trasferimento,i motivi del programmato trasferimento d’azienda,le sue conseguenze giuridiche economiche e
sociali sui lavoratori,le eventuali misure previsti nei confronti di quest’ultimi.
La questione che si è posta è quella riguardante i trasferimenti attuati all'interno di un gruppo di imprese fra loro collegate, è una
questione che in Italia si è presentata poco, ma c'è stato un intervento della Corte di Giustizia e una modifica della direttiva per
conformarla anche all'art.2112.
-Oggi si prevede che comunque l'obbligo di informazione gravi sul datore di lavoro formale indipendentemente dal fatto che
eventuali decisioni della cessione dell'azienda sia stata presa da un altro soggetto, tipicamente da un soggetto della controllante. La
scelta responsabilizza il datore formale, infatti nella direttiva e nella parallela legge italiana si prevede che, il datore di lavoro
inottemperante a questi obblighi di informazione, non possa giustificare il mancato adempimento dell'informazione sulla base del
fatto che la decisione non è stata presa da lui.
Trasferimento del ramo d'azienda
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Autore: Davide Cavallino
Diritto del lavoro 2013/2014
La disciplina del trasferimento di azienda sino a qui ricostruita si applica anche in caso di trasferimento di
ramo d’azienda; oggi si può fare esplicitamente riferimento al trasferimento di un solo ramo d’azienda
interpretando quanto disposto dall’art.2112 c.c. opportunatamento adeguato alle direttive UE:
Sec. l’art.2112 la disciplina di trasferimento d’azienda si applica anche al trasferimento di parte dell’azienda
intesa come "articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata, identificata come
tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento.
-ci sono stati molti dibatti riguardo al fatto se l’autonomia funzionale debba essere preesistente alla cessione
o anche solo potenziale: prendendo come riferimento il caso Ansaldo/Manital ,la corta di cassazione afferma
che la cessione di ramo di azienda è legittima solo se la struttura ceduta è dotata di una preesistente
autonomia organizzativa ed è idonea,già all’atto della cessione,a costituire un’entità economica unitaria
finalizzata allo svolgimento volta alla prod. di det.prodotti/servizi. In assenza di tali requisiti non si configura
la cessione di ramo di azienda quanto piuttosto la cessione di una pluralità di contratti di lavoro per il cui
perfezionamento è necessario il consenso dei lavoratori.
-Di difficile interpretazione è anche il caso in cui i lavoratori soggeeti al trasferimento siano adibiti a una
molteplicità di mansioni che non sono destinate esclusivamente a soddisfare le esigenze del ramo di azienda
in via di trasferimento: in questo caso la giurisprudenza tiene conto della prevalenza delle mansioni cui o
obbligato il lavoratore.
-Oggi le esternalizzazioni via trasferimento di ramop d’azienda sono spesso accompagnate dalla stipulazione di un contratto di
appalto con il cessionario del ramo d’azienda;in questo modo,attività che erano state (formalmente) esternalizzate vengono
reinternalizzate acquisendo gli stessi serivzi grazie ad un contratto con il medesimo oggetto.
Parte VII: Cessazione del rapporto di lavoro
(manca: procedura di impugnazione,rito speciale,procedura obbligatoria di conciliazione,revoca)
Il licenziamento individuale: evoluzione della disciplina:
L’attuale disciplina dei licenziamenti è costituita da un complesso di disposizioni contenute in diverse leggi,
che si sono succedute nel tempo senza che mai la legge successiva abrogasse e sostituisse completamente la
legge precedente: questa formazione alluvionale ha dato luogo ad una disciplina dei licenziamenti
estremamente complessa,nella quale convivono regimi diversi tra loro.
La disciplina base di questa materia la si trova negli artt-2118-2119 c.c.:
1)L'art.2118 è intitolato al "recesso del contratto a tempo indeterminato",esso regola il recesso unilaterale
con preavviso nel contratto a tempo indeterminato.
Il recesso che è regolato nell'articolo, detto anche recesso ordinario, è definito normalmente recesso ad
nutum, che significa "con un cenno del capo": sono dimissioni/licenziamenti per le quali non si richiede né i
requisiti di forma né di sostanza (giustificazioni), ed è su questo che è intervenuta la nuova disciplina per
imporre tali requisiti come obbligatori per il solo licenziamento.
 Primo comma: "Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato,
dando il preavviso nel termine e nei modi stabiliti (dalle norme corporative), dagli usi o secondo equità."
Il preavviso è un periodo di tempo durante il quale il rapporto di lavoro continua a tutti gli effetti.
-La durata del preavviso è regolata dai contratti collettivi (che di solito la differenziano in base all’anzianità di servizio ed alla
qualifica del lavoratore, prevedendo di norma, un preavviso più lungo per il licenziamento rispetto alle dimissioni) o, in mancanza,
dagli usi o dall'equità.
-Il periodo del preavviso ha la funzione per il lavoratore licenziato di sapere anticipatamente che ci sarà cessazione del proprio
rapporto di lavoro e di avere un periodo di tempo entro cui potrà cercarsi una nuova occupazione; per il datore di lavoro si tratta di
avere del tempo per ricercare un sostituto al lavoratore che da le proprie dimissioni. È un termine a vantaggio per la parte che subisce
il recesso, e il preavviso è obbligo inderogabile.
 Secondo comma: "In mancanza di preavviso, il recedente è tenuto verso l'altra parte a un'indennità
equivalente all'importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso".
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Autore: Davide Cavallino
Diritto del lavoro 2013/2014
-Se il lavoratore si dimette volontariamente senza preavviso, l'indennità corrisposta al datore di lavoro consiste nella rinuncia del
lavoratore alla retribuzione che gli sarebbe spettata in tale periodo.
-Se invece è il datore di lavoro che licenzia il proprio dipendente senza preavviso, allora questo dovrà pagare al lavoratore la
retribuzione corrispondente al periodo di preavviso.
Il secondo comma dell'art.2118 ha dato luogo ad interpretazioni contrastanti circa l’efficacia del preavviso:
“ è la parte che recede unilateralmente che decide se far cessare o meno il rapporto immediatamente? “
a. Secondo l'orientamento prevalente in dottrina e in giurisprudenza fino a tempi molto recenti, vi è efficacia reale del preavviso: ciò
significa che l'obbligo di preavviso deve essere rispettato e la presenza di questo comporta la durata del rapporto di lavoro fino alla
scadenza del preavviso medesimo;Di conseguenza, la parte che recede, se anche fosse disponibile a pagare l'indennità sostitutiva ed
eventualmente la proponga al lavoratore, non può con ciò far cessare anticipatamente il rapporto di lavoro. Questo perché il
preavviso è nell'interesse di chi subisce il recesso
-->Chi propone il recesso non può quindi far cesare immediatamente il rapporto e la sua continuità, ma può proporre a chi tale
recesso lo subisce di far cessare il rapporto versandogli l'indennità sostitutiva: questo secondo i giudici è l'unico percorso legittimo,
poiché vi è il consenso di chi subisce il recesso, è un accordo per il recesso consensuale anticipato.
b.Si è però manifestato recentemente nella giurisprudenza un orientamento diverso che individua nel 2 comma una obbligazione
alternativa del preavviso, ovvero la possibilità di o far durare il rapporto o pagare una indennità sostitutiva. In questo caso l'opinione
non tiene conto della funzione propria del preavviso negli interessi di chi esercita il recesso.
N.b.:
Il lavoratore malato non può essere licenziato fino alla scadenza del periodo di comporto, ma se ciò avviene, il licenziamento non è
nullo, bensì solo temporaneamente inefficace. La malattia sopravvenuta durante il periodo di preavviso ne sospende il decorso,
essendo impedita la normale funzione ( ricerca di altra occupazione) del preavviso medesimo. È fatto salvo solo il licenziamento per
giusta causa.
Il periodo di preavviso non può essere computato nelle ferie di cui impedirebbe un sereno godimento, salvo l’ipotesi di ferie non
imposte dal datore di lavoro, ma richieste dal lavoratore nel proprio interesse .
2) L'art.2119 è intitolato al recesso per giusta causa: "Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto
prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è
a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria,
del rapporto. Se il contratto è a tempo indeterminato, al prestatore di lavoro che recede per giusta causa
compete l'indennità indicata nel secondo comma dell'articolo precedente.
Non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto il fallimento dell'imprenditore o la liquidazione
coatta amministrativa dell'azienda" e le diverse procedure concorsuali oggi presenti nel diritto
Il licenziamento e le dimissioni con giusta causa vengono "in tronco" ovvero avvengono immediate senza preavviso, con una
immediatezza che è elemento strutturale di questo recesso eccezionale.
La giusta causa è una causa soggettiva: L'ultimo comma infatti detta che non costituisce giusta causa il fallimento dell'imprenditore
o la liquidazione coatta amministrativa dell'azienda, e la procedura concorsuale ci dice che quando si parla di giusta causa siamo
nell'ambito di cause che sono ricondotte a comportamenti delle parti.
La disciplina dei licenziamenti è rimasta affidata agli articoli 2118 e 2119 del codice civile per molto tempo,
ma questo fino, almeno per quanto riguarda i licenziamenti, al 1966 (per le dimissioni la prima disciplina
limitativa degli abusi a cui si presta, escludendo un tentativo nel 2007, si ha solo con la riforma Fornero del
2012).
La disciplina dei licenziamenti individuali della legge 604/1966
Nel 1966 viene emanata la legge 15 luglio n.604 che contiene la prima disciplina legale limitativa dei
licenziamenti individuali.(La disciplina dei licenziamenti collettivi non è regolata.)
La legge era stata preceduta dalla disciplina contrattuale,caratt. Da una serie di accordi interconfederali che
regolavano sia i licenziamenti individuali sia i licenziamenti collettivi (questi in quanto tali erano privi di
efficacia erga omnes.)
La legge 604/1966, (ancora in vigore seppur abbia subito parecchie modificazioni) aveva all'epoca un
campo di applicazione limitato ai soli datori di lavoro, imprenditori e non, che occupavano più di 35
dipendenti (erano perciò escluse molte realtà produttive del nostro paese, caratterizzato da piccole - piccolissime imprese; inoltre
dal computo si escludono una serie di figure specifiche che portano a ridurre ulteriormente il numero dei dipendenti, portando la
dimensione delle imprese a scendere ulteriormente ).
La legge prevedeva alcuni casi di nullità del licenziamento ,(ad esempio rappresaglie politico-sindacale, a cui si sono
aggiunti nel tempo i licenziamenti per ragioni di discriminazione); nonché l’introduzione della regola della
giustificazione del licenziamento sanzionando i licenziamenti ingiustificati:
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Autore: Davide Cavallino
Diritto del lavoro 2013/2014
La legge prevedeva, o meglio tuttora prevede, all'art.1 che "nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato,
intercedente con datori di lavoro privati o con enti pubblici, ove la stabilità non sia assicurata da norme di
legge, di regolamento e di contratto collettivo o individuale, il licenziamento del prestatore di lavoro non
può avvenire che per giusta causa ai sensi dell'art. 2119 del Codice civile o per giustificato motivo."
Questa legge prevede i due tipi di licenziamento:
- il licenziamento con preavviso per giustificato motivo
- - il licenziamento senza preavviso per giusta causa.
La disciplina del licenziamento per giustificato motivo modifica la disciplina dell'art.2118: il licenziamento
non sarà più ad nutum, ma sarà licenziamento che deve essere comunicato e il suo motivo giustificato.
L'art.2 prevede che la comunicazione del licenziamento avvenga per iscritto tramite lettera dl licenziamento.
L'articolo però non prevedeva l'obbligo di motivazione contestuale nella lettera di licenziamento (oggi questa
disciplina è stata abrogata dalla legge Fornero), ma solo la possibilità del lavoratore di richiedere i motivi al
datore di lavoro entro i 15 giorni dalla ricezione della lettera. La motivazione del licenziamento doveva
essere data dal datore al lavoratore richiedente entro 7 giorni, altrimenti il licenziamento sarebbe stato
inefficacie.
Era altrettanto inefficacie il licenziamento intimato oralmente. L'inefficacia portava alla non cessazione del
rapporto poiché il licenziamento dichiarato inefficacie non produce effetti.
-La legge 604/1966 prevede inoltre trattamenti diversi tra licenziamenti radicalmente nulli e licenziamenti
non giustificati: sono radicalmente nulli i licenziamenti discriminatori o in violazione di divieti legali; sono
ingiustificati i licenziamenti per i quali il giudice riscontra il giustificato motivo addotto dal datore di lavoro
non sufficiente a giustificare il licenziamento. Nel caso di licenziamenti ingiustificati la legge prevede
l'applicazione di una sanzione alternativa, qualificata dalla Corte Costituzionale come obbligazione
alternativa tra riassunzione al servizio e pagamento indennità di natura risarcitoria di importo compreso tra
un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, aumentabili a 10 o
14 mensilità (art.8).
La disciplina dello Statuto dei Lavoratori art.18 (legge 300/1970)
Le cose cambiano radicalmente con l’art.18 dello Statuto dei Lavoratori che introdusse la tutela reale del
posto di lavoro. Questa tutela si contrappone a quella che era prevista dalla legge del 1966, che viene detta
tutela obbligatoria (datore di lavoro è solamente obbligato a pagare l'indennità risarcitoria).
In caso della disciplina introdotta dall'art.18, il licenziamento ingiustificato, insieme al licenziamento nullo e
il licenziamento inefficace per vizio di forma, è annullato dal giudice, è dichiarato invalido. Annullando il
licenziamento il giudice ricostituisce il rapporto di lavoro ordinando la reintegrazione nel luogo di lavoro del
lavoratore e condannando al risarcimento del danno pari alla retribuzione maturata nel frattempo, nel periodo
in cui si era stata interrotta di fatto la continuità del rapporto di lavoro.
-Questa disciplina prevista dall'art.18 aveva un campo di applicazione che non modificava il campo di
applicazione della disciplina precedente, ma interveniva creandosene uno proprio, che finiva però per
interferire con quello della disciplina precedente: L'art.18 si applicava e si applica ancora oggi nell'ambito delle sole
imprese (e non degli imprenditori) in cui ciascuna unità produttiva occupa più di 15 dipendenti. L'articolo 18 non si riferisce perciò
alle dimensioni complessive dell'impresa, ma a quelle dell'unità produttiva (definita dall'art.35 dello Statuto dei Lavoratori), ovvero
la sede, lo stabilimento, la filiale, l'ufficio autonomo. Si potevano presentare una moltitudine di casi:
· un'impresa con più di 35 dipendenti, organizzata in più unità produttive che impiegavano meno di 15 dipendenti ciascuna si
applicava la legge del 1966.
· un'impresa con più di 35 dipendenti, organizzata in più unità produttive che però alcune impegnavano meno di 15 dipendenti, altre
più di 15 ai lavoratori impiegati nell'unità produttiva con più di 15 dipendenti veniva applicato l'art.18, quelli impiegati nelle
altre, la legge del 1966.
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· un'impresa con meno di 35 dipendenti, con due unità produttive, una con più di 15 dipendenti l'altra con meno di 15 nell'unità
con più di 15 lavoratori si applicava l'art.18 e nell'altra la disciplina dell'artt.2118 e 2119.
-->Si vennero a creare così Disparità di trattamento enormi che nascevano da campi di applicazione mal
definiti.
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Autore: Davide Cavallino
Diritto del lavoro 2013/2014
La legge 108/90:
Questa è la ragione per la quale fu emanata la legge 108/1990 la fu emanata per evitare il referendum che
voleva l'applicazione dell'art.18 a tutti i datori di lavoro imprenditori e non, indipendentemente dalle soglie
numeriche; La legge,modificando i campi di applicazione di ambedue le discipline,accoglie in parte il
possibile esito positivo del quesito referendario:
-Per l'art.18 rimane fermo il riferimento all'unità produttiva con più di 15 dipendenti, ma la sua applicazione
si estende in ogni caso l'impresa abbia più di 60 dipendenti; inoltre l'articolo si applica anche a datori di
lavoro non imprenditori con le stesse soglie numeriche (le unità produttive vengono raggruppate per
territorio comunale).
- Legge 604/1966 rimane applicabile dove non si applica l'art.18, area di applicazione definita per esclusione,
con due importanti eccezioni: il lavoratore domestico e i dirigenti, i quali non sono destinatari della
disciplina legale dei licenziamenti, ma per cui si applica la tutela contrattuale, ovvero la loro tutela è definita
dai CC che prevedono i casi di giustificazione, e non prevedono mai la reintegrazione nel posto di lavoro.
Recentemente la materia dei licenziamenti è stata oggetto di due nuovi interventi legislativi che hanno
profondamente modificato l’assetto precedente:
-un primo passo è stato compiuto dalla legge 183/2010 (collegato lavoro) che è intervenuta essenzialmente
sul versante processuale,riducendo i termini per l’impugnazione dei licenziamenti;
-molto più incisivo è stato l’intervento del legislatore con la legge 92/2012 il cui fondamentale obbiettivo
non è più l’estensione della tutela vs lic. ingiustificati ma,al contrario, nel contesto di un complessivo
alleggerimento dell’apparato sanzionatorio.
Modifiche apportate dalla riforma Fornero:
-Viene differenziato il regime sanzionatorio previsto dall’art. 18 Sta. Lav. Per i licenziamenti illegittimi, a seconda delle diverse
ipotesi di illegittimità e della motivazione del licenziamento;
-Viene introdotto per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, una procedura di conciliazione obbligatoria che il datore di
-lavoro deve attivare prima della comunicazione di licenziamento ( operativa solo nelle aziende con più di 15 dipendenti);
-Viene posto a carico del datore di lavoro l’obbligo di specificare nella lettera di licenziamento i motivi che lo hanno determinato;
-Viene ridotto da 270 a 180 giorni il termine entro il quale deve essere depositato il ricorso giudiziale o comunicato alla controparte il
tentativo di conciliazione o arbitrato;
-Viene introdotto un rito speciale specifico per le controversie aventi ad oggetto l’impugnativa del licenziamento nelle ipotesi
regolate dal novellato art. 18, contraddistinto da celerità e snellezza.
Licenziamenti disciplinari:
La giusta causa: (rileggersi articolo 2119 c.c.)
Siamo di fronte ad un lic. per giusta causa (art. 2119 cod. civ.), quando si verifica un comportamento del
lavoratore che costituisca grave violazione ai propri obblighi contrattuali, tale da ledere in modo insanabile il
necessario rapporto di fiducia tra le parti e che non consente la prosecuzione nemmeno temporanea
del rapporto di lavoro .
Tale nozione si rinviene nell’art. 2119 c.c. il quale prevede che le parti (ossia il datore di lavoro e il
lavoratore) possano recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato senza necessità
di preavviso qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto
medesimo.
L’immediatezza cui si fa riferimento deve essere intesa però in senso relativo:il datore di lavoro è si tenuto,data la
gravità dell’inadempimento,ad una reazione pronta, ma deve essere anche dato il tempo di accertare i fatti su cui si basa la sua
valutazione (con onere della prova sul datore di lavoro interessato a giustificare il ritardo).
Sospensione cautelare: nelle more dell’accertamento e della valutazione dei fatti e poi del procedimento disciplinare, il datore di
lavoro che tema pregiudizi dalla presenza in azienda del dipendente può procedere alla SOSPENSIONE CAUTELARE del
medesimo a fini non punitivi. La giurisprudenza impone l’obbligo retributivo per il relativo periodo, salvo diversa disciplina del
contratto collettivo
-Il concetto di giusta causa è al centro di una lunga e complessa elaborazione giurisprudenziale: i giudici
definiscono come giusta causa di licenziamento ciò che determina il venir meno del rapporto fiduciario tra
datore di lavoro e lavoratore ma la questione è: “un comportamento del lavoratore estraneo
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Autore: Davide Cavallino
Diritto del lavoro 2013/2014
all’adempimento in senso stretto degli obblighi contrattuali può giustificare un licenziamento senza
preavviso?;per giusta causa si intende solo l’inadempimento degli obblighi contrattuali o possono rientrarvi
anche comportamenti estranei all’adempimento del contratto (ma in qualche modo rilevanti sotto il profilo
della fiducia da parte del datore di lavoro nel lavoratore?”
Esempio:è noto che il lavoratore ha diritto alla conservazione del posto di lavoro per i periodi in cui il rapporto di lavoro è sospeso,
per esempio per malattia; durante il periodo di comporto il lavoratore ha comunque dei doveri :supponiamo che venga visto in
situazioni non compatibili con lo stato di malattia, questo comportamento può determinare il licenziamento? La risposta dovrebbe
essere no, perché il lavoratore è in un periodo di sospensione del rapporto di lavoro e non ha, in quel momento, mancato
all’adempimento degli obblighi contrattuali (a meno che non stia lavorando per concorrenti, in quel caso si ha la lesione dell’obbligo
di fedeltà, che permane anche nei periodi di sospensione). Eppure i giudici legittimano il licenziamento del lavoratore riconoscendo
che in queste ipotesi vi è stata violazione dell’obbligo di buona fede e correttezza.
Altro esempio: caso di un dipendente di banca che nella sua vita privata emette assegni a vuoto: questo nuoce all’immagine della
banca; o ancora dire cose che possono compromettere l’immagine dell’azienda per la quali si lavora.
-->Secondo la più autorevole dottrina la giusta causa non è rappresentata esclusivamente da comportamenti
costituenti notevoli inadempienze contrattuali, ma può essere determinata anche da comportamenti estranei
alla sfera del contratto e diversi dall’inadempimento, purché idonei a produrre effetti riflessi nell’ambiente di
lavoro e a far venire meno la fiducia che impronta di sé il rapporto.
Casistica giurisprudenziale sulla giusta causa di licenziamento:
A) FATTI INCIDENTI SULLA IDONEITÀ PROFESSIONALE:
Acquisto, detenzione e uso di stupefacenti, possesso illegittimo di armi, emissione di assegni a vuoto e aver subito protesti cambiari,
matrimonio solo civile di insegnati di scuola cattolica, dissenso ideologico di una lavoratore addetto a mansioni di tendenza; falsa
testimonianza resa in giudizio civile tra datore di lavoro e altro lavoratore, rapporti carnali fuori dell’orario di lavoro con la moglie
del datore di lavoro titolare di piccola impresa, gestione abusiva di scommesse e gioco del lotto.
B) FATTI INERENTI ALLO SVOLGIMENTO DEL RAPPORTO
Assenze ingiustificate, rifiuto di misure di sicurezza, i distruzione di beni aziendali, furto o uso personale di beni aziendali,
sottrazione o diffusione di documenti e dati aziendali riservati, falsificazione del registro delle presenze, ingiurie e diffamazioni
contro superiori gerarchici, registrazione clandestina di conversazioni tra colleghi o con il superiore, molestie sessuali e atti osceni in
occasione della prestazione lavorativa, abbigliamento incompatibile con l’immagine dell’azienda, omessa comunicazione di
informazioni doverose, l’usura nei confronti di un collega, ubriachezza sul luogo di lavoro, rapporti impropri con i fornitori.
Il giustificato motivo soggettivo:
L’art. 3 della legge 604/66 definisce il giustificato motivo soggettivo di licenziamento con preavviso come
notevole inadempimento degli obblighi contrattuali.
Si tratta di fatti e comportamenti colposi del lavoratore (strettamente attinenti al rapporto di lavoro) che,
sebbene meno gravi rispetto alla giusta causa, sono tali da far venir meno nel datore di lavoro la fiducia posta
a fondamento del rapporto.
Ciò che differenzia il g.m.s. dalla g.c. sono quindi:
-l’esclusione, ai fini del licenziamento,di fatti estranei al rapporto;
-la minor entità, dal p.b. quantitativo, della colpa (notevole e non grave) da cui deriva un ulteriore
differenza,rispetto alla c.g., la necessità del preavviso..
Gli obblighi contrattuali la cui violazione può dar luogo ad un legittimo licenziamento sono quelli derivanti
dagli artt.2104-2105-2106 c.c.;
la qualificazione in termini di notevole inadempimento dipende,in buona sostanza da:
scarso rendimento;
imperizia;
negligenza;
L’accertamento del giustificato motivo viene effettuato dal giudice, con valutazione di gravità che tiene
conto degli specifici elementi soggettivi e oggettivi della fattispecie concreta, e conseguentemente stabilire se
ricorra una giusta causa oppure un giustificato motivo soggettivo oppure una situazione che consente solo
una sanzione conservativa,infatti:
-Se l’inadempimento non è notevole il datore di lavoro può solo irrogare una sanzione disciplinare conservativa del rapporto
-qualora non ritenga il fatto addebitato al lavoratore non sufficiente ad integrare un g.c. di licenziamento può qualificare il fatto come
giustificato motivo soggettivo, attribuendo al lav. l’indennità sostitutiva del preavviso.
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Autore: Davide Cavallino
Diritto del lavoro 2013/2014
Qualificazione del lic. Per g.c. e g.m.s. come licenziamento disciplinare:
Il licenziamento per giustificato motivo soggettivo così come il licenziamento per giusta causa,avvenendo
per condotte dei lavoratori in seguito a violazioni di obblighi contrattuali,rientrano nell’ambito
dei licenziamenti disciplinari. Il datore di lavoro deve, pertanto, rispettare la procedura prevista dall’art. 7
dello Statuto dei lavoratori.
-Sulla pubblicità del licenziamento: a differenza delle sanzioni amministrative, che devono essere
necessariamente previste,non occorre che il licenziamento per colpa sia espressamente inserito dal codice
disciplinate disciplinare tra le sanzioni,perché fa già parte di queste essendo una sanzioni tipica prevista dalla
legge.--> ogni qual volta il datore di lavoro reagisca con il licenziamento ad un inadempimento del lavoratore siamo di fronte ad un
licenziamento disciplinare: indipendentemente dal fatto che il codice disciplinare applicato nell’azienda preveda o meno questa
sanzione
Sec.quanto disposto dall’art. 7 dello Statuto dei lavoratori :
“Le norme disciplinari relative alle sanzioni, alle infrazioni in relazione alle quali ciascuna di esse può essere applicata ed alle
procedure di contestazione delle stesse, devono essere portate a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in luogo accessibile a
tutti.
-Esse devono applicare quanto in materia è stabilito da accordi e contratti di lavoro ove esistano: a tal proposito occorre ricordare
che,seppur il licenziamento sia previsto dal codice disciplinare, il giudice non è vincolato nella propria decisione dalle valutazione
espresse dalla contrattazione collettiva valutando opportunamente la proporzionalità della sanzione del licenziamento all’infrazione.
-Il datore di lavoro non può adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza avergli preventivamente
contestato l'addebito e senza averlo sentito a sua difesa.
(…)
-In ogni caso, i provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale non possono essere applicati prima che siano trascorsi
cinque giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa.
(…)
-La mancata applicazione o la violazione del regole procedurali di cui all’art.7 ST.lav costituisce vizio di
sostanza, vale a dire mancanza di giusta causa o giustificato motivo con conseguenza differenti a sec. del tipo
di licenziamento nel regime sanzionatorio per lic. Illegittimi.
-Le garanzie di cui all’art.7 e i relativi oneri procedurali sono estesi a tutti i licenziamenti (con e senza
preavviso) espressamente motivati per colpa: rientrano quindi nella fattispecie anche i lic. Rel. Ai lavoratori
di imprese che non raggiungono i limiti quantitativa di comporto. Vi saranno però divergenze riguardo il
regime sanzionatorio, qui sotto brevemente riportato ma che approfondiremo più dettagliatamente in seguito.
Il giustificato motivo oggettivo:
Ai sensi dell’art.3 legge 604/66 il licenziamento con preavviso può avvenire anche per da ragioni inerenti
all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa.
Costituisce pertanto G.M.O. la crisi dell’impresa, la cessazione dell’attività e, anche solo, il venir meno
delle mansioni cui era in precedenza assegnato il lavoratore, senza che sia possibile il suo “ripescaggio”, o la
ricollocazione del medesimo in altre mansioni esistenti in azienda e compatibili con il livello di
inquadramento.
Su quest'ultimo è esercitato un controllo delicato da parte del giudice, atto a verificare l'equilibrio tra
interessi e diritti tutelati costituzionalmente di datore di lavoro e lavoratore: da una parte infatti vige il diritto
del lavoratore a mantenere il proprio posto di lavoro,dall’altra il diritto dell'imprenditore di libertà di
iniziativa economica dell'impresa. Nell’esercitare il proprio controllo il giudice non può sindacare le scelte
economiche-organizzative del datore di lavoro, ma dovrà limitarsi a verificare la sussistenza di un nesso tra
le scelte del datore ed il licenziamento.
Insindacabile è anche la scelta dell’imprenditore di modificare l’assetto organizzativo,esternalizzando una
determinata non solo per ragioni di mercato, ma anche organizzative finalizzate esclusivamente
all’incremento di profitti; a datore di lavore spetta però,oltre l’onere di provare l’esistenza del nesso causale,
anche il cosiddetto onere di repechage, in virtù del quale i giudici ritengono legittimo il licenzimaeto solo
quando il datore di lavoro sia in gradi di provare l’impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni
equivalenti e comunque compatibili con la qualifica rivestita.
Ovviamente tale onere va inteso in senso relativo: l’onere che grava sul datore può essere assolto dimostrando che i posti circa
mansioni equiv. Sono occupati da altri lavoratori, o perché comporta eccessive riorganizzaioni complesse o eccessivi costi.
Nella nozione di giustificato motivo oggettivo rientrano anche fatti inerenti la persona del lavoratore non
imputabili a colpa del lavoratore (incidenti sulla organizzazione aziendale):
-Caso di inidoneità fisica/psichica sopravvenuta del lavoratore : la cassazione ha qualificficato come
inadempimento non imputabile a colpa del lavoratore l’impossibilità dell prestazione determinata da
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Autore: Davide Cavallino
Diritto del lavoro 2013/2014
sopravvenuta inidoneità fisica alle mansioni svolte (purché non derivi da infortunio sul lavoro o malattia
professionale o perdita di requisiti soggettivi :es. sospensione patente guida di un autista o del porto d’armi
di una guardia giurata o il ritiro del tesserino doganale per il lavoratore doganale). In tal caso il datore di
lavoro sarà assoggettato all’onere di provare la inutilizzabilità del prestatore in altre mansioni aziendali
(repechage) anche non equivalenti o addirittura inferiori rispetto a quelle prec. Svolte;
Diverso da quello cui si è detto sopra è l’orientamento emerso nella giurisprudenza per l’ipotesi del protrarsi
della malattia del lavoratore oltre il periodo di comporto (periodo durante il quale il rapporto è sospeso con
diritto alla conservazione del posto)
Il superamento del periodo di comporto costituisce un autonoma fattispecie di recesso interamente regolata
dall’art.2110 che conferisce all’imprenditore il diritto di recedere dal contratto a norma dell’art.2118 c.c.,
quando la malattia del prestatore si sia protratta oltre il periodo stabilito dalla legge,dal contratto coll,dagli
usi. Continua pag 507-508
Per quanto riguarda , invece, l’aspetto procedurale, il legislatore del 2012, per spingere le parti a trovare
soluzioni consensuali alla controversia, ha introdotto una procedura preventiva in sede amministrativa che il
datore di lavoro deve necessariamente promuovere se vuole adottare un licenziamento per motivi economici
di cui approfondiremo meglio in seguito.
I licenziamenti nulli:
Una delle innovazioni introdotte dalla nuova disciplina dei licenziamenti dettate dalla legge n.92/2012
consiste nell’unificazione del regime sanzionatorio (tutela reale) per tutti i licenziamenti viziati da
nullità,estendendo tale regime al di fuori del campo di applicazione dell’art.18 St.lav.
Nella pratica, il nuovo testo dell’art. 18 comma 1 L.300/1970, elenca tutti i casi di licenziamento NULLI ( a
cui si applica una tutela reale), senza introdurre fattispecie aggiuntive rispetto a quelle già previste, ma
operando una concentrazione, nell’ambito di un’unica norma, della pluralità delle ipotesi preesistenti ovvero:
-Licenziamento discriminatorio;
-Per causa di matrimonio;
-Per violazione dei divieti di licenziamento a tutela della maternità e della paternità;
-Per motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c.;
-Per “altri casi di nullità previsti dalla legge”;
-Per licenziamento intimato in forma orale.
Caratteristiche essenziali comuni a questi divieti sono:
-da un lato l’onere della prova a carico del lavoratore della situazione fondante il divieto con evidente
profonda differenza rispetto alla regola di giustificazione necessaria della cui prova è onerato il datore di
lavoro;
-dall’altro lato la tutela reale speciale per la violazione del divieto che il lavoratore ha interesse ad invocare.
Licenziamento per motivo illecito:In base alla disciplina generale del negozio giuridico è vietato il
licenziamento intimato esclusivamente per un motivo illecito.
Il motivo illecito è quello contrario a norme imperative, all’ordine pubblico e al buon costume, (ad esempio
il licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione di congedi parentali, familiari o formativi, nonché il
licenziamento per ritorsione all’azione giudiziaria proposta dal lavoratore oppure alla resistenza del
medesimo a pretese illegittime avanzate dal datore di lavoro.)
Si ha nullità del licenziamento solo qualora il motivo illecito sia l’unico motivo determinante; ciò significa
che,qualora non costituisca unica ragione determinante e sia dunque affiancato da una ragione giustificatrice
valida , il licenziamento è valido a prescindere dall’eventuale concorso di un motivo illecito.
Il licenziamento discriminatorio: Ai sensi dell’art.3 legge 108/90 ,indip.dalla motivazione addotta,è nullo il
licenziamento det. da ragioni discriminatorie ai sensi dell’art.604/66 e dall’art.15 ST.lav, (ragioni politiche,
religiose, razziali, di lingua, di sesso, di disabilità, di infezioni da HIV, di convinzioni personali, di età ,di
orientamento sessuale,dall’appartenenza ad un sindacato o dalla partecipazione ad attività sindacali.
Costituisce ancora motivo di licenziamento discriminatorio quello del lavoratore/ice vittima di
comportmaneti riconducibili a molestie in ragione di uno dei fattori di discriminazione considerato dai
dd.lgs 215-216/2003 nonché a molestie di genere e molestie sessuali .
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Autore: Davide Cavallino
Diritto del lavoro 2013/2014
N.b.: i fattori che fanno scattare il divieto di licenziamento sono solo quelli TIPICI indicati dal legislatore,
mentre ogni altra ragione di differenziazione non illecita resta irrilevante.
-Nelle aziende di tendenza è configurabile un licenziamento discriminatorio per i dipendenti addetti a
mansioni neutre.
-Il licenziamento discriminatorio è nullo ed è sottoposto alla tutela reale che in questo caso si applica anche
ai dirigenti, ai lavori domestici, ai lavoratori pensionabili e alle minori aziende e unità produttive.
Il licenziamento delle lavoratrici madri:è vietato il licenziamento della lavoratrice madre:
-dall’inizio della gravidanza fino al termine del periodo di interdizione del lavoro (congedò di maternità)
nonché fino al compimento di un anno di età del bambino;
-Il divieto si applica al padre lavoratore che si astenga dal lavoro nei primi 3 mesi di nascita del figlio in
mancanza della madre
In questi periodi il licenziamento è ammesso solo in caso di: (con onere della prova a carico del datore)
a. Colpa grave della lavoratrice, costituente una giusta causa per la rosl.del rapp. Di lavoro;
b. Cessazione dell’attività di azienda cui essa è addetta:
c. Ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o risoluzione del rapporto per
scadenza del termine;
d. Recesso per esito negativo della prova.
N.b.: Il divieto opera “in connessione con lo stato oggettivo di gravidanza” prescindendo di conseguenza
dalla conoscenza dello stato di gravidanza da parte del datore di lavoro; la lavoratrice licenziata è tenuta
tuttavia a presentare al datore di lavoro anche dopo il licenziamento il certificato attestante la situazione
ostativa.
Il licenziamento per causa di matrimonio:è nullo il licenziamento della lavoratrice che intervenga nel
periodo intercorrente tra la richiesta delle pubblicazioni di matrimonio fino ad anno dopo la celebrazione del
matrimonio;
Nulle sono anche le dimissioni presentate dalla lavoratrice nello stesso periodo per cui è prevista la nullità
del licenziamento a meno che la lavoratrice non lo confermi entro un mese davanti alla DTL.
Quando intervenga nel periodo considerato,la legge stabilisce che il licenziamento si presume dispsto per
causa di matrimonio;tale carattere di presunzione assoluta è superabile solo in presenza delle eccezioni al
divieto di licenziamento (con onere della prova a carico del datore)
e. Colpa grave della lavoratrice, costituente una giusta causa per la rosl.del rapp. Di lavoro;
f. Cessazione dell’attività di azienda cui essa è addetta:
g. Ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o risoluzione del rapporto per
scadenza del termine;
Regimi sanzionatori dei licenziamenti :
Le espressioni tutela reale e tutela obbligatoria denotano due diverse tecniche di tutela dei lavoratori coontro
i licenziamenti privi di giustificazione o altrimenti viziati nella forma o nella sostanza; la tecnica della tutela
reale consiste nella garanzia della continuità del rapporto di lavoro e della reintegrazione nel posto di lavoro,
la seconda nella previsione di una tutela meramente economica (indennità).
Prima della riforma del 2012, la disciplina della tutela reale era contenuta nell’art.18St.lav. come modificato
dalla legge n.108/1990; la tutela obbligatoria era invece disciplinata dalla legge 604/66 come modificata
dalla legge 108/90; a ciascuna delle due diverse aree di tutela corrispondevano distinti campi di applicazione.
Da quella grande divisione siamo oggi passati alla seguente frammentazione:
1) Tutela reale forte (piena),estesa a tutti i licenziamenti ineficaci e nulli,indip. Dal numero dei dipendenti
occupati dal datore di lavoro;
2) Tutela reale debole , applicabile per alcuni lic. Ingiustificati ai datori di lavoro di cui al comma 8 del
nuovo art.18 St.lav;
3) Tutela obbligatoria forte, applicabile per altri licenziamenti ingiustificati ai dat.lav. di cui al comma 8
art.18;
4) Tutela obbligatoria debole,applicabile per i lic. Affetti da vizio formale o procedurale e ai dat.lav. di cui al
comma 8 art.18;
5) tutela obbligatoria ai sensi dell’art.8 legge 604/66, applicabile per i lic.ingiust. ai dat.lavl di cui all’art.2
legge108/90 (rimasta immutata)
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Autore: Davide Cavallino
Diritto del lavoro 2013/2014
Il comma 8 del nuovo art.18 ST.lav.:
Il comma 8 del nuovo art.18 St.lav. definisce il campo di applicazione dei commi 4,5,6,7 (tutela reale o
obbligatoria contro i lic.ing.); sec. tale disposizione rientrano nel campo di applicazione:
-i dat.lav. imprenditori e non che occupano compless. Più di 60 dipendenti;
-le unità produttive con più di 15 dipendenti (anche se fanno rif. Ad imprese con meno di 60 dip.);
-ai dat.lav. imprenditori e non che occupano ,nell’ambito dello stesso comune, più di 15 dip.;
- alle imprese agricole con più di 5 dip..
Sono esclusi, a prescindere dal computo dei dip. Le cosiddette imprese di tendenza, che restano destinatari
del regime di stab.obblig. di cui alla legge 604/66.
Il computo dei dipendenti:L’art.18 comma 8 fa riferimento generico ai dipendenti: sono pertanto esclusi dal
computo i lavoratori non subordinati nonché i lav.sub. il cui contratto di lavoro risulta essere diverso dal
tradizionale rapporto di lavoro sub. A tempo pieno e indet.(lavoratori a termine <9 mesi,lavoraotri a
domicilio,apprendisti,lavoratori somministrati,lavoratori part-time,parenti e coniugi entro il secondo gradi,i
soci lavoraotori).
-Ai fini del computo della soglia dimensionale occorre prendere in considerazione la media occupazionale
nel periodo antecedente l’epoca del licenziamento guardando alla normale occupazione del periodo. Inoltre
spetterà al datore di lavoro convenuto in giudizio l’onere di provare che l’unità prod. nella quale è avvenuto
il licenziamento non raggiunge la soglia minima richiesta.
1)La tutela reale “forte”:
A norma dell’art.18 commi 1 e 2 come riformulati dalla legge 92/2012 il giudice,con la sentenza con la quale
dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio, o perchè intimato in concomitanza con il
matrimonio,o in violazione dei divieti di licenziamento in rif.alla maternità/paternità o perché riconducibile
ad altri casi di nullità previsti dalla legge o ad un atto illecito, oppure perché intimato in forma orale, ordina
al datore di lavoro ,imprenditore o non (indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia
il numero dei dip. Occupati dal datore di lavoro)
-la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro : a fini di effettiva reintegrazione è necessario un
comportamento attivo del datore che deve invitare il lavoratore a riprendere il servizio;l’invito deve essere
specifico e deve riguardare il reinserimento del lavoratore alle mansioni precedenti o equivalenti; al
lavoratore,a partire dalla data dell’invito del datore, è concesso un tempo massimo di 30 giorni per
riprendere il servizio; decorso tale termine il rapporto si intende risolto.(salvo assenza giustificata del
lavoratore ad es. malattia).
-in alternativa, al lavoratore è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro un’indennità pari a 15 mensilità
dell’ultima retribuzione globale di fatto,la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro.
La richiesta dell’indennità deve essere effettuata entro 30 giorni dalla comunicazione del deposito della
sentenza che ordina al datore di lavoro la reintegrazione del lavoratore, o dall’invito di qeusto, se antecedente
alla predetta comunicazione.
N.b.: il rapporto di lavoro si considera estinto a partire dalla richiesta dell’indennità da parte del lavoratore
(e non con l’avvenuto pagamento di questa);
-condanna altresì il datore al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata
dichiarata la nullità o l’inefficacia,stabilendo a tal fine un’indennità commisurata all’ultima retribuzione
globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione,dedotto
quanto percepito,nel periodo di estromissione,per lo svolgimento di altre attività lavorative.
Le opinioni in materia di risarcimento dei danni si divergono principalmente in due opinioni:
-secondo alcuni il risarcimento svolge una funzione reintegratoria delle utilità perdute ,assumendo forma di
danno emergente, alla quale viene a sommarsi la funzione sanzionatoria del minimo delle 5 mensilità di
retribuzione cmq dovute;
-secondo un diverso orientamento , si pone a fondamento della responsabilità del datore di lavoro non
l’inadempimento dell’obbligo contrattuale di retribuire la prestazione , ma la mora del creditore :sec.questa
interpretazione infatti, diversamente da quanto proposto dalla prima, il licenziamento non ha reso possibile
l’esecuzione della prestazione e dunque ha fatto venir meno l’obbligo di retribuirla; la posizione del
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Autore: Davide Cavallino
Diritto del lavoro 2013/2014
lavoratore licenziato è equiparataa quella del debiotre della prestazione che costituisce in mora il creditore
che illegittimamente rifiuta di accipere la prestazione offerta,rifiutando così quella cooperazione
all’adempimento della quale è onerato.
-Occorre infine ricordare che il datore di lavoro condannato alla reintegrazone del lavoratore
illegittimamente licenziato è tenuto al versamento dei contributi assistenziali e provvidenziali dal momento
del licenziamento al momento dell’effettiva reintegrazione (salvo richiesta indennità sostitutiva di cui sopra).
-Le reintegrazione nel posto di lavoro ha una disciplina speciale per i dirigenti delle rappresentanze sindacali
ai quali lo stesso art.18 garantisce una speciale tutela processuale in caso di licenziamento; nonostante ciò la
procedura ha scarso utilizzato perché preferita dal ricorso per la repressione della condotta
antisindacale,ugualmente rapida ed efficiente.
Tutela per licenziamenti disciplinari (g.c. e g.m.s): a) tutela reale debole b)tutela obbligatoria forte
I licenziamenti per motivo soggettivo o per giusta causa ingiustificati sono soggetti a due distnti regimi
sanzionatori,in ragione del diverso grado di (mancata o carente) giustificazione.
a)tutela reale debole:
A norma dell’art.18 comma 4, per il licenzimaneto disciplinare, la reintegrazione del lavoratore nel posto è
prevista solo nei casi in cui il giudice accerti che non ricorrono gli estremi del g.m.s o della g.c. addotti dal
datore di lavoro:
-per insussistenza del fatto contestato ,ovvero quando il datore di lavoro abbia rivolto al lavoratore un’accusa
infondata, o ancora quando il fatto contestato, pur essendo vero, non sia di gravità tale da giustificare un
licenziamento;
-perchè il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei
contratti collettivi o dei codici disciplinari applicabili,
Nei due casi anzidetti il giudice :
-annulla il licenziamento ordinando al datore di lavoro la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro
( anche se con qualifica di dirigente)
-in alternativa, il lavoratore può sempre optare per un’indennità sostitutiva pari a 15 mensilità;
-condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno commisurata all’ultima retribuzione globale maturata
dal giorno del licenziamento al giorno di reintegrazione (e comunque non superiore a 12 mensilità). La
riforma prevede altresì che dall’indennità risarcitoria sia dedotto quanto percepito, nel periodo di
estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative (c.d .aliunde perceptum), nonché quanto avrebbe
potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di un nuova occupazione ( c.d. aliunde
percipiendum);
-condanna il datore di lavoro al versamento di contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del
licenziamento fino al giorno di reintegrazione ( i contributi sono maggiorati degli interessi nella misura
legale senza applicazioni di sanzioni per omessa o ritardata contribuzione).
N.B.: lo stesso trattamento è previsto per il licenziamento in violazione del comporto(licenziamento durante
il periodo di conservazione del posto per malattia e infortunio del lavoratore ) o in caso di licenziamento
intimato per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore . Si tratta come
abbiamo già visto (o come vedremo ) di due casi non riconducibili a alla g.c. o al g.m.s., che ora il legislatore
qualifica espressamente in termini di giustificato motivo oggettivo ma che sono oggetto di considerazione
separata rispetto alle altre ipotesi di g.m.o.
b)Tutela obbligatoria forte:
Al di fuori delle ipotesi che abbiamo menzionato, perciò nelle ipotesi in cui non viene accertata una
ingiustificatezza qualificata, ma una ingiustificatezza semplice si applica una tutela solo indennitaria.: Il
giudice infatti dichiara risolto il rapporto con effetto dalla data di licenziamento e condanna il datore di
lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di 12 e un
massimo di 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all’anzianità del lavoratore e
tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del
comportamento e delle condizioni delle parti, con onere a capo del giudice di fornire specifica motivazione a
tale riguardo.
Tutela per licenziamenti per giustificato motivo oggettivo: a)tutela reale debole b)tutela obbligatoria forte
Anche i licenziamenti per motivo oggettivo ingiustificato sono soggetti a due distinti regimi sanzionatori;
a)tutela reale debole:
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Autore: Davide Cavallino
Diritto del lavoro 2013/2014
secondo quanto previsto dall’art.18 comma 7 la tutela reale è prevista sono nel caso in cui il giudice accerti
la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento;
In tal caso il giudice :
-annulla il licenziamento ordinando al datore di lavoro la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro
( anche se con qualifica di dirigente) anche se il lavoratore può sempre optare, in alternativa, per
un’indennità sostitutiva pari a 15 mensilità;
-condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno commisurata all’ultima retribuzione globale maturata
dal giorno del licenziamento al giorno di reintegrazione (e comunque non superiore a 12 mensilità). La
riforma prevede altresì che dall’indennità risarcitoria sia dedotto quanto percepito, nel periodo di
estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative (c.d .aliunde perceptum), nonché quanto avrebbe
potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di un nuova occupazione ( c.d. aliunde
percipiendum);
-condanna il datore di lavoro al versamento di contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del
licenziamento fino al giorno di reintegrazione ( i contributi sono maggiorati degli interessi nella misura
legale senza applicazioni di sanzioni per omessa o ritardata contribuzione).
b)Tutela obbligatoria forte:
Nelle ipotesi in cui non viene accertata una ingiustificatezza qualificata, ma una ingiustificatezza semplice si
applica una tutela solo indennitaria. Il giudice infatti dichiara risolto il rapporto con effetto dalla data di
licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva
determinata tra un minimo di 12 e un massimo di 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, in
relazione all’anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni
dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, nonché delle iniziative assunte dal
lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione, nonché del comportamento delle parti durante la
procedura conciliativa attivata obbligatoriamente prima della comunicazione del licenziamento. Se nel corso
del giudizio, in base alla domanda formulata dal lavoratore, dovesse risultare che il licenziamento è stato
determinato da motivi discriminatori o disciplinari si applicano le relative tutele.
Tutela obbligatoria debole:
La tutela garantita al lavoratore è un tutela obbligatoria debole nel senso che l’ammontare dell’indennità è
ridotto rispetto a quello previsto alle tutela di cui sopra;
Tale regime sanzionatorio si applica in tre differenti casi:
-quando il licenziamento sia stato dichiarato inefficace per omessa ocmunicazine contestuale della
motivazione;
-qualora si violi la procedura di cui all’art.7St.lav. (in rif. Alle regole procedurali relative all’applicazione
delle sanzioni disciplinari);
-qualora vi sia violazione della procedura di cui all’art.7 legge 604/66 come modificato dalla legge 92/12 che
introduce l’obbligo di conciliazione preventiva al licenziamento in caso di giustificato motivo oggettivo.
In tutti questo casi, il giudice dichiara risolto il rapporto di lavoro e al lavoratore spetta solamente
un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale o
procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di 6 e un massimo di 12 mensilità dell’ultima
retribuzione globale di fatto, dando specifica motivazione.
Se però il giudice, sulla base della domanda del lavoratore,accerti che vi è anche in difetto di giustificazione
di licenziamento, al vizio procedurale viene a sovrapporsi un vizio sostanziale (giustificazione insussistente o
inadeguata) e trovano applicazione le sanzioni relative.
Tutela obbligatoria prevista dall’art. 8 legge 604/1966
Rientrano nell’aerea di applicazione della legge 604/1966:
-i datori di lavoro imprenditori e non,che occupano fino a 15 dipendenti;
-gli imprenditori agricoli che occupano sino a 5 dipendenti;
-le unità produttive che occupano sino a 15 dipendenti ove facciano capo a imprese che occupano
complessivamente più di 60 dipendenti;
-le organizzazioni di tendenza, ovvero i datori di lavoro non imprenditori (privi dei requisiti di
professionalità,organizzazione,natura economica dell’attività di produzione vedi art.2082c.c.) che
svolgono,senza fini di lucro,attività di naura politica,sindacale,culturale,di istruzione,di religione o di culto .
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Autore: Davide Cavallino
Diritto del lavoro 2013/2014
Questa tutela obbligatoria riguarda solo i licenziamenti privi di giusta causa o di giustificato motivo nonché i
licenziamenti disciplinari viziati nella procedura. Si deduce pertanto che ai licenziamenti inefficaci per vizio
di forma,ai licenziamenti discriminatori e ai licenziamenti altrimenti nullli,si aplica,anche in questa area ,la
tutela reale di cui si è detto sopra.
Ai sensi dell’art.8 legge 604/66 quando il licenzimaneto risulti ingiustificato,il giudice annulla il condanna il
datore di lavoro a riassumere il lavoratore entro 3 giorni oppure a risarcire il danno da questi patito,
versandogli un’indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell’ultima
retribuzione globale di fatto, avuto riguardo al numero di dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa,
all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti ( l’indennità è
maggiorata fino a 10 o 14 mensilità per dipendenti di elevata anzianità di servizio).
N.b.:È da sottolineare la differenza tra reintegrazione ex art 18 stat lav e articolo 8 legge 604/66:
-Nel primo caso non si ha un’interruzione del rapporto di lavoro né di quello assicurativo e previdenziale,
tant’è che al lavoratore spettano i contributi anche per il periodo tra il licenziamento e la reintegrazione;
-Nel secondo caso, invece, il rapporto di lavoro si è risolto anche se il licenziamento è risultato illegittimo e
con la riassunzione nasce un nuovo rapporto di lavoro e previdenziale.
L’area residuale del recesso ad nutum:
Malgrado l’allargamento dell’ambito di applicazione della legge 604/66 permane un’area ristretta e residuale
nella quale trova ancora applicazione la disciplina del licenziamento ad nutum di cui all’art2118 c.c.
Rientrano in quest’area:
-i lavoratori assunti in prova entro il limite di durata del patto di prova e cmq non oltre i sei mesi (libera re
cedibilità senza vincolo di preavviso e motivazione);
-i lavoratori a partire dal raggiungimento dell’età pensionabile e dall’acquisizione dei requisiti pensionistici a
meno che non abbiano optato per la prosecuzione del rapporto . Al raggiungimento del limite di età i l
lavoratore può (fatto salvo per il divieto di lic. discriminatorio,motivo illecito determinante,o violazione
divieti legali) essere licenziato ad nutum, con preavviso che decorre dal compimento dell’età pensionabile.
-i lavoratori domestici, per i quali si fa riferimento alla tutela contrattuale definita dalla legge 239/1958;
-i dirigenti di azienda (per maggiori info vedi pagg 544-545-546)
Altre cause di estinzione del rapporto: (integrare con pagg da 477 a 486)
Le dimissioni:
Il lavoratore può sempre recedere dal contratto di lavoro, tuttavia, se il rapporto di lavoro è:
-A tempo determinato (quindi prima della scadenza stabilita): soltanto se sussiste una GIUSTA CAUSA
( dimissioni per giusta causa);
-A tempo indeterminato:con il limite di rispettare il periodo di PREAVVISO della durata stabilita dal
contratto collettivo, salvo la ricorrenza di una GIUSTA CAUSA 1, e dell’osservanza della procedura di
convalida.
Durante il periodo di preavviso il lavoratore deve svolgere l’attività lavorativa normalmente ed
effettivamente fino al termine dello stesso. Qualora egli non intenda continuare a lavorare è tenuto a pagare al
datore di lavoro l’indennità di mancato preavviso il cui importo è pari alla retribuzione giornaliera per il
numero di giorni di preavviso non lavorati.
Se invece il datore di lavoro rinuncia al periodo di preavviso lavorato o se le dimissioni sono motivate da
giusta causa ( per cui il recesso è immediato) al lavoratore deve essere comunque corrisposta la retribuzione
per i giorni di preavviso non lavorato.
Al fine di contrastare le c.d. dimissioni in bianco ovvero quelle fatte sottoscrivere al lavoratore, spesso già
all’atto di assunzione, per poi essere utilizzare dal datore di lavoro quando ritenuto più, la legge di riforma
1
Costituiscono giusta causa di dimissioni con onere probatorio a carico del lavoratore: la violazione dell’obbligo di sicurezza,
le molestie sessuali, il mancato pagamento di una parte significativa della retribuzione, una dequalificazione, l’omesso versamento
dei contributi previdenziali, l’effettuazione di indagini o controlli vietati. Invece, per espressa previsione di legge, le procedure
concorsuali non costituiscono giusta causa. Inoltre, in attuazione al principio dell’immediatezza, il recesso deve avvenire subito
dopo la verificazione o la conoscenza del fatto, in quanto l’eventuale tolleranza spontanea indicherebbe la possibilità di prosecuzione
provvisoria del rapporto che esclude per definizione la giusta causa. Si precisa, però, che il principio della immediatezza può ritenersi
rispettato anche quando le dimissioni per giusta causa siano differite di qualche tempo nella speranza di superamento della situazione
pregiudizievole.
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Autore: Davide Cavallino
Diritto del lavoro 2013/2014
92/2012 ha introdotto una specifica disciplina per le dimissioni del lavoratore; inoltre, ha introdotto una
sanzione amministrativa da € 5000 ad € 30.000, salvo che il fatto costituisca reato, a carico del datore di
lavoro che abusi del foglio firmato in bianco dal lavoratore al fine di simularne le dimissioni o la risoluzione
consensuale. L’accertamento e l’irrogazione della sanzione sono di competenza delle Direzioni Territoriali
del Lavoro ( DTL).
Le dimissioni sono un negozio unilaterale recettizio, sicché non occorre l’accettazione del datore di lavoro,
ma è sufficiente che pervengano a conoscenza di questi. La revoca delle dimissioni è dunque efficace se
giunge al datore di lavoro prima delle dimissioni stesse.
Inoltre, sono considerate un atto a forma libera, salvo diversa disposizione da parte del contratto collettivo, il
quale può disciplinare, oltre che la forma dell’atto, anche quella della sua comunicazione (ad esempio per
mezzo di raccomandata a/r).
Tuttavia è stata introdotto per la generalità dei lavoratori la CONVALIDA delle dimissioni, nonché delle
risoluzioni consensuali, da effettuare presso la Direzione territoriale del lavoro o il Centro per l’impiego
territorialmente competente ovvero presso le sedi individuate dai contratti collettivi nazionali stipulati dalle
organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale.
In alternativa alla convalida è prevista la SOTTOSCRIZIONE da parte del lavoratore o della lavoratrice di
un’apposita DICHIARAZIONE apposta in calce alla ricevuta di trasmissione della comunicazione di
cessazione del rapporto di lavoro inoltrata dal datore di lavoro al centro per l’impiego.
Sia alla convalida che alla sottoscrizione è subordinata l’efficacia delle dimissioni o della risoluzione
consensuale.
Infatti, se il lavoratore non vi provvede, il datore di lavoro entro 30 giorni dalle dimissioni o dalla risoluzione
consensuale deve INVITARLO PER ISCRITTO a presentarsi nelle sedi previste per la convalida o ad
effettuare la sottoscrizione ( che hanno effetto retroattivo trattandosi dell’avveramento di una condizione
sospensiva).
In assenza dell’invito, la risoluzione consensuale e le dimissioni si considerano definitivamente prive di
effetto.
Entro 7 giorni dalla ricezione dell’invito, il lavoratore deve presentarsi per la convalida o per la
sottoscrizione, ovviamente con piena libertà di effettuare o meno la convalida o la conferma.
Nel caso in cui non si presenti, il rapporto di lavoro si intende risolto.
Se si presenta per la convalida o la conferma l’atto estintivo produce i suoi effetti.
Se si presenta, ma rifiuta la convalida e la conferma, l’atto estintivo non produce effetti.
-Il lavoratore, inoltre, in deroga al diritto comune che non ammette la revoca unilaterale di atti negoziali, può
REVOCARE l’atto estintivo per iscritto.
In tale ultima ipotesi, il contratto di lavoro, se interrotto per effetto del recesso, torna ad avere corso normale
dal giorno successivo alla comunicazione, per iscritto, della revoca, ma per il periodo intercorso tra il recesso
e la revoca, in mancanza di prestazione lavorativa, il lavoratore non matura alcun diritto retributivo. La
revoca del recesso determina la cessazione di ogni effetto delle eventuali pattuizioni a esso connesse e
l’obbligo in capo al lavoratore di restituire quanto percepito in forza delle stesse.
Le dimissioni in situazioni atipiche:
L’istituto della convalida delle dimissioni, opera già da tempo in alcune ipotesi specifiche di maggiore
debolezza del lavoratore.
Innanzitutto, le dimissioni della lavoratrice se presentate in occasione del matrimonio devono, a pena di
nullità, essere confermate dinanzi alla Direzione territoriale del lavoro.
Inoltre, a tutela della genitorialità, devono essere convalidate le dimissioni presentate dalla lavoratrice
durante il periodo di gravidanza, nonché quelle presentate dalla lavoratrice o dal lavoratore fino ai primi 3
anni di vita del bambino o di accoglienza del minore adottato o in affidamento.
Per i dirigenti i contratti collettivi disciplinano in modo specifico le dimissioni per determinati motivi, quali
il mutamento di proprietà dell’azienda, la modifica della posizione sostanziale del dirigente, il trasferimento
del medesimo. In questi casi, pur non ricorrendo una giusta causa, le dimissioni vengono agevolate
esonerando il dirigente dall’obbligo di preavviso ed attribuendogli anche il diritto ad una indennità. Si tratta
di una normativa fi favore per i dirigenti che preferiscono dimettersi, non ritenendo conveniente trasferirsi o
lavorare in un’altra posizione o collaborare con i nuovi proprietari.
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Autore: Davide Cavallino
Diritto del lavoro 2013/2014
L’annullamento delle dimissioni:
alle dimissioni, quale negozio unilaterale recettizio, si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni
sull’annullamento per vizi di volontà ( errore, violenza, dolo) e per incapacità di intendere e di volere.
L’onere della prova della causa di annullamento grava sul lavoratore. L’azione di annullamento si prescrive
in anni 5. La sentenza di annullamento ha efficacia retroattiva e il risarcimento del danno, parametrato alle
retribuzioni, è dovuto solo dal momento dell’offerta della prestazione lavorativa che determina la mora
credendi del datore di lavoro.
ALTRE IPOTESI DI CESSAZIONE DEL RAPPORTO.
Per accordo delle parti ( risoluzione consensuale: vedi apposito paragrafo) che si verifica allorché entrambe
le parti, datore e prestatore, si accordano per porre fine al rapporto di lavoro;
Per scadenza del termine, se trattasi di rapporti di lavoro che prevedono una scadenza finale;
Per cause previste dalla legge ( es. mancato rientro in azienda del lavoratore a seguito di provvedimento di
reintegra);
Per impossibilità sopravvenuta della prestazione o per forza maggiore;
Per morte del lavoratore ( non produce l’estinzione del rapporto di lavoro la morte del datore di lavoro in
quanto l’attività produttiva continua, di regola, con chi succede nella titolarità dell’impresa).
L’intimazione del licenziamento:
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Autore: Davide Cavallino
Diritto del lavoro 2013/2014
Il licenziamento è un atto unilaterale del datore di lavoro la cui comunicazione deve avvenire per ISCRITTO
(anche se dirigente) con espressa deroga al principio generale della libertà di forma del negozio giuridico.
L’imposizione della forma scritta vale per qualsiasi licenziamento con 3 sole eccezioni:lavoratori in
prova;lavoratori domestici;lavoratori ultrasessantenni con diritto a pensione, per i quali resta applicabile
l’art.2118 c.c. (recesso ad nutum).
-Il licenziamento, quale atto unilaterale recettizio, per produrre effetti deve pervenire al lavoratore.
La forma scritta della comunicazione è rispettata anche nel caso in cui il datore di lavoro offra in consegna la
lettera di licenziamento al dipendente che rifiuti di riceverla. L’atto si reputa conosciuto nel momento in cui
giunge all’indirizzo del destinatario, salva la prova della impossibilità incolpevole di effettiva conoscenza.
L’art.2 comma 3 legge 604/66 prvede che la sanzione per il difetto di forma è l’inefficacia del licenziamento.
Il licenz. Privo del requisito di forma rimane inproduttivo di effetti al pari di un atto nullo ma, a differenza di un lic
.nullo,il licenziamento inefficace può essere legittimamente riformulato in forma scritta ex tunc.
Il requisito della forma scritta richiesta ab substantiam risponde all’esigenza di tutelare l’essenziale interesse
della parte più debole del rapporto a conoscere ed ad impugnare l’atto nel termine decorrente dalla data di
notifica dello stesso.
Omessa comunicazione dei motivi del licenziamento e vizi procedurali:
-La legge 92/2012 impone al datore di lavoro di specificare nella comunicazione I MOTIVI che hanno
determinato il licenziamento.
La motivazione deve essere specifica ed essenziale(al fine di far comprendere al lavoratore le effettive
ragioni del recesso); inoltre i motivi comunicati sono immodificabili, al fine di precludere al datore di lavoro
la possibilità di far valere in giudizio fatti nuovi o diversi da quelli contestati.
Esula, ovviamente, dal principio di immodificabilità dei fatti la diversa qualificazione giuridica degli stessi,
che può dar luogo anche alla conversione del licenziamento per giusta causa in licenziamento per giustificato
motivo.
Sono esclusi da questa disciplina:
-lavoratori licenziabili ad nutum (vedi sopra);
-i dirigenti, per i quali è dovuta la forma scritta, ma non la motivazione, imposta solo dai contratti collettivi
ove applicabili.
La sanzione per il difetto di motivazione è l’inefficacia del licenziamento
Con tutela soltanto indennitaria nella misura da 6 a 12 mensilità per i datori di
lavoro compresi nel campo di applicazione dei commi 4 a 7 dell’art. 18 stat. lav.
( cioè aziende con più di 15 dipendenti).
Mentre per gli altri datori di lavoro ( imprese minori e di tendenza) la legge tace,
sicché, a causa di una dimenticanza del legislatore, rimane la previsione di
inefficacia che determina l’assurdità di una tutela reale solo per le aziende minori
e di tendenza.
I licenziamenti collettivi:
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Autore: Davide Cavallino
Diritto del lavoro 2013/2014
Evoluzione della disciplina dei licenziamenti collettivi:
La disciplina legale dei licenziamenti collettivi è stata introdotta dalla legge 23 luglio 1991 n.223 a seguito di
due sentenze di condanna della Repubblica Italiana da parte della Corte di Giustizia dell’UE la quale
contestava all’Italia la mancata attuazione delle direttive comunitarie in materia (CE 75/129) Le più recenti
modifiche sono state introdotte con la riforma fornero legge 92/2012.
Fino all’entrata in vigore della legge 223/1991 I licenziamenti collettivi però avevano una loro
regolamentazione, affidata agli accordi interconfederali:il primo accordo sui lic. coll. è del 1950, il secondo
del 1965. Il primo era anche stato esteso erga omnes (legge Vigorelli, vedi appunti).
L’accordo interfederale non ha però efficacia generale ed è su questo che la corte di giustizia contestava
l’Italia; la disciplina interconfederale prevedeva una procedura conciliativa da svolgersi tra le organizzazioni
sindacali e l’associazione imprenditoriale territoriale:qualora si fosse giunti ad un accordo sul numero dei
licenziamenti il datore avrebbe dovuto attenersi a quanto previsto dall’accordo, altrimenti in caso il datore di
lavoro era cmq libero di procedere alla riduzione del personale con il solo rispetto di alcuni criteri di scelta
dei lavoratori da licenziare.
Disciplina attuale:
La materia dei licenziamenti collettivi per riduzione di personale è disciplinata dalla legge 223/1991
nell’ambito di una regolamentazione ad ampio raggio delle crisi d’impresa, che presenta il comune
denominatore di perseguire la ricerca di soluzioni alternative al licenziamento e di garantire comunque
misure per la rioccupazione dei lavoratori coinvolti nei processi di ridimensionamento, riorganizzazione o
ristrutturazione aziendale.
La Riforma Fornero ( legge 92/2012) interviene anche in materia di licenziamenti collettivi, apportando
alcune limitate modifiche alla procedura, all’impugnazione dei licenziamenti e soprattutto innovando il
regime sanzionatorio nei casi di illegittimità, tenendo conto del nuovo testo dell’art. 18 L. 300/1970.
Inoltre, avendo operato un’ampia revisione degli ammortizzatori sociali, la legge di riforma prevede
l’eliminazione delle liste di mobilità cui potevano accedere i lavoratori licenziati e la sostituzione
dell’indennità di mobilità con la nuova assicurazione sociale per l’impiego (ASpI).
Il principale ammortizzatore sociale delle eccedenze di personale è stato a partire dagli anni settanta
l’intervento della Cassa integrazioni guadagni straordinaria, che consente all’imprenditore di evitare il
licenziamento collettivo conservando il rapporto di lavoro con lavoratori non utilizzati o utilizzati
parzialmente, i quali beneficiano della integrazione salariare per il tempo non lavorato. Questo sistema, già
in sé iniquo, poiché riservato soltanto ad alcuni settori economici ed alle imprese di maggiori dimensioni,
era ben presto degenerato in uno strumento di blocchi dei licenziamenti nelle aziende in crisi per mantenere
a lungo, a carico della finanza pubblica, rapporti di lavoro non più riattivabili. La reazione a questa
situazione è venuta con la legge 223/1991 che, rovesciando la impostazione precedente, ha limitato
l’integrazione salariale ad un periodo di tempo ragionevole, consentendo il licenziamento collettivo anche
senza previo ricorso alla CIGS e spostando la tutela previdenziale dei lavoratori in esubero solo al periodo
successivo all’estinzione del rapporto. Il licenziamento collettivo non è più scoraggiato come in passato, in
quanto la nuova garanzia previdenziale consistente della indennità di mobilità non è, come l’integrazione
salariale, alternativa al licenziamento, ma lo presuppone. Si tende così a realizzare una maggiore trasparenza
del mercato del lavoro, nel senso che i lavoratori in esubero devono essere espulsi dall’azienda beneficiando
solo successivamente dell’indennità di mobilità e dello speciale statuto volto a incentivare la rioccupazione.
L’indennità di mobilità consente il passaggio dei lavoratori licenziati da imprese in crisi ad imprese con bisogno di mano
d’opera, transitando per una speciale lista di collocamento ( c.d. lista di mobilità) e conservando, in attesa della nuova
occasione lavorativa di una indennità. Tuttavia l’indennità, con il connesso onere contributivo a carico dell’imprenditore,
non è prevista in tutte le ipotesi di licenziamento collettivo, ma solo quando questo riguarda lavoratori in cassa
integrazione o comunque sia intimato da imprese rientranti nel campo di applicazione della CIGS. Sicché i lavoratori
dipendenti da imprenditori estranei a questa area c.d. assistita non solo non possono usufruire del trattamento speciale di
integrazione salariale, ma non hanno nemmeno diritto all’indennità di mobilità, in caso di licenziamento collettivo,
beneficiando soltanto degli incentivi alla rioccupazione previa iscrizione nelle liste di mobilità al pari del licenziati
individualmente da imprese con meno di 15 dipendenti per giustificato motivo oggettivo consistente nel
ridimensionamento dell’organico.
La riforma Fornero, nell’ambito della revisione degli ammortizzatori sociali, è intervenuta
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Autore: Davide Cavallino
Diritto del lavoro 2013/2014
significativamente anche sull’istituto della mobilità, prevedendone la soppressione nel 2017 e riconducendo
la tutela dei lavoratori rimasti disoccupati a seguito di licenziamento collettivo, o di mancato rientro dopo un
periodo di C.I.G.S. nell’ambito del nuovo e unico ammortizzatore sociale per la perdita del lavoro, e cioè
l’assicurazione sociale per l’impiego (ASpI).
Art. 24
1. Le disposizioni di cui all'articolo 4, commi da 2 a 12, e 15-bis e all'articolo 5, commi da 1 a 5, si
applicano alle imprese che occupino più di quindici dipendenti e che, in conseguenza di una riduzione o
trasformazione di attività o di lavoro, intendano effettuare almeno cinque licenziamenti, nell'arco di
centoventi giorni, in ciascuna unità produttiva, o in più unità produttive nell'ambito del territorio di una
stessa provincia. Tali disposizioni si applicano per tutti i licenziamenti che, nello stesso arco di tempo e
nello stesso ambito, siano comunque riconducibili alla medesima riduzione o trasformazione.
La nozione di licenziamento collettivo si compone di :
-un elemento sostanziale,generalmente detto causale (un insieme di ragioni giustificatrici quali la riduzione o
trasformazione di attività o lavoro o cessazione di attività).
-di altri due elementi costitutivi della fattispecie:
a.un requisito numerico(almeno 5 licenziamenti )
b. un requisito spazio-temporale :la facoltà di collocare in mobilità deve essere esercitata per tutti i lavoratori
oggetto della procedura di mobilità entro 120 gg dalla conclusione della procedura medesima salvo diverssa
indicazione nell’accordo sindacale; inoltre,una volta soddisfatto il requisito numerico minimo nell’ambuto
territoriale indicato, ulteriori licenziamenti che interessino unità produttive situate in altre provincie debbono
essere ricondotti all’interno della medesima procedura e debbono essere effettuati nello stesso arco
temporale.
Sotto i 5 licenziamenti siamo nell’ambito di applicazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo
(licenziamenti individuali plurimi).
Nel comma 1-bis sono presenti delle estensioni:
1-bis. Le disposizioni di cui all'articolo 4, commi 2, 3, con esclusione dell'ultimo periodo, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 11,
12, 14, 15 e 15-bis, e all'articolo 5, commi 1, 2 e 3, si applicano ai privati datori di lavoro non imprenditori
alle medesime condizioni di cui al comma 1. I lavoratori licenziati vengono iscritti nella lista di cui
all'articolo 6, comma 1, senza diritto all'indennita' di cui all'articolo 7. Ai lavoratori licenziati ai sensi del
presente comma non si applicano le disposizioni di cui agli articoli 8, commi 2 e 4, e 25, comma 9.
A questi lavoratori si applicano dunque alcune disposizioni ed altre no, questo ovviamente in relazione allo
sbocco dell’applicazione in mobilità.
1-ter. La disposizione di cui all'articolo 5, comma 3, ultimo periodo, non si applica al recesso intimato da
datori di lavoro non imprenditori che svolgono, senza fini di lucro, attivita' di natura politica, sindacale,
culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto.
Qui siamo nell’ambito delle organizzazioni di tendenza, quelle in cui in origine non si applicava mai la tutela
reale anche se erano di grande dimensione (es: sindacato).
Abbiamo dunque avuto una estensione successiva nel campo di applicazione del campo dei licenziamenti
collettivi fermo restando il limite dei 15 dipendenti anche al datore di lavoro non imprenditore e anche a quel
particolare datore di lavoro non imprenditore che sono le organizzazioni di tendenza.
Il caso della cessazione dell’attività:
Le causali giustificatrici: riduzione, trasformazione di attività o di lavoro a cui il comma 2 dell’art. 24 aggiunge il caso
della cessazione della attività. Quando il datore intenda cessare la propria attività deve aprire una procedura per la
riduzione totale del personale, non può procedere a licenziare i lavoratori motivando con la cessazione dell’attività
come se fosse una serie di licenziamenti individuali. Regole più particolari si applicano quando i licenziamenti collettivi
intervengano nell’ambito delle procedure concorsuali, nel caso del fallimento dell’impresa e via dicendo.
Queste regole verranno soppresse se la legge Fornero non verrà modificata a partire dal 2016.
La procedura di mobilità:
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Autore: Davide Cavallino
Diritto del lavoro 2013/2014
Quando siamo di fronte ad un licenziamento nel quale sono presenti quelle ragioni giustificatrici ed è
rispettato il limite quantitativo e spazio temporale nell’ambito di applicazione, il datore di lavoro che intende
licenziare deve prima sottomettersi ad una complessa procedura di mobilità regolata dall’art.4 della legge
223\1991;
Il datore di lavoro deve preliminarmente dare COMUNICAZIONE dei previsti licenziamenti alle
rappresentanze sindacali aziendali nonché alle rispettive associazioni di categoria.
La comunicazione deve indicare:
-I motivi che determinano la situazione di eccedenza di personale;
-I motivi tecnici, organizzativi e/o produttivi per i quali si ritiene di non poter evitare i licenziamenti;
-Il numero, la collocazione aziendale e i profili professionali del personale eccedente e di quello
normalmente occupato.
In questa fase preliminare, pertanto, IL SINDACATO riveste un ruolo centrale, rafforzato dalla previsione
introdotta dalla legge 92/2012, secondo cui gli eventuali VIZI DELLA COMUNICAZIONE possono essere
SANATI, ad ogni effetto di legge, nell’ambito di un ACCORDO SINDACALE2 concluso nel corso della
procedura di licenziamento collettivo.
A seguito di tale comunicazione le R.S.A. e le associazioni di categoria, eventualmente assistite da esperti,
possono chiedere un esame congiunto della situazione e, qualora non sia possibile evitare la riduzione di
personale, mediante misure alternative, è esaminata la possibilità di ricorrere a misure sociali di
accompagnamento intese, in particolare, a facilitare la riqualificazione e la riconversione dei lavoratori
licenziati.
In caso di esito negativo, la procedura prosegue presso la Direzione territoriale del lavoro (DTL) alla quale
il datore di lavoro è tenuto a dare comunicazione scritta del risultato della consultazione e sui motivi del suo
esito negativo. La procedura in sede amministrativa deve concludersi nel temrine di 30 gg dal ricevimento
della comunicazione (tutti i termini ordinatori son dimezzati quando il numero dei lavoratori interessati è <
10)
3. Raggiunto l’accordo o conclusa negativamente la fase procedurale, Il datore di lavoro può procedere al
licenziamento collettivo applicando i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare; il licenziamento dovrà
essere comunicato per iscritto a ciascun lavoratore nel rispetto del preavviso ma senza necessità di
motivazione; il datore dovrà comunicare poi alla DTL l’elenco dei lavoratori licenziati indicandone il
nominativo,il luogo di residenza,la qualifica,l’età,il carico di famiglia,e inoltre indicando puntualmente le
modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta.
I criteri di scelta:
L’art. 5 della legge 223\1991 prevede i criteri di scelta:
1. L'individuazione dei lavoratori da licenziare deve avvenire in relazione alle esigenze tecnico-produttive,
ed organizzative del complesso aziendale,nonché nel rispetto dei criteri previsti da contratti collettivi
stipulati con i sindacati di cui all'articolo 4, comma 2, o, in mancanza di questi, nel rispetto dei seguenti
criteri in concorso tra loro:
a) carichi di famiglia;
b) anzianita';
c) esigenze tecnico produttive ed organizzative.
L’art.5 comma 2 prevede che possano essere inclusi tra i lavoratori in mobilità anche:
-gli invalidi collocati obbligatoriamente, perché nella stessa misura % prevista per la loro assunzione;
-le donne, in una % non superiore a quella di manodopera femminile occupata con riguardo alle mansioni prese in considerazione.
Le parti sociali possono individuare liberamente i criteri di scelta più idonei,diversi da quelli legali, purchè lo
scostamento da questi ultimi sia giustificato.
2
L’accordo eventualmente raggiunto al fine della conservazione dell’occupazione può eliminare, anche per effetto di
apposite autorizzazioni legali, precedenti rigidità organizzative o normative, riducendo la retribuzione, flessibilizzando
o riducendo, anche temporaneamente, l’orario di lavoro, peggiorando le mansioni, consentendo il comando presso altre
imprese, agevolando il trasferimento d’azienda e così via.
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Autore: Davide Cavallino
Diritto del lavoro 2013/2014
L’accordo, e conseguentemente il recesso, sono considerati invalidi quando i criteri individuato siano in
contrasto a principi costituzionali e a norme imperative.
Tali criteri,affichè possano essere ritenuti ammissibili, devono essere stabiliti con contratto collettivo,anche
aziendale,di carattere normativo che li fissi in via generale e non soltanto con rif.a una singola det. Procedura
collettiva (salvo particolari circostanze ammesse dalla cassazione).
Secondo quanto previsto dalla legge n.223/1991 art.4 comma 9, il datore di lavoro deve comunicare alla
DTL l’elenco dei lavoratori licenziati,indicandone il nominativo,il luogo di residenza,la qualifica ,l’età,il
carico di famiglia nonché le modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta.
Originariamente la comunicazione alla DTL doveva essere contestuale al licenziamento (questa contestualità serviva a cristallizzare
questi criteri e permettere al singolo lavoratore di impugnare il suo licenziamento per cause di criteri di scelta); oggi la contestualità
è sostituita con la frase “entro 7 gg dalla comunicazione dei recessi (questo arco temporale di 7 gg può ora consentire al datoredi
riaggiustare i criteri in modo tale da renderli compatibili con i licenziamenti già effettuati (e in ogni caso i vizi procedurali non danno
più luogo all’inefficacia del licenziamento).
Le sanzioni:
Tutto l’apparato sanzionatorio previsto dall’art.5 comma 3 della legge 223/1991 è stato modificato dalla
legge 92/2012 art.1 comma 46 che ha sostituito l’intero comma 3; le sanzioni (molto indebolite rispetto al
passato) sono ora di diverso tipo a sec. delle violazioni in cui sia incorso il datore di lavoro:
-Originariamente,secondo la regolamentazione contenuta nella legge 223\1991 tutti i vizi procedurali
(comunicazione inesatta, mancato rispetto della procedura, vizi nella comunicazione … ) così come
l’inosservanza dei criteri di scelta comportavano l’inefficacia del licenziamento collettivo con applicazione
della tutela reale. In tutti questi casi il licenziamento veniva annullato e il lavoratore aveva diritto alla
reintegrazione nel posto di lavoro: una estensione della reintegrazione anche al di là dei limiti di applicazione
dell’art.18 dello statuto dei lavoratori.
-Con la riforma Fornero invece:
a. Qualora il licenziamento sia stato intimato senza l’osservanza della forma scritta ,si applica il regime
sanzionatorio di cui all’art.18 ; il licenziamento è dunque inefficace e si applica la tutela reale “forte”.
b. In caso di violazione delle procedure il licenziamento è considerato valido ed efficace; il lavoratore avrà
diritto ad una indennità risarcitoria omnicomprensiva calcolata dal giudice tra un minino di 12 e un max di
24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto (salvo la possibilità di risanare ex post da un accordo
sindacale)
c. in caso di violazione dei criteri di scelta si applica tutela reale debole: in tal caso la reintegrazione del
posto è accompagnata dalla corresponsione di un’indennità risarcitoria il cui importo può essere al max pari
a 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
Impugnazione del licenziamento:
La legge 92/2012 ha esteso ai licenziamenti collettivi, ai fini dell’impugnazione del licenziamento, le
disposizioni dell’art. 6 della legge 604/1966 che individua i termini di impugnazione del licenziamento
individuale.
Rimane quindi confermato il termine di decadenza di 60 giorni dalla ricezione della comunicazione, con
qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la sua volontà, anche attraverso
l’intervento dell’organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso.
Il lavoratore deve altresì rispettare l’ulteriore termine di 180 giorni, entro il quale, pena inefficacia della
suddetta impugnazione, deve depositare in Tribunale il ricorso giudiziale ovvero comunicare al datore di
lavoro la richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato.
Parte VIII: Le garanzie dei diritti
(mancano parti : invalidità delle rinunce e delle transazioni del lavoratore,prescrizione e decadenza)
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Autore: Davide Cavallino
Diritto del lavoro 2013/2014
La tutela giurisdizionale:
Nonostante la anzianità della riforma,ancora oggi le controversie individuali di lavoro sono per lo più
disciplinate dalla legge 533 del 1973 : La legge stabilisce le procedure giudiziarie che un lavoratore deve
seguire nel caso di un contrasto sorto con il datore di lavoro, in merito ad alcuni aspetti dell’attività
lavorativa;Il contrasto può sorgere in relazione al trattamento economico o in relazione al mancato rispetto
delle norme (mansioni non riconosciute, licenziamento illegittimo..). La legge,estende le norme processuali
delle controversie di lavoro non solo ai rapporti di lavoro subordinato, ma anche a tutti i rapporti previsti
dall’art.409 del cod.proc.civ.
-Tutte le norme inerenti al processo del lavoro si sono sviluppate cercando di adattare le normali procedure
processuali al delicato tema delle controversie lavorative, creando così regole differenti. Una
differenziazione che indica il bisogno di una maggiore tutela.
Così, la legge 533 del 1973 contribuisce all’obiettivo di rendere effettivi i diritti del lavoratore, offrendogli
strumenti processuali più rapidi e immediati in grado di dare un più elevato livello di garanzia;a
testimonianza di ciò il legislatore :
-prevede tempi brevi per il decreto di fissazione dell’udienza e per l’udienza stessa vietando le udienze di
mero rinvio;
-si ispira ai principi del processo orale ed è previsto,sebbene difficilmente ciò accada,che il processo si
esaurisca in una sola udienza:Il giudice deve acquisire, attraverso l’interrogatorio delle parti la conoscenza
diretta dei fatti e della causa e nella stessa udienza deve pronunciare la sentenza.
-a snellire il processo contribuiscono gli obbighi cui devono sottoporsi attore e convenuto, in particolare le
disposizioni che dispongono preclusioni e decadenze: l’attore deve definire sin dall’inizio oltre all’oggetto,all’esposizione
dei fatti e degli ellmenti di diritto e alle conclusioni,l’indicazione specifica dei mezzi di prova di cui intende avvalersi; il convenuto
,nel costituirsi deve proporre tutte le sue difese in fatto e in diritto ed indicare a pena di decadenza i mezzi di prova dei quali intende
avvalersi e in particolare i documento che deve contestualmente depositare.
-ulteriore caratteristica del processo del lavoro (finalizzata a facilitare l’accesso alla tutela giudiziale dei
diritti), è l’attribuzione di ampi poteri istruttori di ufficio al giudice di lavoro: il giudice può infatti in
qualsiasi momento disporre l’acquisizione o l’ammissione di mezzi di prova,può disporre ispezioni in
azienda,può acquisire info presso le organizzazioni aziendali.
-a garantire l’effettività dei diritti occorre ricordare che,ove si arrivi a sentenza quest’ultima è
provvisoriamente esecutiva (sino al’eventuale contraria decisione in appello) in caso di pagamento di crediti
di lavoro a favore del lavoratore(salvo che l’esecuzione della sentenza sia sospesa con ordinanza non
impugnabile dal giudice di appello o quando alla sentenza possa derivare all’atra parte gravissimo danno), in
caso di condanna a favore del datore di lavoro (salvo quando ricorrano gravi motivi).
Inoltre,ancor prima che il giudizio di primo gradi si concluda,il giudice può adottare un’ordinanza
esecutiva,non impugnabile,con la quale dispone il pagamento delle evenutlai somme non contestate e,sempre
con ordinanza,può disporre a favore del lavoratore,il pagamento delle somme per le quali sia stata raggiunta
la prova della debenza (ovvero quanto è dovuto in denaro per obbligo di legge).
Inoltre ai fini del calcolo dei crediti pecuniari del lavoratore non soddisfatti, il giudice deve tenere conto,oltre che di eventuali
interessi nella misura legale, anche l’applicazione del principio nominalistico (il quantitativo del credito a valore corrente)
La tutela amministrativa e penale: le funzioni dei servizi ispettivi e le sanzioni penali.
La corretta apllicazione delle discipline in materia di lavoro risponde anche a un interesse pubblico: la violazioni di precetti legali in
materia di lavoro determina infatti l’applicazione di sanzioni amministrative e talvolta anche penali.
a. Le funzioni dei servizi ispettivi:
Oggi l’attività di vigilanza e ispezione è regolata principalmente dal d.lgs. n.124/2004; tale funzione
amministrativa di vigilanza ed ispezione è affidata al personale ispettivo del ministero del lavoro, ai
funzionari delle ASL con funzioni di controllo,ai tecnici della prevenzione dell’ambiente e nei luoghi di
lavoro, agli ispettori degli enti previdenziali ;
Il potere più rilevante è il potere di accesso sec. il quale il personale ispettivo può accedere liberamente
senza preavviso,in qualsiasi ora e luogo al controllo dell’ispezione e può aver accesso alle info contenute nei
documenti situati nei luoghi di lavro, può interrogare i lavoratori (anche separatamente dal dat.) e acquisire a
verbale le dichiarazioni di questi.
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Autore: Davide Cavallino
Diritto del lavoro 2013/2014
-Recentemente sono state poi introdotte alcune novità quale:
- l’incentivazione della regolarizzazione degli illeciti (l’ispettore,nei casi di inadempimento fonti di sanzioni
amministrative, deve diffidare il datore di lavoro ad adempiere sanando così l’inadempimento con una
conseguente riduzione della sanzione);
-nuove regole in materia di verbalizzazione degli accertamenti ispettivi al fine di favorire l’esercizio dei
diritti di difesa del soggetto ispezionato e di migliorare la qualità della verbalizzazione;
-l’istituto dell’interpello, utile a favorire la certezza dei rapporti giuridici: attraverso questo istituto i soggetti
abilitati possono sottoporre alla direzione generale per l’attività ispettiva del ministero del lavoro quesiti di
ordine generale….
-sono stati arricchiti e diversificati i compiti dei servizi ispettivi del lavoro:oltre ai compiti di vigilanza,i
servizi ispettivi sono tenuti a svolgere anche compiti di conciliazione delle controversie di lavoro ( la c.d.
concl.monocratica di cui parleremo oltre).
b.Le sanzioni penali:
La sanzione penale interviene,in via sussidiaria ,ove i rimedi civilisti e le sanzioni amministrative non siano
ritenuti sufficienti a garantire la tutela dei beni protetti.
Mentre precedentemente l’estensione del diritto penale del lavoro era assai vasta, a seguito del largo
intervento di depenalizzazione disposto dalla legge 866/1991 e dei successivi dd.lgs 499-561/1993, il diritto
penale del lavoro trova applicazione, sottoforma di caratt. per lo più contravvenzionale, in alcune aree
tematiche della materia : materia della saluta e della sicurezza sul lavoro,della intermediazione,somministrazione del lavoro e
degli appalti illeciti, della tutela della dignità della persona lavoratrice, nelle materie del lavoro minorile,delle lavoratrici madri ,del
lavoro a domicilio e della discriminazione nella fase costitutiva del rapporto di lavoro.
Non si deve tuttavia credere che questa depenalizzazione abbia avuto come conseguenza una minore
affettività della tutela:l’apparato sanzionatorio era infatti piuttosto modesto e dissuasivo; per tale ragione si è
deciso di adottare un nuovo modello fondato sulla sanzione amministrativa.
La conciliazione giudiziale e stragiudiziale delle controversie:
Spesso le controversie di lavoro si risolvono con la pronuncia di una sentenza da parte di un giudice; alle
parti è tuttavia attribuita la facoltà di raggiungere accordi conciliativi attraverso i quali prevenire la lite (se la
controversia non è ancora sfociata in via giudiziale),o di porre fine alla stessa (se la causa è già in corso).
A se guito del dlgs 80/1998 era stata introdotta la regola dell’obbligatorietà del tentativo di conciliazione (preventiva) per tutte le
controversie di lavoro; con la legge 183/2010 il legislatore ha reso facoltativo tale conciliazione,fatto salvo alcune situazioni (il
tentativo di conciliazione preventiva permane quando riguardo un contratto certificato o ancora nel caso in cui il datore di lavoro che
abbia alle dipendenze più di 15 lavoratori,intenda porre in essere un licenziamento per giustificato motivo oggettivo .
- Conciliazione giudiziale: se la conciliazione avviene nel croso del processo,questa è detta conciliazione
giudiziale;il giudice,sin dalla prima udienza tenta la conciliazione della lite e formula alle parti una proposta
transattiva; in casi di rifiuto di questa, il giudice terrà in considerazione dell’atto nel successivo giudizio; in
caso di accettazione la conciliazione è verbalizzata, il verbale acquisisce efficacia di titiolo esecutivo e non
può essere oggetto di successiva impugnazione.
-La conciliazione può essere anche stragiudiziale; in tal caso il codice di procedura civile individua le sedi
presso le quali le parti possono validamente addivenire alla conciliazione della controversia fuori dal
processo:
a. La conciliazione stragiudiziale può avvenire anzitutto davanti alla commissione di conciliazione costituita
presso la DTL , la cosiddetta conciliazione collegiale amministrativa;Con l’entrata in vigore delle
disposizione contenuto nel collegato lavoro (legge 183/2010) tale procedura si è assai appesantita sotto il
profilo formale e burocratico: l
-la domanda deve essere proposta presso la segretaria della commissione di conciliazione e deve essere
contestualmente comunicata alla controparte all’avvio della procedura;
-tra i contenuti obbligatori dell’attore spicca la necessità d indicare l’esposizione dei fatti e delle ragioni posti
a fondamento della pretesa;
-dal momento della consegna della domanda di avvio della procedura da parte dell’istante, la controparte ha
20 gg di tempo per accettarla e per inoltrare alla segreteria della commissione conciliativa una memoria
contenetne le proprie difese,le eccezioni in fatto e in diritto ,le eventuali domande in via riconvenziale.
-Una volta ricevuta la memoria la commissione convoca le parti entro 30 gg; in caso di accordo,anche
limitametnete ad una sola parte della domanda, viene redatto un verbale sottoscritto dalle parti e dai
componenti della commissione di conciliazione(il verbale può acquisire efficacia di titolo esecutivo dietro la
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Autore: Davide Cavallino
Diritto del lavoro 2013/2014
richiesta della parte interessata.);In caso di mancato accordo la commissione deve formulare una proposta
per la bonaria definizione della controversia ed il rifiuto può incidere sull’esito del successivo giudizio
b. Un’ulteriore forma di conciliazione delle controversie è rappr. dalla conciliazione monocratica; il
tentativo di conciliazione è condotto dal personale ispettivo del ministero del lavoro e non da una
commissione ; tale conciliazione può essere a sua volta preventiva rispetto all’accesso ispettivo o contestuale
ad esso: nel primo caso è promossa a seguito di una richiesta di intervento rivolta alla DTL,senza che sia
stato dato avvio al procedimento ispettivo; nel secondo caso,avviene nel momento dell’accesso ispettivo in
azienda ma prima che siano stati accertati illeciti da parte del personale ispettivo.
Per poter procedere con il tentativo di conciliazione monocratica è necessario che:
- le parti siano disposte a stipulare un accordo transattivo a chiusura della controversia;
- che la controversia riguardi diritti patrimoniali del lavoratore e che non sia stato compiuto alcun
accertamento in ordine alla effettiva esistenza o veridicità delle situazioni /circostanza rappresentate;
-che non emergano evidenti e chiari indizi di violazioni penalmente rilevanti.
L’accordo conciliativo raggiunto dalle parti non è impugnabile ; inoltre lì adempimento delle obbligazione
contenute nella transazione produce l’effetto di estinguere il procedimento ispettivo (ove si verta un’ipotesi
di conciliazione contestuale:l’effetto estintivo deriva infatti dal versamento al lav. delle somme oggetto di
transazione e dal versamento agli istituti previdenziali o assicurativi dei contributi dovuti);
c. ulteriore sede di conciliazione è quella sindacale le cui modalità,procedure con le quali deve rivolgersi tale
forma di conciliazione sono disciplinate dai contratti e accordi collettivi; Anche in questo caso, una volta che
la conciliazione si perfezionata,l’accordo raggiunto non è impugnabile
d. Sedi di conciliazioni di controversie sono infine le commissioni di certificazione, per le controversie
relative a contratti dalle stesse certificate
L’arbitrato in materia di lavoro:
L’istituto dell’arbitrato consente alle parti di deferire ad un terzo non togato (l’arbitro) il potere di decidere
una controversia.
Fonte del potere può essere:
-il contratto di compromesso, con cui le parti deferiscono al terzo la soluzione di una controversia già
insorta;
-la clausola compromissoria, la clausola con la quale le parti, nel contratto che stipulano o in un atto separato, stabiliscono che
le controversie (d’interpretazione o d’esecuzione) nascenti dal medesimo siano decise da arbitri, purché si tratti di controversie che
possano formare oggetto di compromesso.
1) L’arbitrato rituale
Rispetto al processo civile offre il vantaggio della rapidità e della specializzazione dei giudici, che possono
essere scelti dalle stesse parti proprio in relazione alla materia oggetto della lite;
Con esso le parti affidano la risoluzione della lite insorta fra loro ad una o più persone private (di solito,
avvocati, magistrati a riposo, dottori o ragionieri commercialisti, docenti universitari, ma anche ingegneri,
architetti, geometri, periti, ecc.), le quali, pur non essendo organi stabili della giurisdizione statale,
riscuotono la loro fiducia ed hanno il potere di “sentenziare”.
L’istituto presuppone quindi l’esistenza di una lite per la quale le parti litiganti non intendono rivolgersi ai
giudici ordinari, quantomeno perché ritenuti poco specialisti per quella lite.
La decisione degli arbitri (il LODO), se adottata nel rispetto delle forme stabilite dalla legge(il lodo può
infatti essere impugnato per violazione di norme di legge e per violazione dei contratti collettivi oltre che per
contrarietà all’ordine pubblico), è equiparata a tutti gli effetti ad una SENTENZA dei giudici togati.
E’ escluso il giudizio di appello sul merito (ecco un altro aspetto della rapidità); sono ammesse solo delle
tassative impugnazioni “per nullità” davanti alla Corte d’appello.
Le ragioni della sua scarsa appetibilità, nonostante i vantaggi, sono principalmente due:
∗ il costo elevato, spesso non alla portata di tutti, trattandosi di attività privata di liberi professionisti
(vincolati peraltro a tariffe professionali più o meno inderogabili);
∗ la necessità di un accordo fra le due parti litiganti (accordo preventivo, denominato “clausola
compromissoria”, inserito già nel contratto originario o in un codicillo, oppure un accordo a hoc, denominato
“compromesso”). (*)
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Autore: Davide Cavallino
Diritto del lavoro 2013/2014
2) L’arbitrato irrituale
L’arbitrato irrituale (o libero) è un fenomeno inventato dalla prassi allo scopo principale di evitare le
formalità del rito relativo all’arbitrato rituale.
Dopo le modifiche introdotte dallr’art.31 del collegato lavoro sono individuabili quattro forme di arbitrato
irrituale: l’arbitrato regolato dai contratti coll di lavoro,l’arbitrato che si svolge presso le DTL; l’arbitrato
presso el commissioni di certificazione ed infine l’arbitrato che si svolge davanti ad un collegio costituito si
iniziativa delle parti individuali.
Con esso le parti si obbligano ad adottare la determinazione/volontà dell’arbitro (o degli arbitri) come se
fosse il frutto di un diretto accordo fra loro. In pratica, i litiganti, non raggiungendo fra loro l’accordo
transattivo per risolvere la divergenza che le vede contrapposte (talvolta per motivi personali o irrazionali,
perché, ad esempio, non riescono ad incontrarsi mai serenamente) danno mandato agli arbitri (o all’arbitro
unico) di esprimere la loro (o sua) “volontà”, con l’impegno di considerarla propria, sia
sostanzialmente che formalmente.
La statuizione finale non ha natura ed efficacia di sentenza, ma i caratteri propri di un libero accordo
contrattuale, che è il frutto:
∗ o di un “mandato a transigere” (come se i litiganti dicessero: “potremmo transigere noi e stipulare noi stessi il contratto di
transazione previsto dall’art. 1965 c.c.3 , ma fatelo voi nel nostro interesse, in base all’art. 1703 c.c.”);
∗ o di un “mandato ad accertare” (definibile anche “mandato per un negozio di accertamento”; come se le parti dicessero: “potremmo
noi rendere certo ciò che appare dubbio o incerto, ma fatelo voi nel nostro interesse”).
Anche tale strumento di tutela ha un costo e presuppone un preventivo accordo fra le parti (che pure viene chiamato nella prassi
“clausola compromissoria” o compromesso”).
Leggere sul libro ultimi due capoversi pag. 574 (continua sino a 575)
(*)Con l’art.31 collegato lavoro è stata altresì ammessa la validità delle clausole compromissorie pattuite
dalle parti individuali del rapporto ma solo ove ricorrano una serie i condizioni volte a evitare che la
clausola si a espressione della prevaricazione di una parte sull’altra e finisca quindi per precludere alla parte
debole il possibile ricorso in giudizio a tutela di propri diritti eventualmente negati o lesi.
La clausola compromissoria è valida se:
-
-
-
è sottoscritta dopo la conclusione del patto di prova o,in mancanza,doo 30 gg dalla data di stipulazione del contratto di
lavoro;
non riguarda controversie rel. Alla risoluzione del contratto di lavoro;
è autorizzata da previsioni contenute in accordi interconfederali o contratti collettivi di lavoro stipulati dalle organizzazioni
dei lav. e dat. Comparat.più rappr. su piano naz.;
è certificata da commissione di certificazione a garanzia della effettiva volontà delle parti di deferire ad arbitri le future
eventuali controversie rel. Al rapporto di lavoro.
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