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MAGGIO
La fine della seconda Guerra Mondiale
Francesco Maria Feltri
CONSAPEVOLEZZA
MEMORIA
Cittadinanza
CONSAPEVOLEZZA
MEMORIA
Cittadinanza
Percorsi e temi di storia, per sentirsi cittadini
in Europa, in Italia e in Emilia Romagna
A cura di
Francesco Maria Feltri
Elenco dei volumi
Modulo 1: 1° maggio, La festa del movimento operaio
Modulo 2: 4 novembre, La memoria della prima guerra mondiale
Modulo 3: 28 ottobre 1922, La marcia su Roma
Modulo 4: 8 settembre, Fascismo, guerra e armistizio
Modulo 5: 8 maggio, La fine della seconda guerra mondiale
Modulo 6: 25 aprile, La festa della liberazione
Modulo 7: 27 gennaio, La giornata della memoria
Modulo 8: 2 giugno, La nascita della Repubblica
Modulo 9: 10 febbraio, Giorno del ricordo
Modulo 10: 8 marzo, La festa della donna
Modulo 11:
25 novembre, Giornata internazionale
per l’eliminazione della violenza contro le donne
INTRODUZIONE GENERALE
Un nuovo inizio per la comunità:
gli eventi frattura radicale
All’inizio del XVI secolo, Niccolò Machiavelli era convinto che
la storia fosse una specie di grande illusione, un errore di prospettiva. I continui rivolgimenti, che investono il mondo della
politica, potrebbero indurci a pensare che il mutamento sia l’aspetto più vero ed ultimo della vicenda umana; per il pensatore
politico fiorentino, al contrario, in ultima analisi non c’è alcun
cambiamento davvero sostanziale. Siamo di fronte a increspature provvisorie, prive di conseguenze radicali, non ad autentiche e decisive fratture storiche.
Per Machiavelli, la storia non è molto diversa dalla realtà naturale: certo, ogni estate, nel campo si raccolgono spighe differenti da quelle degli anni precedenti. Il procedimento, però,
è sempre quello, ciclico e ripetitivo, e non c’è spazio per alcuna significativa novità. Per usare un’altra metafora, si potrebbe pensare ad un palcoscenico: cambiano gli attori e le prime
donne; mutano i fondali e le ambientazioni. Eppure, la commedia rappresentata è sempre la stessa: e per di più, secondo Machiavelli, non è una commedia, bensì una tragedia, i cui ritmi e
movimenti sono dettati dalla spietata natura degli esseri umani,
decisamente più inclinata verso il male che verso il bene.
Nel corso del XIX secolo, comunità nazionali, Stati e associazioni politiche di diversa natura incominciarono ad appropriarsi
del tempo. Fino ad allora, il tempo era stato monopolio della
Chiesa, che lo aveva strutturato secondo un preciso calendario
liturgico. A scadenze periodiche, il fedele incontrava delle precise ricorrenze e festività (Natale, Pasqua, Pentecoste…), che
gli permettevano di fare memoria dei principali eventi della vita
di Cristo o della Chiesa delle origini, e quindi di riscoprire con
rinnovata freschezza la propria identità di cristiano.
A partire dall’Ottocento, mentre si affermava la Nazione, come
II
INTRODUZIONE GENERALE
nuova fonte di valori e destinatario di fedeltà assoluta (fino al
martirio), accanto al calendario liturgico cristiano – e in certi
casi contro di esso, in precisa e polemica alternativa – si impose
una serie di festività civili, che scandivano l’anno e spingevano
l’individuo a riflettere sulla sua identità di cittadino e/o di membro di una comunità nazionale.
Sia la Chiesa che le moderne comunità nazionali del XIX-XX
secolo si ispiravano ad una concezione della Storia e del tempo
diametralmente opposta a quella di Machiavelli. Pur focalizzando la loro attenzione su questioni molto diverse, autorità
ecclesiastiche e intellettuali sensibili al tema della nazione erano
convinti che nella storia si producessero alcuni eventi frattura
radicale, capaci spezzare l’opaca omogeneità della vicenda
storica. Le comunità umane che avevano fatto esperienza di
uno o più di tali eventi, da essi uscivano radicalmente trasformate. Proprio per questo, avevano bisogno di una festa, che ne
conservasse la memoria. Potevano essere esperienze traumatiche o felici, drammatiche o gioiose: comunque, non potevano
e non dovevano essere più dimenticate, perché era grazie a
quelle sconfitte o quelle vittorie, a quelle passioni o quelle resurrezioni, che la comunità si definiva nella propria identità più
autentica e duratura.
Ma la festa, civile o religiosa che sia, nel momento in cui spinge
a fare memoria, mette in moto un meccanismo che è diverso e
molto più forte del puro non dimenticare. Nel suo sforzo di essere efficace di fronte alla vicenda storica decisiva, la memoria
diventa attualizzante. In effetti, se l’evento ricordato è capace
di spezzare la storia, esso continua ad agire per sempre: la sua
onda lunga raggiunge anche noi, che viviamo anni o secoli
dopo l’evento. Insomma, tra comunità (religiosa o civile) e Storia si crea un circolo: per definire se stessa, la comunità deve
andare al passato e riscoprire l’importanza di quell’evento;
l’obiettivo, però, non è puramente archeologico: al contrario,
III
INTRODUZIONE GENERALE
grazie alla riflessione sul passato, si tratta di agire sul proprio
presente, illuminandolo di nuova luce, o meglio di speranze
e valori capaci di superare il tempo, di parlare ad ogni generazione e di ispirarne anche oggi l’azione, religiosa, morale o
politica.
Memoria e cittadinanza attiva
Diritti e democrazia non sono affatto qualcosa di ovvio, di normale, di scontato. Per certi versi, anzi, nel terribile panorama
della storia sono l’eccezione: realtà fragili che sono state conquistate dopo innumerevoli sforzi e che, soprattutto nel Novecento, sono state infrante da progetti totalitari di vario tipo e di
vario genere.
Malgrado tutte le difficoltà, le sconfitte e i ritorni all’indietro,
non è vero che nella storia non è mai cambiato nulla. Anche se
i grandi progetti utopici, di qualunque matrice ideologica, sono
tutti falliti, dopo avere provocato milioni di morti e disastri materiali incalcolabili, non è stato tutto inutile. La storia non è solo
un computo di vittime, di un tipo o dell’altro. Senza indulgere
ad alcun facile ottimismo, o cedere all’ingenua concezione secondo cui saremmo giunti alla fine della Storia e al migliore dei
mondi possibili, è comunque vero che i cittadini e le cittadine di
oggi possono condurre un’esistenza più libera e ricca di opportunità, rispetto a coloro che sono vissuti in altre epoche storiche.
Nulla va dato per scontato o per definitivamente acquisito.
Diritti e democrazia – lo ripetiamo – sono conquiste fragili e
deteriorabili. Proprio per questo, a nostro parere, necessitano
di una sempre maggiore consapevolezza, che a sua volta può
emergere solo dalla memoria, cioè dalla riflessione storica.
Anche ai giorni nostri, tale memoria tende ad organizzarsi intorno a degli eventi di forte impatto emotivo e simbolico; le
celebrazioni ufficiali, però, talvolta li ricoprono di retorica e li
rendono distanti dai cittadini. Paradossalmente, insomma, le ri-
IV
INTRODUZIONE GENERALE
correnze possono ottenere l’effetto opposto, rispetto al fine originario per cui sono nate. La riflessione storica vorrebbe essere
più sobria, più obiettiva, più scarna; proprio per questo, forse,
riuscirà a far emergere di nuovo il significato di svolta epocale
di questo o quell’evento.
Se non si trasforma in spregiudicato strumento ideologico (è
questo, infatti, il principale limite del cosiddetto uso pubblico
della Storia), la conoscenza storica può rendere il cittadino
pienamente consapevole dei propri diritti e dei propri doveri,
nella misura in cui la riflessione sul passato aiuta a comprendere quanto i diritti stessi e la democrazia (in tutti i suoi aspetti,
regole comprese) sono il frutto di complesse (e quindi, spesso,
persino contraddittorie) vicende storiche, di lotte e di tragedie,
vissute (e subite) da chi ci ha preceduto. Sotto questo profilo,
il dovere morale e civile di fare memoria, per mantenere viva
l’importanza di tutte le libertà e le opportunità che ci è concesso
di vivere come cittadini, oggi è ancora più necessaria che nei
secoli passati.
Moduli per riflettere su storia
e cittadinanza
Il lavoro che proponiamo consisterà in alcuni moduli, ognuno
dei quali avrà la stessa struttura di base, anche se potrà variare
la quantità di materiale da cui verrà costituito.
Ogni modulo (materialmente, un libretto di un centinaio di pagine) tratterà un tema, o un problema, importante per la costruzione dell’identità collettiva e di una comune cittadinanza.
Il principio di base che informa l’intero lavoro è lo sforzo di intrecciare costantemente tre piani d’analisi: la dimensione internazionale (l’Europa e, talvolta, il mondo intero), la dimensione
nazionale (l’Italia), la dimensione locale (l’Emilia Romagna). Per
ogni tema, ai tre livelli citati, si cercherà di individuare almeno una vicenda significativa, che si è impressa nella memoria
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INTRODUZIONE GENERALE
collettiva e che per un gruppo di cittadini è stata epocale, cioè
decisivo, nel caratterizzare la loro esistenza.
Scendendo in dettaglio, ogni modulo avrà la seguente struttura
ideale:
Dimensione internazionale
Scheda 1
Scheda 2
Scheda 3
Scheda
Dimensione nazionale di apertura:
Introduzione
ad un tema
Scheda 1
Scheda 2
Scheda 3
Dimensione regionale
Scheda 1
Scheda 2
Scheda 3
Anche se, in linea di principio, ogni modulo è autonomo, autosufficiente, concluso in se stesso, ciascun elemento ovviamente
dialoga con gli altri dai quali riceve ulteriore chiarezza e forza
di significato.
Buona lettura, a tutti i cittadini e le cittadine che vorranno seguirci nel nostro percorso.
F. M. F.
VI
Indice
Introduzione3
Dimensione internazionale:
Normandia, Berlino, Hiroshima
Gli ultimi anni di guerra
23
Memorie in conflitto, non condivise
40
La fine della guerra in Asia 53
Dimensione nazionale:
L’occupazione tedesca in Italia
La repubblica sociale italiana
75
La svolta di Salerno
91
Le violenze contro i civili
99
Dimensione regionale:
Guerra e violenza in Emilia-Romagna
La strage di Monchio
115
Le stragi dell’estate 1944
125
Lo sfondamento della linea gotica
138
1945;
Berlino, 30 aprile
stag
sventola sul Reicht
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ss
ro
ra
ie
nd
ba
la
8 MAGGIO
La fine della seconda guerra mondiale
Introduzione
I
n Europa, l’atto finale della seconda guerra mondiale ebbe
inizio il 16 aprile 1945, allorché l’esercito sovietico sferrò
l’offensiva decisiva contro Berlino, ove Hitler aveva tentato di
organizzare un’ultima disperata resistenza. I russi schierarono 2 milioni di uomini, 41.000 cannoni, 6.300 carri armati
e 5.000 aerei. Il Terzo Reich non aveva più forze integre e
di pari potenza da contrapporre all’Armata Rossa, né poteva fare gran che il cosiddetto Volksturm, l’armata popolare
frettolosamente messa in piedi dal ministro della propaganda
Joseph Goebbels arruolando a forza ragazzini di 13 anni e
anziani che avevano superato la sessantina. L’ultima speranza
di Hitler svanì il giorno 12 aprile, al momento della morte del
presidente americano Franklin Delano Roosevelt; il dittatore
nazista, infatti, sperò vivamente che il nuovo capo di stato
americano, Harry Truman, decisamente più anticomunista di
Roosevelt, troncasse l’alleanza con l’URSS ed anzi iniziasse
una campagna militare contro di essa, per impedire che i bolscevichi conquistassero mezza Europa.
Imparato che Truman era determinato a combattere fino alla
fine del Terzo Reich, Hitler perse completamente il controllo della situazione. Non solo continuò a dirigere eserciti tedeschi e
divisioni corazzate ormai inesistenti ma, cosa ancora più grave,
comunicò al ministro dell’Economia Albert Speer il cosiddetto Ordine Nerone: sentitosi tradito dal popolo tedesco, che a
suo giudizio non si era rivelato degno della grande impresa
in cui egli, nella sua qualità di Führer, lo aveva guidato, ora
Hitler praticamente auspicava, per quel popolo, la completa
distruzione. Egli muoveva dal presupposto secondo cui, in Germania, <<ciò che resta(va) dopo la battaglia (erano) solo gli
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8 MAGGIO
esseri inferiori; quelli buoni erano caduti>>. Di conseguenza così ordinava Hitler - <<tutti gli impianti militari, di trasporto, di
comunicazione, industriali e di approvvigionamento che il nemico può in qualsiasi modo utilizzare nell’immediato e in tempi
ravvicinati per la prosecuzione del conflitto vanno distrutti>>.
Fortunatamente per il popolo tedesco, l’ordine di distruzione
totale non fu eseguito se non in minima parte.
A Berlino si combatté spesso strada per strada e casa per casa;
un punto di resistenza particolarmente difficile da conquistare
fu il Reichstag, il parlamento tedesco, trasformato in fortezza.
Stalin aveva ordinato che la bandiera rossa doveva sventolare
sulla sua sommità il 1° maggio; pertanto, il generale sovietico
Cuikov piazzò davanti all’edificio 90 cannoni pesanti e lo investì
di tutto il fuoco possibile. Per alcuni giorni, si combatté in modo
durissimo, all’interno del parlamento: pare che solo nella battaglia del Reichstag siano morti 2.200 sovietici e 2.500 tedeschi.
Il 28 aprile, il rifugio segreto di Hitler – un’imponente struttura sotterranea in cemento armato, denominata Führerbunker
e costruita sotto la Cancelleria del Reich – era ormai completamente circondato. Consapevole della disfatta imminente, il
comandante delle SS – Heinrich Himmler – cercò di aprire negoziati personali con gli anglo-americani, attraverso la mediazione del conte svedese Bernadotte. Il suo progetto si basava
sulla convinzione che gli Alleati avrebbero accettato le SS come
forze d’ordine, che avrebbero impedito al paese di sprofondare nel caos e nella violenza generalizzata. Intuito che inglesi e
americani avrebbero accettato solo una resa incondizionata,
Himmler si travestì da sergente maggiore della Gestapo e cercò
di nascondere la propria vera identità. Riconosciuto, fu arrestato, ma riuscì a suicidarsi.
Imparata la notizia del tradimento di Himmler, il 29 aprile anche Hitler cominciò a preparare il proprio suicidio. Chiamata la
sua segretaria personale, la giovane dattilografa Traudl Junge,
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La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
le dettò il suo testamento politico, esortando i nuovi <<capi
della nazione e tutti i seguaci all’osservanza scrupolosa delle
leggi razziali e alla resistenza spietata contro il giudaismo internazionale che intossica tutti i popoli del mondo>>. Analogamente, stabilendo che <<la meta finale deve essere inoltre la
conquista di uno spazio ad oriente per il popolo tedesco>>,
confermava fino all’estremo i pilastri della concezione geo-politica e razziale che l’aveva guidato fin dal 1923.
Dopo essersi sposato con la sua amante Eva Braun, Hitler si
tolse la vita insieme a lei, ingerendo una capsula di cianuro e
sparandosi un colpo alla testa (30 aprile). I loro corpi furono subito portati in cortile, cosparsi di benzina e bruciati. Poco dopo,
il gesto del Führer fu imitato dal ministro Goebbels e da sua
moglie, che uccisero col cianuro anche i loro sei figli. Il 1° maggio, Radio Amburgo trasmise il seguente annuncio: <<Oggi
pomeriggio [il Führer è] morto per la Germania al suo posto di
comando nella Cancelleria del Reich, combattendo fino all’ultimo contro il bolscevismo>>. Il giorno seguente, il comandante
dell’esercito tedesco che combatteva ancora a Berlino, generale Weidling, ordinò alle sue truppe di cessare ogni azione ostile
contro i sovietici. La battaglia per Berlino provocò ai sovietici
almeno 304.000 tra morti e feriti; i tedeschi ebbero forse un
milione di vittime, includendo in tale numero sia i prigionieri
militari che furono condotti nei campi di concentramento russi,
sia circa 100.000 civili, vittime dei bombardamenti, delle violenze arbitrarie commesse da nazisti fanatici (che giustiziavano
chiunque parlasse di resa), dei saccheggi e degli stupri compiuti
dai soldati russi.
Alle ore 12.45 del 7 maggio, il generale tedesco Alfred Jodl
firmò la resa senza condizioni della Germania nel quartier generale di Eisenhower, comandante supremo delle forze angloamericane, a Reims, in Francia, non lontano da Parigi. Impa-
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8 MAGGIO
rata la notizia della capitolazione, Stalin si infuriò e si rifiutò di
considerare valida la resa tedesca: anzi, richiamò subito in patria il generale sovietico Ivan Susloparov, che aveva presenziato
alla cerimonia di Reims a nome dell’URSS, e ordinò che fosse
giustiziato. L’8 maggio, a Berlino Karlshorst, presso il quartier
generale russo, la firma della resa fu ripetuta dal generale tedesco Keitel, di fronte al generale sovietico Zukov e ad alcuni alti
ufficiali americani, inglesi e francesi. In pratica, era la ripetizione
della cerimonia di Reims: questa volta, però, la figura più alta
in grado era un sovietico, il che stava a significare (agli occhi di
Stalin) che il Terzo Reich si arrendeva innanzi tutto all’URSS. La
firma di Keitel fu apposta sul documento di resa alle 22.43, ora
di Berlino: ufficialmente, si può dire che, in Europa, la seconda
guerra mondiale si concluse in quel preciso momento
6
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
LA BATTAGLIA DI BERLINO
T
utte le testimonianze relative all’agonia di Berlino presentano quadri terribili e drammatici. I civili, chiusi nelle cantine,
erano sotto le bombe giorno e notte, privi di cibo e di acqua.
Alla fine di aprile, il quartiere del centro che ospitava i ministeri era ormai stretto d’assedio.
Il 27 aprile la Zitadelle, ossia il centro, in cui si trovavano i ministeri, il quartier generale della Difesa, il Reichstag e il bunker
di Hitler, era completamente accerchiata. A difenderla c’era il
battaglione delle guardie di Berlino, compresa la divisione
Grossdeutschland che nel luglio 1944 aveva sbaragliato la
congiura contro Hitler, numerose unità delle SS - dal battaglione
d’assalto Charlemagne formato dalle SS francesi a un distaccamento della divisione Walloon delle SS del Belgio francofono -,
i Freikorps Adolf Hitler e altre migliaia di SS, fra cui le 1.200
guardie del corpo del Führer, una divisione di SS al comando di
Wihlelm Mohnke e oltre 2.000 volontari, che erano arrivati a Berlino per combattere contro i russi. Goebbels aveva organizzato
anche gruppi di Giovani hitleriani. Erano giovanissimi e, convinti
che fosse loro dovere morire per salvare il Führer, spesso correvano incontro ai carri armati con i loro Panzerfaust [lanciarazzi
portatili: una semplice ma efficace arma anticarro – n.d.r.]. La
città era ormai un vero e proprio mattatoio. Dieter Borkowski, un
sedicenne della Gioventù hitleriana, che difendeva la torre antiaerea in Friedrichshain, annotò nel diario: <<Ci giungevano già
gli evviva degli attaccanti sovietici in Kniprodestrasse. C’erano
morti e feriti ovunque nei cinque piani della torre di avvistamento, pervasa da un nauseabondo odore dolciastro. Ricevemmo
l’ordine di occupare la nuova linea del fronte in Höchstestrasse.
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8 MAGGIO
Le due torri sono come isole in mezzo al mare, perché i russi
hanno già superato da parecchio tempo queste due fortezze… I
rifornimenti di viveri e munizioni sono diventati pessimi>>.
Mentre i sovietici lottavano per conquistare un edificio dopo l’altro e una via dopo l’altra, nelle viscere della città si svolgeva
una battaglia altrettanto terribile. Migliaia di persone avevano
cercato riparo nel mondo sotterraneo delle gallerie e dei rifugi
che attraversavano Berlino. I bunker sotto la Cancelleria erano ormai una città nel sottosuolo, gremita di dipendenti statali
che non tornavano più alle loro case e di moltissimi cittadini
che si erano rintanati nei tunnel più facilmente accessibili della
metropolitana, mescolandosi alle truppe per proteggersi dalle
granate. I sovietici li avevano seguiti nel labirinto di gallerie che
si diramava dall’Anhalter Bahnhof. Ma quando le SS se n’erano
accorte, le avevano allagate, nonostante la presenza di tanti
civili. […] Ovunque c’erano cadaveri martoriati e nessuno si occupava più dei feriti. Il centro di Berlino era diventato un lago di
fango e di morte: <<L’ululato e l’esplosione degli Stalinorgeln
[= Organi di Stalin, potenti lanciarazzi utilizzati dai sovietici; l’arrivo delle granate era preceduto da un suono simile ad ululato
o ad una lunga nota musicale – n.d.r.], le urla dei feriti, il rombo
dei motori e il ra-ta-ta-ta delle mitragliatrici. Nuvole di fumo,
puzzo di cloro e fuoco. Donne morte per strada, uccise mentre
andavano a prendere l’acqua, ma anche, qua e là, donne con
il Panzerfaust, slesiane assetate di vendetta>> scriveva un testimone. Leo Welt andò a vedere la mattina dopo lo zoo colpito
dall’artiglieria sovietica: <<Alligatori e serpenti strisciavano per
le strade. Gli scimpanzè si dondolavano dagli alberi>>. Il giovane diarista della Panzer Division Müncheberg descrisse gli ultimi assalti all’acquario: <<Le vie sono avvolte dal fumo. Il lezzo
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La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
di morte è a tratti insopportabile. Ieri notte, al piano sopra il
nostro, alcuni ufficiali di polizia e alcuni soldati hanno celebrato
l’addio alla vita, nonostante le granate. Questa mattina uomini
e donne, abbracciati stretti, giacevano ubriachi sulle scale. In
strada, attraverso i crateri scavati dalle bombe, si intravedono
le gallerie della metropolitana. Nel nostro gruppo tutti sono stati
feriti più volte. Il generale Mummert ha il braccio destro al collo.
Sembriamo scheletri ambulanti… Dalle cantine grida di feriti.
Niente più anestetico. Ogni tanto da sottoterra sbuca fuori con
le mani sulle orecchie una donna che non sopporta più le urla
di dolore>>.
Nel centro di Berlino ci sono ancora oggi molti segni di quelle terribili settimane, ma la scoperta più sorprendente è stata il
bunker di Potsdamer Platz poco dopo l’abbattimento del Muro.
Nel giugno del 1991, mentre gli operai stavano ripulendo, per
un concerto dei Pink Floyd, un appezzamento di terreno che in
precedenza si trovava nella <<terra di nessuno>> della Germania Est, vennero alla luce i resti di un bunker nazista, rimasto
praticamente intatto dalla fine della guerra. Aveva una superficie di circa 300 metri quadri e probabilmente offriva riparo
a una trentina di ufficiali. All’interno c’erano ancora scatole di
munizioni, cataste di armi, fra cui un lanciarazzi, e molte bottiglie
vuote di Bordeaux. Aleggiava un odore nauseabondo e l’acqua
sporca, su cui galleggiavano detriti, arrivava fino al ginocchio.
Le pareti, tutte dipinte, erano un inno alle SS vittoriose, che proteggevano i contadini, le donne e i bambini tedeschi, facevano
prigionieri gli inglesi a Dover e torreggiavano orgogliose in primo piano con gli stivali lucidi e l’elmetto, mentre alcune suore,
simbolo della vecchia, timida Germania, si nascondevano dietro gli alberi. Quasi tutti i murales erano contornati dalle foglie di
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8 MAGGIO
quercia e coronati dall’aquila, utilizzata spesso dalle SS nel loro
complesso simbolismo. La celebrazione dell’ideale nazista, che
emanava da quelle pareti ammuffite, riportava alla memoria il
fanatismo di uomini che, ormai sulla soglia della morte, continuavano a sognare immagini di vittoria. Il bunker fu sigillato
poco dopo la sua scoperta con grandi lastroni di cemento, per
timore che diventasse un luogo di culto per i neonazisti.
(H. Richie, Berlino. Storia di una metropoli, Milano, Mondadori,
2003, pp. 635-637. Traduzione di C. Lazzari)
L’INCONTRO DI UNA BAMBINA TEDESCA CON
HITLER
I
n una Berlino ormai assediata dai russi e sottoposta giorno
e notte ai bombardamenti, la piccola protagonista della scena descritta in queste pagine aveva otto anni. Insieme a un
gruppo di altri bambini berlinesi, Helga Schneider fu condotta
per alcuni giorni nel bunker sotterraneo in cui viveva Hitler. In
quel luogo, Helga poté rifocillarsi e, soprattutto, incontrare di
persona il Führer.
Sentiamo dei rumori e da una porta sulla sinistra entra un gruppo di giovani SS che si dispone lungo la parete di fronte a noi.
Li segue una donna in uniforme che regge un cesto. Nella sala
c’è un silenzio assoluto, mentre il mio stomaco si contrae in uno
spasmo nervoso. E finalmente arriva lui, Adolf Hitler, il Führer del
Terzo Reich ! […]
10
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
Cammina piano, le spalle lievemente curve, il passo strascicato:
non posso crederci! Sarebbe questo l’uomo che ha fatto delirare
le folle? Io vedo invece un vecchio dai movimenti stentati. Noto
che ha un lieve tremolio alla testa e che il braccio sinistro pende
inerte lungo il suo fianco come se fosse di gesso. Sono davvero
incredula!
Hitler comincia a dare la mano ai primi bambini della fila, rivolgendo loro brevi domande di circostanza. Sento le loro voci,
sommesse, intimorite, impacciate, che mormorano: <<Sì, mein
Führer. No, mein Führer >>. Infine tocca a me. Il mio cuore perde un paio di colpi e arrossisco violentemente. Temo di
svenire, di stramazzare ai piedi del Führer, anche se è l’ultima
cosa che desidero accada. Adolf Hitler mi tende la mano e mi
fissa negli occhi. Ha uno sguardo penetrante che mi imbarazza.
Nelle sue pupille c’è uno strano luccichio, come se un folletto
ci ballasse dentro. La stretta del Führer è molle e ne sono sconcertata. Sarebbe questa la mano dell’uomo che guida il destino
della Germania? La mano è calda e sudaticcia come quella di
un malato febbricitante. Ne ricevo un’impressione sgradevole e
sono tentata di ritirare la mia, ma mi domino. […]
Adolf Hitler mi chiede: <<Come ti chiami? >>
<<Helga >>, rispondo. Mi dimentico di dire <<mein Führer >>. Segue una pausa. Ho l’impressione che Hitler cerchi
qualcosa da dire, qualcosa come: <<Soffrite molto per questa
guerra? >>. Oppure: <<Come va la distribuzione dei viveri in
città? >>. Invece mi chiede: <<Ti piace stare nel bunker della
Cancelleria, Helga? >>
<<Si! >>
È una bugia. Non mi piace stare nel bunker perché soffro di
claustrofobia [= acuto disagio che alcune persone provano,
quando si trovano in un luogo chiuso – n.d.r.]. Mi fa sentire se-
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8 MAGGIO
polta, rinchiusa in una bara. L’unica cosa che riesce a compensare il mio senso di prigionia è il cibo che arriva regolarmente,
ma per il resto quasi preferisco la cantina della Lothar-Bucher
Strasse, benché la detesti. […]
Alzo gli occhi e fisso il copricapo di Hitler con l’aquila e la croce
uncinata, poi il mio sguardo scivola su un volto dal colorito grigiastro, che somiglia davvero poco a quello dei tanti ritratti appesi nel bunker. La faccia che ho davanti è sciupata. Intorno agli
occhi si spiega un fitto ventaglio di rughe e la pelle delle guance
è floscia. Solo i baffetti ben tagliati mantengono un barlume di
consistenza fra quei lineamenti sfatti.
Quando la mano di Hitler si libera dalla mia provo un senso
di rilassamento. Lui allunga il braccio verso il cesto, estrae una
barretta di marzapane e me lo porge. È finita. Il Führer passa
oltre e tocca a mio fratello. […]
Questo è dunque il grande Führer del Reich, il capo delle Forze
Armate tedesche, il capo di tutti noi! Questo è l’uomo dal quale
dipende il nostro destino. Ci ha augurato buona fortuna.
Heil Hitler !
(H. Schneider, Il rogo di Berlino, Milano, Adelphi, 1998, pp.
79-82)
12
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
L’AGONIA DI BERLINO
N
el 1954, uscì negli Stati Uniti una straordinaria testimonianza che narrava dall’interno gli ultimi mesi di guerra.
L’autrice del diario era una donna di Berlino, che volle restare
anonima in quanto, al centro del racconto, sta la drammatica esperienza dello stupro che la scrittrice (insieme ad altre
100.000 donne berlinesi) dovette ripetutamente subire da
parte dei soldati russi. Il passo seguente descrive una Berlino
ormai sfinita: la difesa è assegnata a vecchi e ragazzi, velocemente inquadrati nella milizia popolare (Volksturm). Chi
disertava o esprimeva pubblicamente la propria sfiducia nella
vittoria, invece, veniva giustiziato sommariamente.
Domenica 22 aprile 1945, una di notte
Che altro posso fare? Solo aspettare. La contraerea e l’artiglieria
scandiscono la nostra giornata. A volte vorrei che tutto fosse già
finito. Che strano periodo. Si vive la Storia di prima mano, eventi
che in seguito si dovranno cantare e raccontare. Ma da vicino
si annullano in affanni e paure. La Storia è molto scomoda da
sopportare. […] L’eco degli spari si incunea dentro i cortili. Per
la prima volta capisco il termine rombo del cannone, che per me
sinora era un po’ come dire coraggio da leone o animo eroico.
Ma l’espressione è davvero efficace. Fuori, pioggia torrenziale e
temporali. Stando sulla porta di casa ho seguito con lo sguardo
gruppi di soldati in transito, che trascinavano stancamente i piedi. Alcuni zoppicavano. In silenzio, ognuno per conto proprio,
camminavano lemme lemme verso la città senza tenere il passo.
I volti infossati e la barba lunga, sulla schiena bagaglio pesante.
<<Che succede?>>, grido io verso di loro. <<Dove andate?>>. Nessuno risponde. Uno borbotta qualcosa di incom-
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8 MAGGIO
prensibile. Un altro dice chiaramente fra sé: <<Führer, comanda – ti seguiremo fino alla morte>>. Tutte queste figure sono
così miserevoli, ormai neppure più uomini. C’è solo da compatirli. Da loro, d’altronde, non si spera né ci si aspetta più nulla.
Sembrano già vinti, prigionieri. Senza vederci guardano apatici
verso di noi, che stiamo sul ciglio della strada. È evidente che
per loro noi, popolazione civile, berlinesi, siamo indifferenti, anzi
irritanti. Non credo che si vergognino per il loro decadimento
fisico. Per quello sono troppo apatici e stanchi. Completamente
esauriti. Mi è passata la voglia di guardare. […]
Lunedì, 23 aprile
Ore 13, di ritorno dall’aver fatto provvista di carbone. Verso sud
camminavo visibilmente verso il fronte. Il tunnel della ferrovia
urbana è già sbarrato. Alcune persone ferme lì davanti dicevano
che dall’altra parte avevano impiccato un soldato, in mutande,
al collo un cartello con la scritta:<<Traditore>>. Pende così
in basso che si può far ruotare prendendolo per le gambe. Lo
racconta uno che l’ha visto di persona e che ha cacciato via i ragazzacci che si divertivano a farlo. Berliner Strasse ha un aspetto
desolato, mezza sventrata e chiusa dalle barricate. Code davanti ai negozi. Volti apatici nel rumore della contraerea. Autocarri
che marciano in direzione della città. In mezzo figure sporche,
infangate, con lo sguardo inespressivo, le bende lacere, il passo lento. Una colonna di carri di fieno, a cassetta alcune teste
grigie. Vicino alla barricata sta di guardia la milizia popolare in
uniformi rabberciate di vari colori. Fra loro ragazzi giovanissimi, sbarbatelli sotto elmetti d’acciaio troppo grandi, con orrore
si sentono le loro voci squillanti. Avranno al massimo quindici
anni, così sottili e minuscoli, insaccati nelle giacche delle uniformi che ballano intorno al corpo.
Perché i sentimenti si ribellano tanto contro questa strage degli
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La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
innocenti? Appena i ragazzi hanno tre o quattro anni di più, il
fatto che vengano uccisi e dilaniati ci appare del tutto naturale.
Dov’è il limite? Nel momento in cui si cambia la voce, forse?
Ripensandoci, infatti, ciò che mi tormenta davvero sono soprattutto le voci acute, squillanti, di queste povere creature. Sinora
l’uomo e il soldato erano la stessa cosa. E un uomo è un procreatore. Il fatto che questi ragazzi vengano sacrificati ancora
prima di raggiungere l’età adulta deve certo andare contro una
legge di natura, contro ogni istinto di conservazione della specie. Come certi pesci o insetti che divorano i loro piccoli. E il fatto
che tuttavia accada è un sintomo di follia.
(Anonima, Una donna a Berlino. Diario aprile-giugno 1945,
Torino, Einaudi, 2004, pp. 21-25. Traduzione di P. Severi)
JOSEPH E MAGDA GOEBBELS, DOPO LA MORTE
DI HITLER
A
seguito della morte di Hitler, il ministro della propaganda
del Terzo Reich, Joseph Goebbels, si proclamò Cancelliere. Tuttavia, la situazione era così disperata che, dopo poco
tempo, decise di suicidarsi insieme alla propria moglie Magda.
Cessata la comunicazione radio, Goebbels si dedicò alle poche
incombenze che le funzioni di cancelliere, a suo modo di vedere, gli imponevano ancora di sbrigare. Ebbe alcuni colloqui,
appose alcune firme e infine si ritirò per concludere il diario che
stava scrivendo da anni. Alla fine formulò una specie di bilancio
15
8 MAGGIO
e stilò un memoriale di sette pagine in cui giustificò la politica
che aveva attuato con Hitler e di cui era stato il persuasivo patrocinatore. Dopo circa un’ora Goebbels lasciò la sua stanza
e consegnò il manoscritto al sottosegretario Werner Naumann
con la preghiera di trovare il modo di farlo uscire da Berlino e
di preservarlo per i posteri. Tuttavia il suo proposito fallì perché
Naumann, come poi sostenne, perdette i fogli nella confusione
dei giorni della fuga. Non è tuttavia difficile ricostruire che cosa
avrebbe voluto dire con quella sua difesa, almeno a grandi linee e sulla base dei testi ai quali Goebbels stava lavorando da
tempo e con particolare intensità nelle ultime settimane. L’avvio
fu certamente costruito, anche stavolta, da quella concatenazione di giustificazioni che da sempre aveva addotto per spiegare
l’operato suo e di Hitler, a cominciare dalla volontà di difendere la cultura europea e dai giudizi di condanna dell’Occidente che, per cieco odio verso il Reich, aveva negato l’esistenza
dell’incombente, mortale pericolo e abbandonato il vecchio
continente alle orde asiatiche. Poi la sua critica si rivolse sicuramente alle proprie fila, rivelatesi non solo infiacchite dai continui
tradimenti delle vecchie classi dirigenti, ma anche incapaci di
combattere la guerra totale con la necessaria determinazione.
Il tutto accompagnato e accentuato dalle immagini esaltate di
una lotta universale fra potenze luciferine degli inferi da una
parte e schiere dell’ordine e della giustizia dall’altra, con Hitler
nelle vesti di condottiero-messia. Si rifece insomma ancora una
volta a quelle metafore e a quei ragionamenti para-religiosi con
i quali, quasi vent’anni prima, aveva creato e consolidato sino a
renderlo irresistibile il mito del Führer. Di lì a pochissimo, come
già in altre occasioni potrebbe aver concluso blasfemicamente:
quando l’Europa fosse stata in mano ai bolscevichi, avrebbe
ricordato e rimpianto il Führer che era salito ancora una volta sul
16
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
Golgota a sacrificare la sua vita per la redenzione del mondo.
In serata Magda Goebbels raggiunse il suo alloggio nell’antebunker. Si era incontrata più volte con uno dei medici personali di Hitler, il dottor Stumpfegger, e con l’aiutante maggiore
dell’amministrazione sanitaria delle SS dottor Kunz, per farsi dire
come avrebbe potuto uccidere rapidamente e senza farli soffrire
i suoi figli. Aveva già consegnato a Hanna Reitsch uno scritto
indirizzato al figlio di primo letto Harald Quandt, in cui aveva
tentato di giustificare ciò che si apprestava ora a fare. Aveva
deciso – così diceva la lettera – di dare alla sua vita di nazionalsocialista <<l’unica, onorevole conclusione possibile>>. E
poi aveva proseguito: <<Sappi che sono rimasta con papà [=
Goebbels – n.d.r.] contro la sua volontà, e che il Führer avrebbe
voluto, ancora domenica scorsa, aiutarmi a uscire da qui. Ma
non ho avuto bisogno di pensarci troppo. La nostra splendida
idea affonda, e con lei affonda tutto ciò che di bello, ammirevole, nobile e buono ho conosciuto in vita mia. Il mondo che verrà
dopo il Führer e dopo il nazionalsocialismo non sarà tale che
possa valer la pena di viverci, ed è per questo che ho portato
con me i bambini. Il mondo che verrà dopo sarebbe indegno di
loro e un dio pietoso mi capirà se io stessa li libererò da questa
prospettiva>>. […] Era la sera del 1° maggio quando Magda
Goebbels mise a letto i suoi figli dando loro da bere un sonnifero, praticò forse loro anche delle iniezioni di morfina e fece
infine cadere nelle loro bocche tenute aperte, in presenza del
dottor Stumpfegger, gocce di acido prussico. Soltanto la figlia
maggiore Helga, che già nei giorni precedenti aveva chiesto,
inquieta, che cosa ne sarebbe stato di tutti loro, sembra essersi
difesa. Gli ematomi poi riscontrati sul corpo della ragazzina di
12 anni inducono a ritenere che il veleno non le fu somministrato senza l’impiego della forza. Grigia in volto e pronunciando
17
8 MAGGIO
le parole: <<È fatta!>>, Magda Goebbels scese quindi nel
settore inferiore del bunker dove l’aspettava il marito, e raggiunse assieme a lui l’alloggio dove si mise a fare, piangendo, un
solitario.
(J. Fest, La disfatta. Gli ultimi giorni di Hitler e del Terzo Reich, Milano, Garzanti, 2003, pp. 132-134. Traduzione di U. Gandini)
LA RESA DEL TERZO REICH
L
a resa del Terzo Reich ebbe luogo in due cerimonie, che di
fatto furono una la ripetizione dell’altra. A Reims, tuttavia, i
veri protagonisti furono gli anglo-americani; a seguito dell’ira
di Stalin, l’atto di resa fu ripetuto a Berlino Karlshorst, a segnalare che i sovietici erano i veri vincitori della guerra e che
il loro contributo era stato quello determinante.
Anche se a est la lotta si protrasse più a lungo, l’8 maggio 1945
cessavano ufficialmente le ostilità tra la Germania e gli Alleati. Il feldmaresciallo Wilhelm Keitel, ex capo di stato maggiore dell’OKW [=Oberkommando des Wehrmacht, Comando
supremo delle forze armate – n.d.r.] e primo lacchè militare di
Hitler, fu accompagnato poco prima di mezzanotte all’istituto
tecnico di Karlshorst, uno dei pochi edifici di Berlino ancora in
piedi, per ratificare la capitolazione già resa a Montgomery nella Brughiera di Lüneburg, e ad Einsenhower a Reims. Di fatto,
la cerimonia di Karlshorst fu resa necessaria dall’ira sovietica
18
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
per il fatto che Keitel si fosse già arreso senza condizioni allo
SHAEF. L’8 maggio, ventiquattr’ore più tardi, i comandanti alleati
erano in attesa, guidati da Zukov. Tedder, vice di Eisenhower,
chiese: <<Ha ricevuto la dichiarazione di resa incondizionata? È pronto a perfezionare le disposizioni?>>. Aggiustatosi il
monocolo all’occhio sinistro, Keitel tirò fuori il documento concordato a Reims il giorno prima: <<Ja, in Ordnung>> (Sì, va
bene). Oltre alle sue medaglie, il primo soldato di Hitler esibiva
ancora il distintivo aureo del Partito nazionalsocialista. Il tenente
colonnello Karl Brehm, suo aiutante, era in lacrime. Keitel si tolse
un guanto, firmò l’atto di resa e disse con sarcasmo a Brehm:
<<Dopo la guerra, potrai fare la tua fortuna scrivendoci su un
libro: Con Keitel nell’accampamento russo. I due tedeschi se ne
tornarono nelle rispettive celle, e i russi apparecchiarono la tavola per uno dei loro luculliani banchetti, protrattosi fino alle 4 del
mattino. <<Con la loro uscita dalla stanza>> osservava Andrej
Vjshinskij, vicecommissario agli esteri sovietico, <<la Germania
è stata cancellata dalle pagine della storia. Non perdoneremo
e non dimenticheremo mai>>. Quando il generale Johannes
von Blaskowitz, comandante in capo del contingente tedesco in
Olanda, si arrese alla I Armata canadese, i componenti della
delegazione tedesca – scriveva un testimone - <<sembravano
quasi in trance: avevano un’aria intontita, trasognata, come non
si rendessero conto che il loro mondo era completamente finito>>.
Il comandante supremo dello SHAEF inviò un telegramma di mirabile sintesi allo stato maggiore congiunto: <<La missione di
questo Corpo di spedizione alleato è stata compiuta alle 02.41,
ora locale, del 7 maggio 1945, firmato Eisenhower>>. Nella
campagna in Europa nordoccidentale il capo delle forze alleate
occidentali non si distinse per doti strategiche, ma si guadagnò
19
8 MAGGIO
la gratitudine della storia per la pazienza, il buon senso e la
generosità d’animo con cui seppe guidare la marcia delle forze
armate verso la vittoria.
Winston Churchill, l’essere umano a cui più di ogni altro il mondo doveva la salvezza dalla dominazione nazista, annunciava
via etere al popolo britannico: <<La guerra contro la Germania è dunque al termine…Dopo la caduta della valorosa nazione francese, noi, da quest’isola, dal nostro Impero unito, abbiamo portato avanti la lotta da soli per un anno intero prima di
essere coadiuvati nel nostro sforzo dalla potenza militare della
Russia sovietica e, in seguito, dal formidabile potenziale di mezzi
e di risorse degli Stati Uniti. Alla fine, la quasi totalità del mondo
era unita contro i malfattori che giacciono ora prostrati ai nostri
piedi. Possiamo concederci un breve istante di giubilo>>. […] <<Non festeggiammo la fine della guerra>> ricordava il soldato semplice Ron Gladman del 1^ Hampshires. <<Era ricompensa sufficiente esserci arrivati vivi>>.
(M. Hastings, Apocalisse tedesca. La battaglia finale 19441945, Milano, Mondadori, 2006, pp. 642-644.
20
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
21
dia
Sbarco in Norman
Dimensione internazionale
Normandia, Berlino,
Hiroshima
Gli ultimi anni di guerra
D
al punto di vista politico, gli eventi più importanti del 1943
furono le conferenze di Casablanca (13-24 gennaio) e di
Teheran (22-26 novembre). Al primo incontro parteciparono
solo Churchill e Roosevelt, in quanto Stalin era impegnato a
dirigere le operazioni militari contro Stalingrado. La decisione
più importante presa a Casablanca fu quella di non interrompere la guerra fino alla resa incondizionata della Germania.
Tale formula aveva, come obiettivo primario, lo scopo di rassicurare Stalin, sempre timoroso che - a seguito di un accordo
separato con Hitler - gli Angloamericani lasciassero l’URSS a
dissanguarsi da sola contro il Terzo Reich.
A Teheran, invece, partecipò anche Stalin; sotto il profilo militare, fu deciso che, entro il 1944, gli angloamericani avrebbero aperto un secondo fronte in Francia. Una simile opzione
fu osteggiata, fino all’ultimo, da Churchill, che proponeva in
alternativa uno sbarco nei Balcani, ovvero un attacco da sud
alla <<fortezza Europa>> nazista. La preoccupazione dello
statista inglese era evidente: ormai certo della sconfitta di Hitler,
Churchill cominciava a temere le conseguenze future dell’avanzata sovietica verso l’Europa centrale.
La proposta di Churchill (non meno della paura di Stalin, sopra segnalata, di una pace separata delle potenze capitalistiche
con Hitler) evidenzia come, per molti aspetti, anche durante la
guerra permanessero tra i diversi nemici della Germania tutti
quei sospetti e quelle diffidenze che esistevano prima del conflitto. Solo Hitler aveva potuto dar vita, nel 1941, alla strana
alleanza tra le due potenze liberali, da un lato, e la Russia comunista dall’altro. Del resto, e non a caso, a Teheran rimase
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8 MAGGIO
del tutto aperto il problema del futuro assetto politico e sociale
della Polonia, la quale - in caso di crollo della resistenza tedesca - sarebbe evidentemente passata sotto il controllo militare
sovietico.
L’agonia della Germania nazista iniziò nell’estate del 1944, per
effetto di una doppia e contemporanea offensiva degli angloamericani e dei sovietici. I primi, il 6 giugno 1944, procedettero all’invasione della Francia, che ebbe come atto iniziale lo
sbarco in Normandia. Fu un’operazione militare di proporzioni
colossali, basata su una concentrazione di uomini e mezzi che
non aveva precedenti nella storia: circa 200 mila uomini, su
6.500 mezzi da sbarco, poterono operare protetti da 200 navi
da guerra e da oltre 13 mila aerei.
L’esercito tedesco non poté opporsi a lungo ad un simile spiegamento di forze, col risultato che, il 25 agosto, Parigi venne
liberata. Le prime truppe ad entrare nella capitale furono francesi. Si trattava di reparti che avevano aderito ad un appello
lanciato all’indomani della disfatta, il 18 giugno 1940, dal generale Charles De Gaulle; rivolgendosi ad una Francia sconfitta e demoralizzata, dove molti erano tentati di collaborare con
l’occupante tedesco, egli aveva esortato alla resistenza ed alla
continuazione (con ogni mezzo possibile) della guerra contro
la Germania. Rientrato finalmente a Parigi, De Gaulle assunse
la carica di Presidente della Repubblica francese, e si può dire
che per tutta la sua vita egli si sia sforzato di mantenere alto
il prestigio della Francia nel mondo; la sconfitta nel 1940 e la
liberazione da parte degli anglo-americani, tuttavia, avevano
mostrato chiaramente che la Francia non era più una grande
potenza capace di guidare e dominare la situazione politica
internazionale.
Il 23 agosto 1944 l’Armata Rossa scagliò l’offensiva decisiva,
che, a seguito del crollo del settore centrale del fronte orientale,
comportò la cattura di 350.000 prigionieri e aprì ai russi le por-
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La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
te della Polonia. La Germania tentò di rispondere a questi colpi
mettendo in funzione una serie di nuove armi che, frutto della
più avanzata tecnologia tedesca, annunciarono gli strumenti
bellici tipici della seconda metà del XX secolo.
Si trattava di aerei a reazione e di razzi a lunga gittata che
furono chiamati <<armi della vendetta>>: in tedesco, Vergeltungswaffen, da cui derivano le abbreviazioni V1 e V2. Le prime
bombe volanti, soprannominate V1, furono pronte il 22 giugno
1944. Ne furono lanciate 10, ma solo 5 raggiunsero Londra.
L’8 settembre fu lanciato il primo missile V2, decisamente più
maturo di quello precedente. Delle seimila V2 prodotte, solo
1.403 furono lanciate contro l’Inghilterra, e di fatto solo 517
caddero sulla capitale. Alla fine, le bombe volanti uccisero circa
9.000 londinesi, ma il tonnellaggio totale dell’esplosivo contenuto (più o meno 2.500 tonnellate in sei mesi di lanci) rappresentava appena lo 0,23 per cento della quantità sganciata
dalle forze aeree alleate sulla Germania nello stesso periodo.
La maggior parte dei razzi che vennero utilizzati dai tedeschi fu
prodotta in una gigantesca fabbrica sotterranea, che ricevette il
nome in codice di Dora. Gli impianti furono collocati in tunnel
aperti dentro una montagna, nella Germania centrale, a circa
70 chilometri da Buchenwald. Tutta la manodopera era costituita da deportati, che alloggiavano in un grande campo di concentramento allestito nei pressi della fabbrica sotterranea. Nel
novembre 1944, a Dora si trovavano 26.000 internati (circa
1.300 erano italiani), saliti a 40.000 nel marzo 1945. È possibile che, a causa delle terribili condizioni di vita e di lavoro,
siano morti circa 20.000 detenuti.
Il 20 luglio 1944, nel suo quartier generale, in Prussia orientale,
Hitler scampò ad un attentato portato a compimento dal colonnello von Stauffenberg e da altri alti ufficiali decisi a chiudere la
guerra, prima che la Germania fosse completamente occupata
e devastata. La repressione di Hitler fu durissima e investì nu-
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8 MAGGIO
merosi militari di alto grado, tra cui il celebre feldmaresciallo
Erwin Rommel.
Nel dicembre 1944, Hitler lanciò un’ultima disperata offensiva
a occidente, nella regione delle Ardenne; dopo alcuni successi iniziali, tuttavia, i carri armati tedeschi furono fermati dalla
carenza di carburante e dalla irresistibile supremazia aerea degli anglo-americani. All’inizio del nuovo anno, gli eserciti degli
Alleati penetrarono da est e da ovest all’interno del territorio
tedesco vero e proprio. Il 25 aprile 1945, russi e americani
riuscirono a incontrarsi a Torgau, sul fiume Elba, nel cuore della
Germania. Il Terzo Reich aveva ormai i giorni contati.
26
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
LE DEBOLEZZE TEDESCHE NEL 1944
L
o sbarco in Normandia( denominata in codice operazione Overlord) fu possibile solo perché i tedeschi, nel 1944,
erano in gravi difficoltà. Mentre la maggior parte dell’esercito
era impegnato sul fronte orientale, il principale punto di forza
degli Alleati era una straordinaria supremazia aerea, un controllo del cielo praticamente assoluto.
<<Se attaccano in Occidente,>> aveva detto Adolf
Hitler nel dicembre 1943 <<quell’attacco deciderà della
guerra>>. Nonostante il Vallo atlantico [= un complesso
sistema di fortificazioni eretto dai tedeschi sulla costa
francese, per contrastare l’eventuale sbarco nemico – n.d.r.]
presentasse dei punti deboli, la conclamata impazienza di
Hitler di fronte all’invasione degli alleati non rappresentava
una mera millanteria. Le sue armate in Russia venivano
inesorabilmente costrette alla ritirata e distrutte; solo tra il
luglio 1943 e il maggio 1944, la Germania aveva perso 41
divisioni sul fronte orientale. Il numero degli uomini sotto
le armi era sceso da un totale di oltre 3 milioni nel luglio
1943 a 2,6 milioni in dicembre. In seguito, tra il marzo e
il maggio 1944, i tedeschi avevano subito altre 341.950
perdite e altri 150.000 uomini erano stati perduti nel
quadro degli sbarchi alleati in Italia. L’unica possibilità
rimasta alla Germania di evitare la catastrofe consisteva
ora nell’annientare Overlord. <<La nostra sola speranza è
che sbarchino dove possiamo buttargli contro l’esercito>>
aveva detto il generale von Thomas a un compagno di
prigionia. Se gli alleati fossero stati ricacciati in mare, ci
sarebbero voluti anni prima che avessero potuto rilanciare
27
8 MAGGIO
un nuovo attacco, se mai fossero stati in grado di riprovarci.
In tal caso, il contingente dell’esercito tedesco nell’Europa
nordoccidentale, 59 divisioni, poteva essere trasferito quasi
al completo all’est per sferrare l’attacco decisivo contro i
sovietici. Entro l’anno sarebbero stati disponibili in grandi
quantità le armi segrete e gli aerei a reazione. Da allora in
poi, confidava Hitler, tutto sarebbe stato possibile. Anche se
si trattava di uno scenario minato da elementi di precarietà,
non era tuttavia irrealizzabile, a patto però che si riuscisse a
impedire agli alleati di metter piede in Francia.
Nel gennaio 1944 il generale Jodl fece un giro d’ispezione
lungo le coste della Manica e stilò un rapporto a fosche
tinte sullo stato delle difese. Il costante dissanguamento di
uomini, da occidente a oriente, aveva stremato le singole
divisioni. Nelle isole Normanne, la 319ª divisione era ormai
ridotta al 30 per cento dei suoi effettivi. L’operazione di
riequipaggiamento stava provocando il caos: l’artiglieria
era dotata di ben 21 modelli diversi di cannoni: francesi,
russi e cecoslovacchi. I comandanti protestavano che
non si lasciava loro il tempo per programmi essenziali di
addestramento in quanto gli uomini venivano impiegati
di continuo per costruire fortificazioni. I tedeschi avevano
la stessa preoccupazione degli alleati di mantenere a
ogni costo la supremazia aerea sulla zona probabile
dell’invasione, eppure Jodl era costretto ad ammettere che
<<non dobbiamo accettare battaglia contro la forza aerea
del nemico>>. Allo sventurato comandante in capo von
Rundstedt non si chiedeva mai di quali forze avesse bisogno
per respingere l’invasione; ma ci si limitava a fargli sapere
quante gliene avrebbero mandate. Il grosso delle sue truppe
era costituito da soldati di età avanzata e fisicamente poco
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La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
idonei, da convalescenti reduci dal fronte orientale, da una
miscellanea ben poco affidabile di disertori polacchi, russi
e italiani e dagli uomini del servizio del lavoro obbligatorio.
Anche le divisioni di prima linea che avevano cominciato
ad affluire in Francia nella primavera del 1944 secondo la
Direttiva 51 di Hitler, che intendeva rafforzare il dispositivo
occidentale, erano per la maggior parte formazioni già
duramente provate sul fronte orientale, che avrebbero avuto
bisogno di essere ricostruite e riequipaggiate di sana pianta
se si voleva che riacquistassero la loro primitiva potenza di
combattimento. Per quanto Hitler fosse ben consapevole
della necessità di opporre una valida difesa all’invasione,
era tuttavia succube dell’implacabile imperativo che
continuava ad esigere uomini e carri armati per combattere
contro la minaccia in atto da est, piuttosto che contro quella
solo ancora prevista da ovest. Se anche dopo la vittoria
si diffuse tra gli alleati occidentali la convinzione dettata
dall’euforia di aver accentrato su di sé le apprensioni e il
massimo sforzo della Germania nazista, bastano le cifre
a smentirla. Nel gennaio 1944 Hitler aveva in campo 179
divisioni sul fronte orientale, 26 nel sud-est dell’Europa, 22
in Italia, 16 in Scandinavia e 53 in Francia e nei Paesi Bassi.
Alla data del 6 giugno, in Francia e nei Paesi Bassi c’erano
59 divisioni – 41 delle quali a nord della Loira –, 28 in
Italia, e ancora 165 all’est. Quanto alle divisioni Panzer, in
gennaio, 24 erano sul fronte orientale e 8 altrove, e in giugno
sarebbero diventate rispettivamente 18 e 15. È stupefacente
il fatto che, pur dopo tre anni di perdite devastanti all’est
e dopo il micidiale bombardamento dell’industria bellica
di Hitler, la Germania riuscisse ancora a mettere insieme
ed equipaggiare in occidente forze capaci di causare le
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8 MAGGIO
più gravi difficoltà a quanto di meglio la Gran Bretagna
e l’America fossero in grado di gettare in campo. <<La
possibilità che Hitler riesca a ottenere una vittoria in Francia
non si può escludere>> scriveva con umor tetro Brooke il 25
gennaio. <<I rischi della battaglia sono incalcolabili>>.
Il punto di maggior debolezza della Germania sulla costa
della Manica nella primavera del 1944 era costituito dal
suo brancolare nel buio. La Luftwaffe aveva perduto non
solo la sua potenza, ma anche il suo ardore combattivo. Pur
se il dominio aereo degli alleati poneva delle difficoltà, la
ricognizione aerea sarebbe stata in qualche misura possibile
se i piloti tedeschi fossero stati ancora animati dalla
primitiva determinazione. La Germania non diede invece
segno di aver valutato quanto sarebbe venuta a costare
quella carenza, né d’altro lato di quanto fosse inferiore il
suo servizio di interpretazione fotografica rispetto a quello
degli alleati.
(M. Hastings, Overlord. Il D-Day e la battaglia di Normandia,
Milano, Mondadori, 1985, pp. 72-74. Traduzione di G. Salinas)
LA GERMANIA NAZISTA E LE NUOVE TECNOLOGIE
BELLICHE
I
tedeschi non riuscirono mai ad avvicinarsi davvero alla costruzione di una bomba atomica. Ottennero ottimi risultati, invece, nella fabbricazione di razzi, che trasformarono in
bombe volanti, spedite contro la Gran Bretagna. Hitler ripose
30
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
grandi speranze nelle nuove armi, ma esse si rivelarono affatto incapaci di capovolgere le sorti del conflitto.
Le prospettive della costruzione di armi atomiche erano
molto più realistiche in Germania, dal momento che gran
parte delle ricerche pionieristiche della fisica atomica
erano tedesche. In Germania esistevano risorse scientifiche
imponenti, e una comunità scientifica di primo livello, anche
dopo l’emigrazione all’ovest di eminenti ricercatori negli
anni Trenta. Fu un chimico tedesco, Otto Han, a pubblicare
nel gennaio del 1939 il primo saggio in cui si dimostrava
che la fissione nucleare dell’uranio era possibile; era questo
il processo che costituiva il nucleo della potenza nucleare. I
frutti della ricerca oltreoceano erano facilmente disponibili
sui periodici scientifici. Nella primavera del 1939 alcuni fisici
tedeschi compresero che l’energia rilasciata nella fissione
dell’uranio sarebbe stata sufficiente non solo a produrre
una nuova sorgente di energia, ma anche a scatenare
un’esplosione in grado di surclassare quelle prodotte con
armi convenzionali. Il 24 aprile del 1939 il chimico di
Amburgo Paul Harteck, membro del Partito nazista che
negli anni Venti aveva lavorato con Rutheford a Cambridge,
comunicò al commissariato per gli armamenti notizie sulla
potenziale nuova arma: << Il paese – ammoniva – che per
primo ne farà uso, avrà sugli altri un vantaggio incolmabile
>>. Lo stesso mese il ministro dell’Istruzione tedesco
istituiva un gruppo di ricerca sul nucleare di alto livello; a
settembre molte delle sue risorse andavano a confluire in
un progetto ancora più ampio finanziato dall’esercito. Nel
dicembre seguente Werner Heisenberg, il grande fisico,
sottoponeva al gruppo di ricerca un saggio in cui esponeva
dettagliatamente il funzionamento di un reattore nucleare e
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8 MAGGIO
la possibilità di costruire una bomba atomica.
Nei due anni successivi i gruppi di ricercatori si concentrarono
sullo scopo pratico di passare dalla teoria alla costruzione
di un ordigno. [...] All’inizio del 1942 l’esercito abbandonò
il programma. La prospettiva di produrre un’arma in tempo
per essere utilizzata sembrava remota. Ancora una volta
il ministro dell’Istruzione si assunse ogni responsabilità:
ai fisici atomici fu ordinato di lavorare a progetti bellici
di più immediato utilizzo, e non si arrivò a produrre né un
reattore nucleare né quantità adeguate di uranio arricchito.
Il lavoro di ricerca continuò, interrotto dai bombardamenti
e dall’evacuazione, ma quando i servizi segreti alleati nel
1945 perlustrarono la Germania alla ricerca di scienziati e di
laboratori trovarono che il paese era ancora a qualche anno
di distanza dalla produzione di un ordigno atomico. Alcuni
scienziati tedeschi accusarono il sistema per gli eccessi di
compartimentalizzazione e di interferenza politica; altri, tra
cui Heisenberg, sostennero di essersi deliberatamente tirati
indietro per impedire che le armi nucleari cadessero nelle
mani di Hitler.
La verità è più complessa: al di là delle opinioni degli scienziati
tedeschi, Hitler restò ostile al progetto nel suo complesso.
Privo dell’appoggio incondizionato della dirigenza politica
il programma atomico non riuscì a coinvolgere le enormi
risorse lavorative, materiali e intellettuali necessarie.
Sebbene Hitler si considerasse un esperto di armi e di carri,
i principi della fisica moderna gli risultavano ostici, e non
amava discuterne; gli scienziati di partito bollavano gran
parte della nuova ricerca come fisica non ariana, giudaica.
Quando Speer cercò di parlargli di tali ricerche Hitler le
condannò in quanto << filiazione della pseudo-scienza
32
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
ebraica >>: era vittima della paura che le esplosioni nucleari
si dimostrassero incontrollabili, e potessero incendiare
l’idrogeno dell’atmosfera, distruggendo il pianeta. Niente
di quanto gli fu sottoposto al tempo del conflitto riuscì a
convincerlo della realizzabilità a breve delle armi atomiche,
almeno quanto bastava per cancellare il suo scetticismo. [...]
Il peso che aveva Hitler nel campo della ricerca e delle sue
applicazioni lo si comprende dal destino del programma
missilistico tedesco. [...] Nel 1932 l’esercito decise che
il progetto era così importante da istituire un apposito
laboratorio della massima segretezza. Il primo impiegato fu
uno studente ventenne del politecnico di Berlino, Wernher
Freiherr von Braun. Nonostante la giovane età, von Braun
aveva ben compreso i principi della propulsione a razzo,
e aprì la strada allo sviluppo della prima generazione di
razzi militari. Nel 1935 i risultati furono tali da garantirsi i
generosi finanziamenti e la cooperazione della Luftwaffe [
= l’aviazione tedesca - n.d.r. ]. Le due armi combinarono
le proprie ricerche su una remota landa deserta della costa
baltica, a Peenemuende. Qui si costruirono laboratori,
impianti e rampe di lancio gigantesche sotto la guida di un
ex capitano di artiglieria, Walther Dornberger. [...]
Nell’agosto del 1943 la RAF [ = l’aviazione inglese
- n.d.r. ] distrusse la base di ricerche missilistiche di
Peenemuende, non appena la notizia delle armi segrete
trapelò a occidente. Nonostante questo smacco, Hitler
insistette con determinazione nella strategia dell’arma
miracolosa. L’intero progetto fu rilevato dall’esercito e
consegnato alle SS. Himmler fece costruire un centro di
produzione missilistica scavato nella roccia del massiccio di
Harrz, promettendo di soddisfare la richiesta hitleriana di
33
8 MAGGIO
cinquemila missili al mese. Trenta mila lavoratori prelevati
dai campi di concentramento lavorarono come schiavi nelle
cavità sotterranee in condizioni inenarrabili. Quando Speer
visitò l’impianto, si imbatté in colonne di uomini esausti,
sudici, con << visi inespressivi, occhi vuoti >>. Nei tunnel
a malapena rischiarati, lunghi due chilometri e mezzo, c’era
aria stantia e puzza di escrementi. Speer provò un senso
di stordimento e di vertigine; tornato in superficie, ebbe
bisogno di una bella bevuta. [...]
Le prime bombe volanti [soprannominate V1 – n.d.r. ]
furono pronte il 22 giugno [1944], ma solo dieci poterono
essere lanciate e solo 5 raggiunsero Londra. Il primo missile
[soprannominato V2 – n.d.r. ] fu lanciato l’8 settembre.
Dei seimila prodotti solo 1.403 furono lanciati contro
l’Inghilterra, e di fatto solo 517 caddero sulla capitale.
Alla fine furono circa 5.800 le bombe lanciate, 2.420 delle
quali raggiunsero la capitale, su una produzione di 30 mila.
Le armi della vendetta [in tedesco, Vergeltungswaffen, da
cui derivano le abbreviazioni V1 e V2 – n.d.r.] uccisero 9
mila londinesi, ma il tonnellaggio totale dell’esplosivo
contenuto (più o meno 2.500 tonnellate in sei mesi di lanci)
rappresentava appena lo 0,23 per cento della quantità
sganciata dalle forze aeree alleate sulla Germania nello
stesso periodo.
(R. Overy, La strada della vittoria. Perché gli Alleati hanno vinto la seconda guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 2002, pp.
343-349.Traduzione di N. Rainò)
34
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
L’ATTENTATO CONTRO HITLER
I
n un libro documentato e minuzioso, Joachim Fest (uno dei
più autorevoli biografi di Hitler) ha ricostruito l’attentato messo in atto contro il dittatore tedesco il 20 luglio 1944 a Rastenburg, in Prussia orientale, dove Hitler aveva fissato il suo
quartier generale. Il colonnello Stauffenberg riuscì a collocare
una bomba nella sala riunioni in cui Hitler stava ascoltando
il resoconto dei suoi più alti ufficiali, ma la bomba non ebbe
una potenza sufficiente ad ucciderlo.
Stauffenberg arrivò poco dopo le 10 del mattino all’aeroporto
di Rastenburg, assieme a Werner von Haeften e al maggior
generale Stieff, il quale si era unito a loro a Berlino dopo
essere stato a Zossen. I tre raggiunsero in macchina il circolo
ufficiali nella cosiddetta Zona protetta II. Stauffenberg
aveva sottobraccio la borsa con il materiale che avrebbe
dovuto illustrare durante la riunione con Hitler. La seconda
borsa, quella con i due ordigni esplosivi, rimase a Haeften
che, in compagnia di Stieff, si incaricò di portarla fino al
quartier generale dell’OKH [= Oberkommando des Heeres,
Comando supremo dell’Esercito – n.d.r.]. Secondo quanto
avevano convenuto, Stauffenberg e Haeften si sarebbero
incontrati poco prima della riunione nel quartier generale
del Führer – la Tana di lupo – per procedere allo scambio
delle borse. Verso le 11, Stauffenberg fu convocato dal capo
di stato maggiore dell’esercito, generale Walther Buhle. I
due, dopo un breve scambio di idee, raggiunsero insieme
l’ufficio di Keitel nel bunker dell’OKW [= Oberkommando
des Wehrmacht, Comando supremo delle forze armate
– n.d.r.], situato nella Zona protetta I. […] Stauffenberg,
35
8 MAGGIO
entrato nel bunker, pregò l’aiutante maggiore di Keitel, il
maggiore Ernst John von Freyend, di indicargli un locale per
rinfrescarsi e anche per cambiarsi di camicia. Era infatti una
giornata molto calda.
Mentre Keitel e gli altri ufficiali uscivano all’aperto per
recarsi alla sala delle riunioni, Stauffenberg incontrò Haeften
nel corridoio e, insieme, entrarono nello spogliatoio del
bunker. Stauffenberg aveva appena cominciato a inserire e
a collegare i due detonatori in una delle cariche esplosive,
quando si verificò il primo contrattempo: fatalità volle che
il generale Fellgiebel telefonasse proprio in quel momento,
chiedendo di parlare urgentemente con Stauffenberg.
Freyend rispedì allora nel bunker il maresciallo maggiore
Werner Vogel perché dicesse al colonnello Stauffenberg di
sbrigarsi. Quando Vogel entrò nello spogliatoio, vide i due
ufficiali intenti a sistemare un oggetto in una delle loro borse.
Mentre stava dicendo loro della telefonata di Fellgiebel
e li avvertiva che gli altri ufficiali li stavano aspettando
fuori, Freyend gridò dall’ingresso: <<Stauffenberg, faccia
presto!>>. Vogel rimase fermo sulla porta, tanto che
Stauffenberg dovette chiudere precipitosamente la borsa
mentre era già in movimento. Haeften si trattenne ancora un
po’ nello spogliatoio per raccogliere gli incartamenti sparsi
e stiparli nell’altra borsa.
La telefonata di Fellgiebel e l’improvvisa comparsa del
maresciallo Vogel hanno probabilmente contribuito a fare
la storia. Furono le prime, forse già decisive intromissioni
del caso che portarono infine al fallimento di tutto il piano.
Non si può infatti escludere che Stauffenberg abbia dovuto
rinunciare proprio per questi contrattempi a predisporre
la seconda carica esplosiva. A tutt’oggi, però, non si
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La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
sa come mai, pur non avendola innescata, non l’infilò
semplicemente nella borsa accanto all’altra già pronta
all’uso: indubbiamente la detonazione dell’una avrebbe
provocato lo scoppio <<per simpatia>> anche dell’altra.
Non convince l’argomentazione proposta da alcuni secondo
la quale l’ingombro e il peso dei due ordigni sarebbero stati
eccessivi per poterli portare insieme nella sala delle riunioni
senza dare nell’occhio: infatti pesavano poco meno di un
chilo l’uno e avevano fino a poco tempo prima trovato
agevolmente posto nella borsa di Haeften. Non si chiarisce
plausibilmente il mistero di questa inspiegabile omissione
neppure chiamando in causa il nervosismo di Stauffenberg,
per quanto l’inattesa comparsa di Vogel potesse disturbato.
È più probabile semmai che Stauffenberg non conoscesse
esattamente l’efficacia dei suoi ordigni. Convinto che una
sola bomba potesse in ogni caso bastare, non prese forse
neanche in considerazione l’eventualità di impiegarle
entrambe, contemporaneamente. Aveva portato con sé la
seconda solo per poter disporre di una soluzione alternativa
in caso di uno svolgimento imprevedibilmente diverso dei
fatti. Infatti, i due congegni chimici d’accensione a tempo
erano impostati in modo diverso: uno per far scoppiare
l’esplosivo dopo dieci minuti, l’altro dopo mezz’ora. È
indubbio comunque, secondo il giudizio di tutti gli esperti,
che l’impiego anche del secondo ordigno, che sarebbe
deflagrato nonostante la mancanza dell’innesco, non
avrebbe solo raddoppiato ma addirittura moltiplicato
l’effetto distruttivo, e nessuno dei partecipanti sarebbe
sopravvissuto. Lasciato il bunker dell’OKW, Stauffenberg,
con la borsa in mano e in compagnia di Buhle e John von
Freyend, percorse a piedi i trecento metri fino alla zona di
37
8 MAGGIO
sicurezza interna (la cosiddetta area protetta del Führer)
e alla baracca per le riunioni situata al di là di un’alta
recinzione metallica. Strada facendo declinò l’offerta di
Freyend di portargli la borsa. Gliela affidò solo all’ingresso
della baracca, pregandolo di <<sistemarmi il più vicino
possibile al Führer>> per poter <<seguire bene tutto>>
durante la conferenza.
All’interno del locale il rapporto di mezzogiorno era già
cominciato. Il generale Heusinger stava illustrando la
situazione sul fronte orientale. Keitel lo interruppe per
annunciare che Stauffenberg era arrivato e che era pronto a
tenere la sua relazione. Hitler gli porse la mano <<con il suo
solito sguardo indagatore, ma senza dire una parola>>.
Intanto Freyend collocava la borsa di Stauffenberg ai piedi
del tavolo, alla destra di Heusinger e dell’aiutante maggiore
di questi, colonnello Brandt, che erano a loro volta alla destra
di Hitler. Stauffenberg cercò in ogni modo di star vicino a
Hitler, ma poi trovò posto solo a un’estremità del tavolo,
mentre la borsa rimaneva appoggiata sul lato opposto,
accanto allo zoccolo massiccio, là dove Freyend l’aveva
collocata. Le 12 e 40 erano passate da poco. In quell’attimo
la quiete della giornata fu lacerata da un’esplosione
assordante. Contemporaneamente – come alcuni dei
presenti ricordarono in seguito – si levò una fiammata gialla
e azzurra. […] Tutt’attorno erano piovuti pezzi di vetro,
legno e cartone pressato, seguiti poi da brandelli di carta
carbonizzata e di materiale isolante. Nel silenzio improvviso
che seguì l’esplosione risuonarono le voci di persone che
chiedevano l’intervento dei medici. Mentre Stauffenberg e
Haeften salivano sull’automobile che li stava aspettando
e ordinavano all’autista di condurli all’aeroporto, fu
38
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
trasportato fuori dalla baracca un ferito. Era disteso su una
barella ed era stato coperto con l’impermeabile di Hitler.
Stauffenberg e Haeften ne dedussero che Hitler doveva
essere morto.
(J. Fest, Obiettivo Hitler, Milano, Garzanti, 1999, pp. 230-233.
Traduzione di U. Gandini)
39
8 MAGGIO
Memorie in conflitto, non condivise
L
’8 maggio 2005, in occasione del sessantesimo anniversario della vittoria, il governo russo (non più sovietico, dal
1991) organizzò a Mosca un’imponente cerimonia di commemorazione. Con un gesto clamoroso, il governo dell’Estonia
declinò l’invito che aveva ricevuto a partecipare e invitò tutti
gli altri paesi dell’Est Europa a fare altrettanto. Agli occhi di
un estone, di un lituano, di un lettone o di un polacco, in effetti, il 1945 è un anno molto diverso da quello che esso può
apparire a un inglese, a un francese, e perfino a un italiano e
a un tedesco.
Per i britannici, l’8 maggio 1945 fu il giorno della vittoria, per i
francesi il giorno della disfatta del nemico (anche se la Francia,
nel 1940, era stata umiliata e la vittoria era venuta solo grazie
alla tenacia inglese e alla potenza americana). Per italiani e
tedeschi, la fine della guerra coincise con la fine della dittatura
e con la rinascita nazionale: solo un pugno di fanatici e di nostalgici si ostinava a restare fedele, malgrado tutto, alle idee dei
regimi che dapprima avevano cancellato il sistema parlamentare, e poi avevano trascinato Italia e Germania, in un’avventura
bellica che aveva devastato i due paesi e li aveva persino trasformati, rispettivamente, in complice e artefice di un genocidio
gestito con criteri industriali.
<<Varsavia non è la Normandia>>. Così un quotidiano tedesco, nel giugno 2004, commentò il diverso spirito con cui
furono commemorati lo sbarco anglo-americano in Francia e
la grande offensiva sovietica dell’estate 1944, che portò i russi
fino alla Vistola, cioè alle porte della capitale polacca. In Europa occidentale, la liberazione dall’occupazione tedesca e la
fine della guerra coincisero con la rinascita della democrazia
40
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
e la sua rifondazione su basi nuove, come dimostrano la Costituzione italiana del 1948 e la Legge fondamentale tedesca
del 1949. Il quadro è molto diverso se ci spostiamo nei Paesi
Baltici, in Polonia e, sia pure con qualche peculiarità specifica,
in Bulgaria, Romania, Ungheria e Cecoslovacchia. In queste
aree, la sconfitta del nazismo non avvenne per opera dell’esercito americano, bensì grazie all’Armata Rossa, che ben presto,
da liberatore, si trasformò in strumento di instaurazione e di
conservazione di nuovi regimi totalitari, di segno comunista.
Per esprimere questa situazione complessa e contraddittoria, lo
scrittore ungherese Sandor Marai ha provocatoriamente intitolato Liberazione il romanzo in cui evoca gli ultimi terribili giorni
di guerra a Budapest. Nazisti ed estremisti di destra ungheresi
danno ancora la caccia agli ebrei e agli oppositori, tra cui il padre della giovane protagonista, che ha fortunosamente trovato
rifugio in una cantina sufficientemente robusta da resistere alle
bombe. Finalmente, arrivano i primi soldati sovietici… e la sospirata liberazione coincide con lo stupro della donna, condotto in modo freddo da un soldato che non è neppure un bruto
ubriaco, ma una figura dotata di portamento fiero e vestito di
una divisa perfetta e ordinata.
Il clamoroso gesto compiuto dal governo dell’Estonia nel 2005
si spiega soprattutto se si tiene conto di un dato ulteriore: per i
Paesi Baltici, l’8 maggio 1945 non significò solo occupazione
da parte dei sovietici, ma addirittura la perdita definitiva dell’indipendenza (già compromessa dal primo intervento sovietico
del 1939 e dall’occupazione nazista del 1941), cioè la definitiva annessione all’URSS. Sarebbero tornati indipendenti solo nel
1991. A Vilnius (capitale della Lituania) nell’edificio che aveva
ospitato prima la sede della Gestapo, poi quella del KGB, fu
subito aperto un museo dedicato ai crimini di entrambi i totalitarismi: basti pensare che, secondo Marta Craveri, tra il 1940 e
il 1953 furono 203.590 le persone deportate dai paesi baltici
41
8 MAGGIO
(118.599 lituani, 52.541 lettoni e 32.540 estoni), mentre circa
altrettante vennero condannate ai lavori forzati. Analogamente,
a Riga, è stato aperto un Museo della doppia occupazione, che
mette sul medesimo piano tedeschi e russi, nazisti e comunisti.
Semmai, nei Paesi Baltici, il rischio che si corre oggi – nel momento in cui è mutato di segno il significato simbolico da assegnare all’8 maggio nella memoria collettiva nazionale – è quello di minimizzare la gravità delle violenze naziste, a cominciare
dalla Shoah, che in Lituania e Lettonia ebbe caratteri particolarmente tragici. La ragione di tale oblio non deriva solo dalla
tendenza a considerare il comunismo come male prioritario e
assoluto, che per più tempo ha inciso sulla storia nazionale e
violentato le popolazioni baltiche. Porre l’accento sulle violenze
russe, soprattutto, permette di dimenticare le complicità della
popolazione civile lettone e lituana nel processo di sterminio.
In particolare, dev’essere ricordato l’episodio che si verificò a
Kaunas nell’estate del 1941, allorché un consistente gruppo di
ebrei della città fu ucciso a colpi di spranga, di fronte ad una
folla plaudente. Mai come in queste terre, le memorie divergono: non solo il giudizio di un cittadino delle repubbliche baltiche
sulla guerra è diverso da quello di un cittadino inglese; persino
all’interno di questi paesi la memoria è lacerata, visto che per
un ebreo lituano o lettone l’8 maggio 1945 segnò la salvezza,
e quindi è una ricorrenza degna di felice commemorazione,
mentre per i non ebrei è giorno di lutto nazionale.
42
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
AMBIGUITÀ DELL’8 MAGGIO
L
e date dell’8 maggio (resa ufficiale del Terzo Reich) e del 9
maggio (il giorno in cui la firma della capitolazione tedesca
fu resa nota alla popolazione sovietica) non evocano affatto
le stesse memorie in tutto il mondo. Innanzi tutto, gran parte
della popolazione dell’Europa dell’Est si rifiuta di utilizzare il
termine <<Liberazione>>, sostenendo di essere semplicemente passata da un’occupazione ad un’altra, da una dittatura ad un’altra. Inoltre, va ricordato che gli algerini, proprio
in occasione dei festeggiamenti per la vittoria, chiesero l’indipendenza del loro paese: ai loro occhi, la fine del dominio coloniale era perfettamente coerente con gli obiettivi di libertà,
in nome dei quali era stata combattuta la guerra contro Hitler.
Invece di rispondere positivamente a queste richieste, l’esercito francese di stanza in Algeria compì una strage, gettando
un’ombra sull’8 maggio e una macchia anche sulle potenze
occidentali che avevano vinto la guerra mondiale.
Nella memoria dei popoli e delle popolazioni che nel 194445 ritornarono, o caddero solo allora, sotto il dominio
sovietico, l’esaltazione iconografica del 9 maggio 1945
acquisì valenza negativa. Per queste comunità (per gli
stati baltici in primo luogo) il dolore arrecato dai sovietici
soverchiò i crimini tedeschi macchiati di nazionalsocialismo.
Si instaurò così un collegamento assai problematico:
nella costruzione cronologica dell’immagine storica, alle
conseguenze negative del dominio sovietico, vissute sempre
più duramente dopo il 1945, si associavano sempre più le
esperienze subite durante la precedente sovietizzazione del
1940-41. La memoria di questi paesi si rivelò contaminata
43
8 MAGGIO
dai crimini di cui si era macchiata parte della popolazione
baltica (primi fra tutti lituani e lettoni) quando, nel 1941, diede
il benvenuto agli invasori tedeschi, che venivano a liberarli
dal giogo sovietico, con efferati pogrom ai danni degli ebrei
locali. Nel Baltico, ma anche nei territori di confine fra la
Polonia orientale e l’Ucraina, un nazionalismo ridotto alla
sua componente etnica e con forti connotazioni antisemite
si unì a un anticomunismo radicalizzato, generando un
atteggiamento che si sarebbe in seguito riscontrato,
in misura diversa, anche negli alleati della Germania
nell’Europa centrale e meridionale. L’autocoscienza di quei
popoli, che dopo il 1989-90 assume tratti antitotalitari, in
qualche area si avvicina pericolosamente, in una deliberata
contraddizione del comunismo sovietico, a un discorso
simpatizzante, persino apologetico, del nazismo. Di qui, a
volgere la vittoria dell’Unione Sovietica sulla Germania di
Hitler in sconfitta nazionale, il passo è breve: una sconfitta
le cui conseguenze quei popoli avrebbero sopportato fino al
declino del comunismo e alla caduta dell’Unione Sovietica.
[…] L’idea di liberazione dunque appare tale esclusivamente
in una prospettiva occidentale, da cui essa viene totalmente
monopolizzata. La supremazia sovietica, durata per decenni,
fa sì che al 9 maggio, ufficialmente giorno di liberazione,
venga associato in realtà un significato di sottomissione e di
prolungata oppressione. […]
È lecito avanzare dei dubbi sul futuro del simbolo dell’8
maggio. Quale evento fondatore di impronta occidentale,
non è detto che rimanga positivo anche in futuro. Alla
data dell’8 maggio 1945 si associano infatti fuori dal
continente immagini ben poco edificanti di quelle stesse
forze politiche che rivendicano quella data associandola ai
44
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
valori della liberazione. Queste immagini, che rischiano di
oscurare la luminosa data dell’8 maggio 1945, coincidono
principalmente con fatti accaduti in ambito extraeuropeo,
e che altro non furono se non crimini coloniali. Proprio in
quell’8 maggio 1945, il giorno che introdusse la svolta della
liberazione nella memoria europea, le forze di sicurezza
francesi, nel dipartimento dell’Algeria settentrionale,
precisamente nella località di Sétif, Guelfa e Kherrata,
compivano atroci massacri contro i musulmani algerini.
Tutto era iniziato in modo abbastanza innocuo. Migliaia
di algerini si erano riuniti il giorno della resa tedesca per
celebrare la vittoria degli Alleati con marce e sfilate. Fra
le bandiere della coalizione vittoriosa, compresa quella
francese, si distingueva anche la bandiera bianco-verde del
Movimento Nazionale Algerino. Quando gli organizzatori
non fecero seguito alla richiesta delle autorità di allontanare
le bandiere incriminate, le forze di sicurezza aprirono il fuoco
sulla folla. Sull’onda di questa manifestazione di violenza,
nei giorni seguenti si diffusero disordini che minacciavano
di trasformarsi in una rivolta. L’esercito e la polizia francesi,
con il sostegno della locale milizia dei coloni, cercarono di
soffocare il tumulto nel sangue, con fucilazioni sommarie e
uccisioni indiscriminate. Non furono utilizzate solo armi da
fuoco, ma anche mortai pesanti. L’impeto della violenza si
abbatté su interi villaggi, e le uccisioni si accompagnarono
alla messa in scena di cerimonie di sottomissione: i musulmani
algerini dovettero prostrarsi davanti a bandiere francesi
alzate, in segno di umiltà. I cadaveri dei civili algerini uccisi
furono sotterrati in fosse comuni temporanee o bruciati in
roghi pubblici. Il numero delle vittime di questo bagno di
sangue non è ancora stato appurato. Fonti diverse parlano
45
8 MAGGIO
di una cifra che si aggira fra i 15.000 e i 45.000 morti. […]
Mentre nel 2005 (a sessant’anni dalla fine della guerra)
l’Europa e l’America celebravano l’8 maggio, la vittoria
sulla Germania di Hitler nel suo significato condiviso di
liberazione, il presidente algerino Abdel Aziz Bouteflika,
in occasione di una marcia della memoria per i morti del
1945 tenutasi nello stesso giorno a Sétif, chiedeva un
atto di riparazione, esortando la Francia a confessare i
massacri compiuti allora nell’Algeria settentrionale e ad
assumersene la responsabilità. […] Il doppio significato
dell’8 maggio 1945 mette in luce questa contraddizione:
giorno di liberazione per l’Europa, perlomeno della sua
parte occidentale, e giorno che incarna la storia sanguinosa
della decolonizzazione, e quindi del colonialismo tout court.
L’inizio della lotta di indipendenza algerina e, con essa,
delle guerre di decolonizzazione, può essere a buon diritto
ricondotto a questa data. Il bagno di sangue, in cui l’8
maggio fu annegato a Sétif, concesse ai francesi di tirare il
fiato per poco meno di dieci anni, cioè finché la rivolta non
si riattizzò, ed ebbe ufficialmente inizio il 1° novembre 1954,
appena sei mesi dopo la sconfitta francese in Indocina a
Dien-Bien-Phu. […]
Nella sua epopea cinematografica <<La battaglia
d’Algeri>> (1965), il regista Gillo Pontecorvo mette in
campo una sorta di archeologie delle memorie politiche. In
una narrazione filmica di stampo realistico il colonnello dei
paracadutisti Mathieu, incaricato di sedare la rivolta nella
Casbah [= quartiere fortificato, cittadella – n.d.r.] di Algeri,
risponde all’accusa di Sartre, riferitagli da un giornalista,
secondo cui l’uso della tortura da parte delle forze di
sicurezza francesi nascerebbe da un atteggiamento fascista.
46
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
La risposta di Mathieu è significativa per il manifestarsi del
dramma legato alla costellazione della memoria. Il colonnello
risponde che egli e i tanti altri che allora lottavano perché
Algeri restasse territorio francese erano stati eroi della
resistenza ai nazisti, torturati e deportati come prigionieri
politici a Dachau, Buchenwald e Sachsenhausen. Con ogni
probabilità Pontecorvo si è basato su una dichiarazione
di Guy Mollet, Presidente del Consiglio socialista della
Repubblica francese durante la fase culminante della
rivolta, il quale respingeva l’accusa secondo cui alcuni
funzionari del suo governo avrebbero impiegato la tortura,
accusa incompatibile con il loro passato di partigiani della
Résistence, e quindi falsa.
Senza dubbio il patimento della tortura era un simbolo
inscindibilmente legato alla Résistence. Per i membri
e i combattenti della lotta clandestina francese contro
l’occupazione tedesca, la tortura costituiva un orribile tabù
esistenziale che consentiva tuttavia di separare l’autentica
forza e la volontà di resistenza dalla debolezza e dal
tradimento. La tortura era l’esperienza limite, la situazione
eccezionale per antonomasia, in cui si sarebbero palesate
le vere virtù. La tortura, dunque, era più di un semplice
mezzo di repressione nelle mani degli sgherri di una
potenza straniera: la tortura era il segno tangibile del fatto
che si veniva riconosciuti come nemici. Nel peggiore dei
casi si trattava di resistere alla prova della tortura anche
a prezzo del suicidio, preservando così la propria dignità
umana; oppure di soccombere alla tortura, commettendo un
tradimento. Per la cultura della lotta di liberazione la tortura
rappresentava l’insegna esistenziale della Resistenza.
La tortura, tuttavia, divenne anche l’insegna del dominio
47
8 MAGGIO
francese in Algeria. Pontecorvo ci presenta nitidamente, per
bocca del colonnello protagonista del suo film, l’alternativa
che si offriva in Francia di fronte alla sommossa algerina:
cedere l’Algeria oppure impiegare anche la tortura. Una
terza soluzione non esisteva. Il fatto che i responsabili delle
torture in Algeria siano stati proprio gli individui che, a loro
volta, in quanto ex résistents, portavano sul proprio corpo
i segni della tortura, esemplifica la fatale dinamica della
trasformazione delle vittime in persecutori che si creò nella
situazione coloniale.
(D. Diner, <<Icone della memoria e coscienza storica: 8 maggio 1945, la prospettiva occidentale, orientale e coloniale>>,
in M. Cattaruzza-M.Flores-S. Levis Sullam-E. Traverso (a cura
di), Storia della Shoah. La crisi dell’Europa, lo sterminio degli
ebrei e la memoria del XX secolo. Volume IV, Torino, UTET,
2005, pp. 394-398)
LE DEPORTAZIONI DALLA LITUANIA VERSO LA
SIBERIA, DOPO L’OCCUPAZIONE SOVIETICA
L
a cronaca del ghetto di Vilna (Vilnius) stesa clandestinamente da Grigorij Shur, tra il 1941 e il 1944, si apre proprio con
il quadro delle deportazioni sovietiche messe in opera nelle
ultime settimane prima dell’invasione tedesca
Sullo stato d’animo della popolazione [lituana – n.d.r.] influì
sensibilmente la deportazione di un grandissimo numero di
48
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
persone nelle zone orientali dell’Unione Sovietica. Otto giorni prima dell’inizio delle operazioni militari, precisamente il 13
giugno 1941, in tutti i paesi baltici, Lituania, Estonia, Lettonia, e
in base a liste preventivamente compilate, si effettuarono massicci arresti e deportazioni di quanti venivano dichiarati elementi
indesiderati per il potere sovietico. Il terrore dilagò fra le popolazioni di quei paesi. Notte e giorno, per un’intera settimana,
persone vennero arrestate nelle città e nei villaggi e portate alle
stazioni ferroviarie, dove le caricavano su vagoni merci, già
allestiti in precedenza. Lunghi convogli colmi di deportati – in
alcuni vagoni stavano le donne con i figli, in altri gli uomini –
avanzavano lungo le ferrovie baltiche o sostavano per ore nelle
principali stazioni. I vagoni erano sbarrati da assi inchiodate a
forma di croce, da una piccola apertura quadrata, ricavata nella parte bassa della porta, defluivano i rifiuti. Era un’estate caldissima. Gli arrestati, chiusi come bestie nei vagoni soffocanti,
erano sfiniti dalla mancanza di spazio, dalla sete, dalla fame,
ma i soldati dell’NKVD [la polizia politica sovietica – n.d.r.] che
sorvegliavano i convogli non facevano avvicinare nessuno che
avrebbe potuto dare loro un po’ di pane, del latte, dell’acqua.
Era uno spettacolo terribile.
(G. Sur, Gli ebrei di Vilna. Una cronaca dal ghetto 1941-1944,
Firenze, Giuntina, 2002, pp. 31-32. Traduzione di P. Buscaglione Candela )
49
8 MAGGIO
L’OCCUPAZIONE TEDESCA DI KAUNAS
L
a dottoressa lituana (non ebrea) Elena Kutorgene-Buivydaite
tenne un accurato diario in cui annotò i principali eventi verificatisi a Kaunas durante la guerra. A differenza di tanti suoi
connazionali, Elena Kutorgene-Buivydaite aiutò molti ebrei,
nascondendoli a casa sua se tentavano di fuggire dal ghetto.
Trasmettono un’impressione completamente diversa da
quella che ci avevano fatto i militari dell’Armata Rossa
arrivati un anno fa, sfiniti, laceri, magri. Le auto, i camion
e gli altri mezzi dei tedeschi sono più attrezzati, robusti e
pratici; sebbene snelli, i loro cavalli sono tutti purosangue.
La popolazione lituana ha salutato i tedeschi con molto
più entusiasmo di quello che aveva riservato ai russi l’anno
scorso e li ha accolti con i fiori in mano... C’era un allegro
sventolio di bandiere. I “partigiani”, attivi, solerti, facevano
di tutto per ingraziarsi i tedeschi ed esibivano uno zelo affatto
particolare sul fronte “ebraico”. [...] In servizio, alla mutua,
ho passato momenti davvero spiacevoli: un’infermiera mi
si è rivolta con una tale villania e un tale astio che sono
rimasta davvero scioccata, tanto più che personalmente non
le ho mai fatto nulla di male. Ha strappato dalla parete
l’immagine di Stalin che avevo appeso e l’ha calpestata. In
generale, in tutta la città le vetrine sono andate in frantumi:
tutti gli emblemi, i ritratti, i libri, i busti e i simboli sovietici
sono stati fatti a pezzi, distrutti; particolarmente desolate
sono le vetrine delle librerie: un cumulo di schegge di vetro
e di carta. La popolazione lituana si era mostrata docile,
ma nell’intimo la pensava ben diversamente. [...] I “patrioti”
hanno sfogato la loro sadica ebbrezza per tutto il giorno:
50
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
con il consenso delle autorità gli ebrei vengono assassinati
e tormentati... L’odio contro gli ebrei accomuna tutti i lituani,
quasi senza eccezioni.
(V. Grossman – I. Erenburg, Il libro nero. Il genocidio nazista
nei territori sovietici 1941-1945, Milano, Mondadori, 1999, pp.
484 e 486)
I MASSACRI DI KAUNAS/KOVNO
D
ebitamente sollecitati dai nazisti, e guidati da Jonas Klimaitis, tra il 25 e il 27 giugno i nazionalisti lituani si macchiarono a Kaunas di alcune delle azioni più violente e brutali
di tutta la Shoah, documentate da diverse fotografie. Nella più
celebre delle immagini che ci testimonia questo tragico evento, scattata presso l’autorimessa della prospettiva Vytauto, un
gruppo di ebrei, stesi al suolo, viene finito a colpi di bastone e
di spranga. Lo stesso fotografo, un semplice soldato di nome
Gunsilius, avrebbe poi rilasciato, nel 1958, la seguente deposizione.
Nel pomeriggio, in prossimità del mio alloggiamento, notai
un assembramento di persone nel cortile di una stazione
di servizio recintato da tre lati e sbarrato verso la strada
da un muro di folla. Mi trovai così davanti al seguente
spettacolo: nell’angolo sinistro del cortile c’era un gruppo
di uomini di età tra i 30 e i 50 anni. Saranno state circa
45-50 persone che venivano tenute riunite e sotto tiro da
51
8 MAGGIO
alcuni civili. Questi erano armati di fucili e portavano dei
bracciali, quali compaiono nelle foto che scattai allora. Un
giovane – doveva trattarsi di un lituano – [...] con le maniche
della camicia rimboccate era munito di una sbarra di ferro.
Di volta in volta faceva uscire dal gruppo un uomo e con la
sbarra gli assestava uno o più colpi sulla nuca. In questo
modo, in tre quarti d’ora ha eliminato l’intero gruppo di 4550 persone. Di queste persone ho scattato una serie di foto.
[...] Dopo che tutti furono uccisi, il giovane mise da parte la
sbarra, prese una fisarmonica, si sistemò sul mucchio dei
cadaveri e suonò l’inno nazionale lituano. La melodia mi era
nota e mi fu chiarito dalle persone circostanti che si trattava
dell’inno nazionale. Il comportamento dei civili presenti
(donne e bambini) aveva dell’incredibile perché dopo
ogni uccisione cominciavano a battere le mani e all’inizio
dell’inno nazionale si misero a cantare e ad applaudire. In
prima fila c’erano delle donne con in braccio bambini piccoli
che hanno assistito a tutto dal principio alla fine. A persone
che parlavano tedesco chiesi informazioni su quel che stava
succedendo ed ebbi le seguenti spiegazioni: i genitori del
giovane uccisore due giorni prima erano stati strappati dal
letto, arrestati e subito fucilati perché sospettati di essere
nazionalisti; questa sarebbe stata la vendetta del giovane.
(E. Klee - W. Dressen - V. Riess, <<Bei tempi >>. Lo sterminio
degli ebrei raccontato da chi l’ha eseguito e da chi stava a guardare, Firenze, La Giuntina, 1990, p. 28)
52
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
La fine della guerra in Asia
N
el Pacifico, la guerra era iniziata il 7 dicembre 1941, allorché l’aviazione giapponese attaccò la flotta americana
ancorata nella base di Pearl Harbor, nelle isole Hawai. Per
circa un anno, l’espansione giapponese parve incontenibile:
Hong Kong, Singapore, le Filippine e vari altri territori controllati, in Asia orientale, dalle potenze occidentali caddero rapidamente nelle loro mani, senza particolari difficoltà. Nel corso
del 1942, però, gli Stati Uniti cominciarono a organizzare a
fini militari la loro gigantesca macchina bellica e ad infliggere
perdite sempre crescenti al Giappone, che infine si trovò in
gravissime difficoltà.
A partire dall’autunno del 1944, i giapponesi tentarono di reagire alla straordinaria potenza nemica facendo ricorso alla
tattica degli attacchi aerei suicidi: denominati kamikaze (vento
divino), i piloti di speciali velivoli imbottiti di esplosivo si gettavano contro le navi americane (prime fra tutte le portaerei),
accettando la morte in nome della salvezza della patria.
All’inizio del 1945, il Giappone era stremato: i due terzi della
sua flotta mercantile erano stati affondati, cosicché le fabbriche
si erano fermate per mancanza di materie prime e di carbone.
La situazione alimentare, per la popolazione, era tragica: la
razione giornaliera pro capite non superava le 1.200 calorie,
cioè era inferiore persino a quella di cui aveva potuto disporre
il popolo tedesco durante la prima guerra mondiale. I bombardamenti sulle città si susseguivano senza quasi incontrare
resistenza: l’8 marzo, in una sola incursione su Tokio, persero
la vita 83.000 persone, 20.000 in più di tutti i civili inglesi periti
nell’intero conflitto a causa degli attacchi aerei tedeschi.
Eppure, il Giappone voleva a tutti i costi evitare l’umiliazione
53
8 MAGGIO
della resa incondizionata e, soprattutto, si sforzava di avere la
garanzia del mantenimento della dinastia imperiale; pertanto,
continuava a resistere, al punto che in marzo e in giugno l’occupazione delle isole giapponesi di Iwo Jima e di Okinawa
costò agli americani migliaia di morti. Il generale Mac Arthur,
nella primavera del 1945, pronosticò che un’invasione del
Giappone avrebbe richiesto l’impiego di almeno 5 milioni di
soldati e comportato perdite fino ad un milione. Per questo motivo, Truman sollecitò l’intervento sovietico nel conflitto contro
il Giappone, e l’URSS dichiarò guerra all’impero nipponico l’8
agosto. A quella data, però, gli Stati Uniti avevano già impiegato, come strumento per piegare la resistenza giapponese,
l’arma nucleare.
La scoperta della fissione nucleare risaliva al 1938 ed era stata
effettuata da scienziati tedeschi. Pertanto, già nell’agosto 1939,
Albert Einstein inviò una lettera a Franklin Delano Roosevelt;
nel suo messaggio, facendo leva sulla sua fama, informava il
presidente americano del fatto che i tedeschi, se fosse scoppiata la guerra, avrebbero subito impiegato i loro migliori scienziati
in un progetto di ricerca finalizzato a produrre una bomba atomica. A tal fine, la Germania avrebbe potuto sfruttare le proprie
avanzate conoscenze sulla fissione nucleare e impiegare scienziati del calibro di Otto Hahn, Werner Heisenberg e Karl von
Weizsäcker (un giovane e brillante discepolo di Heinsenberg).
Einstein, pertanto, esortava il presidente a organizzare negli Stati Uniti un progetto concorrente, finalizzato ad anticipare quello
nazista o, per lo meno, a far sì che Hitler non possedesse in
regime di monopolio l’arma più potente che l’umanità avesse
mai costruito.
L’appello di Einstein fu recepito solo alla fine del 1941; il 6 dicembre 1941 (il giorno prima dell’attacco giapponese a Pearl
Harbor) il presidente creò un apposito comitato ristretto e, infine, ordinò di procedere alla ricerca sulla realizzabilità dell’ato-
54
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
mica. A capo dell’intera operazione (denominata in codice Progetto Manhattan) fu posto il generale Leslie Groves, che scelse
di tener fuori dal gioco Einstein (famoso per le sue posizioni pacifiste e per le simpatie che dimostrava a favore del sionismo) e
di nominare come direttore scientifico del gruppo di ricercatori
Robert Oppenheimer. In un primo tempo, anche Oppenheimer
non pareva idoneo all’impresa, a causa delle sue simpatie per
il comunismo; malgrado ciò, non solo era per molti aspetti il
fisico più brillante dell’intero mondo accademico statunitense,
bensì possedeva notevoli doti di leadership, indispensabili in un
progetto di squadra, in cui numerosi studiosi avrebbero dovuto
lavorare insieme, superando gelosie e antipatie reciproche. Il
principale laboratorio del Progetto Manhattan fu impiantato a
Los Alamos, nel deserto del New Mexico, dove gli scienziati si
trasferirono con le loro famiglie.
La prima bomba atomica (basata sul principio della liberazione d’energia conseguente la scissione del nucleo di un atomo
di uranio) fu fatta esplodere, a titolo sperimentale, il 16 luglio
1945 ad Alamogordo, nel New Mexico; il 6 agosto, invece,
venne bombardata la città giapponese di Hiroshima: l’80% degli edifici venne raso al suolo, mentre almeno 70.000 persone furono uccise all’istante; altri 40.000 giapponesi restarono
feriti in modo diverso o, comunque, subirono i postumi della
esplosione, ovvero si ammalarono di leucemia e di altre forme
tumorali.
Il 9 agosto, una seconda bomba fu sganciata su Nagasaki,
provocando 40.000 morti e 60.000 feriti; a quel punto, il
Giappone chiese la resa, ufficialmente stipulata il 2 settembre
1945 a bordo di una corazzata americana all’ancora nella
baia di Tokio.
55
8 MAGGIO
I KAMIKAZE GIAPPONESI
L
a strategia di attaccare il nemico con aerei che si schiantassero sulle navi nemiche fu teorizzata, elaborata e attuata
dal viceammiraglio giapponese Takijiro Onishi. Anche se il
termine, oggi, è utilizzato anche per designare il fenomeno dei
martiri islamici disposti al suicidio mentre compiono attentati
dinamitardi, occorre precisare che tra i due fenomeni esiste
una differenza radicale. Al di là della diversa cultura, va per lo
meno ricordato che i kamikaze giapponesi non furono affatto dei terroristi. Essi colpirono sempre e solo obiettivi militari,
cioè le navi statunitensi. Resta che i piloti disposti al suicidio
introdussero un comportamento che sconvolse profondamente le regole della guerra tipiche della mentalità occidentale,
abituata a pensare che uno dei contendenti sia disposto a
cessare il combattimento, quando rischia di essere annientato.
Il capitano Naito Hatsuho sostiene che una strategia suicida
organizzata contro la flotta nemica abbia esordito il 25
maggio 1944 al largo della Nuova Guinea. In assenza di
dati, l’aggettivo <<organizzata>> è perlomeno criticabile.
Rivendicazioni legittime possono essere avanzate dai piloti
che, tra la fine del 1943 e l’inizio del 1944, si gettavano
in picchiata sulle navi americane. Si trattava, però, di
iniziative personali indipendenti da un quadro generale.
Solo il colonnello Jyo Eiichiro formulò qualcosa di simile
a Onishi [il viceammiraglio cui molti ufficiali giapponesi
attribuiscono l’idea della strategia suicida organizzata –
n.d.r.]. Comandante della portaerei Chiyoda, era giunto
a questa conclusione: <<Il nemico è numericamente
superiore. Gli attacchi convenzionali non daranno buon
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La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
esito. Non ci resta che organizzarci in unità speciali che si
incarichino di collisioni e voli in picchiata ai danni delle navi
americane. Chiedo di essere posto al comando di questi
reparti>>. Per ironia della sorte Jyo morì lo stesso giorno
della prima incursione delle squadre di Onishi, il 25 ottobre
1944. Durante l’affondamento della Chiyoda, egli si rifiutò
di abbandonarla.
Come procedevano gli sviluppi del piano di Onishi? La
caduta di Saipan e i costanti progressi degli americani
imponevano nuove strategie. Il corso della guerra stava
mutando, e occorreva adeguarsi. Niente atteggiamenti
conservatori, e via libera a nuove proposte! Il concetto di
battaglia navale si rivelava inattuale. La lotta si spostava
dai mari ai cieli, e l’aviazione doveva giocare le sue
carte. Queste le convinzioni di Onishi, ben fondate e
incontestabili. Lui aveva persino proposto di sostituire
l’ancora, emblema della marina, con un’elica in segno dei
nuovi tempi. Occorreva un radicale mutamento d’opinione.
Ma rimanevano molti problemi, anche per l’inesperienza
dei piloti. Dopo un addestramento lievemente superiore a
duecento ore di volo non si poteva pretendere granché. Una
volta lo si completava con il quadruplo del tempo, ma non
era ancora scoppiata la guerra nel Pacifico!
I giapponesi erano tutt’altro che avvantaggiati dalle nuove
condizioni belliche, e la loro flotta non versava in buone
condizioni. Tutto ciò spianò la strada al viceammiraglio,
che appariva ormai incontestabile. Quale altra strategia
poteva sopperire all’impreparazione dei piloti? Per tacere
della penuria di benzina, che cominciava a farsi sentire.
Era il caso di accantonare ogni perplessità. Nel settembre
del ’44 gli americani si impadronirono di molte basi aeree
57
8 MAGGIO
giapponesi nelle isole Marianne, le Caroline e una parte
della Nuova Guinea. C’era da aspettare? Il nemico non
minacciava di avanzare ancora di più? Ogni resistenza nei
confronti degli attacchi suicidi andava soffocata. […]
Ai primi di ottobre del ’44, i giapponesi scoprirono che
gli americani si preparavano a sferrare nelle Filippine un
attacco in grande stile. Ecco dove sarebbero stati utili i corpi
speciali! Onishi fu mandato in fretta e furia a Mabalacat, un
campo d’aviazione non distante da Manila nel complesso di
Clark Field, sull’isola di Luzon. Alla foce del golfo di Leyte
furono avvistate alcune navi americane, l’avanguardia
di un’invasione bell’e buona. Ma cosa potevano fare i
giapponesi con un centinaio d’aerei? […] Onishi arrivò
nelle Filippine il 17 ottobre per assumere il comando della
flotta e istituire i corpi speciali. Fu accolto nelle migliori
tradizioni militari, come competeva a un ufficiale del suo
rango. Si ignorava, però, il motivo della sua presenza. Senza
perdere tempo egli convocò i sei ufficiali principali della
base, e si rivolse loro in tono pacato, scrutandone i volti con
attenzione. <<Ci troviamo, come sapete, in una situazione
d’emergenza. Gli americani hanno dislocato a Leyte una
grande quantità di uomini. Non è esagerato dire che le
sorti dell’impero dipendono dall’operazione Sho. Dobbiamo
bloccarli, e i reparti di terra sono già all’opera>>. […]
All’aviazione della marina competeva un ruolo impegnativo.
E il fattore tempo poteva rivelarsi decisivo. Tutto qui? Ma non
erano notizie risapute, in toni meno solenni e catastrofici?
Quando il volto di Onishi si rabbuiò, gli ufficiali capirono
che il discorso avrebbe preso un’altra piega. Si stava per
arrivare a un punto nodale.
Dopo una lunga pausa, il viceammiraglio proseguì.
58
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
<<Conosco bene l’entità delle nostre forze. C’è un
solo modo per sfruttarle al massimo: organizzare unità
d’attacco speciali. La strategia suicida, insomma. Doteremo
i nostri caccia, gli Zero, di bombe da duecentocinquanta
chilogrammi, e i piloti andranno a schiantarsi contro le
portaerei americane. Ora ditemi il vostro parere>>. In
seguito alla brusca conclusione, nella sala calò il silenzio.
Era una proposta imbarazzante. Ma non si trattava di una
reazione di paura o costernazione, a quanto ne ricorda
Rikihei Inoguchi nel libro <<Vento divino>>. La collisione
non rappresentava una novità: era già stata impiegata,
e persino valorizzata. <<Ciò è difficile da intendere>>
osserva il colonnello <<perché nessuno dà il benvenuto
alla morte>>. D’altra parte, i piloti sapevano che l’attacco
a una portaerei offriva scarse probabilità di sopravvivenza.
Qualsiasi strategia li avrebbe esposti al fuoco della
contraerea. Si rischiava molto già nell’avvicinarsi al
bersaglio. Meglio farlo, allora, nel modo più efficace e più
nocivo.
(L. V. Arena, Kamikaze. L’epopea dei guerrieri suicidi, Milano,
Mondadori, 2003, pp. 22-27)
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8 MAGGIO
HIROSHIMA: DIARIO DI UN SOPRAVVISSUTO
M
ichihiko Hachiya era un medico che lavorava a Hiroshima. Sopravvissuto all’esplosione nucleare, operò in uno
dei centri di soccorso allestiti per curare gli innumerevoli feriti.
Per circa un mese (dall’8 agosto al 30 settembre 1945) tenne
un diario in cui annotò le sue personali sofferenze e quelle dei
suoi disgraziati concittadini. Il passo che riportiamo descrive
l’esplosione e le prime concitate giornate dopo la bomba.
6 agosto
Indossavo solo mutande e maglietta e stavo disteso sul
pavimento della stanza di soggiorno, per riposarmi da
una notte di veglia all’ospedale, dove ero stato di guardia
come addetto alla protezione antiaerea. All’improvviso fui
abbagliato da un lampo di luce, seguito immediatamente
da un altro. A volte, di un evento, si ricordano i più minuti
particolari [= persino i dettagli più piccoli – n.d.r.]: rammento
perfettamente che una lanterna di pietra nel giardino si
illuminò di una luce vivida, e io mi chiesi se fosse prodotta
da una vampa di magnesio, o non piuttosto dalle scintille di
un tram di passaggio. Le ombre del giardino sparirono. La
scena, che un istante prima mi era apparsa così luminosa
e gaia di sole, si oscurò, gli oggetti si fecero indistinti. Fra i
nembi di polvere riuscivo a stento a distinguere una colonna
di legno che era servita di sostegno a un angolo della casa.
Ora la colonna era contorta e il tetto pareva in procinto
di rovinare. Istintivamente mi alzai per fuggire, ma mi
trovai il passo sbarrato da detriti e travi crollate. Con mille
precauzioni riuscii a farmi strada fino al roka [= porticato
– n.d.r.] e scesi in giardino. Mi sentivo straordinariamente
60
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
debole, e dovetti fermarmi per riprender fiato. Con mio
grande stupore, mi accorsi che ero completamente nudo.
Stranissimo, pensai. Dov’erano andate a finire mutande e
maglietta? […]
Un po’ alla volta, gli oggetti attorno a me assunsero
consistenza. Scorgevo le figure incerte di altre persone,
alcune delle quali sembravano spettri che camminassero.
Altre procedevano alla cieca, come automi, brancolando
con le mani protese in avanti. La loro vista mi turbò, ma poi
mi resi conto che avevano subìto delle ustioni e tenevano
le braccia levate per evitare di farsi male, strofinando le
ferite sulla superficie scabra [= ruvida – n.d.r.] degli abiti.
Mi passò davanti una donna nuda, che reggeva in braccio
un bambino, anch’egli nudo. Distolsi lo sguardo. Dapprima
pensai che al momento dell’esplosione probabilmente
stavano facendo un bagno, ma poi vidi un uomo nudo, e
allora mi resi conto che doveva essere accaduto qualcosa
di strano, per cui anche loro, come me, erano rimasti
senza niente addosso. Una vecchia giaceva lì vicino, con
il viso contratto dalla sofferenza, ma senza dir nulla. Una
cosa avevano in comune tutti quelli che vedevo: agivano
nel più assoluto silenzio. […] Per le vie non c’erano più
che cadaveri. Alcuni pareva che fossero stati irrigiditi dalla
morte nell’atto di fuggire; altri erano schiacciati al suolo,
come se un gigante li avesse scagliati giù da una grande
altezza. Hiroshima non era più una città, ma una prateria in
cenere. A est e a ovest, ogni cosa era stata spazzata via. Le
montagne lontane sembravano vicine come non le avevo mai
viste. Le colline di Ushita e i boschi di Nigitsu si profilavano
oltre il velo di fumo, simili al naso e alle orbite di un volto
umano. Come pareva piccola Hiroshima, ora che le sue
61
8 MAGGIO
case erano sparite! Il vento mutò direzione e nuovamente il
cielo si coprì di fumo. D’un tratto si levò un grido: <<Aerei!
Aerei nemici!>>. Era mai possibile, dopo tutto quello che
era accaduto? Cosa c’era ancora da bombardare? […]
8 agosto
A poco a poco, cominciai a fare l’abitudine al dolore altrui,
a essere meno sensibile alle sofferenze e alla disperazione,
e finii per ascoltare tutto quello che mi si diceva con una
serenità e un distacco di cui non mi sarei mai creduto
capace. E questa assuefazione si produsse in due soli giorni.
Mi sentivo solo, ma era una sensazione puramente fisica.
Era come se fossi diventato anch’io parte del buio della
notte. Non c’erano apparecchi radio, mancava l’elettricità,
non avevamo nemmeno candele. La sola luce era quella
degli incendi lontani, che proiettavano ombre guizzanti
sulle pareti. Gli unici rumori erano i gemiti e i singhiozzi dei
pazienti. Di tanto in tanto, uno di loro, nel delirio, invocava la
madre, o un altro, in preda al dolore, mugolava: <<Eraiyo,
non ne posso più>>. Che specie di bomba era quella
che aveva colpito Hiroshima? Non riuscivo a trovare una
spiegazione, soprattutto dopo i racconti uditi quel giorno.
Senza dubbio gli aeroplani non potevano esser stati molti. E
su questo punto anche i miei ricordi erano chiarissimi. Prima
che suonassero le sirene d’allarme, si era inteso il rombo
metallico di un solo velivolo. Altrimenti perché l’allarme era
cessato? Perché le sirene non avevano ripreso a suonare
in quei cinque o sei minuti prima dell’esplosione? Ma, per
quanto congetturassi, non riuscivo a spiegarmi le distruzioni
che ne erano seguite. Forse era davvero un’arma nuova!
Molti avevano parlato, sia pure in termini vaghi, di una
62
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
nuova bomba, un’arma segreta, una bomba speciale, e
qualcuno aveva anche detto che al momento dello scoppio
era sostenuta da due paracadute! Ma non riuscivo a
farmene un’idea precisa. Non c’era una spiegazione logica
per danni tanto estesi. Che altro avevamo a disposizione,
se non ipotesi prive di sostanza, come una nebbia che si
sfaldi in mano? Una cosa era certa: Hiroshima era stata
distrutta, e con la città anche i reparti militari che vi avevano
stanza. Erano stati annientati i comandi, compreso quello
della seconda divisione, e anche la scuola allievi ufficiali, il
quartier generale della zona occidentale, i reparti del genio,
l’ospedale militare d’armata. Erano crollate le speranze
del Giappone. La guerra era perduta. Gli dei ci avevano
abbandonati.
(M. Hachiya, Diario di Hiroshima 6 agosto-30 settembre 1945,
Milano, SE, 2005, pp. 13-20 e 34-35. Traduzione di F. Saba
Sardi)
LE RESPONSABILITÀ MORALI DELLO SCIENZIATO
L
’esplosione delle prime bombe nucleari fece una profonda
impressione sull’opinione pubblica di tutto il mondo. Tra gli
altri, fece udire la propria voce lo scrittore tedesco Berthold
Brecht, che sentì la necessità di modificare una delle scene
finali del suo dramma Vita di Galileo. In un primo tempo,
l’accento dell’autore era caduto sul fatto che la scienza si presentava come un formidabile strumento di progresso, capace
63
8 MAGGIO
di distruggere le superstizioni, con l’aiuto delle quali i potenti
tengono incatenati gli schiavi. Dopo Hiroshima e Nagasaki,
Brecht ritenne doveroso precisare che non è la scienza in sé
ad essere fattore di progresso, bensì l’uso sociale che viene
fatto di essa.
Nella Scena XIV del dramma Vita di Galileo, di Berthold Brecht,
il grande scienziato pisano discute con Andrea, suo discepolo.
Galileo espone le ragioni della sua abiura, e dice di averla
compiuta per paura, per continuare a vivere, a ricercare e ad
accumulare sapere. Ma, a giudizio di Brecht, dopo la creazione
della bomba atomica la conoscenza scientifica non è più un
valore in sé: gli scienziati sono chiamati ad una rinnovata coscienza etica, cioè a rispondere di fronte all’umanità delle loro
azioni e delle loro scoperte.
GALILEO: Non credo che la pratica della scienza possa
andar disgiunta dal coraggio. Essa tratta il sapere, che è un
prodotto del dubbio; e col procacciare sapere a tutti su ogni
cosa, tende a destare il dubbio in tutti. [...] Se gli uomini
di scienza non reagiscono all’intimidazione dei potenti
egoisti e si limitano ad accumulare sapere per sapere, la
scienza può rimanere fiaccata per sempre, ed ogni nuova
macchina non sarà fonte che di nuovi triboli per l’uomo.
E quando, coll’andar del tempo, avrete scoperto tutto lo
scopribile, il vostro progresso non sarà che un progressivo
allontanamento dall’umanità.
Tra voi e l’umanità può scavarsi un abisso così grande, che
ad ogni vostro eureka rischierebbe di rispondere un grido
di dolore universale... [...] Se io avessi resistito, i naturalisti
avrebbero potuto sviluppare qualcosa di simile a ciò che
64
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
per i medici è il giuramento di Ippocrate: il voto solenne di
far uso della scienza ad esclusivo vantaggio dell’umanità.
Così stando le cose, il massimo in cui si può sperare è una
progenie di gnomi inventivi, pronti a farsi assoldare per
qualsiasi scopo.
(B. Brecht, I capolavori di Brecht, Torino, Einaudi, 1965, pp.
115-116. Traduzione di E. Castellani)
IL TEST DI ALAMOGORDO
I
l 16 luglio 1945, ad Alamogordo, nel New Mexico, fu effettuato il cosiddetto Trinity test, con una bomba al plutonio
(simile a quella che poche settimane più tardi avrebbe distrutto
Nagasaki). All’interno del folto gruppo di ricercatori che aveva lavorato tre anni per giungere a quel risultato, si diffusero emozioni e sensazioni particolari. Ogni scienziato reagì in
modo diverso, ma tutti si resero conto di aver varcato un confine, e di aver prodotto qualcosa che, nel medesimo tempo,
era affascinante e terribile.
Gli uomini videro quello che la fisica teorica non può
osservare e le macchine fotografiche non possono registrare.
Al campo base Rabi si sentì minacciato: <<Eravamo
sdraiati lì, tesissimi, alle prime luci dell’alba, e c’era solo
una strisciolina dorata a oriente; si vedeva il vicino appena.
Quei dieci secondi furono i dieci secondi più lunghi che io
abbia mai vissuti. Improvvisamente ci fu un lampo luminoso
65
8 MAGGIO
enorme, la luce più brillante che io abbia mai vista e che
chiunque, credo, abbia mai vista. Esplose, si avventò, si
aprì la strada direttamente verso di noi. Era una visione
che non vedevamo solo con l’occhio; la vedevamo durare
per sempre. Non vedevamo l’ora che finisse, e in tutto durò
circa due secondi. Finalmente diminuì, finì, e guardammo
la pianura dove c’era stata la bomba; ora c’era un’enorme
palla di fuoco che continuava a crescere e crescendo
ondeggiava: saliva nell’aria con lampi gialli, e poi scarlatti
e verdi. Sembrava minacciarci, sembrava venire verso di
noi. Era appena nata una cosa nuova; per l’uomo un nuovo
controllo, un sapere nuovo acquisito sulla natura>>. […]
<<Quasi tutte le esperienze della vita possono essere
comprese attraverso esperienze precedenti>>, commenta
Norris Bradbury, <<ma la bomba atomica non corrispondeva
a nessun concetto precedente, per nessuno>>. Mentre la
palla di fuoco saliva in aria, racconta Joseph W. Kennedy,
<<la copertura di stratocumuli proprio sopra di noi divenne
rosa dal lato inferiore. Era ben illuminata come all’alba.
Weisskopf notò che “il cammino dell’onda d’urto attraverso
le nuvole era chiaramente visibile come un cerchio che si
allargava su tutto il cielo, là dove c’erano delle nuvole a
coprirlo”>>. <<Quando il bagliore rosso si attenuò>>,
scrive Edwin McMillan, <<comparve un effetto veramente
notevole. Tutta la superficie della palla era coperta da
una luminescenza purpurea, simile a quella prodotta da
un’eccitazione elettrica dell’aria e causata sicuramente
dalla radioattività dei materiali della palla stessa>>.
Fermi aveva preparato un esperimento per determinare
approssimativamente l’ordine di grandezza della potenza
della bomba: <<Circa 40 secondi dopo l’esplosione lo
66
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
spostamento d’aria mi raggiunse. Cercai di stimarne la forza
lasciando cadere dei pezzetti di carta prima, durante e dopo
il passaggio dell’onda esplosiva. Dato che in quel momento
non c’era vento, potei osservare molto distintamente e
addirittura misurare lo spostamento di questi pezzetti di
carta che cadevano mentre l’onda passava. Era di circa due
metri e mezzo: stimai, al momento, che corrispondesse allo
scoppio che sarebbe stato prodotto da diecimila tonnellate
di TNT>> [le misurazioni più precise effettuate nei giorni
successivi mostrarono che potenza era superiore, pari a
circa 18.600 tonnellate o 18,6 kiloton – n.d.r.].
<<Dalla distanza della fonte e dallo spostamento d’aria
prodotto dall’onda d’urto>>, spiega Segrè, <<Fermi poteva
calcolare l’energia dell’esplosione. Aveva predisposto tutto
in anticipo preparandosi una tabella numerica, per cui poté
dire immediatamente qual era l’energia liberata basandosi
su questa misurazione rozza ma semplice>>. <<Era
assorbito così profondamente e totalmente dai suoi pezzi di
carta>>, aggiunge Laura Fermi, <<che non si accorse di
quel tremendo rumore>>. […]
<<Il nostro primo stato d’animo fu di esaltazione>>, ricorda
Weisskopf, <<poi ci accorgemmo di essere stanchi e poi ci
preoccupammo>>. Rabi è più complesso:<<Naturalmente
eravamo davvero giubilanti per l’esito dell’esperimento.
Mentre quella tremenda palla di fuoco era lì davanti a
noi, la guardavamo: continuava a espandersi, e col tempo
si confuse con le nuvole… Poi fu spazzata via dal vento.
Ci girammo gli uni verso gli altri e per i primi pochi minuti
ci congratulammo. E dopo ci fu un gelo, un gelo che non
era il freddo del mattino: era un gelo che veniva quando
si pensava, per esempio quando io pensavo alla mia casa
67
8 MAGGIO
di legno a Cambridge, e al mio laboratorio a New York,
e ai milioni di persone che vivevano lì intorno, e a questo
potere della natura di cui noi, per primi, avevamo compreso
l’essere – ed eccolo lì>>.
R. Oppenheimer cercò nel Gita [= un antico poema indiano
– n.d.r.], ancora una volta, un modello abbastanza grande:
<<Aspettammo finché l’onda d’urto fu passata, uscimmo
dal rifugio e poi ci fu un momento estremamente solenne.
Sapevamo che il mondo non sarebbe più stato lo stesso.
Alcuni ridevano, alcuni piangevano. Ma quasi tutti erano
silenziosi. Io mi ricordai di un verso del Bhagavad Gita, la
sacra scrittura indu: Vishnu sta cercando di convincere il
Principe che deve fare il suo dovere e per impressionarlo
assume la forma dalle molte braccia e dice: “Ora sono
diventato Morte, il distruttore di mondi”. Suppongo che
pensassimo tutti a questo, in un modo o nell’altro>>.
Venivano in mente anche altri modelli, come disse lo
stesso Oppenheimer parlando in pubblico dopo la guerra:
<<Quando scoppiò, nell’alba del Nuovo Messico, la prima
bomba atomica, pensammo ad Alfred Nobel e alla sua
speranza, vana speranza, che la dinamite mettesse fine
alla guerra. Pensammo alla leggenda di Prometeo, a quel
profondo senso di colpa dell’uomo per i suoi nuovi poteri che
riflette il suo riconoscimento del male e la lunga conoscenza
che ne ha. Sapevamo che questo era un mondo nuovo, ma
ancora di più sapevamo che lo stesso esser nuovi era una
cosa molto antica nella vita umana, che tutte le nostre vie
erano radicate in esso>>.
(R. Rhodes, L’invenzione della bomba atomica. 6 agosto 1945:
l’inizio di una nuova era, Milano, Rizzoli, 2005, pp. 738-742.)
68
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
LE REAZIONI DOPO IL LANCIO DELLE BOMBE
I
l lancio delle bombe su Hiroshima e Nagasaki fu giustificato affermando che esse avrebbero abbreviato la conclusione
della guerra. Si tratta di un argomento che ha subito molte
contestazioni: il Giappone era stremato; si poteva bombardare una zona disabitata, a titolo dimostrativo (Hiroshima e
Nagasaki, al contrario, furono scelte come bersaglio proprio
perché non avevano ancora subito attacchi di notevole portata); si poteva evitare la seconda bomba… Secondo alcuni
storici, a prevalere furono logiche di tipo militare e politico:
dimostrare, all’URSS, la nuova potenza di cui gli Stati uniti
disponevano, e di cui i sovietici, al momento, erano ancora
sprovvisti.
In Giappone, naturalmente, si levarono le proteste. Radio
Tokyo affermò risolutamente: <<La bestialità di questa
tattica rivela quanto sottile sia la vernice di civiltà di cui il
nemico è andato gloriandosi>>. Anche qualche americano
fu di questo parere. Il generale Dwight D. Eisenhower si
domandò se era stato davvero necessario <<colpirli con
quell’ordigno mostruoso>>, e il giornalista Edward R.
Murrow commentò che <<rare volte, se mai è successo,
una guerra è terminata lasciando nei vincitori un sentimento
simile di incertezza e sgomento, con una tale sensazione
che il futuro è oscuro e che la sopravvivenza non è
garantita>>. Persino l’Herald Tribune non trovò <<nessun
compiacimento al pensiero che un equipaggio americano
aveva provocato ciò che senza dubbio sarà la più grande
carneficina simultanea dell’intera storia dell’umanità>>,
tracciando un parallelismo tra l’atomica e i <<macelli di
69
8 MAGGIO
massa dei nazisti o degli antichi>>. Il ricorso all’atomica
resta un fatto controverso, e sono [numerose] le questioni
che dividono aspramente gli storici. In primo luogo, era
giustificato all’epoca il ricorso a quell’arma? La motivazione
secondo cui era stato necessario per salvare vite di
americani resta quella fondamentale, in particolare tra
quanti all’epoca erano sotto le armi. […] A dire il vero non
mancano prove del fatto che il Giappone si sarebbe arreso
se Truman avesse accettato di negoziare. L’imperatore
Hirohito aveva tentato di inoltrare una richiesta di pace
agli americani il 12 luglio 1945, ma con la minaccia di
abolire il trono dell’imperatore (considerato una divinità
in Giappone) gli Alleati ritardarono fatalmente la resa.
C’è d’altra parte chi afferma che, anche nel caso in cui la
salvaguardia dell’imperatore fosse stata garantita, sarebbe
comunque mancato l’accordo su quando e come porre fine
alla guerra, poiché l’esercito giapponese coltivava ancora
il desiderio di garantirsi una pace onorevole. Infine studi
recenti hanno restituito a Hirohito un ruolo ben più attivo di
quanto ipotizzato in precedenza nella condotta dei negoziati
bellici: si sostiene che abbia partecipato direttamente
all’organizzazione della resistenza alla prevista invasione
americana, risultando decisivo nel procrastinare i colloqui
di pace. A parere di questi storici, la versione secondo
cui Hirohito sarebbe intervenuto per sollecitare la pace è
frutto soltanto della propaganda postbellica, destinata
a proteggere il trono. Altri commentatori danno minore
rilievo ai negoziati sulla resa e insistono sulle motivazioni e
le scelte politiche degli americani. A loro giudizio il lancio
dell’atomica fu necessario per ragioni puramente politiche,
in quanto essa rappresentava un’arma importante nella
70
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
montante competizione tra USA e URSS: gli americani
speravano che l’utilizzo del nucleare avrebbe reso l’Unione
Sovietica più malleabile dopo la guerra, dimostrando inoltre
che il suo aiuto non era stato necessario nel conflitto col
Giappone, e che pertanto gli Stati Uniti non avrebbero
accettato l’influenza sovietica nella regione alla fine delle
ostilità. Il lancio della bomba, da questo punto di vista,
rappresentò un importante vantaggio sull’Unione Sovietica.
Volendo discutere della necessità dell’uso degli ordigni
nucleari vanno prese in considerazione le alternative a
disposizione degli americani. All’epoca alcuni scienziati
nucleari sostennero che una dimostrazione degli effetti
della bomba sarebbe bastata a convincere il già prostrato
Giappone, anche se esisteva il timore che, in caso di una
scarsa efficienza della dimostrazione, questa avrebbe
sortito effetti controproducenti. Gli Alleati avrebbero potuto
continuare con i bombardamenti convenzionali delle città
giapponesi e mantenere il blocco, strategie con le quali
avevano già inflitto gravi danni all’economia del nemico e
alla sua capacità di proseguire il conflitto; con la conquista
dell’avamposto di Okinawa, anzi, i bombardamenti
convenzionali avrebbero potuto essere incrementati. Ma
il fatto che molti comandanti militari giapponesi fossero
all’epoca inclini a continuare a combattere può forse
avere reso meno desiderabile quest’alternativa, soprattutto
per i militari americani. I bombardamenti convenzionali
sarebbero costati un numero di vite umane superiore alla
stessa bomba atomica. […]
In realtà l’atomica fu lanciata per inerzia: una chiara e
precisa decisione non fu mai presa al riguardo, e il processo
che portò all’impiego effettivo avanzò senza che intervenisse
71
8 MAGGIO
nessuno. Unica preoccupazione dei politici era come porre
fine al conflitto, e l’atomica sembrava la maniera più
efficace per farlo. In effetti, le altre opzioni, tra cui quella
di una dimostrazione degli effetti devastanti della bomba in
un’area deserta oppure la rinuncia a pretendere una resa
incondizionata, non furono prese in considerazione. […] Il
giorno del bombardamento di Hiroshima un editoriale del
New York Times ammoniva che <<civiltà e umanità a questo
punto riusciranno a sopravvivere soltanto se si verificherà
una rivoluzione nel pensiero politico mondiale>>; una
rivoluzione che non aveva molte probabilità di realizzarsi in
tempi brevi.
(J. Bourke, La seconda guerra mondiale, Bologna, Il Mulino,
2005, pp. 137-140)
72
Manifesto
Dimensione nazionale
L’occupazione tedesca in
Italia
La repUbblica sociale italiana
I
l 25 luglio 1943, il re Vittorio Emanuele III ordinò l’arresto di
Mussolini; il regime fascista crollò senza fatica e senza spargimento di sangue. L’8 settembre, il nuovo capo del governo,
il maresciallo Pietro Badoglio, annunciò che l’Italia aveva firmato la pace con gli Alleati. Nel giro di pochi giorni, l’intero
territorio della Penisola fu invaso e controllato dai tedeschi,
che in un primo tempo pensarono di sottomettere l’Italia ad un
puro e semplice regime di occupazione militare.
Il 12 settembre 1943, un reparto di paracadutisti tedeschi liberò Mussolini, che era detenuto in un albergo nella zona del
Gran Sasso, in Abruzzo. Portato in Germania, il Duce ottenne
da Hitler il permesso di ricostruire uno stato fascista in Italia;
nacque pertanto la cosiddetta Repubblica Sociale Italiana (RSI),
il cui governo prese dimora in varie ville sulla costa del lago di
Garda: e poiché il ministero degli esteri, tenuto personalmente
da Mussolini, aveva sede nella cittadina di Salò, l’espressione
Repubblica di Salò venne ben presto utilizzata per indicare la
nuova realtà politica.
In primo luogo, il nuovo fascismo cercò di darsi una nuova
identità convocando un congresso di rifondazione che ebbe
luogo a Verona il 14 novembre 1943; in secondo luogo, sempre a Verona, fu celebrato un processo contro i gerarchi fascisti
che avevano votato l’ordine del giorno Grandi il 25 luglio. Il
processo si concluse il 10 gennaio 1944, con la sentenza di
morte per i cinque imputati (compreso Galeazzo Ciano) che
erano caduti nelle mani dei fascisti.
La RSI non ebbe vita facile. Per quanto cercasse di presentarsi
come uno Stato pienamente sovrano, la sua autonomia e la
75
8 MAGGIO
sua legittimità vennero rifiutate da tutti i paesi neutrali, cosicché neppure la Spagna di Franco e il Vaticano riconobbero
ufficialmente la nuova repubblica fascista. La stessa Germania
la trattò sempre e solo al pari di un qualsiasi altro territorio
occupato, e non più come un alleato. Il Trentino-Alto Adige e il
Friuli, ad esempio, furono di fatto sottratti alla sovranità italiana
e posti sotto la diretta amministrazione del Reich. In tal modo, in
pratica, Hitler riportò i confini italiani a quelli del 1915, quando
Trento, Bolzano e Trieste erano sotto la dominazione austriaca.
Inoltre, la Germania sottopose l’Italia occupata ad uno spietato
sfruttamento economico, inserendola nel gigantesco meccanismo della produzione bellica tedesca; in particolare, un gran
numero di tecnici e di operai specializzati furono obbligati a
trasferirsi nel territorio del Terzo Reich, in modo da farne funzionare a pieno ritmo le fabbriche e le industrie.
Il nuovo Stato fascista non trovò mai l’appoggio della popolazione italiana, malgrado i suoi tentativi di conquistarla; tra questi sforzi, il più significativo fu senz’altro quello della cosiddetta
socializzazione: espressione dal contenuto vago, che si richiamava al programma fascista delle origini e che avrebbe dovuto
servire a conquistare le masse operaie, lasciando intravedere
loro la possibilità di una diretta partecipazione agli utili delle
aziende. Neppure questa prospettiva (per altro osteggiata dalla
borghesia e dagli stessi occupanti tedeschi) servì ad ottenere il
consenso dei lavoratori dei grandi centri industriali, che invece,
spesso, si dimostrarono disponibili a scioperare e a boicottare
in altri modi l’attività produttiva finalizzata a sostenere l’economia di guerra nazista.
Gli scioperi più consistenti si verificarono dall’1 all’8 marzo
1944; come le agitazioni operaie di un anno prima, anche in
questo caso il motivo scatenante furono le dure condizioni di
vita imposte dalla guerra. Nel 1944, tuttavia, vi furono una
preparazione molto maggiore, soprattutto da parte dei comu-
76
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
nisti, e un’adesione di massa (208.549, di cui 32.600 solo a
Torino, secondo il Ministero degli interni; circa mezzo milione, a
giudizio di numerosi storici). Il notevole numero di scioperanti è
in ogni caso notevole, soprattutto se si tiene conto dei gravi rischi che una protesta poteva comportare. In effetti, circa 1.200
operai furono deportati in lager dai tedeschi
Il dato che più di ogni altro dimostra lo scollamento esistente
tra RSI e popolazione riguarda la scarsa risposta alla chiamata
alle armi. Solo pochi giovani risposero ai periodici e sempre
più minacciosi (per i renitenti) bandi di arruolamento. Spesso,
era solo il pericolo di ritorsioni contro le famiglie che spingeva i
coscritti a presentarsi agli uffici di leva; la maggior parte di essi,
poi, disertava il più presto possibile, si nascondeva o andava ad
ingrossare le file della Resistenza, dei ribelli, che per motivazioni
ideali e politiche diverse avevano scelto di opporsi con le armi
al nuovo Stato fascista e al suo custode nazista. In pratica, la
RSI poteva contare solo su alcune unità composte da fascisti
convinti (come la cosiddetta X MAS) e sulle cosiddette <<brigate nere>>, nate grazie alla militarizzazione del partito, cioè
all’arruolamento di tutti gli iscritti al PNF in età compresa tra i
18 e i 60 anni (1° luglio 1944). I tedeschi si fidavano poco delle
truppe italiane; quindi, in linea di massima non le impiegavano
al fronte, contro gli anglo-americani, ma nella guerriglia antipartigiana, che andò assumendo contorni sempre più violenti.
77
8 MAGGIO
mussolini, hitler e la nascita della rsi
D
opo aver occupato militarmente il territorio italiano, i tedeschi erano indecisi sul da farsi. Anche se i militari avrebbero preferito una gestione tedesca diretta, prevalse infine l’idea di creare uno stato italiano fascista, alternativo a quello
guidato dal re e da Badoglio. L’indipendenza della Repubblica
Sociale Italiana, però, era puramente formale, priva di qualsiasi sostanza effettiva.
I memorialisti fascisti hanno scritto che Mussolini, mettendosi
a capo del governo, salvò l’Italia dalla sorte che era toccata
alla Polonia e la loro tesi è stata accettata da Renzo De Felice.
Ma, già prima d’incontrare Mussolini, Hitler, nonostante
la sua ira, aveva pensato alla formazione di un governo
collaborazionista e non a un regime di occupazione, come
quello che esisteva in Polonia. [...] Certo, i tedeschi erano
veramente infuriati. Lo rivelò più tardi anche Rahn [Rudolf
Rahn, plenipotenziario del Reich presso la RSI – n.d.r.]
nell’incontro del 4 aprile 1944 con i giornalisti romani,
parlando di <<furor teutonicus a proposito dello spirito
di reazione contro il tradimento che regnava nell’armata
germanica>>. Disse che, se i soldati tedeschi avevano
limitato le loro azioni alle più strette ed elementari necessità
di guerra, bandendo assolutamente ogni rappresaglia, si
doveva al fatto che, tra la reazione e le masse che avrebbero
potuto essere chiamate corresponsabili del tradimento, si era
posta <<come un diaframma la persona di Mussolini>>.
Il duce, per la sua amicizia personale con il Führer e per
l’<<enorme prestigio>> di cui godeva in Germania, aveva
<<salvato il popolo italiano da spaventose ore>>.
78
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
Le parole di Rahn hanno senza dubbio un valore di
testimonianza molto superiore a quello delle rivelazioni
fatte ripetutamente da Mussolini sui suoi colloqui con Hitler,
perché Rahn a questo riguardo era un testimone imparziale,
come invece non era il duce. E tuttavia, stando proprio al
compito che Hitler aveva assegnato a Rahn, nelle parole
dette ai giornalisti la funzione del <<diaframma>>
Mussolini appariva un po’ sopravvalutata.
Le linee del trattamento da imporre all’Italia erano state
tracciate nelle discussioni che si svolsero ai vertici della
Germania prima ancora che Mussolini fosse liberato. I
comandi militari tedeschi avrebbero preferito non avere
un governo italiano tra i piedi; Rudolf Rahn, al contrario,
auspicava una politica di collaborazione con un’autorità
fascista italiana. Egli aveva esposto la sua concezione
politica del collaborazionismo in un promemoria del 19
agosto 1943: <<Ogni norvegese, croato, francese, polacco
o greco che potremo indurre a vedere in noi i rappresentanti
di un futuro migliore e più giusto, innanzi tutto non sparerà
contro i nostri uomini e non compirà atti di sabotaggio –
e già questo sarà un grosso guadagno – ma in molti casi
arriverà addirittura a lavorare per noi con convinzione e a
diffondere stessa convinzione tra i suoi connazionali>>.
Senza dubbio, l’Italia avrebbe avuto lo stesso trattamento
dei paesi occupati, ma resta da vedere se sarebbe stata
trattata come la Polonia, oppure come la Francia di
Petain. Il 10 settembre – e dunque due giorni prima
della liberazione di Mussolini – si tenne la riunione,
definita <<fondamentale>> dallo storico tedesco Lutz
Klinkhammer, nella quale fu decisa la politica da realizzare
in Italia. [...] La tesi che Mussolini avrebbe impedito a Hitler
79
8 MAGGIO
di trattare l’Italia come stava trattando la Polonia è dunque
inficiata dal fatto che essa considera due sole alternative
possibili: un’Italia guidata da Mussolini e alleata della
Germania, oppure un’Italia occupata e considerata come
territorio di nemici e di traditori. Ma le scelte, come si è visto,
erano tre: alle due indicate sopra va aggiunta anche quella
del governo collaborazionista, adottata da Hitler prima
che Mussolini venisse liberato. Senza Mussolini, per questo
aspetto sarebbe cambiato poco o niente. La sua liberazione
non ebbe nessuna influenza nemmeno sulla decisione
di Hitler di procedere a una sostanziale annessione alla
Germania di una parte del territorio italiano. [...]
Renzo De Felice ha scritto che <<formalmente, ma, tutto
sommato, anche effettivamente, la RSI, diversamente dalla
Francia e da tutti i paesi sottomessi all’amministrazione
o al controllo tedeschi, a rigore non fu un regime
collaborazionista, ma alleato della Germania>>. Il fatto,
però, che l’Italia fosse formalmente alleata con i tedeschi le
portò scarsi vantaggi rispetto alla situazione in cui si sarebbe
trovata se fosse stata solo un paese collaborazionista.
La decisione di Mussolini di porsi alla testa del governo
fascista influì in misura molto limitata sulle relazioni tra
italiani e tedeschi ed ebbe invece tragiche conseguenze
sui rapporti tra italiani e italiani. Fu solo la sua presenza a
spingere molti giovani ad arruolarsi volontari nelle milizie
della RSI. Se Mussolini non fosse stato liberato, quel poco
di fascismo che era rimasto dopo il 25 luglio non avrebbe
ripreso forza, sarebbe vissuto stentatamente all’ombra dei
tedeschi e il paese non sarebbe precipitato nel dramma
della guerra civile. Su questa terribile responsabilità sembra
concordare pienamente anche Renzo De Felice: <<Posta la
80
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
questione sul piano dei costi e delle conseguenze, è fuor di
dubbio che la bilancia si squilibri irrimediabilmente a tutto
svantaggio della decisione mussoliniana. La costituzione
della Rsi fu infatti all’origine della guerra civile ... che, nel
1943-1945, insanguinò le regioni occupate dai tedeschi,
divise profondamente gli italiani e scavò solchi d’odio tra
loro e condizionò poi per decenni la vita italiana, dandole
un carattere diverso da quello di altri paesi occidentali,
quali la Francia, il Belgio e, in qualche misura, anche la
Germania>>. Anche questo dimostra che, a guardare
attentamente nella gran mole delle pagine della biografia di
De Felice, è possibile trovare giudizi molto duri su Mussolini.
Quello sulle conseguenze della sua azione nel 1943-1945
non potrebbe essere più severo.
(A. Lepre, La storia della Repubblica di Mussolini. Salò: il tempo
dell’odio e della violenza, Milano, Mondadori, 2000, pp. 95-101)
LA NAZIFICAZIONE DEL FASCISMO NEL PERIODO
DELLA RSI
I
l fascismo della Repubblica Sociale fu costretto a darsi una
nuova identità e a ricostruire almeno in parte la propria ideologia. Per molti di loro, la scelta più semplice fu prendere come
esempio e modello il nazionalsocialismo tedesco.
Al di là della convergenza della Repubblica di Salò con la
Germania nazista, che si espresse nella collaborazione,
81
8 MAGGIO
possiamo dire che nel fascismo della RSI si realizza anche
un ulteriore avvicinamento al Terzo Reich nella misura in cui
assistiamo a una radicalizzazione del fascismo stesso oltre le
sue radici estremistiche e squadristiche delle origini, com’è
stato messo bene in evidenza dagli studi specificamente rivolti
alla valutazione della violenza, e a quel particolare tipo di
violenza, nella RSI. Si tratta di quella tendenza che già altra
volta abbiamo definito come una forma di nazificazione del
fascismo di Salò. Essa è l’esito dell’autocritica del fascismo
come critica al fascismo del ventennio e, come parte, in un
certo senso, di un processo di rifondazione del fascismo,
che tiene direttamente conto di una duplice esperienza. Da
una parte, in negativo, i compromessi e gli accomodamenti
derivanti dal dualismo di potere con la monarchia, con gli
apparati dello stato (la burocrazia ministeriale), e con la
stessa chiesa cattolica; dall’altra, in positivo, l’esperienza
del regime nazista in Germania la cui tenuta si doveva in
buona parte attribuire alla totale concentrazione del potere
nel Partito nazionalsocialista e alla lotta senza quartiere
nei confronti di ogni centrifuga articolazione nello stato e
nella società (chiese comprese). [...] In altre parole, il nuovo
fascismo che si vuole riorganizzare in stato nel suo processo
di rifondazione si appropria di una serie di elementi che
non consentono di circoscriverne la fisionomia solo come
epifenomeno del fascismo del ventennio, ma che intendono
esaltarne i caratteri di novità e di originalità in una rinnovata
opzione a favore di un attivismo fascista consapevole anche
della posta in gioco nel Nuovo ordine europeo. Anche
se l’europeismo del fascismo di Salò – se si astrae dalla
permanente retorica della spiritualità latina e fascista – è
reso ancora più ambiguo dalla identificazione dell’Europa
82
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
con l’area controllata e difesa dalla Germania nazista, senza
il cui baluardo la stessa RSI sarebbe totalmente indifesa e
quindi un’entità praticamente inesistente.
Nel momento in cui tenta di rinascere dalle macerie del
fascismo del ventennio, la RSI guarda sicuramente al
<<modello del totalitarismo nazista>>, com’è stato
detto[dallo storico italiano L. Ganapini – n.d.r.]. All’interno
di questo modello si collocano sicuramente il primato del
partito rispetto agli apparati dello stato, capovolgendo
l’equilibrio a favore dello stato che aveva caratterizzato
il regime fascista in Italia a differenza del regime nazista
in Germania [...]. La centralità del PFR [= Partito Fascista
Repubblicano – n.d.r.] che sarebbe stata affermata non solo
teoricamente nel Manifesto di Verona del 14 novembre del
1943 ma soprattutto nella prassi e nella struttura stessa del
nuovo partito – non più partito burocratizzato ma partito
d’élite e di avanguardia – doveva essere uno dei caposaldi
della nuova rigenerazione dello stato e delle sue articolazioni
anche in rapporto alla società. Al di là del ruolo in sé del
partito, un passo ulteriore verso l’adozione del modello
tedesco si può rinvenire nella funzione attribuita ai nuovi
capi delle province, che si trovarono a esercitare le funzioni
dei vecchi prefetti, ma anche a realizzare l’unità di comando
politico e amministrativo, come si espresse la stampa della
RSI. Con questa fusione non si veniva forse a riprodurre la
figura dei Gauleiter dell’ordinamento nazista, grazie ai quali
si operava la fusione a livello dell’amministrazione intermedia
tra struttura di partito e struttura dell’amministrazione? [...]
Il secondo nucleo della nazificazione sarebbe rappresentato
dal peso che nella RSI assunsero gli apparati del terrore
e l’uso della violenza, ben al di là dell’organizzazione
83
8 MAGGIO
poliziesca che già presiedette nel regime fascista al controllo
e alla repressione delle opposizioni e di ogni eventuale
manifestazione di dissenso o addirittura di non consenso.
In questo contesto non va inclusa soltanto la variegata
moltitudine delle polizie della RSI e la relativa autonomia
di cui godettero corpi armati, unità speciali e formazioni in
qualche misura autonoma, le varie bande Koch o Carità, le
Brigate Nere piuttosto che la X MAS: sarebbe da considerare
il complesso di un processo di militarizzazione che coinvolse
larghi settori della società, che incluse anche certamente la
militarizzazione dello stesso Partito fascista repubblicano, di
cui le Brigate nere furono per l’appunto il volto militarizzato
e militare. Ma in generale, la militarizzazione in questa
fase era il risvolto di una mobilitazione totale che prima
ancora che nella diffusione delle armi mirava a diffondere
negli animi sentimenti di antagonismo senza pietà e senza
quartiere. [...] Nella tensione tra vendicatori e conciliazionisti,
come potremmo definire le due posizioni principali che si
confrontarono nella Repubblica di Salò, a tenere in pugno la
situazione non furono certo i conciliazionisti, che facevano
appello alla concordia con grande spreco retorico; era l’ora
dell’estremismo e qualunque ne fosse l’ispirazione prima,
desiderio di vendetta, di purificazione o di espiazione, voglia
e necessità di competere con i tedeschi supplendo alla
mancanza di armamenti con un superiore tasso di violenza
spicciola, il carattere <<militante>> della RSI non poteva
che esprimersi attraverso il ricorso forsennato alle misure
più radicali. Polizie e unità militari della RSI furono solo
eccezionalmente impegnate sul fronte di combattimento
contro le forze regolari degli eserciti alleati; il terreno
privilegiato del loro impiego fu all’interno del territorio della
84
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
RSI, nell’azione antipartigiana in primo luogo ma anche
nel presidio del territorio, nelle guarnigioni delle città,
nella repressione di qualsiasi forma di opposizione, nelle
fabbriche e in altre situazioni. Furono a fianco dei tedeschi
come agenti esecutivi di operazioni promosse da questi, in
rastrellamenti, nelle <<rappresaglie>> o nelle deportazioni
o con essi collaborarono quando ebbero un minimo di
autonomia operativa. Ma ebbero una fondamentale
funzione intimidatrice nei confronti della generalità della
popolazione; interpretarono il tentativo di coinvolgere la
popolazione e di convogliarla sotto le bandiere della RSI
non con la persuasione ma con l’intimidazione. [...]
Infine, il peso crescente che l’antisemitismo acquista nella RSI
è un altro dei segni della nazificazione della quale parlavamo
prima. Sotto questo aspetto la lotta e la caccia agli ebrei
nella Repubblica di Salò non è il semplice prolungamento
cronologico della legislazione contro gli ebrei già emanata
dal regime fascista sin dal 1938. L’enfatizzazione in questa
fase della questione ebraica corrisponde all’accentuazione
dell’identificazione con l’Europa del Nuovo ordine di marca
nazista. [...] In questo senso, l’Europa è il nazismo, l’Europa
è il razzismo e specificamente il razzismo antiebraico,
l’Europa è l’antibolscevismo, l’Europa è l’antidemocrazie
plutocratiche, un’ Europa che sostanzialmente si definisce
per negazioni ma che alla fine si identifica puramente e
semplicemente con la Germania nazista. [...]
La riesumazione di un personaggio come Giovanni Preziosi,
decano degli antisemiti italiani, tra i quadri della RSI, chiamato
dal 15 marzo 1944 a dirigere l’Ispettorato generale per la
razza, non è un gesto meramente formale né può considerarsi
soltanto un atto di piaggeria nei confronti dei tedeschi. Nel
85
8 MAGGIO
contesto della RSI la rivitalizzazione della campagna contro
gli ebrei acquista un peso del tutto particolare. Se si ha in
mente fra l’altro il Manifesto di Verona del 14 novembre
1943, che in assenza di una costituzione della RSI assume
il valore di carta programmatica non solo del PFR, ma della
Repubblica di Salò nel suo complesso, la questione ebraica
assume il carattere di connotato costitutivo della RSI, ben oltre
la sempre sottesa e ricorrente polemica contro il complotto
massonico ed ebraico su cui si tenta di scaricare il fallimento
del regime fascista e la disfatta militare.
(E. Collotti, L’Europa nazista. Il progetto di un Nuovo ordine
europeo (1939-1945), Firenze, Giunti, 2002, pp. 412-417)
86
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
L’OSTENTAZIONE FASCISTA DELLA MORTE
I
l caos amministrativo e la difficoltà che provò la RSI a presentarsi come un potere legittimo e indiscusso si manifestarono
nella pluralità delle formazioni, che di fatto sottrassero allo Stato il monopolio della violenza legale. Ad un livello ancora più
elementare, tutto ciò si esprimeva nell’assoluta assenza di criteri
omogenei nell’uso delle uniformi. Pertanto, l’unico sistema per
imporre il potere divenne la violenza, che fece ampio ricorso al
terrore e alla pratica dell’ostentazione del cadavere del nemico.
A Robecco, un piccolo paese del Milanese, i maschi adulti
rastrellati casa per casa furono raccolti nella piazza dove
vennero scelti quelli da fucilare: <<Fu formato il plotone
d’esecuzione raccogliendo i fascisti più vicini. Qualcuno si
offrì subito, qualcun altro cercò di allontanarsi. Un giovane
fascista costrinse un altro più anziano di lui a far parte del
plotone, trascinandolo come se stessero andando al tiro a
segno… I fascisti, finito il loro compito entrarono nel bar
a bere. Uno di loro mangiando un panino si aggirava tra
i morti che furono lasciati, come ammonimento, fino a
sera>>. Stessa scena il 10 agosto 1944 a piazzale Loreto,
nella metropoli milanese. Quindici membri della Resistenza
furono fucilati da un plotone di esecuzione misto costituito
da arditi della Muti e da militi della GNR [= Guardia
Nazionale Repubblicana – n.d.r.]; terminato l’eccidio, i
tedeschi pretesero che i cadaveri non fossero rimossi. Con il
passare delle ore, scriveva a Mussolini il capo della Provincia,
Parini, <<cominciarono a transitare per il piazzale Loreto
gli operai che si recavano al lavoro e tutti si fermavano ad
osservare il mucchio di cadaveri che era raccapricciante
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8 MAGGIO
oltre ogni dire perché i cadaveri erano in tutte le posizioni,
cosparsi di terribili ferite e di sangue. Avvenivano scene di
spavento da parte di donne svenute e in tutti era evidente lo
sdegno e l’orrore>>. […]
La strategia ammonitiva in cui si collocano le pubbliche
esibizioni dei cadaveri dei nemici uccisi ritorna in quasi tutte
le guerre novecentesche, così come l’uso di quei corpi per
rinsaldare le file dei carnefici, farli sentire tutti complici oltre
che compagni d’arme. Ma per il fascismo di Salò c’è qualcosa
in più. Il tentativo della RSI di dotarsi di una propria forza
armata autonoma si era arenato in un marasmatico groviglio
logistico e operativo. Tronconi istituzionali, i ministeri sparsi
intorno al lago di Garda garantivano la pura sopravvivenza
amministrativa di un apparato statale. La Repubblica sociale
italiana aveva visto fallire quasi immediatamente i suoi
tentativi di dare credibilità anzitutto ai propri reparti militari.
I tedeschi si erano affermati come l’unico potere reale nel
territorio italiano formalmente repubblicano. Per il resto,
il moltiplicarsi di formazioni armate tutte apparentemente
legali (le Brigate Nere, la Guardia nazionale repubblicana,
la Decima Mas), la loro eterogeneità, la diversità dei loro
comportamenti, disintegravano gli stessi concetti di ordine e
legalità a cui la gente aveva sempre riferito i propri bisogni di
sicurezza. Scriveva Renzo Montagna, dal 6 ottobre 1944 capo
della polizia della RSI: <<Praticavano arresti e perquisizioni,
ciascuna per proprio conto, la Muti, la X Mas, le Brigate
Nere, la Guardia Nazionale Repubblicana, e le varie polizie
speciali: la Bernasconi, la Carità, la De Sanctis, la Finizio,
la Sicherheit, la Panfi, la Pennacchio. Era quasi impossibile,
quando qualcuno veniva arrestato, riuscire a sapere in mano
a chi fosse andato a finire e di conseguenza in quale prigione.
88
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
Il disordine derivante da questo stato di cose diventava, di
giorno in giorno, più preoccupante. Alcune di queste polizie,
poi, obbedivano unicamente ai tedeschi e non ne volevano
sapere di mantenere le proprie azioni nei limiti della legalità.
Ce n’era una, ad esempio, che requisiva quotidianamente a
Milano il maggior numero possibile di automobili e le portava
ai tedeschi che le pagavano metà del loro valore>>.
E Carlo Chevallard, dal suo Diario, da un versante politico del
tutto diverso, ribadiva lo stesso concetto: <<Torino, 8 luglio
1944. Un esempio caratteristico della confusione dei tempi
è lo studio delle uniformi dell’esercito repubblicano. Che
guazzabuglio! I militi della GNR (i successori dei carabinieri)
un po’ portano la camicia nera, un po’ no; parte fan servizio
in giacca, parte no. Una certa uniformità hanno i militi della
X Mas: basco da paracadutisti, uniforme in panno verde e
tela kaki con pantaloni lunghi. Per il resto il caos; legionari
della Muti colla giubba fatta con tela mimetica e con la testa
di morto sul berretto, legionari delle SS con le mostrine rosse,
e chi più ne ha più ne metta: militi in camicia nera e short
kaki, militi in camicia nera e pantaloni grigio-verdi…>>.
Questa dimensione scenografica della dissoluzione dello
Stato, della frantumazione della centralità delle istituzioni,
questa sua trasposizione in una sorta di recita teatrale […]
era il risvolto antropologico della disgregazione dello Stato
nazionale […]. Dalla frantumazione dello Stato, dalla sua forzata rinuncia
ad esercitare il monopolio legale della violenza e della
forza armata, fuoriuscì il magma di una violenza privata
incontrollata e incontrollabile. Fu questo lo scenario politico
da cui scaturì la scelta disperata ed efferata di trasferire
direttamente nei corpi dei nemici uccisi l’unico fondamento
89
8 MAGGIO
della propria credibilità istituzionale e della propria autorità
statuale. Se la spontaneità della folla rivoluzionaria infierisce
sulle sue vittime per sancire la nascita del nuovo potere, il
vecchio potere usa le sue pratiche in un disperato tentativo
di protrarre la sua esistenza: gli impiccati devono rimanere
penzolanti, i fucilati insepolti, perché alla sua autorità resta solo
il linguaggio della brutalità, come unico fondamento la paura
della morte e la violenza sui corpi nemici. La legittimazione
della RSI, dapprima tentata invano attraverso la ricostruzione
di un esercito appena decente, fu quindi inseguita, alla fine,
nei corpi esposti ed esibiti dei nemici uccisi.
(G. De Luna, Il corpo del nemico ucciso. Violenza e morte nella
guerra contemporanea, Torino, Einaudi, 2006, pp. 155-160)
90
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
La svolta di Salerno
I
l 9 settembre 1943, gli angloamericani sbarcarono a Salerno. I tedeschi, tuttavia, riuscirono ad organizzare un’efficacissima resistenza sulla cosiddetta Linea Gustav, all’altezza dei fiumi Garigliano e Sangro. Neppure un altro sbarco,
nella zona di Anzio (22 gennaio 1944), riuscì a sbloccare la
situazione. Per diversi mesi, l’area in cui si svolsero i combattimenti più violenti fu quella delle alture di Monte Cassino,
nella regione in cui sorgeva la celebre abbazia benedettina,
che fu bombardata e andò completamente distrutta. Solo nel
maggio 1944 i tedeschi furono obbligati a ritirarsi verso nord,
permettendo la liberazione di Roma (4 giugno 1944).
Qualche mese prima, nella capitale i nazisti avevano attuato
la spietata operazione delle Fosse Ardeatine, nel corso della
quale furono uccise 335 persone (scelte tra gli antifascisti e gli
ebrei reclusi nelle carceri romane), in risposta ad un attentato compiuto in via Rasella, nel corso del quale morirono 33
soldati tedeschi (23 marzo 1944). Fin dall’epoca della guerra,
l’episodio di via Rasella, è stato oggetto di violenti polemiche,
a partire dai militi scelti come bersaglio: non si trattava infatti di
SS o di fascisti noti per la loro brutalità, bensì di reclute del III
reggimento di polizia Bozen; a rigore, dunque, non si trattava
neppure di tedeschi, ma di altoatesini, da poco arruolati nelle
file delle forze armate del Terzo Reich. Probabilmente, la scelta
degli attentatori cadde su quel particolare reparto perché era
un bersaglio facile, per quanto privo di speciali valenze politiche o militari.
Una seconda questione spinosa riguarda il fatto che i nazisti
avevano già effettuato alcune rappresaglie in proporzione di
dieci italiani fucilati, per ciascun morto tedesco; gli attentatori
quindi erano consapevoli delle possibili conseguenze del loro
gesto. Del resto, già all’epoca, osservatori maligni rilevarono
91
8 MAGGIO
che l’attentato fu compiuto quando nelle carceri romane non
era rinchiuso alcun comunista. In effetti, gli attentatori di via
Rasella appartenevano ai cosiddetti Gap (Gruppi di azione patriottica), che ricevevano ordini direttamente dal PCI ed erano
una specie di suo corpo armato scelto. Lo scopo di questa organizzazione partigiana d’élite era di compiere azioni clamorose, che spargessero il terrore tra le file dei tedeschi e dei fascisti;
inoltre, per la loro audacia e la precisione con cui erano organizzati, gli attentati dei Gap dovevano offrire, del movimento di
resistenza, un’immagine di forza e di potenza, capace di scuotere gli animi degli italiani indecisi o perplessi. Il prezzo di tali
azioni, però, era molto alto, in termini etici, sia perché esse provocavano durissime rappresaglie, sia per gli obiettivi prescelti. Liberato dagli Alleati nel giro di pochi mesi, il Sud della Penisola non conobbe un vero e proprio movimento di resistenza; la
grande insurrezione di Napoli (28 settembre/1 ottobre 1943) ad esempio - fu una sorta di spontanea reazione popolare alla
sistematica distruzione della città compiuta dai tedeschi in ritirata, più che il frutto di un progetto politico preciso e meditato.
Al Sud, i leader dei diversi partiti, usciti dalla clandestinità dopo
il 25 luglio, si trovarono a dover subito affrontare, i problemi
politici che, a livello nazionale, si sarebbero posti solo dopo
la fine della guerra. In particolare, si pose come più urgente di
tutte la questione della legittimità (morale, prima ancora che
politica) della collaborazione con la monarchia, pesantemente
compromessa, negli anni passati, col fascismo. Certo, il re aveva provocato la fine del regime il 25 luglio 1943 e il governo
Badoglio aveva proceduto, il 13 ottobre, a dichiarare guerra
alla Germania; tuttavia, nel Sud liberato, i partiti antifascisti
continuavano a diffidare del sovrano, o meglio ancora a ritenere che fosse suo dovere uscire completamente dalla scena
politica.
92
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
Su questo punto insisteva soprattutto il Partito d’Azione, che era
nato ufficialmente nel luglio del 1942, ma costituiva lo sviluppo
evolutivo del movimento Giustizia e Libertà, fondato in Francia,
nel 1929, da Carlo Rosselli (poi assassinato da sicari fascisti,
insieme al fratello Nello, il 9 giugno 1937), da Emilio Lussu
e da altri intellettuali democratici ostili alla dittatura. Dopo la
caduta di Mussolini, il Partito d’Azione assunse una posizione di
rigida intransigenza, mostrando la volontà di rompere radicalmente non solo con il fascismo, ma anche con tutti quei soggetti
politici e sociali che col fascismo stesso erano scesi a patti: la
grande borghesia, i quadri dirigenti dell’esercito, la magistratura e naturalmente, al primo posto, la monarchia.
Partiti più moderati come la Democrazia Cristiana (risorta dalle
ceneri del Partito Popolare Italiano) e i liberali avrebbero accettato di dialogare con il re e Badoglio, ma gli azionisti (sostenuti
dai socialisti e dai dirigenti comunisti attivi sul territorio nazionale) continuavano ad opporsi in modo categorico. La situazione,
che sembrò a lungo senza sbocco, si mise in movimento solo
nella primavera del 1944, quando l’URSS e il partito comunista italiano presero alcune iniziative clamorose e spiazzarono le
altre forze antifasciste, obbligandole ad adeguarsi al loro indirizzo. Il 4 marzo, un diplomatico sovietico fu inviato a Salerno,
dove il governo si era trasferito, e comunicò a Badoglio che
l’URSS era disponibile e pronta a riprendere rapporti ufficiali
con l’Italia; lo stesso giorno, a Mosca, Stalin convocò il più prestigioso leader comunista italiano presente in Russia, Palmiro
Togliatti, e gli diede precise istruzioni, in vista del suo imminente
ritorno in patria.
Subito dopo il suo arrivo in Italia (27 marzo) Togliatti dichiarò a Salerno, sede provvisoria del governo, che il suo partito
era disposto a partecipare ad un esecutivo di unità nazionale,
rinviando la soluzione della questione istituzionale (= mantenimento della monarchia o instaurazione della repubblica) al
93
8 MAGGIO
periodo successivo alla vittoria. Il nuovo governo Badoglio (con
la partecipazione di sei partiti antifascisti) nacque il 24 aprile
1944 e durò fino alla liberazione di Roma (4 giugno 1944).
A quel punto, mentre Vittorio Emanuele III accettò di nominare
come luogotenente del regno il proprio figlio Umberto, si ebbe
la formazione di un ulteriore governo, aperto a tutte le formazioni politiche antifasciste, presieduto dall’anziano leader del
socialismo riformista Ivanoe Bonomi.
94
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
LA LINEA POLITICA DI TOGLIATTI NEL 1943
L
a cosiddetta svolta di Salerno non fu un’iniziativa autonoma
di Togliatti. I nuovi documenti emersi dagli archivi sovietici mostrano che si trattò di una precisa scelta di Stalin (che
infatti, in novembre, diede indicazioni simili anche ai comunisti francesi), finalizzata a sostenere l’autonomia e il potere
contrattuale del debole Stato italiano, nei suoi rapporti con
gli angloamericani, e a rafforzare in Italia, il peso del partito
comunista, che grazie alla nuova linea politica riuscì ad entrare nell’esecutivo.
In quel periodo [= nelle prime caotiche settimane seguenti la
caduta del fascismo, il 25 luglio 1943 – n.d.r.] Togliatti richiese
ripetutamente alla leadership sovietica l’autorizzazione a
rientrare in Italia, dove, come scrisse in una lettera a Dimitrov
[= segretario del Comintern, l’Internazionale comunista –
n.d.r.] del 14 ottobre 1943, la sua azione avrebbe potuto
essere utile a evitare che i comunisti <<respingano un invito
di Badoglio, se noi non eserciteremo una pressione in forma
adeguata>>. Questo atteggiamento di disponibilità nei
confronti di Badoglio era condiviso anche dagli altri partiti
del fronte antifascista. Dopo i disastrosi avvenimenti seguiti
all’annuncio dell’armistizio, con la fuga del re e del governo
da Roma e la dissoluzione dell’esercito, i partiti antifascisti
riuniti nel CLN avrebbero però assunto una posizione di
netta intransigenza nei confronti della monarchia e del
governo Badoglio. Questa linea, enunciata nell’ordine del
giorno del 16 ottobre del 1943, sarebbe poi culminata nella
richiesta di abdicazione del re nel convegno dei CLN [=
Comitati di Liberazione Nazionale, n.d.r.] riuniti a Bari nel
95
8 MAGGIO
gennaio 1944. Togliatti invece fino al dicembre del 1943, in
pieno accordo con la linea generale del governo sovietico e
del Comintern, insistette sulla necessità della formazione di
un governo nazionale provvisorio con la partecipazione dei
comunisti con il compito di liquidare il fascismo e preparare
la soluzione della questione del prossimo regime in Italia. A
metà dicembre Togliatti cambiò nettamente posizione. Come
sostenne in una trasmissione alla radio per l’Italia: <<È
giusto chiedere che il re attuale, complice di Mussolini e di
tutti i suoi delitti, sia allontanato come ostacolo insuperabile
all’unità della nazione>>. […]
Gli eventi in Italia si susseguirono con tanta rapidità che
i comunisti locali dovettero agire per conto proprio senza
avere direttive precise da Mosca. Il 20 gennaio Badoglio
invitò Reale e Spano a colloquio proponendo loro di entrare
nel governo. Dopo aver appreso da Badoglio che il re non
intendeva abdicare, i rappresentanti comunisti respinsero la
sua proposta con la giustificazione che <<la permanenza
sul trono del re fascista universalmente disprezzato dal
popolo frustrerebbe sin dall’inizio ogni tentativo patriottico
di un qualsiasi governo, il quale avrebbe oggi perduto,
per il fatto stesso di collaborare con Vittorio Emanuele,
ogni autorità>>. […] Nel febbraio 1944 Togliatti, in vista
della sua imminente partenza per l’Italia, […] scrisse:
<<Partendo dalla risoluzione della Conferenza di Mosca e
in unione con gli altri partiti antifascisti, i comunisti chiedono
la costituzione di un governo democratico provvisorio,
al fine di organizzare e dirigere gli sforzi di guerra del
Paese… Essi chiedono l’abdicazione del re, in quanto
complice della costituzione del regime fascista e di tutti i
crimini di Mussolini, e in quanto centro di unificazione, nel
96
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
momento attuale, di tutte le forze reazionarie, semifasciste
e fasciste che oppongono resistenza alla democratizzazione
del Paese e coscientemente sabotano gli sforzi di guerra
dell’Italia. In considerazione di ciò, i comunisti (benché
in caso di abdicazione del re possano consentire alla
reggenza temporanea del maresciallo Badoglio) rifiutano di
partecipare all’attuale governo e denunciano nella politica
di questo governo un ostacolo a una vera partecipazione
del popolo italiano alla guerra contro la Germania>>. […]
La notte del 4 marzo Togliatti fu ricevuto da Stalin in
presenza di Molotov e Vyshinsky [= il ministro degli
Esteri dell’URSS e un alto funzionario che si occupava
anch’egli di relazioni internazionali – n.d.r.]. Il verbale
del colloquio Stalin-Togliatti, che durò soltanto 45 minuti,
non è ancora emerso dagli archivi, ma il suo contenuto
è noto dal diario di Dimitrov, il quale fu subito informato
delle direttive staliniane telefonicamente da Molotov e il
giorno seguente dallo stesso Togliatti, che si recò da lui per
riferirgli dettagliatamente le direttive staliniane. Durante il
colloquio Stalin rifiutò nettamente tutta l’argomentazione di
Togliatti e di Dimitrov, i quali presentavano l’Italia come un
caso speciale, in cui sarebbe stato opportuno per i partiti
antifascisti creare un governo alternativo antimonarchico
e senza la partecipazione di figure politiche compromesse
con il regime fascista. Stalin suggerì, invece, che il PCI
abbandonasse per il momento la richiesta dell’abdicazione
del re ed entrasse nel governo Badoglio. […] Rovesciando
la linea politica suggerita da Togliatti e da Dimitrov, Stalin
sostenne che entrando nel governo Badoglio i comunisti
avrebbero potuto svolgere il ruolo di forza principale per
<<attuare la democratizzazione del paese e realizzare
97
8 MAGGIO
l’unità del popolo italiano>>. […] Stalin non prestava
alcuna attenzione all’opinione dei partiti antifascisti italiani,
tanto da non capire la loro ostilità verso Badoglio.
Il successo di Togliatti nel rovesciare la linea politica del
PCI e degli altri partiti antifascisti sulla questione della
collaborazione con la monarchia, convincendoli ad entrare
nel governo di coalizione capeggiato da Badoglio, fu dovuto
sia all’effetto del riconoscimento del governo Badoglio
da parte sovietica sia all’enorme autorità personale di
Togliatti, arrivato da Mosca come l’indiscusso leader del
PCI. L’influenza del PCI a sua volta derivava in gran parte
dalle vittorie dell’Armata rossa e dall’aura di irresistibile,
sconvolgente, imponente successo che il compiersi storico del
comunismo in Unione Sovietica riverberava sull’immagine di
potenza dei comunisti italiani. Nonostante le forti resistenze
di diversi dirigenti del PCI e soprattutto del partito d’Azione,
che fino alla fine cercò di contrastare l’iniziativa togliattiana,
minacciando di rimanere fuori dalla nuova compagine, il
24 aprile 1944 nasceva il nuovo governo Badoglio con la
partecipazione dei sei partiti antifascisti del CLN.
(E.A. Rossi – V. Zaslavsky, Togliatti e Stalin. Il PCI e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca, Bologna, Il Mulino,
2007, pp. 68-75)
98
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
Le violenze contro i civili
N
el corso degli anni 1943-1945, la guerra in Italia andò
assumendo un carattere sempre più brutale e barbaro:
non si limitò ad essere un conflitto durissimo per gli eserciti che lo combattevano, ma coinvolse in modo crescente la
popolazione civile, oggetto di una serie di eccidi da parte dei
tedeschi, che nel complesso provocarono 10-15.000 vittime.
Tali violenze non furono compiute solo ed esclusivamente
dalle SS; anzi, la maggioranza delle stragi fu commessa da
soggetti ordinari, da uomini comuni, cioè da normali soldati,
inquadrati nell’esercito o addirittura nell’aviazione.
Nella deposizione volontaria che rese agli Alleati il l5 marzo
1946, il generale Frido von Senger und Etterlin (del 14° Corpo
d’Armata) pose l’accento sulle durissime condizioni di vita dei
soldati: sempre affamati, costantemente in prima linea senza
possibilità di ricambio, soggetti a perdite micidiali. Secondo il
generale, tutto ciò spinse a livelli elevatissimi l’aggressività della
truppa, che poi scaricò la propria rabbia sui civili: <<Con lo
sfondamento degli Alleati e la ritirata delle forze tedesche verso
l’Arno, - scrive Frido von Senger und Etterlin, descrivendo la
situazione venutasi a creare nella tarda estate del 1944 - i partigiani iniziarono a comparire nelle retrovie delle truppe tedesche. Sulle montagne in particolare e nelle zone boscose, essi
dominavano interi distretti costituendo un serio pericolo per la
condotta della guerra; erano difficili da combattere in quanto
non facevano parte di una organizzazione militare, non avevano insegne o distintivi militari e nel corso del combattimento
si ritiravano sulle montagne o si facevano passare da cittadini
inermi. La furia delle truppe, che erano completamente disarmate contro i partigiani, si riversò contro l’intera popolazione
civile delle aree da loro controllate, la quale volontariamente o
involontariamente li assisteva>>.
99
8 MAGGIO
Un’interpretazione di questo genere è molto riduttiva, cioè finisce per minimizzare gli eccidi (ridotti a occasionali e disordinate
esplosioni di violenza, nate dal basso) e rischia di tralasciare le
responsabilità di vertice e gli ordini superiori. In effetti, mentre
liquida come episodi sporadici e occasionali le stragi di civili,
è lo stesso generale von Senger und Etterlin ad ammettere che
<<purtroppo le truppe erano anche incoraggiate dagli ordini
dell’Alto Comando, che permettevano in qualche modo che venissero compiuti eccessi nei confronti della popolazione civile, o
da altre autorità che esigevano le più severe misure allo scopo
di eliminare sul nascere ogni possibile pericolo per il Comando
tedesco e le sue truppe>>.
Le prime direttive che contemplavano in modo esplicito l’uccisione dei civili (anche di donne, ragazze e bambini), qualora
fossero sospettati di aver svolto azioni di spionaggio, oppure,
più semplicemente, di aver sostenuto in un modo qualsiasi i
partigiani, furono emanate in Russia. Sul fronte orientale, si venne a creare un vero e proprio stile - cioè una precisa modalità
di concepire e condurre la lotta contro i partigiani - secondo cui
non esistevano più limiti o remore nelle azioni che si potevano
condurre contro la popolazione civile, disprezzata sotto il profilo
razziale e quindi privata di qualsiasi diritto umano.
Col passar del tempo, lo stile elaborato in Unione Sovietica
venne esportato in altri contesti, a cominciare dalla Serbia,
considerata un territorio abitato da sottouomini slavi non molto
diversi dai russi. Già nell’ottobre 1941, la Wehrmacht fucilò a
Kraljevo nell’arco di una settimana circa 4.000 civili; poco più
tardi, a Kragujevac, vennero uccisi 2.300 serbi. Era l’inizio di
una politica violenta che avrebbe provocato la morte di almeno 20.000 serbi, solo nel periodo settembre 1941 – febbraio
1942. Basata sul principio della superiorità razziale e pienamente legittimata (per non dire incentivata) dalle autorità militari
e politiche, tale sistema era finalizzato a pacificare con qualun-
100
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
que mezzo una terra destinata esclusivamente (come la Russia)
a fornire risorse e manodopera servile alla razza padrona.
Con più cautela e gradualità, invece, il modello elaborato a Est
fu trasferito in un territorio occidentale (ariano, in un’ottica nazista) come la Francia, che in effetti subì gravi eccidi solo dopo
lo sbarco alleato in Normandia (si pensi, innanzi tutto, ai 634
abitanti di Oradour-sur-Glane, assassinati il 10 giugno 1944).
A partire dal settembre 1943, il modello orientale approdò anche in Italia. La prima strage compiuta dai nazisti venne operata
a Boves, in provincia di Cuneo, il 19 settembre, allorché vennero uccise 25 persone e incendiate 350 case; non a caso, il
reparto che entrò in azione (il 3° battaglione, comandato dallo
SS-Sturmbannführer Joachim Peiper) apparteneva alla divisione corazzata Leibstandarte-SS Adolf Hitler (Guardia del corpo
di Adolf Hitler), un’unità d’élite composta da nazisti convinti,
appena trasferita dal fronte russo. Della stessa divisione faceva
parte anche i1 1° battaglione, l’unità che, tra il 21 e il 22 settembre, procedette all’uccisione di alcune decine di ebrei sulla
sponda occidentale del Lago Maggiore. In queste prime azioni commesse in Italia settentrionale (e nell’eccidio verificatosi
a Caiazzo, sul Volturno, il 13 ottobre 1943: furono uccisi 22
civili, accusati di aver fatto segnali luminosi al nemico) ci fu un
ampio margine di improvvisazione e di autonomia, da parte dei
comandanti. Anzi, si potrebbe quasi parlare di automatismo, di
applicazione meccanica di tecniche di repressione che, in passato, erano già state direttamente messe in atto in Russia da chi
stava compiendo il crimine in Italia, oppure erano state interiorizzate e accettate come del tutto normali da un gran numero di
soldati e, soprattutto, di ufficiali.Del resto, fra soldati e ufficiali,
andava diffondendosi a tutti i livelli un sempre più accentuato
disprezzo di tipo razziale nei confronti degli italiani, declassati
al rango di popolo inferiore, privo delle perfette qualità tipiche
degli ariani. Tale processo era iniziato già prima della disfatta
101
8 MAGGIO
del 1943 e trovava le proprie ragioni nelle continue sconfitte
subite dagli italiani, in Grecia prima, in Africa poi. Rafforzati ed
esasperati dal tradimento dell’8 settembre, i giudizi sprezzanti
finirono per trasformare i civili italiani in sottouomini che era
del tutto lecito assassinare, ripetendo alla lettera il modello elaborato in Europa orientale.
102
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
BARBARIE E CRIMINI DI GUERRA SUL FRONTE
ORIENTALE
L
o storico tedesco O. Bartov ha studiato in modo specifico il
comportamento dell’esercito tedesco sul fronte russo. A suo
giudizio, le condizioni estreme in cui i soldati si trovarono ad
operare e la durezza dello scontro in atto non sono sufficienti
a spiegare le violenze condotte in modo brutale e sistematico
contro i civili. A suo giudizio, la maggior parte degli ufficiali
e moltissimi soldati avevano di fatto recepito e interiorizzato i
principi razzisti tipici dell’ideologia nazista.
L’imbarbarimento della condotta di guerra sul fronte
orientale fu il risultato dell’interrelazione fra diversi fattori,
come la brutalità dei combattimenti, le dure condizioni
di vita al fronte, l’inclinazione verso l’ideologia nazista
mostrata dagli ufficiali subalterni – e probabilmente da
molti soldati – e il continuo indottrinamento politico delle
truppe. Tuttavia la causa più diretta delle attività criminali
dell’esercito tedesco sul fronte orientale e della barbarie
mostrata dai singoli soldati fu l’emanazione dei cosiddetti
<<ordini criminali>>. Questo complesso di disposizioni
impartite dall’Okw [Oberkommando des Wehrmacht
= Comando supremo delle Forze Armate – n.d.r. ] e
dall’Okh [Oberkommando des Heers = Comando supremo
dell’esercito – n.d.r.] alla vigilia dell’invasione dell’Unione
Sovietica influenzò in larga misura la condotta brutale delle
truppe al fronte, offrendo una sorta di cornice disciplinare e
di pseudolegalità.
Gli <<ordini criminali>> erano composti da quattro gruppi
di istruzioni:
103
8 MAGGIO
1. Disposizioni relative alle attività delle Einsatzgruppen
delle SS e dell’SD, che consentivano a queste squadre
di assassini di operare in relativa libertà nelle aree
controllate dalle armate, sotto il comando diretto di
Reinhard Heydrich.
2. La Einschränkung der Kriegsgerichtsbarkeit (limitazione
della giurisdizione militare), che permetteva all’esercito
di fucilare i partigiani e i civili sospettati di prestare
loro aiuto, prescrivendo, nel caso non si trovassero
dei colpevoli, di prendere misure collettive contro la
popolazione civile della zona.
3. Il Kommissarbefehl (ordine sui commissari) che
stabiliva l’immediata fucilazione dei commissari politici
dell’Armata Rossa catturati dalle truppe.
4. Le <<Linee guida per la condotta delle truppe in
Russia>>, che ordinavano di agire senza pietà contro
<<agitatori bolscevichi, partigiani, sabotatori ed
ebrei>>, mirando alla completa eliminazione di ogni
forma di resistenza attiva o passiva.
5. Gli <<ordini criminali>> pervennero a tutte le unità
tedesche alla vigilia dell’invasione. [...]
La 12 ª Divisione di Fanteria emanò un primo ordine relativo
al trattamento dei partigiani il giorno stesso dell’invasione.
Esso non ammetteva alcuna flessibilità rispetto alle istruzioni
dell’Okh: i partigiani non sarebbero stati trattati come
prigionieri di guerra, bensì <<giustiziati sul posto da un
ufficiale>>. Il 31 luglio 1941 la 16 ª Armata comunicò
alle proprie unità che i <<battaglioni di irregolari>>
che si formavano dietro il fronte e che non avessero
ottemperato esattamente alle leggi di guerra per quanto
104
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
concerneva abbigliamento, armi e mezzi di identificazione,
sarebbero stati trattati come partigiani, che si trattasse o
meno di soldati; i civili che avessero dato loro assistenza
sarebbero stati trattati nello stesso modo. In questo
contesto l’espressione <<trattati come partigiani>> era
un eufemismo che significava semplicemente morte per
fucilazione o impiccagione. Lo stesso ordine venne emanato
anche dalla 18 ª Divisione Corazzata il 4 agosto 1941. Ciò
significava, naturalmente, che se una formazione partigiana
fosse entrata in un villaggio e si fosse procurata da sé gli
approvvigionamenti necessari, i tedeschi avrebbero visto
ciò come collaborazione coi partigiani e, per rappresaglia,
avrebbero distrutto il villaggio e ucciso i suoi abitanti. E
in effetti il 30 gennaio 1942 la 12 ª Divisione di Fanteria
riferiva che in seguito a un incidente in cui alcune delle sue
slitte erano finite su delle mine nei pressi del villaggio di
Nov. Ladomery l’intera popolazione maschile dell’abitato
era stata fucilata e le case bruciate come <<misura
collettiva>>. [...]
Di quando in quando venivano effettuate operazioni su
vasta scala contro le <<zone partigiane>>, con terribili
conseguenze per la popolazione. Fra il 19 novembre
e il 5 dicembre 1941 unità del II Corpo entrarono in
azione nell’area del lago di Polisto, uccidendo 250
<<partigiani>>, distruggendo quindici <<campi>> e
dando alle fiamme sedici villaggi, portando via bestiame
e cavalli e distruggendo le scorte di cibo; i tedeschi ebbero
solo sei morti e otto feriti, tutti in seguito a un’unica
imboscata tesa dai partigiani nella zona delle operazioni.
Queste <<purghe>> ebbero come unico effetto quello di
ingrossare le file delle formazioni partigiane, dando ulteriore
105
8 MAGGIO
impulso al circolo vizioso iniziato dall’esercito tedesco. La
sua politica, tuttavia, non cambiò, e il 31 gennaio 1942 il
comandante del Gruppo di Armate Nord emanò l’ordine
seguente: <<Il recente risveglio delle attività partigiane
nelle retrovie [...] insieme alle battaglie al fronte, richiedono
un’azione da intraprendere [...] con la massima risolutezza.
I partigiani devono essere distrutti laddove fanno la loro
comparsa, se i loro nascondigli (cioè i villaggi) non siano
necessari all’alloggiamento delle truppe>>.
(O. Bartov, Fronte orientale. Le truppe tedesche e l’imbarbarimento della guerra (1941-1945), Bologna, Il Mulino, 2003,
pp. 131-132 e 146-150. Traduzione di F. Degli Esposti)
LA LEGITTIMAZIONE DELLE VIOLENZE CONTRO I
CIVILI
A
nche Lutz Klinkhammer ha messo in evidenza il ruolo delle
autorità militari, che con i loro ordini di fatto lasciarono liberi i propri subalterni di agire senza alcun riguardo nei
confronti dei civili. Di fatto, a completa discrezione dei singoli
ufficiali, era possibile uccidere civili o distruggere villaggi, in
tutti i casi in cui ciò fosse ritenuto opportuno per garantire la
sicurezza delle truppe e il completo controllo del territorio.
Con l’occupazione tedesca dell’Italia entrarono teoricamente
in vigore alcuni ordini generali per la repressione del
movimento partigiano che erano stati emanati per un
106
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
contesto politico-militare diverso: la guerra di sterminio nei
paesi dell’Europa dell’Est e del Sud-est. La più importante
disposizione fu la <<direttiva di combattimento per la
lotta contro le bande nell’Est>>, [dell’11 novembre 1942
– n.d.r.] che viene spesso indicata come Merkblatt 69/1.
Questo <<foglio d’istruzioni>> entrò in vigore in Italia a
partire dal 28 novembre 1943 nell’ambito della 14ª armata,
mentre è da supporre che fosse stato introdotto nell’ambito
della 10ª armata già con l’8 settembre.
L’uccisione dei civili, anche di donne, ragazze e bambini,
era in queste <<direttive>> espressamente contemplata.
Al numero 84 della direttiva si diceva che di norma i
partigiani catturati dopo un breve interrogatorio dovevano
essere fucilati sul posto: <<Ogni comandante di un reparto
è responsabile del fatto che banditi e civili catturati nel corso
di azioni di combattimento (anche donne), vengano fucilati
o, meglio, impiccati>>. E al numero 85 si aggiungeva
inoltre: <<Chiunque sostenga le bande, offrendo rifugio
o alimenti, tenendo segreto il luogo dove si nascondono
o in qualsiasi altro modo, merita la morte>>. Anche il
contenuto del numero 110 era indicativo: <<La truppa deve
continuamente essere istruita sulla prudenza necessaria nei
confronti di tutti i Russi. In particolare si deve richiamare
l’attenzione sul fatto che i banditi spesso utilizzano donne,
ragazze e bambini come spie; chi viene scoperto nel far
questo deve essere eliminato immediatamente>>.
In modo esplicito si aggiungeva che queste <<direttive
di combattimento>> non erano <<né una disposizione
permanente, né uno schema>>: <<come nessun altro tipo
di combattimento la lotta contro le bande richiede duttilità
e capacità di adattamento alle singole situazioni>>, ciò
107
8 MAGGIO
significa che le direttive non ordinavano una determinata
procedura in modo perentorio bensì legittimavano
esplicitamente una procedura spietata, senza tuttavia
richiederla in modo vincolante a tutti i membri della
Wehrmacht; ma tutte le unità militari poterono richiamarsi a
questa disposizione per giustificare a posteriori un eccidio.
[...]
Per quanto concerneva la lotta antipartigiana, la disposizione
che prevedeva l’istituzione di un processo sommario
davanti a una corte marziale, richiesta dall’ordinamento
speciale, fu esplicitamente dichiarata non in vigore,
superflua, dalla <<direttiva di combattimento per la lotta
contro le bande nell’Est>> (Merkblatt 69/1 ); perciò fu
evidente per i comandanti operativi che il vertice militare
richiedeva un’esecuzione immediata e sommaria di tutti
i <<banditi>>. Per poter avanzare un’accusa di questo
genere era spesso sufficiente l’apparenza o il semplice
sospetto. Un comandante di battaglione o di compagnia
aveva il potere di stabilire chi, essendo un <<bandito >>,
poteva essere ucciso. [...]
Di regola né i superiori militari, né la giustizia della
Wehrmacht si occuparono di appurare se i civili italiani uccisi
da soldati tedeschi avessero veramente commesso le azioni
considerate <<criminali>>. Perché si evitasse un’indagine
era sufficiente che nel rapporto figurasse un’accusa
adeguata e l’affermazione che i civili erano stati uccisi per
reati di spionaggio o per comportamento da franco tiratore;
al massimo venivano avviate indagini se c’era il fondato
sospetto di un delitto privato (ad esempio delitti contro la
proprietà o casi di violenza carnale con esito mortale).
Le direttive del Merkblatt 69/1 rappresentavano una
108
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
minaccia mortale per i civili dei paesi occupati: soprattutto
quando a soldati tedeschi disposti a uccidere veniva il
seppur minimo sospetto di attività rivolte contro le truppe
tedesche – e un simile sospetto nei soldati tedeschi sorse
sempre nei casi di attentato.
(L. Klinkhammer, Stragi naziste in Italia. La guerra contro i civili
(1943-1945), Roma, Donzelli, 1997, pp. 51-52)
LE MOTIVAZIONI DEL COMPORTAMENTO DELLE
TRUPPE TEDESCHE VERSO GLI ITALIANI
N
ella sua ricostruzione delle stragi naziste in Italia, lo storico tedesco Gherard Schreiber ha insistito soprattutto
sulle motivazioni razziali che hanno mosso all’azione ufficiali
e soldati. Ai loro occhi, gli italiani erano un popolo inferiore,
composto da sottouomini non molto diversi dagli slavi. Quindi, verso di loro era lecito qualsiasi azione, comprese quelle
più brutali e violente.
Per quanto riguarda i circa 7.000 militari e gli oltre 9.000
civili italiani assassinati, fra cui vi furono almeno 580
bambini innocenti di età inferiore ai quattordici anni, è
stato dimostrato che essi non caddero vittime della violenza
nazista solo per motivi legati a una particolare situazione
storica. La spiegazione del perché toccò loro un simile destino
va piuttosto ricercata nella concomitanza di vari fattori, che
complessivamente fecero venir meno il rispetto per ogni vita
109
8 MAGGIO
umana che non fosse tedesca. In ciò si concretizzò un’affinità
mentale dei colpevoli con l’ideologia nazionalsocialista, di
cui essi introiettarono una visione dell’uomo improntata al
razzismo.
In altre parole, la convinzione di appartenere a una razza
superiore, diffusa non soltanto fra le massime autorità
dello Stato nazionalsocialista, influenzò in maniera molto
sfavorevole l’atteggiamento verso la popolazione italiana
e fece sì che nei confronti di quest’ultima si scatenasse
quotidianamente un razzismo sconsiderato che, pur
avendo contorni molto vaghi, era ampiamente diffuso,
profondamente radicato e facile da innescare. Spesso tale
sentimento veniva poi esacerbato dall’odio che insorgeva
nelle situazioni concrete.
Di sicuro non si trattò di un razzismo paragonabile a quello
che causò lo sterminio degli ebrei, bensì di un atteggiamento
razzistico che aveva come scopo il declassamento di una
nazione. Dopo l’uscita dell’Italia dalla guerra, questa
disposizione ideologica contribuì ad un abbassamento
della soglia degli scrupoli morali nella pratica della tortura
o addirittura dell’omicidio nei confronti degli italiani, e
falciò migliaia di vite umane. Le relazioni tra tedeschi e
italiani furono all’epoca, in buona sostanza, quelle tra un
Herrenvolk [= popolo di signori – n.d.r.] e uno Sklavenvolk
[= popolo di schiavi – n.d.r].
Quel razzismo è, a nostro avviso, la chiave di volta per
comprendere e spiegare in modo adeguato perché la
Wehrmacht, le SS e la polizia reagirono con rappresaglie
sproporzionate, e più precisamente con stragi, alla Resistenza
italiana. L’ideologia razzista non costituisce tuttavia l’unico
fattore che può rendere ragione del comportamento
110
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
inumano delle forze armate tedesche in Italia. Dobbiamo
anche considerare la particolare mentalità degli uomini
in guerra, giacché l’incombente e costante presenza della
morte induce in molti soldati una profonda indifferenza
morale. [...] Là dove la morte diventa la norma o una
costante eventualità, la propria vita e quella degli altri perde
di stima, rispetto e di valore. Ma ciò vale, probabilmente,
per quasi tutti gli uomini in guerra.
Particolarità germaniche che possono spiegare gran parte
di quello che è successo tra tedeschi e italiani dopo l’8
settembre 1943 sono invece l’indottrinamento delle truppe
con idee contrarie al diritto internazionale, la tendenza
tradizionale delle autorità militari a combattere una mentalità
umanitaria che veniva considerata inconciliabile con la
cosiddetta <<necessità bellica>> e con il <<carattere
peculiare>> della guerra. […]
Nella seconda guerra mondiale un ulteriore elemento per
la spiegazione dell’atteggiamento dei militari tedeschi viene
offerto dall’ideale del <<soldato politico>>: un soldato
della Wehrmacht (e non solo delle SS, come qualcuno ha
supposto erroneamente) che si identifica con l’ideologia
nazista e gli obiettivi politici del regime. A questo scopo fu
inculcato nei militari il dogma dell’indissolubile unità tra il
popolo, la razza e lo Stato, L’idea della comunanza di sangue
e di destino di tutti i tedeschi doveva diventare il fondamento
dell’agire personale. Come abbiamo dimostrato, fu questa
una delle principali richieste delle autorità militari tedesche
nel teatro di guerra italiano. Infatti, per la Wehrmacht la
seconda guerra mondiale diventò sempre più, anche in
Italia, una guerra essenzialmente nazionalsocialista.
Si deve inoltre accennare al fondamentale principio di ordine
111
8 MAGGIO
e ubbidienza proprio della vita militare, che sicuramente
favorisce un indebolimento del senso di responsabilità
individuale. E non c’è dubbio che le direttive criminose
emanate dal comando supremo della Wehrmacht, nonché
gli ordini per la lotta contro le << bande >> impartite dal
comandante superiore Settore Sudovest o da altri comandi,
che davano in pratica carta bianca a qualsiasi arbitrio,
abbiano facilitato il gioco omicida dei vari von Hirschfeld,
von Loeben, Peiper, Reder e dei loro superiori.
Esisteva anche una stretta correlazione tra lo svolgimento
delle operazioni, la costante minaccia partigiana, la
frustrazione delle truppe tedesche in continua ritirata,
il quadro strategico deprimente, la vendetta, spesso
condizionata dalla situazione, e la disponibilità alla violenza
estrema. In un tale scenario, nessun militare tedesco
considerava l’innocente popolazione civile italiana degna di
alcun riguardo. E non dimentichiamo, infine, che numerosi
soldati e ufficiali tedeschi impiegati in Italia avevano avuto
una certa esperienza della guerra di annientamento in
Russia.
(G. Schreiber, La vendetta tedesca. 1943-1945: le rappresaglie
naziste in Italia, Milano, Mondadori, 2001, pp. 232-234. Traduzione di M. Buttarelli)
112
ro i partigiani
Armi pesanti cont
Dimensione regionale
Guerra e violenza in
Emilia-Romagna
La strage di Monchio
N
el 1944, le violenze naziste contro i civili investirono in
modo particolarmente brutale dapprima la Toscana, poi
l’Emilia Romagna. I massacri più spietati e sistematici furono
compiuti nell’estate, durante il ripiegamento delle truppe tedesche verso gli Appennini, dietro il sistema difensivo denominato Linea Gotica. Tuttavia, già il 18-20 marzo 1944, nei
dintorni del Monte Santa Giulia, (nell’appennino modenese/
reggiano), presso le località di Monchio e Cervarolo furono
uccise 155 persone. Obiettivo dichiarato dell’azione era di
ripulire la zona dai partigiani; ma è significativo che non vi sia
stato neppure un combattimento e che, da parte tedesca, vi
sia stato solamente un ferito.
I soldati responsabili della maggior parte delle uccisioni appartenevano al reparto esploratori della Divisione Hermann
Göring, la cui origine si spiega tenendo conto del fatto che,
all’interno del Terzo Reich, esistevano diversi centri di potere in
cronica concorrenza reciproca. Questo sistema basato simultaneamente sulla rivalità di diversi soggetti nazisti e sull’autorità
carismatica del Führer, unica autorità universalmente riconosciuta, è comunemente denominato <<policrazia>> dagli
storici e funzionava perfino nell’ambito dell’organizzazione delle Forze armate. Pertanto, a fianco della Wehrmacht (l’esercito)
e della Luftwaffe (l’aviazione), troviamo nel 1944 ben 900.000
uomini (organizzati in circa 40 divisioni) organizzati nelle cosiddette Waffen SS, che rispondevano del loro operato direttamente al comandante delle SS, Heinrich Himmler. Per non
essere da meno, anche Göring cercò di organizzare un reparto
115
8 MAGGIO
di terra che fosse alle sue dirette dipendenze, come per altro lo
era già l’aviazione. Nella prima fase del conflitto, una divisione
di fanteria motorizzata che portava il nome di Göring combatté
sul fronte russo (in Ucraina) e in Tunisia, dove, a seguito delle
sconfitte del 1943, perse circa 10.000 uomini. Riorganizzata
in Italia, l’unità fu trasformata in divisione corazzata e (dotata
di circa 21.000 uomini) prese parte agli scontri che, in Sicilia,
tentarono di impedire lo sbarco degli Alleati nel luglio 1943.
Nel 1944, tra marzo e luglio, svolse un ruolo determinante nella lotta antipartigiana in Italia centrale, prima di essere di nuovo
inviata sul fronte orientale, contro l’Armata Rossa che stava dilagando in Polonia. Nei mesi in cui fu impiegata contro i partigiani, la Divisione Göring si distinse per la sua violenza contro i
civili, uccidendone almeno un migliaio; tra gli episodi più gravi,
ricordiamo la strage di Vallucciole (località in comune di Stia,
in provincia di Arezzo), ove il 13 aprile 1944 furono uccise 108
persone, compresi diverse donne e bambini. Come nel caso
di Monchio, il ruolo decisivo fu svolto dal reparto esploratori,
guidato dal capitano (Rittermeister) Kurt Christian Von Loeben;
denominato Panzer Aufklärungs Abteilung, il gruppo operativo
era composto da 25 ufficiali, 131 sottufficiali e 916 soldati. Per
la maggioranza, si trattava di elementi molto giovani, reclutati
nelle classi 1924-1926.
Nel marzo 1944, mentre questo reparto di esploratori era dislocato nei dintorni di Bologna, nell’appennino modenese e
reggiano si ebbero diversi scontri di soldati fascisti e tedeschi
con i gruppi partigiani che operavano nella zona; anzi, nella
zona di Monte Santa Giulia, le autorità della RSI segnalarono
che la banda dei ribelli aveva raggiunto il consistente numero di
duecento elementi. La morte di una quindicina di militi repubblichini e di cinque tedeschi (tra cui un ufficiale) sembrava confermare la pericolosità del gruppo. Pertanto, il comando tedesco
di Bologna affidò a Von Loeben il comando di una vasta azione
116
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
di rastrellamento e di eliminazione alla radice del pericolo, ai
fini di riacquistare il controllo del territorio. L’azione ebbe inizio
all’alba di sabato 18 marzo 1944 e coinvolse l’intera valle del
fiume Dragone. Mentre 400 uomini (100 poliziotti tedeschi e
300 militi fascisti) organizzarono un cordone di accerchiamento, bloccando tutte le strade e le vie di comunicazione, 250300 uomini del reparto esploratori della Divisione Göring si
addentrarono all’interno della zona circondata e condussero
il rastrellamento nei boschi, nelle campagne, nei casolari e nei
diversi villaggi dell’area. I soldati di Von Loeben furono accompagnati da alcuni fascisti italiani; questi militi repubblichini svolsero funzioni di guide e di interpreti, ma non ebbero un ruolo di
primo piano nelle violenze di massa contro i civili.
La maggioranza dei partigiani riuscì a nascondersi o ad allontanarsi (eludendo senza difficoltà e senza scontri a fuoco il
cordone dei gendarmi tedeschi e dei fascisti). L’operazione di
rastrellamento a tappeto fu preceduta da un intenso fuoco di
artiglieria, che a partire dalle 6.30 del mattino batté a tappeto l’intera vallata: i cannoni, infatti, erano collocati a Montefiorino, da cui
potevano sparare verso il monte Santa Giulia e, in particolare, in direzione di Monchio. Von Loeben progettò la sua azione come se fosse
un assalto militare in piena regola: in realtà, non trovò alcun tipo di
resistenza (e l’unico ferito tedesco fu un soldato colpito da fuoco amico, cioè da una scheggia di un proiettile sparato dai cannoni, mentre
percorreva la strada principale). I cannoni, inoltre, non provocarono
molte vittime (appena una mezza dozzina) e la maggior parte dei colpi
non raggiunse i paesi, ma finì in aperta campagna. Quasi tutti i civili,
dunque, furono fucilati dai soldati, che erano autorizzati a considerare
ribelli (e, quindi, ad uccidere) tutti i maschi adulti, senza eccezioni, ed
avevano ottenuto una licenza di saccheggio praticamente completa.
La maggioranza delle vittime dunque furono uomini, ma in alcuni casolari nell’area del villaggio di Susano i tedeschi uccisero sul posto anche alcune donne e bambini: si trattò di una specie di apprendistato,
117
8 MAGGIO
di prova generale di quella violenza indiscriminata che il reparto esploratori avrebbe poi esercitato senza più remore di sorta a Vallucciole,
un mese più tardi. In alcuni casi, le vittime furono uccise nel punto in
cui furono trovate: nella loro casa, in cantina, in qualche nascondiglio
scarsamente efficace… Un gruppo di 53 uomini, invece, fu condotto
dalle varie frazioni ad un campo situato vicino al castello di Monchio
e lì eliminato a colpi di mitragliatrice. Nel complesso, nella zona di
Monchio furono uccisi 131 civili (tra cui 7 donne e 6 bambini sotto i
10 anni); due giorni dopo, a Cervarolo, nel reggiano, i soldati della
Divisione Göring uccisero altri 22 uomini, cui vanno aggiunte due
ulteriori vittime fucilate a Civago, un paese di cui furono incendiate
varie case, ma risparmiata la popolazione.
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118
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
IL RAPPORTO DI VON LOEBEN SULLA STRAGE DI
MONCHIO
A
l termine dell’operazione di rappresaglia condotta nella
zona del monte Santa Giulia, il capitano Von Loeben stese
un rapporto molto dettagliato, dal quale traspaiono con chiarezza numerosi aspetti della mentalità nazista. Von Loeben, ad
esempio, esprime un giudizio molto severo sui militi fascisti,
italiani, accusati di sostanziale inettitudine. Al contrario, il numero inesatto dei morti (300, invece di 131) è probabilmente
amplificato al fine di mostrare ai superiori la determinazione
e l’efficienza del reparto tedesco impiegato nell’azione antipartigiana.
Il 17.03. 1944, alle ore 12,30, il Reparto ricevette l’ordine
di annientare un gruppo di banditi localizzato a circa 40 km
a sud ovest di Modena. La forza della banda era valutata in
circa 200 uomini. Sede principale il M. S.- Giulia. […] Alle
ore 10,15 [del 18 marzo – n.d.r.] furono presi Monchio ed
il M. S. Giulia. Nelle case tra Savoniero ed il M. S. Giulia
furono rinvenute attrezzature ed indumenti militari, talvolta
delle armi e munizioni in notevole quantità. Inoltre in quasi
tutte le case venne scoperto del bottino frutto delle rapine
dei banditi. L’insieme della popolazione maschile ed il
bestiame della zona a sud tra il M. S. Giulia e Monchio si
era radunato intorno al M. S. Giulia. Atterriti dall’assalto e
dall’azione energica, essi tentarono di farsi passare per civili
innocenti. Nessuno disse di sapere qualcosa sui banditi. Tutti
furono ritenuti corresponsabili e sterminati secondo l’ordine
del Führer sulla lotta contro le bande, le case bruciate o
119
8 MAGGIO
fatte saltare. In molti casi esplosero le munizioni che in
precedenza non erano state rinvenute. […]
Il numero dei nemici uccisi è di circa 300. Alle ore 17,00,
la 2ª e la 4ª Compagnia il plotone del genio e la sezione
di artiglieria ricevettero l’ordine di riportarsi alle basi di
partenza.
Insegnamenti:
Grazie all’azione energica i banditi si persero d’animo,
tentando di confondersi con i civili e di non ingaggiare
battaglia. L’accerchiamento fu affidato a circa 400 uomini
appartenenti alla Gendarmeria tedesca, alla Gendarmeria
italiana e alla Milizia. Essi tuttavia non fecero nulla, e si
rifugiarono nelle osterie per la tremenda paura di essere
coinvolti in combattimento. Mediante un comando energico
e coordinato di tutti questi reparti è possibile combattere
con successo queste bande.
Le bande non davano l’impressione di possedere una forte
organizzazione militare, piuttosto facevano pensare a banditi
di strada che trovavano il coraggio di compiere scorrerie nei
dintorni solo a causa della avidità e dell’indecisione [di chi
li doveva combattere] e a causa del fatto che né la Milizia,
né la Gendarmeria tedesca erano state impiegate in modo
attivo. Con questa azione il reparto ha dato l’esempio di
come devono essere combattute tali bande. […]
La Milizia fascista ritiene di non avere a disposizione
abbastanza munizioni, armi pesanti e leggere di fanteria per
operazioni di combattimento. In realtà, la Milizia fascista,
come risulta da un controllo personalmente effettuato su un
plotone, è sufficientemente dotata di mitragliatrici e munizioni.
La lezione da trarre da questi combattimenti, come viene
riferito dalle truppe, è che gli scontri con i banditi siano più
120
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
impegnativi di quelli sostenuti sulla testa di ponte di Nettuno.
Firm. Von Loeben – Capitano di cavalleria e Comandante
del Reparto.
(G. Fantozzi, Monchio 18 marzo 1944. L’esempio, Modena, Artestampa, 2006, pp. 469-472)
LE VIOLENZE TEDESCHE A CERVAROLO
L
a strage compiuta il 20 marzo 1944 a Cervarolo, nel reggiano, può essere considerata il seguito degli eventi di Monte Santa Giulia (18 marzo). La vicenda però presenta alcuni
particolari interessanti, utili a comprendere la psicologia e il
comportamento dei tedeschi cui veniva ordinato di uccidere i
civili nelle zone in cui erano attivi gruppi partigiani.
Alle ore 18,30 del 19 marzo fa il suo ingresso a Gazzano
il capitano Richard Heimann, rilevando il capitano Hartwig
nella <<responsabilità dell’intera operazione>>. Una
spiegazione possibile riguardo al frettoloso invio di Heimann
a Gazzano è che Hartwig abbia rifiutato l’espresso ordine
di Von Loeben di eseguire una ritorsione sui civili, mentre
Heimann, che ha partecipato alla strage di Monchio quale
comandante della 2ª compagnia reparto esplorante,
sicuramente non deve avere gli stessi scrupoli ad eseguirne
una seconda. È inoltre probabile che una volta trasferito il
comando ad Heimann, capitano della Luftwaffe come lui,
Hartwig rientri immediatamente al suo reparto anziché
121
8 MAGGIO
partecipare in posizione subordinata agli avvenimenti del
giorno successivo. Se però per Hartwig non possediamo
la prova certa di un suo rifiuto ad eseguire la strage,
l’abbiamo invece per il tenente Riemann, il quale, secondo
quanto afferma il colonnello Mühe, <<chiese di essere
congedato>> dalla formazione della HD [= la Divisione
Hermann Göring – n.d.r.] <<dato che questa doveva
essere impiegata al solo scopo di eseguire una rappresaglia
nell’area Civago-Cervarolo>>. Anche Von Loeben, seppure
in modo più sfumato, nel suo rapporto sulla stage di Cervarolo
conferma l’assenza di Riemann e di altri soldati che erano
con lui: <<Il gruppo Riemann fu congedato in quanto era in
servizio già da diversi giorni e per questa azione non era più
necessario>>. L’esplicito e coraggioso rifiuto di Riemann
è importante perché testimonia come nella Wehrmacht
l’uccisione indiscriminata dei civili attraverso la rappresaglia
non era un costume di guerra universalmente condiviso, e
conferma che era possibile per un ufficiale sottrarsi ad ordini
superiori che la imponevano. Nell’esercito tedesco, pur
ampiamente nazificato, non era del tutto annullata l’etica
militare e la possibilità di disobbedire ad ordini ingiusti: e
se Riemann la sera del 19 marzo decise consapevolmente di
non partecipare al massacro di Cervarolo del giorno dopo,
altrettanto consapevolmente Heimann scelse di prendervi
parte. […]. Assunte tutte le informazioni necessarie, nella
tarda serata del 19 marzo, Richard Heimann pianifica
l’azione per il giorno successivo, lunedì 20 marzo. La
metodologia è la stessa già sperimentata nella valle del
Dragone: si colpisce la popolazione adulta maschile di quei
paesi sospettati di collusione con i partigiani, mentre gli
abitati devono essere distrutti. Ai soldati si concede il diritto
122
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
di preda nelle case. Unica differenza con il modenese è il
bilancio dei morti: nel reggiano sarà fortunatamente molto
meno elevato. Si legge nel rapporto di Von Loeben: <<Il
capitano Heimann sospettò, come fu poi confermato, che
parte dei banditi dimorassero là spacciandosi come civili
inoffensivi. Il comandante dell’operazione di conseguenza
diede ordine che la terza Compagnia, affiancata da due
compagnie della milizia italiana, all’alba del 2.3.1944
attaccasse entrambe le località [= Cervarolo e Civago –
n.d.r.], che tutti gli uomini abili al servizio militare fossero
fucilati e le località incendiate>>. All’alba del giorno
20 Heimann muove da Gazzano e giunge poco dopo a
Cervarolo. Qui lascia un plotone della terza compagnia e
una compagnia della milizia e poi prosegue per Civago
con i restanti due plotoni della terza compagnia ed un’altra
compagnia della milizia. Insieme al plotone della HD restano a
Cervarolo anche soldati del NSKK [= Nationalsozialistisches
Kraftfahrkorps, un corpo di volontari fiamminghi e belgi –
n.d.r.], tra i quali alcuni francesi e probabilmente poliziotti
della Feldgendarmerie. Non ci sono invece SS, nonostante
le testimonianze contrarie dei sopravvissuti, i quali, come
accadde anche a Monchio e in molti altri episodi simili,
automaticamente collegano le stragi al corpo più violento e
fanatizzato delle SS.
Mentre le alture prospicienti al paese sono sorvegliate da un
contingente della GNR per scongiurare ogni tentativo di fuga, a
Cervarolo ha inizio la perquisizione sistematica di tutte le case.
Esattamente come a Monchio, ogni oggetto di valore, denaro,
preziosi, commestibili sparisce negli zaini dei militari. Anche
il bestiame viene razziato dalle stalle e spedito a Gazzano.
Gli uomini che la sera prima erano rientrati alle loro case,
123
8 MAGGIO
convinti che tedeschi e fascisti non avessero intenzioni punitive
nei confronti del paese, si vedono puntare contro le armi e
poi condurre in un’aia lastricata di pietra al centro del paese
che funge da centro di raccolta. I tedeschi non si limitano a
prelevare solo gli uomini in età da militare, ma trascinano via
tutti quelli che trovano, tanto che alla fine più della metà dei
rastrellati risultano essere ultrasessantenni, alcuni dei quali
invalidi e semiparalizzati. […] L’agonia dell’incertezza dura fin
verso le 16,30, quando il bel sole primaverile comincia a calare
dietro le montagne. Nell’aia giunge Heimann, il comandante
della spedizione reduce da Civago, alla testa dei suoi uomini,
non pochi dei quali alticci. […] Heimann si rivolge all’ufficiale
a cui al mattino ha delegato le operazioni a Cervarolo. Costui
cerca di convincerlo a mitigare la rappresaglia, a limitarla a
sei o sette persone, forse i giovani in età da militare. Poco
prima dell’arrivo del comandante, infatti, costui aveva dato
l’ordine di dividere in due il gruppo dei rastrellati: gli uomini
più giovani e forti erano stati spinti dentro l’aia mentre gli altri,
i vecchi e i ragazzi, erano stati tenuti poco lontano ai margini di
una siepe. Ma Heimann, mentre cammina a grandi passi urla:
<<Alles! Alles!>>, tutti, tutti. Se ha risparmiato Civago non
intende fare lo stesso con Cervarolo e la trentina di persone
allineate su quello spiazzo gli devono sembrare anche poche.
Ma è possibile che qualche superiore gli abbia ordinato di
non eccedere coi morti dopo quanto è accaduto a Monchio
due giorni prima. Per i prigionieri il destino è definitivamente
segnato: la macchina della rappresaglia si mette rapidamente
in moto […] e sull’aia di Cervarolo giacciono ventidue cadaveri.
(G. Fantozzi, Monchio 18 marzo 1944. L’esempio, Modena, Artestampa, 2006, pp. 361-371)
124
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
Le stragi dell’estate 1944
T
ra maggio e giugno del 1944, il comandante in capo delle
forze tedesche in Italia, feldmaresciallo Albert Kesselring,
emanò una serie di ordini che, in pratica, davano carta bianca ai comandanti delle varie regioni che i tedeschi stavano
attraversando nel corso della loro ritirata verso nord, dopo il
crollo della linea Gustav, che aveva permesso agli Alleati di
conquistare Roma. Qualsiasi azione fosse compiuta per stroncare, punire o prevenire l’attività dei partigiani, veniva coperta
e giustificata. Si spiegano in questo modo i gravi massacri
verificatisi in Toscana nell’estate del 1944, tra cui ricordiamo
solo Guardistallo (29 giugno; 11 partigiani e 46 civili); Civitella, San Pancrazio e Cornia (29 giugno; 203 morti, tutti
civili); Sant’Anna di Stazzema (12 agosto; 560 vittime civili);
Fucecchio (23 agosto; 176 vittime civili).
In alcune delle località toscane più duramente colpite dai nazisti, la popolazione (o una parte di essa) accusò i partigiani di cinismo e scarso senso di responsabilità; secondo questi
superstiti, con le loro azioni di resistenza armata, i ribelli avevano provocato e attirato sul paese la rappresaglia tedesca: i
partigiani, in ultima analisi, dovevano essere considerati i veri
colpevoli morali della strage. A Guardistallo, Civitella e in altri centri, si è creata intorno alla strage nazista quella che gli
storici chiamano <<una memoria divisa>>, cioè una grave
lacerazione interna alla popolazione, spaccata tra coloro che
ricordano con orgoglio la propria militanza partigiana e quanti,
invece, prendono duramente le distanze da essa.
Ad eseguire questi eccidi furono reparti molto diversi fra loro;
in comune, tutti ebbero però la stessa disponibilità al massacro dei civili, considerati a pieno titolo complici dei partigiani.
Evidentemente, dietro ad ogni azione si può individuare una
125
8 MAGGIO
comune regia, o meglio una serie di istruzioni che promettevano l’impunità assoluta a chiunque agisse in modo violento e
criminale. Pur di far cessare la lotta partigiana e di garantire la
sicurezza dell’esercito tedesco, ogni misura era lecita e nessuna
era considerata eccessiva, secondo il principio per cui <<è
meglio agire e commettere errori piuttosto che non far niente
ed essere deboli>>.
I prefetti e le altre autorità italiane della RSI non poterono far altro che prendere atto della nuova situazione: gli alleati si comportavano ormai solo come degli occupanti puri e semplici, col
risultato che la popolazione li odiava e li disprezzava. Si prenda
ad esempio il testo seguente, tratto da una relazione indirizzata
al Duce, stesa a Vercelli nel settembre 1944: <<Quello che
maggiormente ha inasprito l’animo della popolazione in questo
ultimo periodo è la continua rappresaglia che i germanici infliggono a molte persone che il più delle volte non hanno nulla in
comune con i partigiani, banditi o genere simile. L’impiccagione
ha poi suscitato nelle famiglie dei colpiti un vero odio verso i
tedeschi in quanto, a parte che la morte comunque provocata è
sempre morte, tale sistema in Italia non era mai stato applicato
ed ha perciò prodotto profonda impressione>>. L’autore del
testo appena citato ha perfettamente ragione: il metodo adottato, infatti, era ormai in tutto e per tutto quello collaudato sul
fronte orientale, e non era più applicato in modo autonomo e
improvvisato da singole unità, bensì era divenuto sistema, cioè
procedura abituale e prassi normale, in virtù di un preciso impulso proveniente dall’alto e di una mentalità razzista, penetrata talmente in profondità sia nelle alte sfere dell’esercito che fra
i semplici soldati, da spingerli a considerare come sottouomini
anche i civili di una nazione ex-alleata come l’Italia.
In questa fase, il culmine della violenza venne toccato nella
zona di Monte Sole che registrò l’uccisione di 770 civili (fra
cui 216 bambini sotto i 12 anni), il 29 e il 30 settembre 1944.
126
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
In genere, questo grave episodio di violenza è denominato
<<strage di Marzabotto>>; in realtà, si tratta di un’espressione decisamente infelice e impropria, nella misura in cui dà
l’impressione che il paese di Marzabotto sia stato assunto come
il bersaglio privilegiato e come la vittima principale dell’azione
dei tedeschi. In realtà, quanto accadde nell’area di Monte Sole
fu una serie di singoli atti di violenza, compiuti nell’ambito di
una vasta attività di bonifica della zona da qualsiasi presenza
umana, considerata a priori come favorevole nei confronti dei
gruppi partigiani. L’azione investì ben 115 luoghi diversi (anche
se i principali atti di violenza ebbero luogo in una decina di siti),
distribuiti sul territorio di tre diversi comuni (Marzabotto, Grizzana e Monzuno); per la maggioranza, si trattava di casolari
isolati o di frazioni molto piccole.
Nell’area di Monte Sole, operava un gruppo di partigiani che
portava il nome di Stella Rossa, ma era guidato da un comandante non comunista, Mario Musolesi (Lupo). L’azione non fu
una rappresaglia per un preciso colpo messo a segno dai ribelli, ma una campagna finalizzata a rendere impossibile qualsiasi
ulteriore presenza partigiana, mediante la distruzione di tutte
le comunità e i soggetti che avrebbero potuto offrire ai banditi
riparo, cibo e sostegno. Non tutti i reparti tedeschi impegnati
nella strage (comprendenti, in totale, circa 1.400-1.500 uomini) erano composti da SS; tuttavia, il ruolo determinante fu
assegnato alla 16ª divisione panzergrenadieren delle SS, che
era nata come battaglione di scorta di Himmler e successivamente era stata trasformata in brigata d’assalto Reichsführer SS.
In Italia, nella zona tra l’Arno e Bologna, questa unità uccise
circa 2.500 civili e catturò almeno 10.000 uomini, spediti poi
a lavorare in Germania. La responsabilità ultima dell’azione fu
assegnata al maggiore Walther Reder, comandante del 16° battaglione corazzato di ricognizione, della medesima e già citata
16ª divisione panzergrenadieren delle SS. Nel maggio 1944,
127
8 MAGGIO
quando fu inviato in Italia dopo aver combattuto in Francia sul
fronte orientale, Reder aveva da poco compiuto 29 anni. Dopo
la guerra, nel 1951, Reder fu condannato all’ergastolo come
criminale di guerra; tuttavia, nel 1979, il Tribunale militare di
Bari decise per la sua scarcerazione. È morto in libertà, a Vienna, nel 1991.
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delle SS tedesche
128
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
GLI ORDINI DI KESSELRING
R
iportiamo due dei numerosi ordini emanati dal feldmaresciallo Albert Kesselring, che autorizzava i suoi subordinati
a stroncare con ogni mezzo le azioni dei partigiani, anche a
costo di compiere violenze di massa contro i civili.
Nuove misure in relazione alle operazioni antipartigiane
(10 maggio 1944)
La situazione dei partigiani in Italia, particolarmente nel
centro Italia, si è recentemente acutizzata, e ciò costituisce un
serio pericolo per le truppe combattenti e per i rifornimenti;
sia per ciò che concerne il materiale bellico, sia per il
potenziale economico.
La lotta contro i partigiani deve essere combattuta con tutti
i mezzi a nostra disposizione e con la massima severità. Io
proteggerò quei comandanti che dovessero eccedere nei loro
metodi di lotta ai partigiani. In questo caso suona bene il vecchio
detto: meglio sbagliare la scelta del metodo, ma eseguire gli
ordini, che essere negligenti o non eseguirli affatto. Soltanto
la massima prontezza, e la massima severità nelle punizioni
saranno valido deterrente per stroncare sul nascere altri
oltraggi o per impedire la loro espansione. Tutti i civili implicati
nelle operazioni antipartigiane che saranno arrestati nel corso
delle rappresaglie saranno portati nei campi di concentramento
costituiti a questo scopo dal generale comandante in capo del
Commissariato militare Sudovest, come è indicato dall’ultimo
dispaccio del Reich in materia di lavoratori. [...]
Firmato: Kesselring
Comandante Supremo del Settore Sudovest
Misure antipartigiane (ordine del 17 giugno 1944)
129
8 MAGGIO
Nel mio appello agli italiani io ho annunciato che severe misure
sarebbero state intraprese contro i partigiani. Questo annuncio
non deve rappresentare una inconsistente minaccia. È preciso
dovere di tutte le truppe e della polizia sotto il mio comando di
adottare le più severe misure. Ogni atto di violenza commesso
dai partigiani deve essere punito immediatamente. I rapporti
dovranno fornire in dettaglio le contromisure intraprese.
Laddove vi sia presenza di bande partigiane di notevoli
proporzioni, una percentuale della popolazione maschile della
zona dovrà essere arrestata e nel caso in cui si verifichino atti
di violenza, questi uomini saranno fucilati. La popolazione
deve essere informata di questo. Se si avvertiranno spari
provenienti da un paese, il paese sarà incendiato. Gli esecutori
e i capibanda saranno impiccati sulla pubblica piazza. I paesi
circostanti devono essere ritenuti responsabili di sabotaggi
a cavi o danni a pneumatici. La contromisura più efficace è
l’utilizzo di pattuglie locali. I membri del partito fascista non
devono essere inclusi nelle misure di rappresaglia, le persone
sospette devono essere consegnate ai Prefetti e i rapporti sui
loro casi mi devono essere spediti. Fuori dai paesi i soldati si
devono proteggere con armi da fuoco. I comandanti di ciascun
distretto militare decideranno se e in quali città sarà necessario
trasportare armi. Ogni genere di saccheggio è proibito e sarà
punito severamente. Le contromisure dovranno essere dure,
ma giuste. La dignità del soldato tedesco lo esige.
Firmato: Kesselring - Comandante Supremo
(Comando supremo del 6° Gruppo d’Armata)
(M. Battini - P. Pezzino, Guerra ai civili. Occupazione tedesca e
politica del massacro. Toscana 1944, Venezia, Marsilio, 1997,
pp. 423 e 426-427)
130
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
L’APPLICAZIONE DEGLI ORDINI DI KESSELRING
Quartier Generale I Corpo Paracadutisti
Ordine Operativo n.838/Segreto. 20 luglio 1944
Soggetto: operazioni contro i partigiani: ordine n. 2
1. La situazione dei partigiani nelle retrovie dei corpi continua
ad essere una seria minaccia alle truppe combattenti e ai
rifornimenti. La lotta contro i partigiani deve perciò essere
condotta con la massima severità. Il buon carattere e la
moderazione, così comuni tra le truppe tedesche, devono
essere guidate da continue istruzioni.
Sono perciò emanati i seguenti ordini:
Ogni azione di violenza da parte dei partigiani dev’essere
immediatamente punita. Il rapporto sull’incidente indicherà
quale contromisure sono appropriate.
Dove esistono partigiani in numero considerevole, saranno
presi ostaggi tra la popolazione locale ed essi saranno fucilati
nel caso in cui si verifichino atti di violenza. Le popolazioni
saranno di ciò informate quando saranno operati gli arresti.
Nei casi in cui siano uccisi soldati presso qualche paese,
il paese verrà incendiato. Gli esecutori e i capi dei banditi
saranno pubblicamente impiccati.
Nel caso di sabotaggi alle linee telefoniche o di
danneggiamento ai pneumatici, i paesi nelle immediate
vicinanze saranno ritenuti responsabili. La miglior
contromisura è che l’area sia guardata da pattuglie formate
dalla truppa locale.
I membri del partito fascista saranno esclusi da tutte le misure di
rappresaglia. I membri del partito sospetti saranno consegnate
al Prefetto e un rapporto sarà inviato al sottoscritto.
131
8 MAGGIO
Tutte le truppe saranno armate in ogni momento dentro e
fuori i paesi.
Il saccheggio è proibito e sarà punito severamente.
Sarà anche immediatamente fucilato :
chiunque dia aiuto ai partigiani criminali e traditori, dando
loro cibo o alloggio, o portando messaggi militari, chiunque
porti armi (inclusi fucili da caccia) o esplosivi, chiunque
commetta atti ostili alle Forze Armate tedesche.
Coprirò qualsiasi ufficiale che andasse oltre alla nostra
tradizionale moderazione nella scelta delle misure per
affrontare i partigiani, o la severità con la quale esse sono
applicate. In questo caso vale il vecchio principio che è
meglio agire e commettere errori piuttosto che non far niente
ed essere deboli. Ogni intervento energico e immediato è
una punizione essenziale e un deterrente per soffocare sul
nascere eccessi su più ampia scala. [...]
20 luglio 1944
Firmato: Von Hoffman, Capo del Quartier generale
(M. Battini – P. Pezzino, Guerra ai civili. Occupazione tedesca e
politica del massacro. Toscana 1944, Venezia, Marsilio, 1997,
pp. 427-428)
132
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
L’ECCIDIO DI MONTE SOLE: LA PRESENZA
PARTIGIANA E LA LOGICA MILITARE TEDESCA
I
l dibattito storiografico sulle stragi tedesche in Italia si è concentrato su molte questioni: quella dei reparti coinvolti direttamente negli eccidi (problema fondamentale, anche a fini
processuali, per l’individuazione delle responsabilità penali),
quello delle motivazioni degli assassini, quello delle eventuali
responsabilità di gruppi partigiani operanti nelle aree più direttamente interessate dalle violenze.
Un topos [= un luogo comune – n.d.r.] ricorrente nella
ricezione del massacro di Marzabotto da parte della
letteratura apologetica tedesca è l’affermazione secondo
cui a Marzabotto non solo non ci sarebbe stata alcuna
strage, ma Reder e i suoi uomini della 16 ª divisione
panzergrenadieren non vi avrebbero mai messo piede. Una
leggenda che si basa su un’imprecisione nell’indicazione
della località dove tra il settembre e l’ottobre del 1944 gli
occupanti tedeschi si resero responsabili di uno dei massacri
più efferati: non il paese, bensì il comune di Marzabotto.
Situato a circa venticinque chilometri a sud di Bologna, il
comune di Marzabotto si estende su un massiccio montuoso
che tocca i mille metri, ed è delimitato a ovest dalla valle
del Reno, dove si trova anche il capoluogo del comune,
e a est dalla valle del Setta. A sud la strada provinciale
che unisce le due valli fa da confine tra il comune di
Marzabotto e quello di Grizzana. L’area è montuosa, in
parte coltivata, in parte rocciosa e brulla e in parte coperta
da macchia mediterranea. Nel territorio che dal punto di
vista amministrativo dipende dai due paesi di Marzabotto e
133
8 MAGGIO
Grizzana si trovano anche alcuni borghi, oltre che un certo
numero di fattorie e di piccoli insediamenti isolati.
Durante l’inverno 1943-1944 il meccanico Mario Musolesi,
che nel 1942 era stato degradato per la sua attività di
propaganda disfattista e sovversiva, aveva cominciato a
raccogliere intorno a sé un gruppo di partigiani, il primo
nucleo della brigata autonoma cui Musolesi avrebbe dato il
nome di una formazione partigiana jugoslava: Stella Rossa.
La composizione della brigata, che nel settembre del 1944
poteva contare su circa ottocento uomini, era alquanto
eterogenea. Accanto a reduci del Regio esercito, infatti,
essa annoverava nelle sue file anche soldati alleati fuggiti
dalle prigioni fasciste, carabinieri di idee antifasciste, una
novantina di donne e un nutrito gruppo di ex prigionieri di
guerra russi. La comandava lo stesso Musolesi, nome di
battaglia Lupo. Quanto erano pericolosi i partigiani? Non
è facile rispondere sulla base dei numeri. Infatti, non solo i
partigiani avevano interesse a descrivere in termini quanto più
positivi i loro successi, ma anche i tedeschi, dopo la guerra,
si sforzarono di aumentare il più possibile il numero dei loro
caduti, per giustificare le <<azioni di rappresaglia>>. Le
cifre di cui disponiamo – cifre stando alle quali la Stella
Rossa avrebbe compiuto 72 azioni di guerra, 26 razzie e 7
attacchi a caserme, che avrebbero causato 1.311 vittime tra
i tedeschi e provocato la distruzione di 62 automezzi e 50
convogli ferroviari – sono chiaramente esagerate […]. Quel
che è certo, in ogni caso, è che con il trascorrere dei mesi
i tedeschi avevano cominciato a considerare con sempre
maggior attenzione le azioni delle formazioni partigiane a
causa della preoccupante situazione militare e del crescente
pericolo per i rifornimenti e le linee di comunicazione che
134
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
esse rappresentavano. Durante l’estate del 1944 gli Alleati
erano riusciti a sfondare la Linea Gustav e avevano costretto
i tedeschi a ritirarsi fino alla Linea Gotica, che correva a sud
di Bologna. Nel settembre del 1944 le truppe di Kesselring
vennero a trovarsi praticamente tra due fuochi, gli Alleati
a sud e i partigiani a nord, in un territorio ormai non più
largo di dieci-quindici chilometri, con il risultato, tra l’altro,
che in una situazione così critica si mostrarono anche più
propensi a dare credito agli esagerati rapporti dei fascisti
saloini [= della Repubblica di Salò – n.d.r.] in merito alla
forza del movimento di resistenza. Quando, nel settembre
del 1944, gli Alleati presero ad avanzare in direzione della
Linea Gotica, Kesselring decise di rafforzare il settore
del fronte affidato alla 334ª divisione di fanteria, che si
trovava sotto la forte pressione degli americani, mediante
l’invio della 16ª divisione panzergrenadieren Reichsführer
SS. […] Non c’è dubbio che l’operazione contro la Stella
Rossa venne inizialmente pianificata come azione militare
e non come rappresaglia. L’azione avrebbe dovuto essere
condotta da un reparto misto formato da unità delle SS e
dell’esercito. Vi presero parte il 16ª battaglione corazzato
di ricognizione delle SS [inquadrato nella 16ª divisione
panzergrenadieren Reichsführer SS – n.d.r.], diverse unità
d’allarme, reparti del 35ª reggimento panzergrenadieren
delle SS, una batteria di artiglieria pesante del reparto
contraereo delle SS, la compagnia di scorta divisionale
delle SS, batterie del 16ª reggimento di artiglieria delle SS
e cannoni d’assalto. A questo schieramento andarono ad
aggiungersi parti del 105ª reggimento contraereo della
Luftwaffe [= l’aviazione militare tedesca – n.d.r.], il 1059ª
reggimento della 92ª divisione di fanteria (il cosiddetto
135
8 MAGGIO
<<battaglione dell’Est>>) e unità d’allarme dell’esercito.
Nel complesso la formazione disponeva di una forza di
1.400-1.500 uomini. A causa della precaria situazione al
fronte non si poté disporre di un maggior numero di uomini,
per cui si preferì fare molto affidamento sulle armi pesanti,
in particolare l’artiglieria. […]
Nel caso di Marzabotto non si trattò di un’operazione
militare – anche se inizialmente venne pianificata come tale
– ma di una ininterrotta serie di massacri di civili. In realtà,
gli scontri di cui si parla nella memorialistica tedesca e nei
racconti di alcuni partigiani non ebbero mai luogo. Perfino
in uno scritto in difesa di Reder si riconosce che gli scontri
<<non furono poi così duri>>. Combattimenti di un certo
rilievo ebbero luogo solo a Cadotto, dove trovò la morte
la maggior parte dei partigiani caduti in battaglia. Per il
resto, i partigiani ripararono nei boschi e riuscirono, molto
probabilmente durante una pausa nei combattimenti che ci
fu tra il 29 e il 30 settembre, a rompere l’accerchiamento e
a sfuggire alla cattura. […] Se oltre a quelle già prodotte
ci fosse bisogno di una ulteriore prova del fatto che a
Marzabotto vennero trucidati donne e bambini (non
colposamente, come si potrebbe forse sostenere se fossero
caduti sotto il fuoco dell’artiglieria, ma deliberatamente), in
tal caso è sufficiente leggere il terribile rapporto finale, dove
tra l’altro si parla di 718 nemici uccisi, di cui 497 banditi e
221 fiancheggiatori delle bande>>. Una cifra che sembra
indicare non tanto che per i soldati impegnati non fu possibile
contare tutti i caduti, quanto piuttosto che si fece ricorso a
una tattica di occultamento dei fatti particolarmente cinica.
Sappiamo che i soldati avevano ricevuto l’ordine di contare
le loro vittime, e a quanto pare lo eseguirono: il Comitato
136
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
regionale per le onoranze ai caduti di Marzabotto indica
infatti in 770 (tra cui 216 bambini) il numero delle vittime
delle stragi […]. Mentre il numero dei <<banditi>> uccisi
indica la cifra complessiva degli uomini e delle donne che
trovarono la morte (i partigiani vi sono compresi al massimo
nella misura di uno ogni dieci vittime), il numero dei bambini
trucidati corrisponde quasi esattamente a quello dei <<221
fiancheggiatori delle bande>> di cui si parla nel rapporto.
Siccome anche con tutta la buona volontà non si poteva
certo attribuire loro la qualifica di partigiani, i massacratori
trovarono la soluzione indicando nei bambini uccisi
altrettanti <<fiancheggiatori delle bande>>.
(J. Staron, Fosse Ardeatine e Marzabotto. Storia e memoria di
due stragi tedesche, Bologna, Il Mulino, 2007, pp. 67-69. 73 e
88-90. Traduzione di E. Morandi)
137
8 MAGGIO
Lo sfondamento della linea gotica
D
opo che gli Alleati ebbero conquistato Cassino e, di conseguenza, liberato Roma (4 giugno 1944), i tedeschi si
ritirarono verso nord, dove avevano predisposto un’ulteriore
sistema difensivo denominato dapprima Linea Verde e poi
Linea Gotica. Mediamente, questo nuovo apparato aveva
una profondità operativa di 16-20 chilometri, corrispondente
allo spazio che separava le truppe di prima linea dalle riserve
pronte a intervenire come rinforzo. La Linea di difesa era stata
costruita in fretta, utilizzando manodopera locale rastrellata
fra i civili e obbligata a lavorare per l’esercito tedesco: 15.000
operai italiani avevano infine predisposto 2.376 postazioni
per mitragliatrici, creato 479 basi per cannoni anticarro, steso
120.000 metri di filo spinato e dislocato migliaia di mine finalizzate a bloccare l’attacco nemico.
In lunghezza, la Linea Gotica si estendeva per circa 300 chilometri, da Massa Marittima, sul Tirreno, fino a Pesaro, sull’Adriatico; e mentre sul versante toscano la principale forza offensiva era costituita dagli americani (5ª Armata), nelle regioni
più orientali d’Italia operava l’8ª Armata britannica. Il generale
tedesco Albert Kesselring poteva ancora contare su 26 divisioni
(19 schierate sulla Linea Gotica e 7 dislocate più a nord); tuttavia, le forze tedesche erano gravemente carenti dal punto di
vista aereo: un settore in cui la supremazia alleata era pressoché assoluta. Il fattore più importante, a vantaggio dei tedeschi
dislocati sul fronte italiano, consisteva nel fatto che – dopo lo
sbarco in Normandia – la maggior parte delle energie degli
Alleati si era indirizzata verso la Francia (al punto che, in giugno, ben sette divisioni della 5ª Armata americana erano state
trasferite).
L’unica figura realmente interessata al fronte italiano era Winston Churchill preoccupato dell’avanzata sovietica in Europa
138
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
centrale, sognava di poterla fermare, giungendo a Vienna, da
Sud, prima dell’Armata Rossa. Fu per questa ragione di politica
internazionale che venne infine deciso di lanciare l’offensiva più
importante sul versante adriatico, un attacco in grande stile denominato in codice operazione Olive che iniziò la sera del 25
agosto 1944 con un intenso bombardamento della zona del
fiume Metauro.
Gli inglesi potevano contare su 19 divisioni, un migliaio di cannoni e 1.200 carri armati. Avendo colto di sorpresa i tedeschi,
riuscirono ad entrare con relativa facilità a Pesaro il 29 agosto.
Molto più difficile fu proseguire l’avanzata: dopo la durissima
battaglia combattuta sulle colline di Coriano (13 settembre),
fu possibile raggiungere Rimini solo il 21 settembre. Dopo un
mese di combattimenti furiosi, le forze inglesi (che comprendevano, tuttavia, anche canadesi, polacchi e altre nazionalità)
avevano perso 15.000 uomini; anche se le perdite tedesche
erano ben superiori (circa 20.000 morti), la spinta degli inglesi
andò lentamente spegnendosi, complici anche il maltempo e
le piogge torrenziali, che resero molto difficili gli attacchi aerei.
Per di più, gli allagamenti di vaste aeree (in parte causate dalle
precipitazioni, in parte provocate artificialmente dai tedeschi)
obbligavano i soldati inglesi ad avanzare nel fango, oppure
sulle poche strade praticabili, esposte al fuoco avversario. L’ultimo importante successo strategico fu la conquista, il 25-27 settembre, del Monte Battaglia, nell’Appennino Faentino, da cui
si intravedeva Bologna all’orizzonte. Più a est, l’attacco investì
infine anche Cesena (20 ottobre) e Forlì (9 novembre): ma, a
quel punto, fu deciso di rinviare alla primavera seguente l’offensiva finale.
Riorganizzate le proprie forze, i tedeschi assunsero il fiume Senio (un affluente del Reno) come linea difensiva fondamentale;
più a nord, infatti, a causa della presenza delle valli di Comacchio, sarebbe stato molto difficile lo sfondamento del fronte da
139
8 MAGGIO
parte degli Alleati. Per garantirsi il successo nella nuova offensiva primaverile, gli Alleati si dotarono di una grande quantità di
aeroplani (2.000), di carri armati (circa 3.000), di carri dotati
di lanciafiamme e perfino di mezzi anfibi, capaci di superare i
terreni acquitrinosi o invasi dalle acque. L’attacco ebbe inizio il
1° aprile 1945 e si caratterizzò per l’impressionante potenza di
fuoco dispiegata: davanti a Cotignola, la 2ª divisione neozelandese sparò da sola 250.000 granate, mentre aerei di ogni dimensione bombardavano senza interruzione le postazioni tedesche. L’attraversamento del fiume Senio ebbe luogo, nella notte
tra il 9 e il 10 aprile, dopo una violentissima battaglia che numerosi diari paragonano al giorno del giudizio e all’Apocalisse.
Mentre un’avanguardia di truppe neozelandesi ed indiane puntava su Lugo, i genieri realizzarono sei ponti capaci di far passare il resto degli uomini e dei mezzi alleati. Alle 6 del mattino
del 10 aprile, i soldati italiani del gruppo di combattimento
Cremona raggiunsero Fusignano e poi Alfonsine; un paese,
quest’ultimo, che fu investito in pieno dal fuoco e, quindi, fu di
fatto raso al suolo per tre quarti. Intanto, più a ovest, superato il
fiume Santerno altri reparti indiani e neozelandesi raggiunsero
Massalombarda e riuscirono a varcare il Reno (13-14 aprile),
mentre le truppe polacche liberavano Imola e, infine, la stessa
Bologna (22 aprile).
Sul Senio fu schierata dagli inglesi anche una Brigata ebraica,
guidata dal generale ebreo-canadese Ernest Frank Benjamin.
Si trattava di circa 4.000 uomini, tutti volontari, provenienti per
1/5 dalla Palestina (ancora sotto mandato britannico) e per
4/5 da 53 diversi paesi del mondo. A Piangipane (nei pressi di
Ravenna) si trovano tuttora sepolti 37 di questi soldati, caduti
durante la battaglia in Romagna. Ad Alfonsine, invece, è possibile approfondire questi temi presso il Museo della battaglia del
Senio, situato in Piazza Resistenza 2 (Tel. 0544 -83585).
140
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
LA GUERRA IN ITALIA: I PROBLEMI POLITICI DI
FONDO
L
a campagna d’Italia fu concepita da inglesi e americani in
maniera molto diversa. Per gli uni, essa era da condurre
con il massimo di impegno e di energia per colpire il Terzo
Reich da sud, giungere fino a Vienna e sbarrare la strada ai
sovietici. Per gli americani, invece, essa era solo un diversivo, un fronte secondario, mentre la maggior parte delle forze
(dopo il successo dello sbarco del 6 giugno 1944) andava
impiegata in Francia, per attaccare la Germania da ovest.
Nella primavera e nell’estate del 1944, sembrava finalmente
che né la popolazione italiana né gli anglo-americani
avrebbero dovuto attendere a lungo la fine della guerra.
Cassino cadde nelle mani degli alleati il 18 maggio, e
subito dopo le forze attestate ad Anzio si congiunsero con
quelle provenienti dal sud. L’esercito anglo-americano così
unificato entrò a Roma il 4 giugno, appena due giorni prima
che si verificasse la tanto attesa invasione attraverso il
canale della Manica sulle spiagge della Normandia. A metà
dell’estate le forze alleate in Italia avanzavano rapidamente
poiché i tedeschi non riuscivano a organizzare delle efficaci
linee difensive nel territorio relativamente aperto dell’Italia
centrale. Il 12 agosto, dopo duri combattimenti, gli angloamericani occuparono anche Firenze. Per un momento
sembrò che il sogno a lungo accarezzato dagli alleati di una
rapida fine della campagna in Italia stesse per diventare
realtà. Sentendosi vacillare sotto una serie di sconfitte,
l’alto comando tedesco discusse a lungo se abbandonare
la maggior parte dell’Italia e costruire una nuova linea di
141
8 MAGGIO
difesa sulle Alpi. Sembra che persino Hitler abbia esitato a
considerare fattibile o conveniente una prolungata difesa in
Italia. Ma i comandanti tedeschi sul campo, a cominciare
da Kesselring, erano convinti che l’attacco alleato si fosse
praticamente esaurito, e che, quando la battaglia avesse
raggiunto l’Appennino, i tedeschi sarebbero stati in grado
di tenere. Citando i vantaggi che sarebbero potuti derivare
alla Germania dalle risorse agricole e industriali dell’Italia
settentrionale, i militari tedeschi persuasero Hitler della
possibilità di una prolungata resistenza sulle posizioni
fortificate della Linea Gotica.
La valutazione della situazione fatta da Kesselring e dai
suoi colleghi era fondata; la forza offensiva alleata in Italia
era molto più debole di quanto apparisse dalla campagna
estiva. L’apertura del secondo fronte in Normandia aveva già
impoverito di truppe il teatro operativo italiano, e l’invasione
della Francia meridionale (l’operazione Anvil), avvenuta il
15 agosto, non fece che accelerare quella tendenza. D’ora
in poi quelle due operazioni militari, e non la campagna
d’Italia, avrebbero assorbito la maggior parte delle forze di
riserva anglo-americane.
A questo punto si fecero finalmente sentire tutte le
conseguenze dell’insistenza americana di dare priorità
assoluta allo sbarco in Normandia. Churchill e lo stato
maggiore britannico avevano cercato invano di convincere
gli americani, alla conferenza di Teheran del dicembre
1943, di non distogliere forze dal fronte italiano per usarle
nell’operazione Anvil. Gli inglesi avevano ripetutamente
esortato gli americani a concentrare uomini e materiali in
Italia per spingere l’attacco verso nordest, attraverso Trieste
e Lubiana nella direzione di Vienna. Ma il Joint Chiefs of
142
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
Staff americano credette di avere a che fare con una nuova
manifestazione di imperialismo britannico e respinse ogni
<<impegno delle risorse del Mediterraneo in operazioni
su larga scala nell’Italia settentrionale e nei Balcani>>.
D’altra parte le autorità militari americane appoggiarono la
raccomandazione di Eisenhower che lo sbarco nella Francia
meridionale a sostegno del secondo fronte acquistasse
un’importanza tale da sacrificare gli interessi del teatro
operativo italiano. Sette divisioni furono rimosse dall’Italia;
gli americani imposero la loro soluzione, e l’operazione
Anvil ebbe via libera. […]
Man mano che ci si inoltrava nell’autunno, le piogge
diventavano più violente, il fango più pesante, le colline più
alte e la resistenza nemica più accanita. Ancora una volta
gli alleati si ritrovarono in una situazione senza via d’uscita,
sacrificando uomini per pochi metri di inutile terreno. Solo un
abbondante afflusso di forze nuove avrebbe permesso alle
truppe di Alexander di rimettersi in movimento, e secondo
lo scenario ormai familiare, Churchill cercò di persuadere
Roosevelt a procurare gli uomini necessari. Ma il presidente
americano non era più interessato a compromessi o mezze
misure. <<Una diversione di truppe verso l’Italia terrebbe
lontano dalla Francia forze fresche vitalmente necessarie
in quel settore, mentre esporrebbe tali forze all’elevato
logorio di una campagna invernale non decisiva in Italia>>
scrisse Roosevelt a Churchill il 16 ottobre: <Non possiamo
distogliere dal compito principale forze che sono necessarie
nella battaglia di Germania>>. Lo scontro fra inglesi
e americani sulla strategia mediterranea si era perciò
concluso. Non ci sarebbe più stata alcuna disponibilità di
truppe fresche per la battaglia d’Italia, che fu così relegata
143
8 MAGGIO
al ruolo che gli americani le avevano attribuito fin dall’inizio:
un’operazione secondaria che tenesse impegnato il maggior
numero possibile di truppe nemiche.
(E. Aga-Rossi – B. F. Smith, Operazione Sunrise. La resa tedesca
in Italia. 2 maggio 1945, Milano, Mondadori, 2006, pp. 47-49)
LA GUERRA SULLA LINEA GOTICA: PROBLEMI
MILITARI
L
a Linea Gotica fu l’ultimo importante ostacolo che le forze
del Terzo Reich seppero opporre di fronte all’avanzata da
sud degli anglo-americani. L’abilità dimostrata dai tedeschi
nello sfruttare i caratteri del terreno su cui combattevano venne facilitata dalle condizioni meteorologiche, cioè dalle piogge battenti che nell’autunno 1944 impedirono spesso il pieno
dispiegamento della superiorità meccanica degli Alleati.
A differenza degli americani, Churchill continuava a essere
affascinato dalle occasioni che poteva offrire un’avventura
nei Balcani. In realtà, non furono le macchinazioni degli
Alleati, ma la dislocazione delle forze tedesche a decidere la
situazione. Quando la 5ª e l’8 ª armata raggiunsero la Linea
Gotica, le loro forze complessive ammontavano soltanto a
21 divisioni, mentre la 10ª e la 14ª armata tedesche, grazie
al trasferimento di cinque divisioni fresche e agli effettivi di
altre tre, ne contavano 26. Anche se la Linea Gotica era 120
chilometri più lunga della Linea Gustav [il sistema difensivo
144
La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
che aveva il proprio centro in Cassino e che aveva retto fino
al maggio 1944 – n.d.r.], era appoggiata da un’eccellente
strada quasi parallela, la vecchia via Emilia romana nel
tratto da Bologna a Rimini, e che consentiva il trasferimento
di rinforzi da un punto minacciato all’altro, e lungo la costa
adriatica era avvantaggiata dalla presenza di non meno
di tredici fiumi che scendevano verso il mare, ciascuno dei
quali costituiva un grosso ostacolo per le operazioni.
Questo tipo di terreno e l’inizio delle piogge autunnali
garantivano a Kesselring che non sarebbe stato possibile
per ora occupare l’Italia settentrionale e, forse, neppure
sfondare la stessa Linea Gotica. Alexander, considerando
che era più facile sboccare nella grande pianura padana
dal lato adriatico che da quello tirrenico, durante il mese
d’agosto fece trasferire in segreto il grosso dell’8ª armata
sulla costa orientale. Il 23 agosto sferrò il suo attacco,
sfondò la Linea Gotica e avanzò fino a 16 chilometri
da Rimini, prima di arrestarsi davanti al fiume Conca,
poco lontano da Cattolica. Mentre l’armata sostava per
riorganizzarsi, Vietinghoff, che comandava la 14ª armata
tedesca, fece affluire rinforzi lungo la via Emilia per bloccare
l’avanzata. Gli inglesi ripresero l’offensiva il 12 settembre,
ma incontrarono un’accanita resistenza e la 1ª divisione
corazzata perse un tale numero di carri armati che dovette
essere ritirata dalle operazioni. Allo scopo di distogliere forze
nemiche dal fronte tenuto dagli inglesi, Alexander [generale
inglese, capo di tutte le forze alleate in Italia – n.d.r.]
ordinò a Clark [generale americano – n.d.r.] di sferrare
la sua offensiva lungo il versante tirrenico il 17 settembre,
attraverso un terreno molto meno promettente a nord di
Pisa. La piana costiera di quella zona era talmente stretta
145
8 MAGGIO
e dominata da montagne molto simili a quelle di Cassino,
che la 5ª armata fece solo lenti progressi. Durante i mesi
d’ottobre e novembre, sotto le piogge che trasformarono
in pantano la zona delle operazioni e gonfiarono in
piena i fiumi, la campagna si trascinò, guadagnando
pochi chilometri di terreno al prezzo di migliaia di morti.
L’8ª armata perse 14.000 uomini, tra morti e feriti, nelle
battaglie d’autunno sull’Adriatico, e i canadesi diedero il
contributo maggiore perché erano in prima linea. Il II corpo
canadese conquistò il 5 dicembre Ravenna e si spinse fino al
fiume Senio, raggiunto il 4 gennaio 1945. La 5ª armata, che
attaccava su per le montagne dell’Italia centrale, arrivò il 23
ottobre fino a 15 chilometri da Bologna, ma anch’essa subì
gravissime perdite (più di 15.000 uomini tra morti e feriti) e
si trovò su un terreno ancor più difficile di quello dell’armata
britannica. Rimase talmente indebolita che un contrattacco
tedesco di sorpresa in dicembre riconquistò una parte del
territorio occupato in settembre a nord di Pisa. […]
Gli eroi di tutta la campagna d’Italia, dal 1943 al 1944,
furono i soldati del genio: essi dovettero ricostruire sotto
il fuoco nemico i ponti demoliti – che le truppe alleate
incontravano ogni dieci-quindici chilometri nel corso della
loro avanzata su per la penisola –, disattivare le cariche di
demolizione, i campi minati e le trappole esplosive, che i
tedeschi si lasciarono abbondantemente dietro dopo ogni
ripiegamento, aprire con i bulldozer un passaggio tra le
rovine delle città e dei paesi a cavallo delle rotabili verso
il Nord, riattivare i porti bloccati dalle distruzioni della
battaglia. Anche la fanteria si dimostrò eroica: nessuna
campagna in Occidente costò più vittime di quella d’Italia
alle truppe di fanteria, in vite perdute e in ferite e mutilazioni
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rta Lame.
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8 MAGGIO
nel corso di brevi e violentissimi attorno ai capisaldi della
Linea Gustav, nel perimetro di Anzio e sulla Linea Gotica.
Queste perdite vennero subite sia dagli Alleati sia dai
tedeschi, in gran parte per le difficoltà naturali e il rigido
clima dell’inverno italiano: <<Una postazione in cima a un
costone roccioso era tenuta da quattro o cinque uomini…
Se uno di loro era ferito, doveva rimanere là con gli altri,
oppure cercare di arrivare, per i sentieri di montagna, fino
a un posto di medicazione. Se restava, era un peso per i
compagni e rischiava di morire congelato o dissanguato.
Se tentava di scendere era fin troppo facile… fermarsi a
riposare al riparo… o perdere la strada… e finire per morire
di freddo>>. Molti paracadutisti tedeschi della 1ª divisione
che difese con tanta tenacia Cassino devono aver fatto
questa fine; come anche molti americani, inglesi, indiani,
sudafricani, canadesi, neozelandesi, polacchi, francesi e (in
seguito) brasiliani, che combatterono contro di loro laggiù e
lungo la Linea Gotica.
( J. Keegan, La seconda guerra mondiale, Milano, Rizzoli, 2000,
pp. 378-381. Edizione italiana a cura di M. Pagliaro)
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La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE
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8 MAGGIO
INDICE ICONOGRAFICO
Immagine: Berlino, 30 aprile 1945; la bandiera rossa sventola sul
Reichtstag (Foto di Yevgeni Khaldei)
Fonte: La seconda guerra mondiale : immagini dal fronte / testi di David
Boyle. - Vercelli : White Star, 1999. - 598 p. : in gran parte ill. ; 31 cm.
(Traduzione e ampliamento del testo a cura di Fabio Bourbon)
Per concessione: Istituto Storico Parri Emilia-Romagna, Via Sant’Isaia, n.
18, 40100 - Bologna
Immagine: Sbarco in Normandia
Fonte: La seconda guerra mondiale : immagini dal fronte / testi di David
Boyle. - Vercelli : White Star, 1999. - 598 p. : in gran parte ill. ; 31 cm.
(Traduzione e ampliamento del testo a cura di Fabio Bourbon)
Per concessione: Istituto Storico Parri Emilia-Romagna, Via Sant’Isaia, n.
18, 40100 - Bologna
Immagine: Manifesto - Immagini del razzismo
Fonte: La menzogna della razza: documenti e immagini del razzismo e
dell’antisemitismo fascista / a cura del Centro Furio Jesi ; scritti di David
Bidussa ... [et al.]. - Bologna : Grafis, [1994]. - 399 p. : ill. ; 30 cm.
(Catalogo della Mostra tenuta a Bologna nel 1994. - Segue: Appendici
e repertori).
Per concessione: Istituto Storico Parri Emilia-Romagna, Via Sant’Isaia, n.
18, 40100 - Bologna
Immagine: Armi pesanti contro i partigiani - Porte Lame - Bologna 7 novembre 1944
Fonte: Fondo Fotografico Luigi Arbizzani, Istituto Storico Parri. Emilia-Romagna
Per concessione: Fondo Fotografico Luigi Arbizzani, Istituto Storico Parri
Emilia-Romagna, Via Sant’Isaia, n. 18, 40100 - Bologna
Immagine: Battaglia di Porta Lame. Al centro il capitano Gold comandante
del presidio delle SS tedesche operanti a Bologna. (7 novembre 1944)
Fonte: Fondo Fotografico Luigi Arbizzani, Istituto Storico Parri. Emilia-Romagna
Per concessione: Fondo Fotografico Luigi Arbizzani, Istituto Storico Parri
Emilia-Romagna, Via Sant’Isaia, n. 18, 40100 - Bologna
Immagine: Bologna 7 novembre 1944. Battaglia di Porta Lame. Canale
Cavaticcio, oggi coperto. A destra gli stabilimenti del macello comunale
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demoliti dai cannoni tedeschi. I partigiani superstiti, con i feriti in spalla,
risalirono a piedi il canale sino a via del Po
Fonte: Fondo Fotografico Luigi Arbizzani, Istituto Storico Parri. Emilia-Romagna
Per concessione: Fondo Fotografico Luigi Arbizzani, Istituto Storico Parri
Emilia-Romagna, Via Sant’Isaia, n. 18, 40100 - Bologna
Immagine: Bologna 7 novembre 1944. Battaglia di Porta Lame. I comandanti nazisti che guidano l’attacco di artiglieria contro la base partigiana
di via del Macello.
Fonte: Fondo Fotografico Luigi Arbizzani, Istituto Storico Parri. Emilia-Romagna
Per concessione: Fondo Fotografico Luigi Arbizzani, Istituto Storico Parri
Emilia-Romagna, Via Sant’Isaia, n. 18, 40100 - Bologna
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© Regione Emila-Romagna - Assemblea Legislativa
Progetto grafico: lucignolo progetti grafici (Bo)
I° edizione - finito di stampare il xx Xxxxxx 2011
stampa a cura di XXXXXXX
Francesco Maria Feltri
insegna Italiano e Storia
presso l'ITAS "Francesco Selmi" di Modena.
E' autore di numerosi manuali
di Storia per la Scuola Superiore,
tra cui ricordiamo "I giorni e le idee" (SEI, Torino, 2001)
e "Chiaroscuro" (SEI, Torino, 2011).
In qualità di studioso della Shoah,
ha collaborato con la Fondazione Anne Frank
di Amsterdam e con il Museo Yad Vashem di Gerusalemme.
Per l'Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna, ha
curato il sussidio didattico on line
"Viaggio visivo nel Novecento totalitario".
CONSAPEVOLEZZA
MEMORIA
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Cittadinanza
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