08 MAGGIO La fine della seconda Guerra Mondiale Francesco Maria Feltri CONSAPEVOLEZZA MEMORIA Cittadinanza CONSAPEVOLEZZA MEMORIA Cittadinanza Percorsi e temi di storia, per sentirsi cittadini in Europa, in Italia e in Emilia Romagna A cura di Francesco Maria Feltri Elenco dei volumi Modulo 1: 1° maggio, La festa del movimento operaio Modulo 2: 4 novembre, La memoria della prima guerra mondiale Modulo 3: 28 ottobre 1922, La marcia su Roma Modulo 4: 8 settembre, Fascismo, guerra e armistizio Modulo 5: 8 maggio, La fine della seconda guerra mondiale Modulo 6: 25 aprile, La festa della liberazione Modulo 7: 27 gennaio, La giornata della memoria Modulo 8: 2 giugno, La nascita della Repubblica Modulo 9: 10 febbraio, Giorno del ricordo Modulo 10: 8 marzo, La festa della donna Modulo 11: 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne INTRODUZIONE GENERALE Un nuovo inizio per la comunità: gli eventi frattura radicale All’inizio del XVI secolo, Niccolò Machiavelli era convinto che la storia fosse una specie di grande illusione, un errore di prospettiva. I continui rivolgimenti, che investono il mondo della politica, potrebbero indurci a pensare che il mutamento sia l’aspetto più vero ed ultimo della vicenda umana; per il pensatore politico fiorentino, al contrario, in ultima analisi non c’è alcun cambiamento davvero sostanziale. Siamo di fronte a increspature provvisorie, prive di conseguenze radicali, non ad autentiche e decisive fratture storiche. Per Machiavelli, la storia non è molto diversa dalla realtà naturale: certo, ogni estate, nel campo si raccolgono spighe differenti da quelle degli anni precedenti. Il procedimento, però, è sempre quello, ciclico e ripetitivo, e non c’è spazio per alcuna significativa novità. Per usare un’altra metafora, si potrebbe pensare ad un palcoscenico: cambiano gli attori e le prime donne; mutano i fondali e le ambientazioni. Eppure, la commedia rappresentata è sempre la stessa: e per di più, secondo Machiavelli, non è una commedia, bensì una tragedia, i cui ritmi e movimenti sono dettati dalla spietata natura degli esseri umani, decisamente più inclinata verso il male che verso il bene. Nel corso del XIX secolo, comunità nazionali, Stati e associazioni politiche di diversa natura incominciarono ad appropriarsi del tempo. Fino ad allora, il tempo era stato monopolio della Chiesa, che lo aveva strutturato secondo un preciso calendario liturgico. A scadenze periodiche, il fedele incontrava delle precise ricorrenze e festività (Natale, Pasqua, Pentecoste…), che gli permettevano di fare memoria dei principali eventi della vita di Cristo o della Chiesa delle origini, e quindi di riscoprire con rinnovata freschezza la propria identità di cristiano. A partire dall’Ottocento, mentre si affermava la Nazione, come II INTRODUZIONE GENERALE nuova fonte di valori e destinatario di fedeltà assoluta (fino al martirio), accanto al calendario liturgico cristiano – e in certi casi contro di esso, in precisa e polemica alternativa – si impose una serie di festività civili, che scandivano l’anno e spingevano l’individuo a riflettere sulla sua identità di cittadino e/o di membro di una comunità nazionale. Sia la Chiesa che le moderne comunità nazionali del XIX-XX secolo si ispiravano ad una concezione della Storia e del tempo diametralmente opposta a quella di Machiavelli. Pur focalizzando la loro attenzione su questioni molto diverse, autorità ecclesiastiche e intellettuali sensibili al tema della nazione erano convinti che nella storia si producessero alcuni eventi frattura radicale, capaci spezzare l’opaca omogeneità della vicenda storica. Le comunità umane che avevano fatto esperienza di uno o più di tali eventi, da essi uscivano radicalmente trasformate. Proprio per questo, avevano bisogno di una festa, che ne conservasse la memoria. Potevano essere esperienze traumatiche o felici, drammatiche o gioiose: comunque, non potevano e non dovevano essere più dimenticate, perché era grazie a quelle sconfitte o quelle vittorie, a quelle passioni o quelle resurrezioni, che la comunità si definiva nella propria identità più autentica e duratura. Ma la festa, civile o religiosa che sia, nel momento in cui spinge a fare memoria, mette in moto un meccanismo che è diverso e molto più forte del puro non dimenticare. Nel suo sforzo di essere efficace di fronte alla vicenda storica decisiva, la memoria diventa attualizzante. In effetti, se l’evento ricordato è capace di spezzare la storia, esso continua ad agire per sempre: la sua onda lunga raggiunge anche noi, che viviamo anni o secoli dopo l’evento. Insomma, tra comunità (religiosa o civile) e Storia si crea un circolo: per definire se stessa, la comunità deve andare al passato e riscoprire l’importanza di quell’evento; l’obiettivo, però, non è puramente archeologico: al contrario, III INTRODUZIONE GENERALE grazie alla riflessione sul passato, si tratta di agire sul proprio presente, illuminandolo di nuova luce, o meglio di speranze e valori capaci di superare il tempo, di parlare ad ogni generazione e di ispirarne anche oggi l’azione, religiosa, morale o politica. Memoria e cittadinanza attiva Diritti e democrazia non sono affatto qualcosa di ovvio, di normale, di scontato. Per certi versi, anzi, nel terribile panorama della storia sono l’eccezione: realtà fragili che sono state conquistate dopo innumerevoli sforzi e che, soprattutto nel Novecento, sono state infrante da progetti totalitari di vario tipo e di vario genere. Malgrado tutte le difficoltà, le sconfitte e i ritorni all’indietro, non è vero che nella storia non è mai cambiato nulla. Anche se i grandi progetti utopici, di qualunque matrice ideologica, sono tutti falliti, dopo avere provocato milioni di morti e disastri materiali incalcolabili, non è stato tutto inutile. La storia non è solo un computo di vittime, di un tipo o dell’altro. Senza indulgere ad alcun facile ottimismo, o cedere all’ingenua concezione secondo cui saremmo giunti alla fine della Storia e al migliore dei mondi possibili, è comunque vero che i cittadini e le cittadine di oggi possono condurre un’esistenza più libera e ricca di opportunità, rispetto a coloro che sono vissuti in altre epoche storiche. Nulla va dato per scontato o per definitivamente acquisito. Diritti e democrazia – lo ripetiamo – sono conquiste fragili e deteriorabili. Proprio per questo, a nostro parere, necessitano di una sempre maggiore consapevolezza, che a sua volta può emergere solo dalla memoria, cioè dalla riflessione storica. Anche ai giorni nostri, tale memoria tende ad organizzarsi intorno a degli eventi di forte impatto emotivo e simbolico; le celebrazioni ufficiali, però, talvolta li ricoprono di retorica e li rendono distanti dai cittadini. Paradossalmente, insomma, le ri- IV INTRODUZIONE GENERALE correnze possono ottenere l’effetto opposto, rispetto al fine originario per cui sono nate. La riflessione storica vorrebbe essere più sobria, più obiettiva, più scarna; proprio per questo, forse, riuscirà a far emergere di nuovo il significato di svolta epocale di questo o quell’evento. Se non si trasforma in spregiudicato strumento ideologico (è questo, infatti, il principale limite del cosiddetto uso pubblico della Storia), la conoscenza storica può rendere il cittadino pienamente consapevole dei propri diritti e dei propri doveri, nella misura in cui la riflessione sul passato aiuta a comprendere quanto i diritti stessi e la democrazia (in tutti i suoi aspetti, regole comprese) sono il frutto di complesse (e quindi, spesso, persino contraddittorie) vicende storiche, di lotte e di tragedie, vissute (e subite) da chi ci ha preceduto. Sotto questo profilo, il dovere morale e civile di fare memoria, per mantenere viva l’importanza di tutte le libertà e le opportunità che ci è concesso di vivere come cittadini, oggi è ancora più necessaria che nei secoli passati. Moduli per riflettere su storia e cittadinanza Il lavoro che proponiamo consisterà in alcuni moduli, ognuno dei quali avrà la stessa struttura di base, anche se potrà variare la quantità di materiale da cui verrà costituito. Ogni modulo (materialmente, un libretto di un centinaio di pagine) tratterà un tema, o un problema, importante per la costruzione dell’identità collettiva e di una comune cittadinanza. Il principio di base che informa l’intero lavoro è lo sforzo di intrecciare costantemente tre piani d’analisi: la dimensione internazionale (l’Europa e, talvolta, il mondo intero), la dimensione nazionale (l’Italia), la dimensione locale (l’Emilia Romagna). Per ogni tema, ai tre livelli citati, si cercherà di individuare almeno una vicenda significativa, che si è impressa nella memoria V INTRODUZIONE GENERALE collettiva e che per un gruppo di cittadini è stata epocale, cioè decisivo, nel caratterizzare la loro esistenza. Scendendo in dettaglio, ogni modulo avrà la seguente struttura ideale: Dimensione internazionale Scheda 1 Scheda 2 Scheda 3 Scheda Dimensione nazionale di apertura: Introduzione ad un tema Scheda 1 Scheda 2 Scheda 3 Dimensione regionale Scheda 1 Scheda 2 Scheda 3 Anche se, in linea di principio, ogni modulo è autonomo, autosufficiente, concluso in se stesso, ciascun elemento ovviamente dialoga con gli altri dai quali riceve ulteriore chiarezza e forza di significato. Buona lettura, a tutti i cittadini e le cittadine che vorranno seguirci nel nostro percorso. F. M. F. VI Indice Introduzione3 Dimensione internazionale: Normandia, Berlino, Hiroshima Gli ultimi anni di guerra 23 Memorie in conflitto, non condivise 40 La fine della guerra in Asia 53 Dimensione nazionale: L’occupazione tedesca in Italia La repubblica sociale italiana 75 La svolta di Salerno 91 Le violenze contro i civili 99 Dimensione regionale: Guerra e violenza in Emilia-Romagna La strage di Monchio 115 Le stragi dell’estate 1944 125 Lo sfondamento della linea gotica 138 1945; Berlino, 30 aprile stag sventola sul Reicht a ss ro ra ie nd ba la 8 MAGGIO La fine della seconda guerra mondiale Introduzione I n Europa, l’atto finale della seconda guerra mondiale ebbe inizio il 16 aprile 1945, allorché l’esercito sovietico sferrò l’offensiva decisiva contro Berlino, ove Hitler aveva tentato di organizzare un’ultima disperata resistenza. I russi schierarono 2 milioni di uomini, 41.000 cannoni, 6.300 carri armati e 5.000 aerei. Il Terzo Reich non aveva più forze integre e di pari potenza da contrapporre all’Armata Rossa, né poteva fare gran che il cosiddetto Volksturm, l’armata popolare frettolosamente messa in piedi dal ministro della propaganda Joseph Goebbels arruolando a forza ragazzini di 13 anni e anziani che avevano superato la sessantina. L’ultima speranza di Hitler svanì il giorno 12 aprile, al momento della morte del presidente americano Franklin Delano Roosevelt; il dittatore nazista, infatti, sperò vivamente che il nuovo capo di stato americano, Harry Truman, decisamente più anticomunista di Roosevelt, troncasse l’alleanza con l’URSS ed anzi iniziasse una campagna militare contro di essa, per impedire che i bolscevichi conquistassero mezza Europa. Imparato che Truman era determinato a combattere fino alla fine del Terzo Reich, Hitler perse completamente il controllo della situazione. Non solo continuò a dirigere eserciti tedeschi e divisioni corazzate ormai inesistenti ma, cosa ancora più grave, comunicò al ministro dell’Economia Albert Speer il cosiddetto Ordine Nerone: sentitosi tradito dal popolo tedesco, che a suo giudizio non si era rivelato degno della grande impresa in cui egli, nella sua qualità di Führer, lo aveva guidato, ora Hitler praticamente auspicava, per quel popolo, la completa distruzione. Egli muoveva dal presupposto secondo cui, in Germania, <<ciò che resta(va) dopo la battaglia (erano) solo gli 3 8 MAGGIO esseri inferiori; quelli buoni erano caduti>>. Di conseguenza così ordinava Hitler - <<tutti gli impianti militari, di trasporto, di comunicazione, industriali e di approvvigionamento che il nemico può in qualsiasi modo utilizzare nell’immediato e in tempi ravvicinati per la prosecuzione del conflitto vanno distrutti>>. Fortunatamente per il popolo tedesco, l’ordine di distruzione totale non fu eseguito se non in minima parte. A Berlino si combatté spesso strada per strada e casa per casa; un punto di resistenza particolarmente difficile da conquistare fu il Reichstag, il parlamento tedesco, trasformato in fortezza. Stalin aveva ordinato che la bandiera rossa doveva sventolare sulla sua sommità il 1° maggio; pertanto, il generale sovietico Cuikov piazzò davanti all’edificio 90 cannoni pesanti e lo investì di tutto il fuoco possibile. Per alcuni giorni, si combatté in modo durissimo, all’interno del parlamento: pare che solo nella battaglia del Reichstag siano morti 2.200 sovietici e 2.500 tedeschi. Il 28 aprile, il rifugio segreto di Hitler – un’imponente struttura sotterranea in cemento armato, denominata Führerbunker e costruita sotto la Cancelleria del Reich – era ormai completamente circondato. Consapevole della disfatta imminente, il comandante delle SS – Heinrich Himmler – cercò di aprire negoziati personali con gli anglo-americani, attraverso la mediazione del conte svedese Bernadotte. Il suo progetto si basava sulla convinzione che gli Alleati avrebbero accettato le SS come forze d’ordine, che avrebbero impedito al paese di sprofondare nel caos e nella violenza generalizzata. Intuito che inglesi e americani avrebbero accettato solo una resa incondizionata, Himmler si travestì da sergente maggiore della Gestapo e cercò di nascondere la propria vera identità. Riconosciuto, fu arrestato, ma riuscì a suicidarsi. Imparata la notizia del tradimento di Himmler, il 29 aprile anche Hitler cominciò a preparare il proprio suicidio. Chiamata la sua segretaria personale, la giovane dattilografa Traudl Junge, 4 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE le dettò il suo testamento politico, esortando i nuovi <<capi della nazione e tutti i seguaci all’osservanza scrupolosa delle leggi razziali e alla resistenza spietata contro il giudaismo internazionale che intossica tutti i popoli del mondo>>. Analogamente, stabilendo che <<la meta finale deve essere inoltre la conquista di uno spazio ad oriente per il popolo tedesco>>, confermava fino all’estremo i pilastri della concezione geo-politica e razziale che l’aveva guidato fin dal 1923. Dopo essersi sposato con la sua amante Eva Braun, Hitler si tolse la vita insieme a lei, ingerendo una capsula di cianuro e sparandosi un colpo alla testa (30 aprile). I loro corpi furono subito portati in cortile, cosparsi di benzina e bruciati. Poco dopo, il gesto del Führer fu imitato dal ministro Goebbels e da sua moglie, che uccisero col cianuro anche i loro sei figli. Il 1° maggio, Radio Amburgo trasmise il seguente annuncio: <<Oggi pomeriggio [il Führer è] morto per la Germania al suo posto di comando nella Cancelleria del Reich, combattendo fino all’ultimo contro il bolscevismo>>. Il giorno seguente, il comandante dell’esercito tedesco che combatteva ancora a Berlino, generale Weidling, ordinò alle sue truppe di cessare ogni azione ostile contro i sovietici. La battaglia per Berlino provocò ai sovietici almeno 304.000 tra morti e feriti; i tedeschi ebbero forse un milione di vittime, includendo in tale numero sia i prigionieri militari che furono condotti nei campi di concentramento russi, sia circa 100.000 civili, vittime dei bombardamenti, delle violenze arbitrarie commesse da nazisti fanatici (che giustiziavano chiunque parlasse di resa), dei saccheggi e degli stupri compiuti dai soldati russi. Alle ore 12.45 del 7 maggio, il generale tedesco Alfred Jodl firmò la resa senza condizioni della Germania nel quartier generale di Eisenhower, comandante supremo delle forze angloamericane, a Reims, in Francia, non lontano da Parigi. Impa- 5 8 MAGGIO rata la notizia della capitolazione, Stalin si infuriò e si rifiutò di considerare valida la resa tedesca: anzi, richiamò subito in patria il generale sovietico Ivan Susloparov, che aveva presenziato alla cerimonia di Reims a nome dell’URSS, e ordinò che fosse giustiziato. L’8 maggio, a Berlino Karlshorst, presso il quartier generale russo, la firma della resa fu ripetuta dal generale tedesco Keitel, di fronte al generale sovietico Zukov e ad alcuni alti ufficiali americani, inglesi e francesi. In pratica, era la ripetizione della cerimonia di Reims: questa volta, però, la figura più alta in grado era un sovietico, il che stava a significare (agli occhi di Stalin) che il Terzo Reich si arrendeva innanzi tutto all’URSS. La firma di Keitel fu apposta sul documento di resa alle 22.43, ora di Berlino: ufficialmente, si può dire che, in Europa, la seconda guerra mondiale si concluse in quel preciso momento 6 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE LA BATTAGLIA DI BERLINO T utte le testimonianze relative all’agonia di Berlino presentano quadri terribili e drammatici. I civili, chiusi nelle cantine, erano sotto le bombe giorno e notte, privi di cibo e di acqua. Alla fine di aprile, il quartiere del centro che ospitava i ministeri era ormai stretto d’assedio. Il 27 aprile la Zitadelle, ossia il centro, in cui si trovavano i ministeri, il quartier generale della Difesa, il Reichstag e il bunker di Hitler, era completamente accerchiata. A difenderla c’era il battaglione delle guardie di Berlino, compresa la divisione Grossdeutschland che nel luglio 1944 aveva sbaragliato la congiura contro Hitler, numerose unità delle SS - dal battaglione d’assalto Charlemagne formato dalle SS francesi a un distaccamento della divisione Walloon delle SS del Belgio francofono -, i Freikorps Adolf Hitler e altre migliaia di SS, fra cui le 1.200 guardie del corpo del Führer, una divisione di SS al comando di Wihlelm Mohnke e oltre 2.000 volontari, che erano arrivati a Berlino per combattere contro i russi. Goebbels aveva organizzato anche gruppi di Giovani hitleriani. Erano giovanissimi e, convinti che fosse loro dovere morire per salvare il Führer, spesso correvano incontro ai carri armati con i loro Panzerfaust [lanciarazzi portatili: una semplice ma efficace arma anticarro – n.d.r.]. La città era ormai un vero e proprio mattatoio. Dieter Borkowski, un sedicenne della Gioventù hitleriana, che difendeva la torre antiaerea in Friedrichshain, annotò nel diario: <<Ci giungevano già gli evviva degli attaccanti sovietici in Kniprodestrasse. C’erano morti e feriti ovunque nei cinque piani della torre di avvistamento, pervasa da un nauseabondo odore dolciastro. Ricevemmo l’ordine di occupare la nuova linea del fronte in Höchstestrasse. 7 8 MAGGIO Le due torri sono come isole in mezzo al mare, perché i russi hanno già superato da parecchio tempo queste due fortezze… I rifornimenti di viveri e munizioni sono diventati pessimi>>. Mentre i sovietici lottavano per conquistare un edificio dopo l’altro e una via dopo l’altra, nelle viscere della città si svolgeva una battaglia altrettanto terribile. Migliaia di persone avevano cercato riparo nel mondo sotterraneo delle gallerie e dei rifugi che attraversavano Berlino. I bunker sotto la Cancelleria erano ormai una città nel sottosuolo, gremita di dipendenti statali che non tornavano più alle loro case e di moltissimi cittadini che si erano rintanati nei tunnel più facilmente accessibili della metropolitana, mescolandosi alle truppe per proteggersi dalle granate. I sovietici li avevano seguiti nel labirinto di gallerie che si diramava dall’Anhalter Bahnhof. Ma quando le SS se n’erano accorte, le avevano allagate, nonostante la presenza di tanti civili. […] Ovunque c’erano cadaveri martoriati e nessuno si occupava più dei feriti. Il centro di Berlino era diventato un lago di fango e di morte: <<L’ululato e l’esplosione degli Stalinorgeln [= Organi di Stalin, potenti lanciarazzi utilizzati dai sovietici; l’arrivo delle granate era preceduto da un suono simile ad ululato o ad una lunga nota musicale – n.d.r.], le urla dei feriti, il rombo dei motori e il ra-ta-ta-ta delle mitragliatrici. Nuvole di fumo, puzzo di cloro e fuoco. Donne morte per strada, uccise mentre andavano a prendere l’acqua, ma anche, qua e là, donne con il Panzerfaust, slesiane assetate di vendetta>> scriveva un testimone. Leo Welt andò a vedere la mattina dopo lo zoo colpito dall’artiglieria sovietica: <<Alligatori e serpenti strisciavano per le strade. Gli scimpanzè si dondolavano dagli alberi>>. Il giovane diarista della Panzer Division Müncheberg descrisse gli ultimi assalti all’acquario: <<Le vie sono avvolte dal fumo. Il lezzo 8 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE di morte è a tratti insopportabile. Ieri notte, al piano sopra il nostro, alcuni ufficiali di polizia e alcuni soldati hanno celebrato l’addio alla vita, nonostante le granate. Questa mattina uomini e donne, abbracciati stretti, giacevano ubriachi sulle scale. In strada, attraverso i crateri scavati dalle bombe, si intravedono le gallerie della metropolitana. Nel nostro gruppo tutti sono stati feriti più volte. Il generale Mummert ha il braccio destro al collo. Sembriamo scheletri ambulanti… Dalle cantine grida di feriti. Niente più anestetico. Ogni tanto da sottoterra sbuca fuori con le mani sulle orecchie una donna che non sopporta più le urla di dolore>>. Nel centro di Berlino ci sono ancora oggi molti segni di quelle terribili settimane, ma la scoperta più sorprendente è stata il bunker di Potsdamer Platz poco dopo l’abbattimento del Muro. Nel giugno del 1991, mentre gli operai stavano ripulendo, per un concerto dei Pink Floyd, un appezzamento di terreno che in precedenza si trovava nella <<terra di nessuno>> della Germania Est, vennero alla luce i resti di un bunker nazista, rimasto praticamente intatto dalla fine della guerra. Aveva una superficie di circa 300 metri quadri e probabilmente offriva riparo a una trentina di ufficiali. All’interno c’erano ancora scatole di munizioni, cataste di armi, fra cui un lanciarazzi, e molte bottiglie vuote di Bordeaux. Aleggiava un odore nauseabondo e l’acqua sporca, su cui galleggiavano detriti, arrivava fino al ginocchio. Le pareti, tutte dipinte, erano un inno alle SS vittoriose, che proteggevano i contadini, le donne e i bambini tedeschi, facevano prigionieri gli inglesi a Dover e torreggiavano orgogliose in primo piano con gli stivali lucidi e l’elmetto, mentre alcune suore, simbolo della vecchia, timida Germania, si nascondevano dietro gli alberi. Quasi tutti i murales erano contornati dalle foglie di 9 8 MAGGIO quercia e coronati dall’aquila, utilizzata spesso dalle SS nel loro complesso simbolismo. La celebrazione dell’ideale nazista, che emanava da quelle pareti ammuffite, riportava alla memoria il fanatismo di uomini che, ormai sulla soglia della morte, continuavano a sognare immagini di vittoria. Il bunker fu sigillato poco dopo la sua scoperta con grandi lastroni di cemento, per timore che diventasse un luogo di culto per i neonazisti. (H. Richie, Berlino. Storia di una metropoli, Milano, Mondadori, 2003, pp. 635-637. Traduzione di C. Lazzari) L’INCONTRO DI UNA BAMBINA TEDESCA CON HITLER I n una Berlino ormai assediata dai russi e sottoposta giorno e notte ai bombardamenti, la piccola protagonista della scena descritta in queste pagine aveva otto anni. Insieme a un gruppo di altri bambini berlinesi, Helga Schneider fu condotta per alcuni giorni nel bunker sotterraneo in cui viveva Hitler. In quel luogo, Helga poté rifocillarsi e, soprattutto, incontrare di persona il Führer. Sentiamo dei rumori e da una porta sulla sinistra entra un gruppo di giovani SS che si dispone lungo la parete di fronte a noi. Li segue una donna in uniforme che regge un cesto. Nella sala c’è un silenzio assoluto, mentre il mio stomaco si contrae in uno spasmo nervoso. E finalmente arriva lui, Adolf Hitler, il Führer del Terzo Reich ! […] 10 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE Cammina piano, le spalle lievemente curve, il passo strascicato: non posso crederci! Sarebbe questo l’uomo che ha fatto delirare le folle? Io vedo invece un vecchio dai movimenti stentati. Noto che ha un lieve tremolio alla testa e che il braccio sinistro pende inerte lungo il suo fianco come se fosse di gesso. Sono davvero incredula! Hitler comincia a dare la mano ai primi bambini della fila, rivolgendo loro brevi domande di circostanza. Sento le loro voci, sommesse, intimorite, impacciate, che mormorano: <<Sì, mein Führer. No, mein Führer >>. Infine tocca a me. Il mio cuore perde un paio di colpi e arrossisco violentemente. Temo di svenire, di stramazzare ai piedi del Führer, anche se è l’ultima cosa che desidero accada. Adolf Hitler mi tende la mano e mi fissa negli occhi. Ha uno sguardo penetrante che mi imbarazza. Nelle sue pupille c’è uno strano luccichio, come se un folletto ci ballasse dentro. La stretta del Führer è molle e ne sono sconcertata. Sarebbe questa la mano dell’uomo che guida il destino della Germania? La mano è calda e sudaticcia come quella di un malato febbricitante. Ne ricevo un’impressione sgradevole e sono tentata di ritirare la mia, ma mi domino. […] Adolf Hitler mi chiede: <<Come ti chiami? >> <<Helga >>, rispondo. Mi dimentico di dire <<mein Führer >>. Segue una pausa. Ho l’impressione che Hitler cerchi qualcosa da dire, qualcosa come: <<Soffrite molto per questa guerra? >>. Oppure: <<Come va la distribuzione dei viveri in città? >>. Invece mi chiede: <<Ti piace stare nel bunker della Cancelleria, Helga? >> <<Si! >> È una bugia. Non mi piace stare nel bunker perché soffro di claustrofobia [= acuto disagio che alcune persone provano, quando si trovano in un luogo chiuso – n.d.r.]. Mi fa sentire se- 11 8 MAGGIO polta, rinchiusa in una bara. L’unica cosa che riesce a compensare il mio senso di prigionia è il cibo che arriva regolarmente, ma per il resto quasi preferisco la cantina della Lothar-Bucher Strasse, benché la detesti. […] Alzo gli occhi e fisso il copricapo di Hitler con l’aquila e la croce uncinata, poi il mio sguardo scivola su un volto dal colorito grigiastro, che somiglia davvero poco a quello dei tanti ritratti appesi nel bunker. La faccia che ho davanti è sciupata. Intorno agli occhi si spiega un fitto ventaglio di rughe e la pelle delle guance è floscia. Solo i baffetti ben tagliati mantengono un barlume di consistenza fra quei lineamenti sfatti. Quando la mano di Hitler si libera dalla mia provo un senso di rilassamento. Lui allunga il braccio verso il cesto, estrae una barretta di marzapane e me lo porge. È finita. Il Führer passa oltre e tocca a mio fratello. […] Questo è dunque il grande Führer del Reich, il capo delle Forze Armate tedesche, il capo di tutti noi! Questo è l’uomo dal quale dipende il nostro destino. Ci ha augurato buona fortuna. Heil Hitler ! (H. Schneider, Il rogo di Berlino, Milano, Adelphi, 1998, pp. 79-82) 12 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE L’AGONIA DI BERLINO N el 1954, uscì negli Stati Uniti una straordinaria testimonianza che narrava dall’interno gli ultimi mesi di guerra. L’autrice del diario era una donna di Berlino, che volle restare anonima in quanto, al centro del racconto, sta la drammatica esperienza dello stupro che la scrittrice (insieme ad altre 100.000 donne berlinesi) dovette ripetutamente subire da parte dei soldati russi. Il passo seguente descrive una Berlino ormai sfinita: la difesa è assegnata a vecchi e ragazzi, velocemente inquadrati nella milizia popolare (Volksturm). Chi disertava o esprimeva pubblicamente la propria sfiducia nella vittoria, invece, veniva giustiziato sommariamente. Domenica 22 aprile 1945, una di notte Che altro posso fare? Solo aspettare. La contraerea e l’artiglieria scandiscono la nostra giornata. A volte vorrei che tutto fosse già finito. Che strano periodo. Si vive la Storia di prima mano, eventi che in seguito si dovranno cantare e raccontare. Ma da vicino si annullano in affanni e paure. La Storia è molto scomoda da sopportare. […] L’eco degli spari si incunea dentro i cortili. Per la prima volta capisco il termine rombo del cannone, che per me sinora era un po’ come dire coraggio da leone o animo eroico. Ma l’espressione è davvero efficace. Fuori, pioggia torrenziale e temporali. Stando sulla porta di casa ho seguito con lo sguardo gruppi di soldati in transito, che trascinavano stancamente i piedi. Alcuni zoppicavano. In silenzio, ognuno per conto proprio, camminavano lemme lemme verso la città senza tenere il passo. I volti infossati e la barba lunga, sulla schiena bagaglio pesante. <<Che succede?>>, grido io verso di loro. <<Dove andate?>>. Nessuno risponde. Uno borbotta qualcosa di incom- 13 8 MAGGIO prensibile. Un altro dice chiaramente fra sé: <<Führer, comanda – ti seguiremo fino alla morte>>. Tutte queste figure sono così miserevoli, ormai neppure più uomini. C’è solo da compatirli. Da loro, d’altronde, non si spera né ci si aspetta più nulla. Sembrano già vinti, prigionieri. Senza vederci guardano apatici verso di noi, che stiamo sul ciglio della strada. È evidente che per loro noi, popolazione civile, berlinesi, siamo indifferenti, anzi irritanti. Non credo che si vergognino per il loro decadimento fisico. Per quello sono troppo apatici e stanchi. Completamente esauriti. Mi è passata la voglia di guardare. […] Lunedì, 23 aprile Ore 13, di ritorno dall’aver fatto provvista di carbone. Verso sud camminavo visibilmente verso il fronte. Il tunnel della ferrovia urbana è già sbarrato. Alcune persone ferme lì davanti dicevano che dall’altra parte avevano impiccato un soldato, in mutande, al collo un cartello con la scritta:<<Traditore>>. Pende così in basso che si può far ruotare prendendolo per le gambe. Lo racconta uno che l’ha visto di persona e che ha cacciato via i ragazzacci che si divertivano a farlo. Berliner Strasse ha un aspetto desolato, mezza sventrata e chiusa dalle barricate. Code davanti ai negozi. Volti apatici nel rumore della contraerea. Autocarri che marciano in direzione della città. In mezzo figure sporche, infangate, con lo sguardo inespressivo, le bende lacere, il passo lento. Una colonna di carri di fieno, a cassetta alcune teste grigie. Vicino alla barricata sta di guardia la milizia popolare in uniformi rabberciate di vari colori. Fra loro ragazzi giovanissimi, sbarbatelli sotto elmetti d’acciaio troppo grandi, con orrore si sentono le loro voci squillanti. Avranno al massimo quindici anni, così sottili e minuscoli, insaccati nelle giacche delle uniformi che ballano intorno al corpo. Perché i sentimenti si ribellano tanto contro questa strage degli 14 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE innocenti? Appena i ragazzi hanno tre o quattro anni di più, il fatto che vengano uccisi e dilaniati ci appare del tutto naturale. Dov’è il limite? Nel momento in cui si cambia la voce, forse? Ripensandoci, infatti, ciò che mi tormenta davvero sono soprattutto le voci acute, squillanti, di queste povere creature. Sinora l’uomo e il soldato erano la stessa cosa. E un uomo è un procreatore. Il fatto che questi ragazzi vengano sacrificati ancora prima di raggiungere l’età adulta deve certo andare contro una legge di natura, contro ogni istinto di conservazione della specie. Come certi pesci o insetti che divorano i loro piccoli. E il fatto che tuttavia accada è un sintomo di follia. (Anonima, Una donna a Berlino. Diario aprile-giugno 1945, Torino, Einaudi, 2004, pp. 21-25. Traduzione di P. Severi) JOSEPH E MAGDA GOEBBELS, DOPO LA MORTE DI HITLER A seguito della morte di Hitler, il ministro della propaganda del Terzo Reich, Joseph Goebbels, si proclamò Cancelliere. Tuttavia, la situazione era così disperata che, dopo poco tempo, decise di suicidarsi insieme alla propria moglie Magda. Cessata la comunicazione radio, Goebbels si dedicò alle poche incombenze che le funzioni di cancelliere, a suo modo di vedere, gli imponevano ancora di sbrigare. Ebbe alcuni colloqui, appose alcune firme e infine si ritirò per concludere il diario che stava scrivendo da anni. Alla fine formulò una specie di bilancio 15 8 MAGGIO e stilò un memoriale di sette pagine in cui giustificò la politica che aveva attuato con Hitler e di cui era stato il persuasivo patrocinatore. Dopo circa un’ora Goebbels lasciò la sua stanza e consegnò il manoscritto al sottosegretario Werner Naumann con la preghiera di trovare il modo di farlo uscire da Berlino e di preservarlo per i posteri. Tuttavia il suo proposito fallì perché Naumann, come poi sostenne, perdette i fogli nella confusione dei giorni della fuga. Non è tuttavia difficile ricostruire che cosa avrebbe voluto dire con quella sua difesa, almeno a grandi linee e sulla base dei testi ai quali Goebbels stava lavorando da tempo e con particolare intensità nelle ultime settimane. L’avvio fu certamente costruito, anche stavolta, da quella concatenazione di giustificazioni che da sempre aveva addotto per spiegare l’operato suo e di Hitler, a cominciare dalla volontà di difendere la cultura europea e dai giudizi di condanna dell’Occidente che, per cieco odio verso il Reich, aveva negato l’esistenza dell’incombente, mortale pericolo e abbandonato il vecchio continente alle orde asiatiche. Poi la sua critica si rivolse sicuramente alle proprie fila, rivelatesi non solo infiacchite dai continui tradimenti delle vecchie classi dirigenti, ma anche incapaci di combattere la guerra totale con la necessaria determinazione. Il tutto accompagnato e accentuato dalle immagini esaltate di una lotta universale fra potenze luciferine degli inferi da una parte e schiere dell’ordine e della giustizia dall’altra, con Hitler nelle vesti di condottiero-messia. Si rifece insomma ancora una volta a quelle metafore e a quei ragionamenti para-religiosi con i quali, quasi vent’anni prima, aveva creato e consolidato sino a renderlo irresistibile il mito del Führer. Di lì a pochissimo, come già in altre occasioni potrebbe aver concluso blasfemicamente: quando l’Europa fosse stata in mano ai bolscevichi, avrebbe ricordato e rimpianto il Führer che era salito ancora una volta sul 16 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE Golgota a sacrificare la sua vita per la redenzione del mondo. In serata Magda Goebbels raggiunse il suo alloggio nell’antebunker. Si era incontrata più volte con uno dei medici personali di Hitler, il dottor Stumpfegger, e con l’aiutante maggiore dell’amministrazione sanitaria delle SS dottor Kunz, per farsi dire come avrebbe potuto uccidere rapidamente e senza farli soffrire i suoi figli. Aveva già consegnato a Hanna Reitsch uno scritto indirizzato al figlio di primo letto Harald Quandt, in cui aveva tentato di giustificare ciò che si apprestava ora a fare. Aveva deciso – così diceva la lettera – di dare alla sua vita di nazionalsocialista <<l’unica, onorevole conclusione possibile>>. E poi aveva proseguito: <<Sappi che sono rimasta con papà [= Goebbels – n.d.r.] contro la sua volontà, e che il Führer avrebbe voluto, ancora domenica scorsa, aiutarmi a uscire da qui. Ma non ho avuto bisogno di pensarci troppo. La nostra splendida idea affonda, e con lei affonda tutto ciò che di bello, ammirevole, nobile e buono ho conosciuto in vita mia. Il mondo che verrà dopo il Führer e dopo il nazionalsocialismo non sarà tale che possa valer la pena di viverci, ed è per questo che ho portato con me i bambini. Il mondo che verrà dopo sarebbe indegno di loro e un dio pietoso mi capirà se io stessa li libererò da questa prospettiva>>. […] Era la sera del 1° maggio quando Magda Goebbels mise a letto i suoi figli dando loro da bere un sonnifero, praticò forse loro anche delle iniezioni di morfina e fece infine cadere nelle loro bocche tenute aperte, in presenza del dottor Stumpfegger, gocce di acido prussico. Soltanto la figlia maggiore Helga, che già nei giorni precedenti aveva chiesto, inquieta, che cosa ne sarebbe stato di tutti loro, sembra essersi difesa. Gli ematomi poi riscontrati sul corpo della ragazzina di 12 anni inducono a ritenere che il veleno non le fu somministrato senza l’impiego della forza. Grigia in volto e pronunciando 17 8 MAGGIO le parole: <<È fatta!>>, Magda Goebbels scese quindi nel settore inferiore del bunker dove l’aspettava il marito, e raggiunse assieme a lui l’alloggio dove si mise a fare, piangendo, un solitario. (J. Fest, La disfatta. Gli ultimi giorni di Hitler e del Terzo Reich, Milano, Garzanti, 2003, pp. 132-134. Traduzione di U. Gandini) LA RESA DEL TERZO REICH L a resa del Terzo Reich ebbe luogo in due cerimonie, che di fatto furono una la ripetizione dell’altra. A Reims, tuttavia, i veri protagonisti furono gli anglo-americani; a seguito dell’ira di Stalin, l’atto di resa fu ripetuto a Berlino Karlshorst, a segnalare che i sovietici erano i veri vincitori della guerra e che il loro contributo era stato quello determinante. Anche se a est la lotta si protrasse più a lungo, l’8 maggio 1945 cessavano ufficialmente le ostilità tra la Germania e gli Alleati. Il feldmaresciallo Wilhelm Keitel, ex capo di stato maggiore dell’OKW [=Oberkommando des Wehrmacht, Comando supremo delle forze armate – n.d.r.] e primo lacchè militare di Hitler, fu accompagnato poco prima di mezzanotte all’istituto tecnico di Karlshorst, uno dei pochi edifici di Berlino ancora in piedi, per ratificare la capitolazione già resa a Montgomery nella Brughiera di Lüneburg, e ad Einsenhower a Reims. Di fatto, la cerimonia di Karlshorst fu resa necessaria dall’ira sovietica 18 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE per il fatto che Keitel si fosse già arreso senza condizioni allo SHAEF. L’8 maggio, ventiquattr’ore più tardi, i comandanti alleati erano in attesa, guidati da Zukov. Tedder, vice di Eisenhower, chiese: <<Ha ricevuto la dichiarazione di resa incondizionata? È pronto a perfezionare le disposizioni?>>. Aggiustatosi il monocolo all’occhio sinistro, Keitel tirò fuori il documento concordato a Reims il giorno prima: <<Ja, in Ordnung>> (Sì, va bene). Oltre alle sue medaglie, il primo soldato di Hitler esibiva ancora il distintivo aureo del Partito nazionalsocialista. Il tenente colonnello Karl Brehm, suo aiutante, era in lacrime. Keitel si tolse un guanto, firmò l’atto di resa e disse con sarcasmo a Brehm: <<Dopo la guerra, potrai fare la tua fortuna scrivendoci su un libro: Con Keitel nell’accampamento russo. I due tedeschi se ne tornarono nelle rispettive celle, e i russi apparecchiarono la tavola per uno dei loro luculliani banchetti, protrattosi fino alle 4 del mattino. <<Con la loro uscita dalla stanza>> osservava Andrej Vjshinskij, vicecommissario agli esteri sovietico, <<la Germania è stata cancellata dalle pagine della storia. Non perdoneremo e non dimenticheremo mai>>. Quando il generale Johannes von Blaskowitz, comandante in capo del contingente tedesco in Olanda, si arrese alla I Armata canadese, i componenti della delegazione tedesca – scriveva un testimone - <<sembravano quasi in trance: avevano un’aria intontita, trasognata, come non si rendessero conto che il loro mondo era completamente finito>>. Il comandante supremo dello SHAEF inviò un telegramma di mirabile sintesi allo stato maggiore congiunto: <<La missione di questo Corpo di spedizione alleato è stata compiuta alle 02.41, ora locale, del 7 maggio 1945, firmato Eisenhower>>. Nella campagna in Europa nordoccidentale il capo delle forze alleate occidentali non si distinse per doti strategiche, ma si guadagnò 19 8 MAGGIO la gratitudine della storia per la pazienza, il buon senso e la generosità d’animo con cui seppe guidare la marcia delle forze armate verso la vittoria. Winston Churchill, l’essere umano a cui più di ogni altro il mondo doveva la salvezza dalla dominazione nazista, annunciava via etere al popolo britannico: <<La guerra contro la Germania è dunque al termine…Dopo la caduta della valorosa nazione francese, noi, da quest’isola, dal nostro Impero unito, abbiamo portato avanti la lotta da soli per un anno intero prima di essere coadiuvati nel nostro sforzo dalla potenza militare della Russia sovietica e, in seguito, dal formidabile potenziale di mezzi e di risorse degli Stati Uniti. Alla fine, la quasi totalità del mondo era unita contro i malfattori che giacciono ora prostrati ai nostri piedi. Possiamo concederci un breve istante di giubilo>>. […] <<Non festeggiammo la fine della guerra>> ricordava il soldato semplice Ron Gladman del 1^ Hampshires. <<Era ricompensa sufficiente esserci arrivati vivi>>. (M. Hastings, Apocalisse tedesca. La battaglia finale 19441945, Milano, Mondadori, 2006, pp. 642-644. 20 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE 21 dia Sbarco in Norman Dimensione internazionale Normandia, Berlino, Hiroshima Gli ultimi anni di guerra D al punto di vista politico, gli eventi più importanti del 1943 furono le conferenze di Casablanca (13-24 gennaio) e di Teheran (22-26 novembre). Al primo incontro parteciparono solo Churchill e Roosevelt, in quanto Stalin era impegnato a dirigere le operazioni militari contro Stalingrado. La decisione più importante presa a Casablanca fu quella di non interrompere la guerra fino alla resa incondizionata della Germania. Tale formula aveva, come obiettivo primario, lo scopo di rassicurare Stalin, sempre timoroso che - a seguito di un accordo separato con Hitler - gli Angloamericani lasciassero l’URSS a dissanguarsi da sola contro il Terzo Reich. A Teheran, invece, partecipò anche Stalin; sotto il profilo militare, fu deciso che, entro il 1944, gli angloamericani avrebbero aperto un secondo fronte in Francia. Una simile opzione fu osteggiata, fino all’ultimo, da Churchill, che proponeva in alternativa uno sbarco nei Balcani, ovvero un attacco da sud alla <<fortezza Europa>> nazista. La preoccupazione dello statista inglese era evidente: ormai certo della sconfitta di Hitler, Churchill cominciava a temere le conseguenze future dell’avanzata sovietica verso l’Europa centrale. La proposta di Churchill (non meno della paura di Stalin, sopra segnalata, di una pace separata delle potenze capitalistiche con Hitler) evidenzia come, per molti aspetti, anche durante la guerra permanessero tra i diversi nemici della Germania tutti quei sospetti e quelle diffidenze che esistevano prima del conflitto. Solo Hitler aveva potuto dar vita, nel 1941, alla strana alleanza tra le due potenze liberali, da un lato, e la Russia comunista dall’altro. Del resto, e non a caso, a Teheran rimase 23 8 MAGGIO del tutto aperto il problema del futuro assetto politico e sociale della Polonia, la quale - in caso di crollo della resistenza tedesca - sarebbe evidentemente passata sotto il controllo militare sovietico. L’agonia della Germania nazista iniziò nell’estate del 1944, per effetto di una doppia e contemporanea offensiva degli angloamericani e dei sovietici. I primi, il 6 giugno 1944, procedettero all’invasione della Francia, che ebbe come atto iniziale lo sbarco in Normandia. Fu un’operazione militare di proporzioni colossali, basata su una concentrazione di uomini e mezzi che non aveva precedenti nella storia: circa 200 mila uomini, su 6.500 mezzi da sbarco, poterono operare protetti da 200 navi da guerra e da oltre 13 mila aerei. L’esercito tedesco non poté opporsi a lungo ad un simile spiegamento di forze, col risultato che, il 25 agosto, Parigi venne liberata. Le prime truppe ad entrare nella capitale furono francesi. Si trattava di reparti che avevano aderito ad un appello lanciato all’indomani della disfatta, il 18 giugno 1940, dal generale Charles De Gaulle; rivolgendosi ad una Francia sconfitta e demoralizzata, dove molti erano tentati di collaborare con l’occupante tedesco, egli aveva esortato alla resistenza ed alla continuazione (con ogni mezzo possibile) della guerra contro la Germania. Rientrato finalmente a Parigi, De Gaulle assunse la carica di Presidente della Repubblica francese, e si può dire che per tutta la sua vita egli si sia sforzato di mantenere alto il prestigio della Francia nel mondo; la sconfitta nel 1940 e la liberazione da parte degli anglo-americani, tuttavia, avevano mostrato chiaramente che la Francia non era più una grande potenza capace di guidare e dominare la situazione politica internazionale. Il 23 agosto 1944 l’Armata Rossa scagliò l’offensiva decisiva, che, a seguito del crollo del settore centrale del fronte orientale, comportò la cattura di 350.000 prigionieri e aprì ai russi le por- 24 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE te della Polonia. La Germania tentò di rispondere a questi colpi mettendo in funzione una serie di nuove armi che, frutto della più avanzata tecnologia tedesca, annunciarono gli strumenti bellici tipici della seconda metà del XX secolo. Si trattava di aerei a reazione e di razzi a lunga gittata che furono chiamati <<armi della vendetta>>: in tedesco, Vergeltungswaffen, da cui derivano le abbreviazioni V1 e V2. Le prime bombe volanti, soprannominate V1, furono pronte il 22 giugno 1944. Ne furono lanciate 10, ma solo 5 raggiunsero Londra. L’8 settembre fu lanciato il primo missile V2, decisamente più maturo di quello precedente. Delle seimila V2 prodotte, solo 1.403 furono lanciate contro l’Inghilterra, e di fatto solo 517 caddero sulla capitale. Alla fine, le bombe volanti uccisero circa 9.000 londinesi, ma il tonnellaggio totale dell’esplosivo contenuto (più o meno 2.500 tonnellate in sei mesi di lanci) rappresentava appena lo 0,23 per cento della quantità sganciata dalle forze aeree alleate sulla Germania nello stesso periodo. La maggior parte dei razzi che vennero utilizzati dai tedeschi fu prodotta in una gigantesca fabbrica sotterranea, che ricevette il nome in codice di Dora. Gli impianti furono collocati in tunnel aperti dentro una montagna, nella Germania centrale, a circa 70 chilometri da Buchenwald. Tutta la manodopera era costituita da deportati, che alloggiavano in un grande campo di concentramento allestito nei pressi della fabbrica sotterranea. Nel novembre 1944, a Dora si trovavano 26.000 internati (circa 1.300 erano italiani), saliti a 40.000 nel marzo 1945. È possibile che, a causa delle terribili condizioni di vita e di lavoro, siano morti circa 20.000 detenuti. Il 20 luglio 1944, nel suo quartier generale, in Prussia orientale, Hitler scampò ad un attentato portato a compimento dal colonnello von Stauffenberg e da altri alti ufficiali decisi a chiudere la guerra, prima che la Germania fosse completamente occupata e devastata. La repressione di Hitler fu durissima e investì nu- 25 8 MAGGIO merosi militari di alto grado, tra cui il celebre feldmaresciallo Erwin Rommel. Nel dicembre 1944, Hitler lanciò un’ultima disperata offensiva a occidente, nella regione delle Ardenne; dopo alcuni successi iniziali, tuttavia, i carri armati tedeschi furono fermati dalla carenza di carburante e dalla irresistibile supremazia aerea degli anglo-americani. All’inizio del nuovo anno, gli eserciti degli Alleati penetrarono da est e da ovest all’interno del territorio tedesco vero e proprio. Il 25 aprile 1945, russi e americani riuscirono a incontrarsi a Torgau, sul fiume Elba, nel cuore della Germania. Il Terzo Reich aveva ormai i giorni contati. 26 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE LE DEBOLEZZE TEDESCHE NEL 1944 L o sbarco in Normandia( denominata in codice operazione Overlord) fu possibile solo perché i tedeschi, nel 1944, erano in gravi difficoltà. Mentre la maggior parte dell’esercito era impegnato sul fronte orientale, il principale punto di forza degli Alleati era una straordinaria supremazia aerea, un controllo del cielo praticamente assoluto. <<Se attaccano in Occidente,>> aveva detto Adolf Hitler nel dicembre 1943 <<quell’attacco deciderà della guerra>>. Nonostante il Vallo atlantico [= un complesso sistema di fortificazioni eretto dai tedeschi sulla costa francese, per contrastare l’eventuale sbarco nemico – n.d.r.] presentasse dei punti deboli, la conclamata impazienza di Hitler di fronte all’invasione degli alleati non rappresentava una mera millanteria. Le sue armate in Russia venivano inesorabilmente costrette alla ritirata e distrutte; solo tra il luglio 1943 e il maggio 1944, la Germania aveva perso 41 divisioni sul fronte orientale. Il numero degli uomini sotto le armi era sceso da un totale di oltre 3 milioni nel luglio 1943 a 2,6 milioni in dicembre. In seguito, tra il marzo e il maggio 1944, i tedeschi avevano subito altre 341.950 perdite e altri 150.000 uomini erano stati perduti nel quadro degli sbarchi alleati in Italia. L’unica possibilità rimasta alla Germania di evitare la catastrofe consisteva ora nell’annientare Overlord. <<La nostra sola speranza è che sbarchino dove possiamo buttargli contro l’esercito>> aveva detto il generale von Thomas a un compagno di prigionia. Se gli alleati fossero stati ricacciati in mare, ci sarebbero voluti anni prima che avessero potuto rilanciare 27 8 MAGGIO un nuovo attacco, se mai fossero stati in grado di riprovarci. In tal caso, il contingente dell’esercito tedesco nell’Europa nordoccidentale, 59 divisioni, poteva essere trasferito quasi al completo all’est per sferrare l’attacco decisivo contro i sovietici. Entro l’anno sarebbero stati disponibili in grandi quantità le armi segrete e gli aerei a reazione. Da allora in poi, confidava Hitler, tutto sarebbe stato possibile. Anche se si trattava di uno scenario minato da elementi di precarietà, non era tuttavia irrealizzabile, a patto però che si riuscisse a impedire agli alleati di metter piede in Francia. Nel gennaio 1944 il generale Jodl fece un giro d’ispezione lungo le coste della Manica e stilò un rapporto a fosche tinte sullo stato delle difese. Il costante dissanguamento di uomini, da occidente a oriente, aveva stremato le singole divisioni. Nelle isole Normanne, la 319ª divisione era ormai ridotta al 30 per cento dei suoi effettivi. L’operazione di riequipaggiamento stava provocando il caos: l’artiglieria era dotata di ben 21 modelli diversi di cannoni: francesi, russi e cecoslovacchi. I comandanti protestavano che non si lasciava loro il tempo per programmi essenziali di addestramento in quanto gli uomini venivano impiegati di continuo per costruire fortificazioni. I tedeschi avevano la stessa preoccupazione degli alleati di mantenere a ogni costo la supremazia aerea sulla zona probabile dell’invasione, eppure Jodl era costretto ad ammettere che <<non dobbiamo accettare battaglia contro la forza aerea del nemico>>. Allo sventurato comandante in capo von Rundstedt non si chiedeva mai di quali forze avesse bisogno per respingere l’invasione; ma ci si limitava a fargli sapere quante gliene avrebbero mandate. Il grosso delle sue truppe era costituito da soldati di età avanzata e fisicamente poco 28 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE idonei, da convalescenti reduci dal fronte orientale, da una miscellanea ben poco affidabile di disertori polacchi, russi e italiani e dagli uomini del servizio del lavoro obbligatorio. Anche le divisioni di prima linea che avevano cominciato ad affluire in Francia nella primavera del 1944 secondo la Direttiva 51 di Hitler, che intendeva rafforzare il dispositivo occidentale, erano per la maggior parte formazioni già duramente provate sul fronte orientale, che avrebbero avuto bisogno di essere ricostruite e riequipaggiate di sana pianta se si voleva che riacquistassero la loro primitiva potenza di combattimento. Per quanto Hitler fosse ben consapevole della necessità di opporre una valida difesa all’invasione, era tuttavia succube dell’implacabile imperativo che continuava ad esigere uomini e carri armati per combattere contro la minaccia in atto da est, piuttosto che contro quella solo ancora prevista da ovest. Se anche dopo la vittoria si diffuse tra gli alleati occidentali la convinzione dettata dall’euforia di aver accentrato su di sé le apprensioni e il massimo sforzo della Germania nazista, bastano le cifre a smentirla. Nel gennaio 1944 Hitler aveva in campo 179 divisioni sul fronte orientale, 26 nel sud-est dell’Europa, 22 in Italia, 16 in Scandinavia e 53 in Francia e nei Paesi Bassi. Alla data del 6 giugno, in Francia e nei Paesi Bassi c’erano 59 divisioni – 41 delle quali a nord della Loira –, 28 in Italia, e ancora 165 all’est. Quanto alle divisioni Panzer, in gennaio, 24 erano sul fronte orientale e 8 altrove, e in giugno sarebbero diventate rispettivamente 18 e 15. È stupefacente il fatto che, pur dopo tre anni di perdite devastanti all’est e dopo il micidiale bombardamento dell’industria bellica di Hitler, la Germania riuscisse ancora a mettere insieme ed equipaggiare in occidente forze capaci di causare le 29 8 MAGGIO più gravi difficoltà a quanto di meglio la Gran Bretagna e l’America fossero in grado di gettare in campo. <<La possibilità che Hitler riesca a ottenere una vittoria in Francia non si può escludere>> scriveva con umor tetro Brooke il 25 gennaio. <<I rischi della battaglia sono incalcolabili>>. Il punto di maggior debolezza della Germania sulla costa della Manica nella primavera del 1944 era costituito dal suo brancolare nel buio. La Luftwaffe aveva perduto non solo la sua potenza, ma anche il suo ardore combattivo. Pur se il dominio aereo degli alleati poneva delle difficoltà, la ricognizione aerea sarebbe stata in qualche misura possibile se i piloti tedeschi fossero stati ancora animati dalla primitiva determinazione. La Germania non diede invece segno di aver valutato quanto sarebbe venuta a costare quella carenza, né d’altro lato di quanto fosse inferiore il suo servizio di interpretazione fotografica rispetto a quello degli alleati. (M. Hastings, Overlord. Il D-Day e la battaglia di Normandia, Milano, Mondadori, 1985, pp. 72-74. Traduzione di G. Salinas) LA GERMANIA NAZISTA E LE NUOVE TECNOLOGIE BELLICHE I tedeschi non riuscirono mai ad avvicinarsi davvero alla costruzione di una bomba atomica. Ottennero ottimi risultati, invece, nella fabbricazione di razzi, che trasformarono in bombe volanti, spedite contro la Gran Bretagna. Hitler ripose 30 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE grandi speranze nelle nuove armi, ma esse si rivelarono affatto incapaci di capovolgere le sorti del conflitto. Le prospettive della costruzione di armi atomiche erano molto più realistiche in Germania, dal momento che gran parte delle ricerche pionieristiche della fisica atomica erano tedesche. In Germania esistevano risorse scientifiche imponenti, e una comunità scientifica di primo livello, anche dopo l’emigrazione all’ovest di eminenti ricercatori negli anni Trenta. Fu un chimico tedesco, Otto Han, a pubblicare nel gennaio del 1939 il primo saggio in cui si dimostrava che la fissione nucleare dell’uranio era possibile; era questo il processo che costituiva il nucleo della potenza nucleare. I frutti della ricerca oltreoceano erano facilmente disponibili sui periodici scientifici. Nella primavera del 1939 alcuni fisici tedeschi compresero che l’energia rilasciata nella fissione dell’uranio sarebbe stata sufficiente non solo a produrre una nuova sorgente di energia, ma anche a scatenare un’esplosione in grado di surclassare quelle prodotte con armi convenzionali. Il 24 aprile del 1939 il chimico di Amburgo Paul Harteck, membro del Partito nazista che negli anni Venti aveva lavorato con Rutheford a Cambridge, comunicò al commissariato per gli armamenti notizie sulla potenziale nuova arma: << Il paese – ammoniva – che per primo ne farà uso, avrà sugli altri un vantaggio incolmabile >>. Lo stesso mese il ministro dell’Istruzione tedesco istituiva un gruppo di ricerca sul nucleare di alto livello; a settembre molte delle sue risorse andavano a confluire in un progetto ancora più ampio finanziato dall’esercito. Nel dicembre seguente Werner Heisenberg, il grande fisico, sottoponeva al gruppo di ricerca un saggio in cui esponeva dettagliatamente il funzionamento di un reattore nucleare e 31 8 MAGGIO la possibilità di costruire una bomba atomica. Nei due anni successivi i gruppi di ricercatori si concentrarono sullo scopo pratico di passare dalla teoria alla costruzione di un ordigno. [...] All’inizio del 1942 l’esercito abbandonò il programma. La prospettiva di produrre un’arma in tempo per essere utilizzata sembrava remota. Ancora una volta il ministro dell’Istruzione si assunse ogni responsabilità: ai fisici atomici fu ordinato di lavorare a progetti bellici di più immediato utilizzo, e non si arrivò a produrre né un reattore nucleare né quantità adeguate di uranio arricchito. Il lavoro di ricerca continuò, interrotto dai bombardamenti e dall’evacuazione, ma quando i servizi segreti alleati nel 1945 perlustrarono la Germania alla ricerca di scienziati e di laboratori trovarono che il paese era ancora a qualche anno di distanza dalla produzione di un ordigno atomico. Alcuni scienziati tedeschi accusarono il sistema per gli eccessi di compartimentalizzazione e di interferenza politica; altri, tra cui Heisenberg, sostennero di essersi deliberatamente tirati indietro per impedire che le armi nucleari cadessero nelle mani di Hitler. La verità è più complessa: al di là delle opinioni degli scienziati tedeschi, Hitler restò ostile al progetto nel suo complesso. Privo dell’appoggio incondizionato della dirigenza politica il programma atomico non riuscì a coinvolgere le enormi risorse lavorative, materiali e intellettuali necessarie. Sebbene Hitler si considerasse un esperto di armi e di carri, i principi della fisica moderna gli risultavano ostici, e non amava discuterne; gli scienziati di partito bollavano gran parte della nuova ricerca come fisica non ariana, giudaica. Quando Speer cercò di parlargli di tali ricerche Hitler le condannò in quanto << filiazione della pseudo-scienza 32 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE ebraica >>: era vittima della paura che le esplosioni nucleari si dimostrassero incontrollabili, e potessero incendiare l’idrogeno dell’atmosfera, distruggendo il pianeta. Niente di quanto gli fu sottoposto al tempo del conflitto riuscì a convincerlo della realizzabilità a breve delle armi atomiche, almeno quanto bastava per cancellare il suo scetticismo. [...] Il peso che aveva Hitler nel campo della ricerca e delle sue applicazioni lo si comprende dal destino del programma missilistico tedesco. [...] Nel 1932 l’esercito decise che il progetto era così importante da istituire un apposito laboratorio della massima segretezza. Il primo impiegato fu uno studente ventenne del politecnico di Berlino, Wernher Freiherr von Braun. Nonostante la giovane età, von Braun aveva ben compreso i principi della propulsione a razzo, e aprì la strada allo sviluppo della prima generazione di razzi militari. Nel 1935 i risultati furono tali da garantirsi i generosi finanziamenti e la cooperazione della Luftwaffe [ = l’aviazione tedesca - n.d.r. ]. Le due armi combinarono le proprie ricerche su una remota landa deserta della costa baltica, a Peenemuende. Qui si costruirono laboratori, impianti e rampe di lancio gigantesche sotto la guida di un ex capitano di artiglieria, Walther Dornberger. [...] Nell’agosto del 1943 la RAF [ = l’aviazione inglese - n.d.r. ] distrusse la base di ricerche missilistiche di Peenemuende, non appena la notizia delle armi segrete trapelò a occidente. Nonostante questo smacco, Hitler insistette con determinazione nella strategia dell’arma miracolosa. L’intero progetto fu rilevato dall’esercito e consegnato alle SS. Himmler fece costruire un centro di produzione missilistica scavato nella roccia del massiccio di Harrz, promettendo di soddisfare la richiesta hitleriana di 33 8 MAGGIO cinquemila missili al mese. Trenta mila lavoratori prelevati dai campi di concentramento lavorarono come schiavi nelle cavità sotterranee in condizioni inenarrabili. Quando Speer visitò l’impianto, si imbatté in colonne di uomini esausti, sudici, con << visi inespressivi, occhi vuoti >>. Nei tunnel a malapena rischiarati, lunghi due chilometri e mezzo, c’era aria stantia e puzza di escrementi. Speer provò un senso di stordimento e di vertigine; tornato in superficie, ebbe bisogno di una bella bevuta. [...] Le prime bombe volanti [soprannominate V1 – n.d.r. ] furono pronte il 22 giugno [1944], ma solo dieci poterono essere lanciate e solo 5 raggiunsero Londra. Il primo missile [soprannominato V2 – n.d.r. ] fu lanciato l’8 settembre. Dei seimila prodotti solo 1.403 furono lanciati contro l’Inghilterra, e di fatto solo 517 caddero sulla capitale. Alla fine furono circa 5.800 le bombe lanciate, 2.420 delle quali raggiunsero la capitale, su una produzione di 30 mila. Le armi della vendetta [in tedesco, Vergeltungswaffen, da cui derivano le abbreviazioni V1 e V2 – n.d.r.] uccisero 9 mila londinesi, ma il tonnellaggio totale dell’esplosivo contenuto (più o meno 2.500 tonnellate in sei mesi di lanci) rappresentava appena lo 0,23 per cento della quantità sganciata dalle forze aeree alleate sulla Germania nello stesso periodo. (R. Overy, La strada della vittoria. Perché gli Alleati hanno vinto la seconda guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 343-349.Traduzione di N. Rainò) 34 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE L’ATTENTATO CONTRO HITLER I n un libro documentato e minuzioso, Joachim Fest (uno dei più autorevoli biografi di Hitler) ha ricostruito l’attentato messo in atto contro il dittatore tedesco il 20 luglio 1944 a Rastenburg, in Prussia orientale, dove Hitler aveva fissato il suo quartier generale. Il colonnello Stauffenberg riuscì a collocare una bomba nella sala riunioni in cui Hitler stava ascoltando il resoconto dei suoi più alti ufficiali, ma la bomba non ebbe una potenza sufficiente ad ucciderlo. Stauffenberg arrivò poco dopo le 10 del mattino all’aeroporto di Rastenburg, assieme a Werner von Haeften e al maggior generale Stieff, il quale si era unito a loro a Berlino dopo essere stato a Zossen. I tre raggiunsero in macchina il circolo ufficiali nella cosiddetta Zona protetta II. Stauffenberg aveva sottobraccio la borsa con il materiale che avrebbe dovuto illustrare durante la riunione con Hitler. La seconda borsa, quella con i due ordigni esplosivi, rimase a Haeften che, in compagnia di Stieff, si incaricò di portarla fino al quartier generale dell’OKH [= Oberkommando des Heeres, Comando supremo dell’Esercito – n.d.r.]. Secondo quanto avevano convenuto, Stauffenberg e Haeften si sarebbero incontrati poco prima della riunione nel quartier generale del Führer – la Tana di lupo – per procedere allo scambio delle borse. Verso le 11, Stauffenberg fu convocato dal capo di stato maggiore dell’esercito, generale Walther Buhle. I due, dopo un breve scambio di idee, raggiunsero insieme l’ufficio di Keitel nel bunker dell’OKW [= Oberkommando des Wehrmacht, Comando supremo delle forze armate – n.d.r.], situato nella Zona protetta I. […] Stauffenberg, 35 8 MAGGIO entrato nel bunker, pregò l’aiutante maggiore di Keitel, il maggiore Ernst John von Freyend, di indicargli un locale per rinfrescarsi e anche per cambiarsi di camicia. Era infatti una giornata molto calda. Mentre Keitel e gli altri ufficiali uscivano all’aperto per recarsi alla sala delle riunioni, Stauffenberg incontrò Haeften nel corridoio e, insieme, entrarono nello spogliatoio del bunker. Stauffenberg aveva appena cominciato a inserire e a collegare i due detonatori in una delle cariche esplosive, quando si verificò il primo contrattempo: fatalità volle che il generale Fellgiebel telefonasse proprio in quel momento, chiedendo di parlare urgentemente con Stauffenberg. Freyend rispedì allora nel bunker il maresciallo maggiore Werner Vogel perché dicesse al colonnello Stauffenberg di sbrigarsi. Quando Vogel entrò nello spogliatoio, vide i due ufficiali intenti a sistemare un oggetto in una delle loro borse. Mentre stava dicendo loro della telefonata di Fellgiebel e li avvertiva che gli altri ufficiali li stavano aspettando fuori, Freyend gridò dall’ingresso: <<Stauffenberg, faccia presto!>>. Vogel rimase fermo sulla porta, tanto che Stauffenberg dovette chiudere precipitosamente la borsa mentre era già in movimento. Haeften si trattenne ancora un po’ nello spogliatoio per raccogliere gli incartamenti sparsi e stiparli nell’altra borsa. La telefonata di Fellgiebel e l’improvvisa comparsa del maresciallo Vogel hanno probabilmente contribuito a fare la storia. Furono le prime, forse già decisive intromissioni del caso che portarono infine al fallimento di tutto il piano. Non si può infatti escludere che Stauffenberg abbia dovuto rinunciare proprio per questi contrattempi a predisporre la seconda carica esplosiva. A tutt’oggi, però, non si 36 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE sa come mai, pur non avendola innescata, non l’infilò semplicemente nella borsa accanto all’altra già pronta all’uso: indubbiamente la detonazione dell’una avrebbe provocato lo scoppio <<per simpatia>> anche dell’altra. Non convince l’argomentazione proposta da alcuni secondo la quale l’ingombro e il peso dei due ordigni sarebbero stati eccessivi per poterli portare insieme nella sala delle riunioni senza dare nell’occhio: infatti pesavano poco meno di un chilo l’uno e avevano fino a poco tempo prima trovato agevolmente posto nella borsa di Haeften. Non si chiarisce plausibilmente il mistero di questa inspiegabile omissione neppure chiamando in causa il nervosismo di Stauffenberg, per quanto l’inattesa comparsa di Vogel potesse disturbato. È più probabile semmai che Stauffenberg non conoscesse esattamente l’efficacia dei suoi ordigni. Convinto che una sola bomba potesse in ogni caso bastare, non prese forse neanche in considerazione l’eventualità di impiegarle entrambe, contemporaneamente. Aveva portato con sé la seconda solo per poter disporre di una soluzione alternativa in caso di uno svolgimento imprevedibilmente diverso dei fatti. Infatti, i due congegni chimici d’accensione a tempo erano impostati in modo diverso: uno per far scoppiare l’esplosivo dopo dieci minuti, l’altro dopo mezz’ora. È indubbio comunque, secondo il giudizio di tutti gli esperti, che l’impiego anche del secondo ordigno, che sarebbe deflagrato nonostante la mancanza dell’innesco, non avrebbe solo raddoppiato ma addirittura moltiplicato l’effetto distruttivo, e nessuno dei partecipanti sarebbe sopravvissuto. Lasciato il bunker dell’OKW, Stauffenberg, con la borsa in mano e in compagnia di Buhle e John von Freyend, percorse a piedi i trecento metri fino alla zona di 37 8 MAGGIO sicurezza interna (la cosiddetta area protetta del Führer) e alla baracca per le riunioni situata al di là di un’alta recinzione metallica. Strada facendo declinò l’offerta di Freyend di portargli la borsa. Gliela affidò solo all’ingresso della baracca, pregandolo di <<sistemarmi il più vicino possibile al Führer>> per poter <<seguire bene tutto>> durante la conferenza. All’interno del locale il rapporto di mezzogiorno era già cominciato. Il generale Heusinger stava illustrando la situazione sul fronte orientale. Keitel lo interruppe per annunciare che Stauffenberg era arrivato e che era pronto a tenere la sua relazione. Hitler gli porse la mano <<con il suo solito sguardo indagatore, ma senza dire una parola>>. Intanto Freyend collocava la borsa di Stauffenberg ai piedi del tavolo, alla destra di Heusinger e dell’aiutante maggiore di questi, colonnello Brandt, che erano a loro volta alla destra di Hitler. Stauffenberg cercò in ogni modo di star vicino a Hitler, ma poi trovò posto solo a un’estremità del tavolo, mentre la borsa rimaneva appoggiata sul lato opposto, accanto allo zoccolo massiccio, là dove Freyend l’aveva collocata. Le 12 e 40 erano passate da poco. In quell’attimo la quiete della giornata fu lacerata da un’esplosione assordante. Contemporaneamente – come alcuni dei presenti ricordarono in seguito – si levò una fiammata gialla e azzurra. […] Tutt’attorno erano piovuti pezzi di vetro, legno e cartone pressato, seguiti poi da brandelli di carta carbonizzata e di materiale isolante. Nel silenzio improvviso che seguì l’esplosione risuonarono le voci di persone che chiedevano l’intervento dei medici. Mentre Stauffenberg e Haeften salivano sull’automobile che li stava aspettando e ordinavano all’autista di condurli all’aeroporto, fu 38 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE trasportato fuori dalla baracca un ferito. Era disteso su una barella ed era stato coperto con l’impermeabile di Hitler. Stauffenberg e Haeften ne dedussero che Hitler doveva essere morto. (J. Fest, Obiettivo Hitler, Milano, Garzanti, 1999, pp. 230-233. Traduzione di U. Gandini) 39 8 MAGGIO Memorie in conflitto, non condivise L ’8 maggio 2005, in occasione del sessantesimo anniversario della vittoria, il governo russo (non più sovietico, dal 1991) organizzò a Mosca un’imponente cerimonia di commemorazione. Con un gesto clamoroso, il governo dell’Estonia declinò l’invito che aveva ricevuto a partecipare e invitò tutti gli altri paesi dell’Est Europa a fare altrettanto. Agli occhi di un estone, di un lituano, di un lettone o di un polacco, in effetti, il 1945 è un anno molto diverso da quello che esso può apparire a un inglese, a un francese, e perfino a un italiano e a un tedesco. Per i britannici, l’8 maggio 1945 fu il giorno della vittoria, per i francesi il giorno della disfatta del nemico (anche se la Francia, nel 1940, era stata umiliata e la vittoria era venuta solo grazie alla tenacia inglese e alla potenza americana). Per italiani e tedeschi, la fine della guerra coincise con la fine della dittatura e con la rinascita nazionale: solo un pugno di fanatici e di nostalgici si ostinava a restare fedele, malgrado tutto, alle idee dei regimi che dapprima avevano cancellato il sistema parlamentare, e poi avevano trascinato Italia e Germania, in un’avventura bellica che aveva devastato i due paesi e li aveva persino trasformati, rispettivamente, in complice e artefice di un genocidio gestito con criteri industriali. <<Varsavia non è la Normandia>>. Così un quotidiano tedesco, nel giugno 2004, commentò il diverso spirito con cui furono commemorati lo sbarco anglo-americano in Francia e la grande offensiva sovietica dell’estate 1944, che portò i russi fino alla Vistola, cioè alle porte della capitale polacca. In Europa occidentale, la liberazione dall’occupazione tedesca e la fine della guerra coincisero con la rinascita della democrazia 40 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE e la sua rifondazione su basi nuove, come dimostrano la Costituzione italiana del 1948 e la Legge fondamentale tedesca del 1949. Il quadro è molto diverso se ci spostiamo nei Paesi Baltici, in Polonia e, sia pure con qualche peculiarità specifica, in Bulgaria, Romania, Ungheria e Cecoslovacchia. In queste aree, la sconfitta del nazismo non avvenne per opera dell’esercito americano, bensì grazie all’Armata Rossa, che ben presto, da liberatore, si trasformò in strumento di instaurazione e di conservazione di nuovi regimi totalitari, di segno comunista. Per esprimere questa situazione complessa e contraddittoria, lo scrittore ungherese Sandor Marai ha provocatoriamente intitolato Liberazione il romanzo in cui evoca gli ultimi terribili giorni di guerra a Budapest. Nazisti ed estremisti di destra ungheresi danno ancora la caccia agli ebrei e agli oppositori, tra cui il padre della giovane protagonista, che ha fortunosamente trovato rifugio in una cantina sufficientemente robusta da resistere alle bombe. Finalmente, arrivano i primi soldati sovietici… e la sospirata liberazione coincide con lo stupro della donna, condotto in modo freddo da un soldato che non è neppure un bruto ubriaco, ma una figura dotata di portamento fiero e vestito di una divisa perfetta e ordinata. Il clamoroso gesto compiuto dal governo dell’Estonia nel 2005 si spiega soprattutto se si tiene conto di un dato ulteriore: per i Paesi Baltici, l’8 maggio 1945 non significò solo occupazione da parte dei sovietici, ma addirittura la perdita definitiva dell’indipendenza (già compromessa dal primo intervento sovietico del 1939 e dall’occupazione nazista del 1941), cioè la definitiva annessione all’URSS. Sarebbero tornati indipendenti solo nel 1991. A Vilnius (capitale della Lituania) nell’edificio che aveva ospitato prima la sede della Gestapo, poi quella del KGB, fu subito aperto un museo dedicato ai crimini di entrambi i totalitarismi: basti pensare che, secondo Marta Craveri, tra il 1940 e il 1953 furono 203.590 le persone deportate dai paesi baltici 41 8 MAGGIO (118.599 lituani, 52.541 lettoni e 32.540 estoni), mentre circa altrettante vennero condannate ai lavori forzati. Analogamente, a Riga, è stato aperto un Museo della doppia occupazione, che mette sul medesimo piano tedeschi e russi, nazisti e comunisti. Semmai, nei Paesi Baltici, il rischio che si corre oggi – nel momento in cui è mutato di segno il significato simbolico da assegnare all’8 maggio nella memoria collettiva nazionale – è quello di minimizzare la gravità delle violenze naziste, a cominciare dalla Shoah, che in Lituania e Lettonia ebbe caratteri particolarmente tragici. La ragione di tale oblio non deriva solo dalla tendenza a considerare il comunismo come male prioritario e assoluto, che per più tempo ha inciso sulla storia nazionale e violentato le popolazioni baltiche. Porre l’accento sulle violenze russe, soprattutto, permette di dimenticare le complicità della popolazione civile lettone e lituana nel processo di sterminio. In particolare, dev’essere ricordato l’episodio che si verificò a Kaunas nell’estate del 1941, allorché un consistente gruppo di ebrei della città fu ucciso a colpi di spranga, di fronte ad una folla plaudente. Mai come in queste terre, le memorie divergono: non solo il giudizio di un cittadino delle repubbliche baltiche sulla guerra è diverso da quello di un cittadino inglese; persino all’interno di questi paesi la memoria è lacerata, visto che per un ebreo lituano o lettone l’8 maggio 1945 segnò la salvezza, e quindi è una ricorrenza degna di felice commemorazione, mentre per i non ebrei è giorno di lutto nazionale. 42 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE AMBIGUITÀ DELL’8 MAGGIO L e date dell’8 maggio (resa ufficiale del Terzo Reich) e del 9 maggio (il giorno in cui la firma della capitolazione tedesca fu resa nota alla popolazione sovietica) non evocano affatto le stesse memorie in tutto il mondo. Innanzi tutto, gran parte della popolazione dell’Europa dell’Est si rifiuta di utilizzare il termine <<Liberazione>>, sostenendo di essere semplicemente passata da un’occupazione ad un’altra, da una dittatura ad un’altra. Inoltre, va ricordato che gli algerini, proprio in occasione dei festeggiamenti per la vittoria, chiesero l’indipendenza del loro paese: ai loro occhi, la fine del dominio coloniale era perfettamente coerente con gli obiettivi di libertà, in nome dei quali era stata combattuta la guerra contro Hitler. Invece di rispondere positivamente a queste richieste, l’esercito francese di stanza in Algeria compì una strage, gettando un’ombra sull’8 maggio e una macchia anche sulle potenze occidentali che avevano vinto la guerra mondiale. Nella memoria dei popoli e delle popolazioni che nel 194445 ritornarono, o caddero solo allora, sotto il dominio sovietico, l’esaltazione iconografica del 9 maggio 1945 acquisì valenza negativa. Per queste comunità (per gli stati baltici in primo luogo) il dolore arrecato dai sovietici soverchiò i crimini tedeschi macchiati di nazionalsocialismo. Si instaurò così un collegamento assai problematico: nella costruzione cronologica dell’immagine storica, alle conseguenze negative del dominio sovietico, vissute sempre più duramente dopo il 1945, si associavano sempre più le esperienze subite durante la precedente sovietizzazione del 1940-41. La memoria di questi paesi si rivelò contaminata 43 8 MAGGIO dai crimini di cui si era macchiata parte della popolazione baltica (primi fra tutti lituani e lettoni) quando, nel 1941, diede il benvenuto agli invasori tedeschi, che venivano a liberarli dal giogo sovietico, con efferati pogrom ai danni degli ebrei locali. Nel Baltico, ma anche nei territori di confine fra la Polonia orientale e l’Ucraina, un nazionalismo ridotto alla sua componente etnica e con forti connotazioni antisemite si unì a un anticomunismo radicalizzato, generando un atteggiamento che si sarebbe in seguito riscontrato, in misura diversa, anche negli alleati della Germania nell’Europa centrale e meridionale. L’autocoscienza di quei popoli, che dopo il 1989-90 assume tratti antitotalitari, in qualche area si avvicina pericolosamente, in una deliberata contraddizione del comunismo sovietico, a un discorso simpatizzante, persino apologetico, del nazismo. Di qui, a volgere la vittoria dell’Unione Sovietica sulla Germania di Hitler in sconfitta nazionale, il passo è breve: una sconfitta le cui conseguenze quei popoli avrebbero sopportato fino al declino del comunismo e alla caduta dell’Unione Sovietica. […] L’idea di liberazione dunque appare tale esclusivamente in una prospettiva occidentale, da cui essa viene totalmente monopolizzata. La supremazia sovietica, durata per decenni, fa sì che al 9 maggio, ufficialmente giorno di liberazione, venga associato in realtà un significato di sottomissione e di prolungata oppressione. […] È lecito avanzare dei dubbi sul futuro del simbolo dell’8 maggio. Quale evento fondatore di impronta occidentale, non è detto che rimanga positivo anche in futuro. Alla data dell’8 maggio 1945 si associano infatti fuori dal continente immagini ben poco edificanti di quelle stesse forze politiche che rivendicano quella data associandola ai 44 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE valori della liberazione. Queste immagini, che rischiano di oscurare la luminosa data dell’8 maggio 1945, coincidono principalmente con fatti accaduti in ambito extraeuropeo, e che altro non furono se non crimini coloniali. Proprio in quell’8 maggio 1945, il giorno che introdusse la svolta della liberazione nella memoria europea, le forze di sicurezza francesi, nel dipartimento dell’Algeria settentrionale, precisamente nella località di Sétif, Guelfa e Kherrata, compivano atroci massacri contro i musulmani algerini. Tutto era iniziato in modo abbastanza innocuo. Migliaia di algerini si erano riuniti il giorno della resa tedesca per celebrare la vittoria degli Alleati con marce e sfilate. Fra le bandiere della coalizione vittoriosa, compresa quella francese, si distingueva anche la bandiera bianco-verde del Movimento Nazionale Algerino. Quando gli organizzatori non fecero seguito alla richiesta delle autorità di allontanare le bandiere incriminate, le forze di sicurezza aprirono il fuoco sulla folla. Sull’onda di questa manifestazione di violenza, nei giorni seguenti si diffusero disordini che minacciavano di trasformarsi in una rivolta. L’esercito e la polizia francesi, con il sostegno della locale milizia dei coloni, cercarono di soffocare il tumulto nel sangue, con fucilazioni sommarie e uccisioni indiscriminate. Non furono utilizzate solo armi da fuoco, ma anche mortai pesanti. L’impeto della violenza si abbatté su interi villaggi, e le uccisioni si accompagnarono alla messa in scena di cerimonie di sottomissione: i musulmani algerini dovettero prostrarsi davanti a bandiere francesi alzate, in segno di umiltà. I cadaveri dei civili algerini uccisi furono sotterrati in fosse comuni temporanee o bruciati in roghi pubblici. Il numero delle vittime di questo bagno di sangue non è ancora stato appurato. Fonti diverse parlano 45 8 MAGGIO di una cifra che si aggira fra i 15.000 e i 45.000 morti. […] Mentre nel 2005 (a sessant’anni dalla fine della guerra) l’Europa e l’America celebravano l’8 maggio, la vittoria sulla Germania di Hitler nel suo significato condiviso di liberazione, il presidente algerino Abdel Aziz Bouteflika, in occasione di una marcia della memoria per i morti del 1945 tenutasi nello stesso giorno a Sétif, chiedeva un atto di riparazione, esortando la Francia a confessare i massacri compiuti allora nell’Algeria settentrionale e ad assumersene la responsabilità. […] Il doppio significato dell’8 maggio 1945 mette in luce questa contraddizione: giorno di liberazione per l’Europa, perlomeno della sua parte occidentale, e giorno che incarna la storia sanguinosa della decolonizzazione, e quindi del colonialismo tout court. L’inizio della lotta di indipendenza algerina e, con essa, delle guerre di decolonizzazione, può essere a buon diritto ricondotto a questa data. Il bagno di sangue, in cui l’8 maggio fu annegato a Sétif, concesse ai francesi di tirare il fiato per poco meno di dieci anni, cioè finché la rivolta non si riattizzò, ed ebbe ufficialmente inizio il 1° novembre 1954, appena sei mesi dopo la sconfitta francese in Indocina a Dien-Bien-Phu. […] Nella sua epopea cinematografica <<La battaglia d’Algeri>> (1965), il regista Gillo Pontecorvo mette in campo una sorta di archeologie delle memorie politiche. In una narrazione filmica di stampo realistico il colonnello dei paracadutisti Mathieu, incaricato di sedare la rivolta nella Casbah [= quartiere fortificato, cittadella – n.d.r.] di Algeri, risponde all’accusa di Sartre, riferitagli da un giornalista, secondo cui l’uso della tortura da parte delle forze di sicurezza francesi nascerebbe da un atteggiamento fascista. 46 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE La risposta di Mathieu è significativa per il manifestarsi del dramma legato alla costellazione della memoria. Il colonnello risponde che egli e i tanti altri che allora lottavano perché Algeri restasse territorio francese erano stati eroi della resistenza ai nazisti, torturati e deportati come prigionieri politici a Dachau, Buchenwald e Sachsenhausen. Con ogni probabilità Pontecorvo si è basato su una dichiarazione di Guy Mollet, Presidente del Consiglio socialista della Repubblica francese durante la fase culminante della rivolta, il quale respingeva l’accusa secondo cui alcuni funzionari del suo governo avrebbero impiegato la tortura, accusa incompatibile con il loro passato di partigiani della Résistence, e quindi falsa. Senza dubbio il patimento della tortura era un simbolo inscindibilmente legato alla Résistence. Per i membri e i combattenti della lotta clandestina francese contro l’occupazione tedesca, la tortura costituiva un orribile tabù esistenziale che consentiva tuttavia di separare l’autentica forza e la volontà di resistenza dalla debolezza e dal tradimento. La tortura era l’esperienza limite, la situazione eccezionale per antonomasia, in cui si sarebbero palesate le vere virtù. La tortura, dunque, era più di un semplice mezzo di repressione nelle mani degli sgherri di una potenza straniera: la tortura era il segno tangibile del fatto che si veniva riconosciuti come nemici. Nel peggiore dei casi si trattava di resistere alla prova della tortura anche a prezzo del suicidio, preservando così la propria dignità umana; oppure di soccombere alla tortura, commettendo un tradimento. Per la cultura della lotta di liberazione la tortura rappresentava l’insegna esistenziale della Resistenza. La tortura, tuttavia, divenne anche l’insegna del dominio 47 8 MAGGIO francese in Algeria. Pontecorvo ci presenta nitidamente, per bocca del colonnello protagonista del suo film, l’alternativa che si offriva in Francia di fronte alla sommossa algerina: cedere l’Algeria oppure impiegare anche la tortura. Una terza soluzione non esisteva. Il fatto che i responsabili delle torture in Algeria siano stati proprio gli individui che, a loro volta, in quanto ex résistents, portavano sul proprio corpo i segni della tortura, esemplifica la fatale dinamica della trasformazione delle vittime in persecutori che si creò nella situazione coloniale. (D. Diner, <<Icone della memoria e coscienza storica: 8 maggio 1945, la prospettiva occidentale, orientale e coloniale>>, in M. Cattaruzza-M.Flores-S. Levis Sullam-E. Traverso (a cura di), Storia della Shoah. La crisi dell’Europa, lo sterminio degli ebrei e la memoria del XX secolo. Volume IV, Torino, UTET, 2005, pp. 394-398) LE DEPORTAZIONI DALLA LITUANIA VERSO LA SIBERIA, DOPO L’OCCUPAZIONE SOVIETICA L a cronaca del ghetto di Vilna (Vilnius) stesa clandestinamente da Grigorij Shur, tra il 1941 e il 1944, si apre proprio con il quadro delle deportazioni sovietiche messe in opera nelle ultime settimane prima dell’invasione tedesca Sullo stato d’animo della popolazione [lituana – n.d.r.] influì sensibilmente la deportazione di un grandissimo numero di 48 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE persone nelle zone orientali dell’Unione Sovietica. Otto giorni prima dell’inizio delle operazioni militari, precisamente il 13 giugno 1941, in tutti i paesi baltici, Lituania, Estonia, Lettonia, e in base a liste preventivamente compilate, si effettuarono massicci arresti e deportazioni di quanti venivano dichiarati elementi indesiderati per il potere sovietico. Il terrore dilagò fra le popolazioni di quei paesi. Notte e giorno, per un’intera settimana, persone vennero arrestate nelle città e nei villaggi e portate alle stazioni ferroviarie, dove le caricavano su vagoni merci, già allestiti in precedenza. Lunghi convogli colmi di deportati – in alcuni vagoni stavano le donne con i figli, in altri gli uomini – avanzavano lungo le ferrovie baltiche o sostavano per ore nelle principali stazioni. I vagoni erano sbarrati da assi inchiodate a forma di croce, da una piccola apertura quadrata, ricavata nella parte bassa della porta, defluivano i rifiuti. Era un’estate caldissima. Gli arrestati, chiusi come bestie nei vagoni soffocanti, erano sfiniti dalla mancanza di spazio, dalla sete, dalla fame, ma i soldati dell’NKVD [la polizia politica sovietica – n.d.r.] che sorvegliavano i convogli non facevano avvicinare nessuno che avrebbe potuto dare loro un po’ di pane, del latte, dell’acqua. Era uno spettacolo terribile. (G. Sur, Gli ebrei di Vilna. Una cronaca dal ghetto 1941-1944, Firenze, Giuntina, 2002, pp. 31-32. Traduzione di P. Buscaglione Candela ) 49 8 MAGGIO L’OCCUPAZIONE TEDESCA DI KAUNAS L a dottoressa lituana (non ebrea) Elena Kutorgene-Buivydaite tenne un accurato diario in cui annotò i principali eventi verificatisi a Kaunas durante la guerra. A differenza di tanti suoi connazionali, Elena Kutorgene-Buivydaite aiutò molti ebrei, nascondendoli a casa sua se tentavano di fuggire dal ghetto. Trasmettono un’impressione completamente diversa da quella che ci avevano fatto i militari dell’Armata Rossa arrivati un anno fa, sfiniti, laceri, magri. Le auto, i camion e gli altri mezzi dei tedeschi sono più attrezzati, robusti e pratici; sebbene snelli, i loro cavalli sono tutti purosangue. La popolazione lituana ha salutato i tedeschi con molto più entusiasmo di quello che aveva riservato ai russi l’anno scorso e li ha accolti con i fiori in mano... C’era un allegro sventolio di bandiere. I “partigiani”, attivi, solerti, facevano di tutto per ingraziarsi i tedeschi ed esibivano uno zelo affatto particolare sul fronte “ebraico”. [...] In servizio, alla mutua, ho passato momenti davvero spiacevoli: un’infermiera mi si è rivolta con una tale villania e un tale astio che sono rimasta davvero scioccata, tanto più che personalmente non le ho mai fatto nulla di male. Ha strappato dalla parete l’immagine di Stalin che avevo appeso e l’ha calpestata. In generale, in tutta la città le vetrine sono andate in frantumi: tutti gli emblemi, i ritratti, i libri, i busti e i simboli sovietici sono stati fatti a pezzi, distrutti; particolarmente desolate sono le vetrine delle librerie: un cumulo di schegge di vetro e di carta. La popolazione lituana si era mostrata docile, ma nell’intimo la pensava ben diversamente. [...] I “patrioti” hanno sfogato la loro sadica ebbrezza per tutto il giorno: 50 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE con il consenso delle autorità gli ebrei vengono assassinati e tormentati... L’odio contro gli ebrei accomuna tutti i lituani, quasi senza eccezioni. (V. Grossman – I. Erenburg, Il libro nero. Il genocidio nazista nei territori sovietici 1941-1945, Milano, Mondadori, 1999, pp. 484 e 486) I MASSACRI DI KAUNAS/KOVNO D ebitamente sollecitati dai nazisti, e guidati da Jonas Klimaitis, tra il 25 e il 27 giugno i nazionalisti lituani si macchiarono a Kaunas di alcune delle azioni più violente e brutali di tutta la Shoah, documentate da diverse fotografie. Nella più celebre delle immagini che ci testimonia questo tragico evento, scattata presso l’autorimessa della prospettiva Vytauto, un gruppo di ebrei, stesi al suolo, viene finito a colpi di bastone e di spranga. Lo stesso fotografo, un semplice soldato di nome Gunsilius, avrebbe poi rilasciato, nel 1958, la seguente deposizione. Nel pomeriggio, in prossimità del mio alloggiamento, notai un assembramento di persone nel cortile di una stazione di servizio recintato da tre lati e sbarrato verso la strada da un muro di folla. Mi trovai così davanti al seguente spettacolo: nell’angolo sinistro del cortile c’era un gruppo di uomini di età tra i 30 e i 50 anni. Saranno state circa 45-50 persone che venivano tenute riunite e sotto tiro da 51 8 MAGGIO alcuni civili. Questi erano armati di fucili e portavano dei bracciali, quali compaiono nelle foto che scattai allora. Un giovane – doveva trattarsi di un lituano – [...] con le maniche della camicia rimboccate era munito di una sbarra di ferro. Di volta in volta faceva uscire dal gruppo un uomo e con la sbarra gli assestava uno o più colpi sulla nuca. In questo modo, in tre quarti d’ora ha eliminato l’intero gruppo di 4550 persone. Di queste persone ho scattato una serie di foto. [...] Dopo che tutti furono uccisi, il giovane mise da parte la sbarra, prese una fisarmonica, si sistemò sul mucchio dei cadaveri e suonò l’inno nazionale lituano. La melodia mi era nota e mi fu chiarito dalle persone circostanti che si trattava dell’inno nazionale. Il comportamento dei civili presenti (donne e bambini) aveva dell’incredibile perché dopo ogni uccisione cominciavano a battere le mani e all’inizio dell’inno nazionale si misero a cantare e ad applaudire. In prima fila c’erano delle donne con in braccio bambini piccoli che hanno assistito a tutto dal principio alla fine. A persone che parlavano tedesco chiesi informazioni su quel che stava succedendo ed ebbi le seguenti spiegazioni: i genitori del giovane uccisore due giorni prima erano stati strappati dal letto, arrestati e subito fucilati perché sospettati di essere nazionalisti; questa sarebbe stata la vendetta del giovane. (E. Klee - W. Dressen - V. Riess, <<Bei tempi >>. Lo sterminio degli ebrei raccontato da chi l’ha eseguito e da chi stava a guardare, Firenze, La Giuntina, 1990, p. 28) 52 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE La fine della guerra in Asia N el Pacifico, la guerra era iniziata il 7 dicembre 1941, allorché l’aviazione giapponese attaccò la flotta americana ancorata nella base di Pearl Harbor, nelle isole Hawai. Per circa un anno, l’espansione giapponese parve incontenibile: Hong Kong, Singapore, le Filippine e vari altri territori controllati, in Asia orientale, dalle potenze occidentali caddero rapidamente nelle loro mani, senza particolari difficoltà. Nel corso del 1942, però, gli Stati Uniti cominciarono a organizzare a fini militari la loro gigantesca macchina bellica e ad infliggere perdite sempre crescenti al Giappone, che infine si trovò in gravissime difficoltà. A partire dall’autunno del 1944, i giapponesi tentarono di reagire alla straordinaria potenza nemica facendo ricorso alla tattica degli attacchi aerei suicidi: denominati kamikaze (vento divino), i piloti di speciali velivoli imbottiti di esplosivo si gettavano contro le navi americane (prime fra tutte le portaerei), accettando la morte in nome della salvezza della patria. All’inizio del 1945, il Giappone era stremato: i due terzi della sua flotta mercantile erano stati affondati, cosicché le fabbriche si erano fermate per mancanza di materie prime e di carbone. La situazione alimentare, per la popolazione, era tragica: la razione giornaliera pro capite non superava le 1.200 calorie, cioè era inferiore persino a quella di cui aveva potuto disporre il popolo tedesco durante la prima guerra mondiale. I bombardamenti sulle città si susseguivano senza quasi incontrare resistenza: l’8 marzo, in una sola incursione su Tokio, persero la vita 83.000 persone, 20.000 in più di tutti i civili inglesi periti nell’intero conflitto a causa degli attacchi aerei tedeschi. Eppure, il Giappone voleva a tutti i costi evitare l’umiliazione 53 8 MAGGIO della resa incondizionata e, soprattutto, si sforzava di avere la garanzia del mantenimento della dinastia imperiale; pertanto, continuava a resistere, al punto che in marzo e in giugno l’occupazione delle isole giapponesi di Iwo Jima e di Okinawa costò agli americani migliaia di morti. Il generale Mac Arthur, nella primavera del 1945, pronosticò che un’invasione del Giappone avrebbe richiesto l’impiego di almeno 5 milioni di soldati e comportato perdite fino ad un milione. Per questo motivo, Truman sollecitò l’intervento sovietico nel conflitto contro il Giappone, e l’URSS dichiarò guerra all’impero nipponico l’8 agosto. A quella data, però, gli Stati Uniti avevano già impiegato, come strumento per piegare la resistenza giapponese, l’arma nucleare. La scoperta della fissione nucleare risaliva al 1938 ed era stata effettuata da scienziati tedeschi. Pertanto, già nell’agosto 1939, Albert Einstein inviò una lettera a Franklin Delano Roosevelt; nel suo messaggio, facendo leva sulla sua fama, informava il presidente americano del fatto che i tedeschi, se fosse scoppiata la guerra, avrebbero subito impiegato i loro migliori scienziati in un progetto di ricerca finalizzato a produrre una bomba atomica. A tal fine, la Germania avrebbe potuto sfruttare le proprie avanzate conoscenze sulla fissione nucleare e impiegare scienziati del calibro di Otto Hahn, Werner Heisenberg e Karl von Weizsäcker (un giovane e brillante discepolo di Heinsenberg). Einstein, pertanto, esortava il presidente a organizzare negli Stati Uniti un progetto concorrente, finalizzato ad anticipare quello nazista o, per lo meno, a far sì che Hitler non possedesse in regime di monopolio l’arma più potente che l’umanità avesse mai costruito. L’appello di Einstein fu recepito solo alla fine del 1941; il 6 dicembre 1941 (il giorno prima dell’attacco giapponese a Pearl Harbor) il presidente creò un apposito comitato ristretto e, infine, ordinò di procedere alla ricerca sulla realizzabilità dell’ato- 54 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE mica. A capo dell’intera operazione (denominata in codice Progetto Manhattan) fu posto il generale Leslie Groves, che scelse di tener fuori dal gioco Einstein (famoso per le sue posizioni pacifiste e per le simpatie che dimostrava a favore del sionismo) e di nominare come direttore scientifico del gruppo di ricercatori Robert Oppenheimer. In un primo tempo, anche Oppenheimer non pareva idoneo all’impresa, a causa delle sue simpatie per il comunismo; malgrado ciò, non solo era per molti aspetti il fisico più brillante dell’intero mondo accademico statunitense, bensì possedeva notevoli doti di leadership, indispensabili in un progetto di squadra, in cui numerosi studiosi avrebbero dovuto lavorare insieme, superando gelosie e antipatie reciproche. Il principale laboratorio del Progetto Manhattan fu impiantato a Los Alamos, nel deserto del New Mexico, dove gli scienziati si trasferirono con le loro famiglie. La prima bomba atomica (basata sul principio della liberazione d’energia conseguente la scissione del nucleo di un atomo di uranio) fu fatta esplodere, a titolo sperimentale, il 16 luglio 1945 ad Alamogordo, nel New Mexico; il 6 agosto, invece, venne bombardata la città giapponese di Hiroshima: l’80% degli edifici venne raso al suolo, mentre almeno 70.000 persone furono uccise all’istante; altri 40.000 giapponesi restarono feriti in modo diverso o, comunque, subirono i postumi della esplosione, ovvero si ammalarono di leucemia e di altre forme tumorali. Il 9 agosto, una seconda bomba fu sganciata su Nagasaki, provocando 40.000 morti e 60.000 feriti; a quel punto, il Giappone chiese la resa, ufficialmente stipulata il 2 settembre 1945 a bordo di una corazzata americana all’ancora nella baia di Tokio. 55 8 MAGGIO I KAMIKAZE GIAPPONESI L a strategia di attaccare il nemico con aerei che si schiantassero sulle navi nemiche fu teorizzata, elaborata e attuata dal viceammiraglio giapponese Takijiro Onishi. Anche se il termine, oggi, è utilizzato anche per designare il fenomeno dei martiri islamici disposti al suicidio mentre compiono attentati dinamitardi, occorre precisare che tra i due fenomeni esiste una differenza radicale. Al di là della diversa cultura, va per lo meno ricordato che i kamikaze giapponesi non furono affatto dei terroristi. Essi colpirono sempre e solo obiettivi militari, cioè le navi statunitensi. Resta che i piloti disposti al suicidio introdussero un comportamento che sconvolse profondamente le regole della guerra tipiche della mentalità occidentale, abituata a pensare che uno dei contendenti sia disposto a cessare il combattimento, quando rischia di essere annientato. Il capitano Naito Hatsuho sostiene che una strategia suicida organizzata contro la flotta nemica abbia esordito il 25 maggio 1944 al largo della Nuova Guinea. In assenza di dati, l’aggettivo <<organizzata>> è perlomeno criticabile. Rivendicazioni legittime possono essere avanzate dai piloti che, tra la fine del 1943 e l’inizio del 1944, si gettavano in picchiata sulle navi americane. Si trattava, però, di iniziative personali indipendenti da un quadro generale. Solo il colonnello Jyo Eiichiro formulò qualcosa di simile a Onishi [il viceammiraglio cui molti ufficiali giapponesi attribuiscono l’idea della strategia suicida organizzata – n.d.r.]. Comandante della portaerei Chiyoda, era giunto a questa conclusione: <<Il nemico è numericamente superiore. Gli attacchi convenzionali non daranno buon 56 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE esito. Non ci resta che organizzarci in unità speciali che si incarichino di collisioni e voli in picchiata ai danni delle navi americane. Chiedo di essere posto al comando di questi reparti>>. Per ironia della sorte Jyo morì lo stesso giorno della prima incursione delle squadre di Onishi, il 25 ottobre 1944. Durante l’affondamento della Chiyoda, egli si rifiutò di abbandonarla. Come procedevano gli sviluppi del piano di Onishi? La caduta di Saipan e i costanti progressi degli americani imponevano nuove strategie. Il corso della guerra stava mutando, e occorreva adeguarsi. Niente atteggiamenti conservatori, e via libera a nuove proposte! Il concetto di battaglia navale si rivelava inattuale. La lotta si spostava dai mari ai cieli, e l’aviazione doveva giocare le sue carte. Queste le convinzioni di Onishi, ben fondate e incontestabili. Lui aveva persino proposto di sostituire l’ancora, emblema della marina, con un’elica in segno dei nuovi tempi. Occorreva un radicale mutamento d’opinione. Ma rimanevano molti problemi, anche per l’inesperienza dei piloti. Dopo un addestramento lievemente superiore a duecento ore di volo non si poteva pretendere granché. Una volta lo si completava con il quadruplo del tempo, ma non era ancora scoppiata la guerra nel Pacifico! I giapponesi erano tutt’altro che avvantaggiati dalle nuove condizioni belliche, e la loro flotta non versava in buone condizioni. Tutto ciò spianò la strada al viceammiraglio, che appariva ormai incontestabile. Quale altra strategia poteva sopperire all’impreparazione dei piloti? Per tacere della penuria di benzina, che cominciava a farsi sentire. Era il caso di accantonare ogni perplessità. Nel settembre del ’44 gli americani si impadronirono di molte basi aeree 57 8 MAGGIO giapponesi nelle isole Marianne, le Caroline e una parte della Nuova Guinea. C’era da aspettare? Il nemico non minacciava di avanzare ancora di più? Ogni resistenza nei confronti degli attacchi suicidi andava soffocata. […] Ai primi di ottobre del ’44, i giapponesi scoprirono che gli americani si preparavano a sferrare nelle Filippine un attacco in grande stile. Ecco dove sarebbero stati utili i corpi speciali! Onishi fu mandato in fretta e furia a Mabalacat, un campo d’aviazione non distante da Manila nel complesso di Clark Field, sull’isola di Luzon. Alla foce del golfo di Leyte furono avvistate alcune navi americane, l’avanguardia di un’invasione bell’e buona. Ma cosa potevano fare i giapponesi con un centinaio d’aerei? […] Onishi arrivò nelle Filippine il 17 ottobre per assumere il comando della flotta e istituire i corpi speciali. Fu accolto nelle migliori tradizioni militari, come competeva a un ufficiale del suo rango. Si ignorava, però, il motivo della sua presenza. Senza perdere tempo egli convocò i sei ufficiali principali della base, e si rivolse loro in tono pacato, scrutandone i volti con attenzione. <<Ci troviamo, come sapete, in una situazione d’emergenza. Gli americani hanno dislocato a Leyte una grande quantità di uomini. Non è esagerato dire che le sorti dell’impero dipendono dall’operazione Sho. Dobbiamo bloccarli, e i reparti di terra sono già all’opera>>. […] All’aviazione della marina competeva un ruolo impegnativo. E il fattore tempo poteva rivelarsi decisivo. Tutto qui? Ma non erano notizie risapute, in toni meno solenni e catastrofici? Quando il volto di Onishi si rabbuiò, gli ufficiali capirono che il discorso avrebbe preso un’altra piega. Si stava per arrivare a un punto nodale. Dopo una lunga pausa, il viceammiraglio proseguì. 58 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE <<Conosco bene l’entità delle nostre forze. C’è un solo modo per sfruttarle al massimo: organizzare unità d’attacco speciali. La strategia suicida, insomma. Doteremo i nostri caccia, gli Zero, di bombe da duecentocinquanta chilogrammi, e i piloti andranno a schiantarsi contro le portaerei americane. Ora ditemi il vostro parere>>. In seguito alla brusca conclusione, nella sala calò il silenzio. Era una proposta imbarazzante. Ma non si trattava di una reazione di paura o costernazione, a quanto ne ricorda Rikihei Inoguchi nel libro <<Vento divino>>. La collisione non rappresentava una novità: era già stata impiegata, e persino valorizzata. <<Ciò è difficile da intendere>> osserva il colonnello <<perché nessuno dà il benvenuto alla morte>>. D’altra parte, i piloti sapevano che l’attacco a una portaerei offriva scarse probabilità di sopravvivenza. Qualsiasi strategia li avrebbe esposti al fuoco della contraerea. Si rischiava molto già nell’avvicinarsi al bersaglio. Meglio farlo, allora, nel modo più efficace e più nocivo. (L. V. Arena, Kamikaze. L’epopea dei guerrieri suicidi, Milano, Mondadori, 2003, pp. 22-27) 59 8 MAGGIO HIROSHIMA: DIARIO DI UN SOPRAVVISSUTO M ichihiko Hachiya era un medico che lavorava a Hiroshima. Sopravvissuto all’esplosione nucleare, operò in uno dei centri di soccorso allestiti per curare gli innumerevoli feriti. Per circa un mese (dall’8 agosto al 30 settembre 1945) tenne un diario in cui annotò le sue personali sofferenze e quelle dei suoi disgraziati concittadini. Il passo che riportiamo descrive l’esplosione e le prime concitate giornate dopo la bomba. 6 agosto Indossavo solo mutande e maglietta e stavo disteso sul pavimento della stanza di soggiorno, per riposarmi da una notte di veglia all’ospedale, dove ero stato di guardia come addetto alla protezione antiaerea. All’improvviso fui abbagliato da un lampo di luce, seguito immediatamente da un altro. A volte, di un evento, si ricordano i più minuti particolari [= persino i dettagli più piccoli – n.d.r.]: rammento perfettamente che una lanterna di pietra nel giardino si illuminò di una luce vivida, e io mi chiesi se fosse prodotta da una vampa di magnesio, o non piuttosto dalle scintille di un tram di passaggio. Le ombre del giardino sparirono. La scena, che un istante prima mi era apparsa così luminosa e gaia di sole, si oscurò, gli oggetti si fecero indistinti. Fra i nembi di polvere riuscivo a stento a distinguere una colonna di legno che era servita di sostegno a un angolo della casa. Ora la colonna era contorta e il tetto pareva in procinto di rovinare. Istintivamente mi alzai per fuggire, ma mi trovai il passo sbarrato da detriti e travi crollate. Con mille precauzioni riuscii a farmi strada fino al roka [= porticato – n.d.r.] e scesi in giardino. Mi sentivo straordinariamente 60 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE debole, e dovetti fermarmi per riprender fiato. Con mio grande stupore, mi accorsi che ero completamente nudo. Stranissimo, pensai. Dov’erano andate a finire mutande e maglietta? […] Un po’ alla volta, gli oggetti attorno a me assunsero consistenza. Scorgevo le figure incerte di altre persone, alcune delle quali sembravano spettri che camminassero. Altre procedevano alla cieca, come automi, brancolando con le mani protese in avanti. La loro vista mi turbò, ma poi mi resi conto che avevano subìto delle ustioni e tenevano le braccia levate per evitare di farsi male, strofinando le ferite sulla superficie scabra [= ruvida – n.d.r.] degli abiti. Mi passò davanti una donna nuda, che reggeva in braccio un bambino, anch’egli nudo. Distolsi lo sguardo. Dapprima pensai che al momento dell’esplosione probabilmente stavano facendo un bagno, ma poi vidi un uomo nudo, e allora mi resi conto che doveva essere accaduto qualcosa di strano, per cui anche loro, come me, erano rimasti senza niente addosso. Una vecchia giaceva lì vicino, con il viso contratto dalla sofferenza, ma senza dir nulla. Una cosa avevano in comune tutti quelli che vedevo: agivano nel più assoluto silenzio. […] Per le vie non c’erano più che cadaveri. Alcuni pareva che fossero stati irrigiditi dalla morte nell’atto di fuggire; altri erano schiacciati al suolo, come se un gigante li avesse scagliati giù da una grande altezza. Hiroshima non era più una città, ma una prateria in cenere. A est e a ovest, ogni cosa era stata spazzata via. Le montagne lontane sembravano vicine come non le avevo mai viste. Le colline di Ushita e i boschi di Nigitsu si profilavano oltre il velo di fumo, simili al naso e alle orbite di un volto umano. Come pareva piccola Hiroshima, ora che le sue 61 8 MAGGIO case erano sparite! Il vento mutò direzione e nuovamente il cielo si coprì di fumo. D’un tratto si levò un grido: <<Aerei! Aerei nemici!>>. Era mai possibile, dopo tutto quello che era accaduto? Cosa c’era ancora da bombardare? […] 8 agosto A poco a poco, cominciai a fare l’abitudine al dolore altrui, a essere meno sensibile alle sofferenze e alla disperazione, e finii per ascoltare tutto quello che mi si diceva con una serenità e un distacco di cui non mi sarei mai creduto capace. E questa assuefazione si produsse in due soli giorni. Mi sentivo solo, ma era una sensazione puramente fisica. Era come se fossi diventato anch’io parte del buio della notte. Non c’erano apparecchi radio, mancava l’elettricità, non avevamo nemmeno candele. La sola luce era quella degli incendi lontani, che proiettavano ombre guizzanti sulle pareti. Gli unici rumori erano i gemiti e i singhiozzi dei pazienti. Di tanto in tanto, uno di loro, nel delirio, invocava la madre, o un altro, in preda al dolore, mugolava: <<Eraiyo, non ne posso più>>. Che specie di bomba era quella che aveva colpito Hiroshima? Non riuscivo a trovare una spiegazione, soprattutto dopo i racconti uditi quel giorno. Senza dubbio gli aeroplani non potevano esser stati molti. E su questo punto anche i miei ricordi erano chiarissimi. Prima che suonassero le sirene d’allarme, si era inteso il rombo metallico di un solo velivolo. Altrimenti perché l’allarme era cessato? Perché le sirene non avevano ripreso a suonare in quei cinque o sei minuti prima dell’esplosione? Ma, per quanto congetturassi, non riuscivo a spiegarmi le distruzioni che ne erano seguite. Forse era davvero un’arma nuova! Molti avevano parlato, sia pure in termini vaghi, di una 62 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE nuova bomba, un’arma segreta, una bomba speciale, e qualcuno aveva anche detto che al momento dello scoppio era sostenuta da due paracadute! Ma non riuscivo a farmene un’idea precisa. Non c’era una spiegazione logica per danni tanto estesi. Che altro avevamo a disposizione, se non ipotesi prive di sostanza, come una nebbia che si sfaldi in mano? Una cosa era certa: Hiroshima era stata distrutta, e con la città anche i reparti militari che vi avevano stanza. Erano stati annientati i comandi, compreso quello della seconda divisione, e anche la scuola allievi ufficiali, il quartier generale della zona occidentale, i reparti del genio, l’ospedale militare d’armata. Erano crollate le speranze del Giappone. La guerra era perduta. Gli dei ci avevano abbandonati. (M. Hachiya, Diario di Hiroshima 6 agosto-30 settembre 1945, Milano, SE, 2005, pp. 13-20 e 34-35. Traduzione di F. Saba Sardi) LE RESPONSABILITÀ MORALI DELLO SCIENZIATO L ’esplosione delle prime bombe nucleari fece una profonda impressione sull’opinione pubblica di tutto il mondo. Tra gli altri, fece udire la propria voce lo scrittore tedesco Berthold Brecht, che sentì la necessità di modificare una delle scene finali del suo dramma Vita di Galileo. In un primo tempo, l’accento dell’autore era caduto sul fatto che la scienza si presentava come un formidabile strumento di progresso, capace 63 8 MAGGIO di distruggere le superstizioni, con l’aiuto delle quali i potenti tengono incatenati gli schiavi. Dopo Hiroshima e Nagasaki, Brecht ritenne doveroso precisare che non è la scienza in sé ad essere fattore di progresso, bensì l’uso sociale che viene fatto di essa. Nella Scena XIV del dramma Vita di Galileo, di Berthold Brecht, il grande scienziato pisano discute con Andrea, suo discepolo. Galileo espone le ragioni della sua abiura, e dice di averla compiuta per paura, per continuare a vivere, a ricercare e ad accumulare sapere. Ma, a giudizio di Brecht, dopo la creazione della bomba atomica la conoscenza scientifica non è più un valore in sé: gli scienziati sono chiamati ad una rinnovata coscienza etica, cioè a rispondere di fronte all’umanità delle loro azioni e delle loro scoperte. GALILEO: Non credo che la pratica della scienza possa andar disgiunta dal coraggio. Essa tratta il sapere, che è un prodotto del dubbio; e col procacciare sapere a tutti su ogni cosa, tende a destare il dubbio in tutti. [...] Se gli uomini di scienza non reagiscono all’intimidazione dei potenti egoisti e si limitano ad accumulare sapere per sapere, la scienza può rimanere fiaccata per sempre, ed ogni nuova macchina non sarà fonte che di nuovi triboli per l’uomo. E quando, coll’andar del tempo, avrete scoperto tutto lo scopribile, il vostro progresso non sarà che un progressivo allontanamento dall’umanità. Tra voi e l’umanità può scavarsi un abisso così grande, che ad ogni vostro eureka rischierebbe di rispondere un grido di dolore universale... [...] Se io avessi resistito, i naturalisti avrebbero potuto sviluppare qualcosa di simile a ciò che 64 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE per i medici è il giuramento di Ippocrate: il voto solenne di far uso della scienza ad esclusivo vantaggio dell’umanità. Così stando le cose, il massimo in cui si può sperare è una progenie di gnomi inventivi, pronti a farsi assoldare per qualsiasi scopo. (B. Brecht, I capolavori di Brecht, Torino, Einaudi, 1965, pp. 115-116. Traduzione di E. Castellani) IL TEST DI ALAMOGORDO I l 16 luglio 1945, ad Alamogordo, nel New Mexico, fu effettuato il cosiddetto Trinity test, con una bomba al plutonio (simile a quella che poche settimane più tardi avrebbe distrutto Nagasaki). All’interno del folto gruppo di ricercatori che aveva lavorato tre anni per giungere a quel risultato, si diffusero emozioni e sensazioni particolari. Ogni scienziato reagì in modo diverso, ma tutti si resero conto di aver varcato un confine, e di aver prodotto qualcosa che, nel medesimo tempo, era affascinante e terribile. Gli uomini videro quello che la fisica teorica non può osservare e le macchine fotografiche non possono registrare. Al campo base Rabi si sentì minacciato: <<Eravamo sdraiati lì, tesissimi, alle prime luci dell’alba, e c’era solo una strisciolina dorata a oriente; si vedeva il vicino appena. Quei dieci secondi furono i dieci secondi più lunghi che io abbia mai vissuti. Improvvisamente ci fu un lampo luminoso 65 8 MAGGIO enorme, la luce più brillante che io abbia mai vista e che chiunque, credo, abbia mai vista. Esplose, si avventò, si aprì la strada direttamente verso di noi. Era una visione che non vedevamo solo con l’occhio; la vedevamo durare per sempre. Non vedevamo l’ora che finisse, e in tutto durò circa due secondi. Finalmente diminuì, finì, e guardammo la pianura dove c’era stata la bomba; ora c’era un’enorme palla di fuoco che continuava a crescere e crescendo ondeggiava: saliva nell’aria con lampi gialli, e poi scarlatti e verdi. Sembrava minacciarci, sembrava venire verso di noi. Era appena nata una cosa nuova; per l’uomo un nuovo controllo, un sapere nuovo acquisito sulla natura>>. […] <<Quasi tutte le esperienze della vita possono essere comprese attraverso esperienze precedenti>>, commenta Norris Bradbury, <<ma la bomba atomica non corrispondeva a nessun concetto precedente, per nessuno>>. Mentre la palla di fuoco saliva in aria, racconta Joseph W. Kennedy, <<la copertura di stratocumuli proprio sopra di noi divenne rosa dal lato inferiore. Era ben illuminata come all’alba. Weisskopf notò che “il cammino dell’onda d’urto attraverso le nuvole era chiaramente visibile come un cerchio che si allargava su tutto il cielo, là dove c’erano delle nuvole a coprirlo”>>. <<Quando il bagliore rosso si attenuò>>, scrive Edwin McMillan, <<comparve un effetto veramente notevole. Tutta la superficie della palla era coperta da una luminescenza purpurea, simile a quella prodotta da un’eccitazione elettrica dell’aria e causata sicuramente dalla radioattività dei materiali della palla stessa>>. Fermi aveva preparato un esperimento per determinare approssimativamente l’ordine di grandezza della potenza della bomba: <<Circa 40 secondi dopo l’esplosione lo 66 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE spostamento d’aria mi raggiunse. Cercai di stimarne la forza lasciando cadere dei pezzetti di carta prima, durante e dopo il passaggio dell’onda esplosiva. Dato che in quel momento non c’era vento, potei osservare molto distintamente e addirittura misurare lo spostamento di questi pezzetti di carta che cadevano mentre l’onda passava. Era di circa due metri e mezzo: stimai, al momento, che corrispondesse allo scoppio che sarebbe stato prodotto da diecimila tonnellate di TNT>> [le misurazioni più precise effettuate nei giorni successivi mostrarono che potenza era superiore, pari a circa 18.600 tonnellate o 18,6 kiloton – n.d.r.]. <<Dalla distanza della fonte e dallo spostamento d’aria prodotto dall’onda d’urto>>, spiega Segrè, <<Fermi poteva calcolare l’energia dell’esplosione. Aveva predisposto tutto in anticipo preparandosi una tabella numerica, per cui poté dire immediatamente qual era l’energia liberata basandosi su questa misurazione rozza ma semplice>>. <<Era assorbito così profondamente e totalmente dai suoi pezzi di carta>>, aggiunge Laura Fermi, <<che non si accorse di quel tremendo rumore>>. […] <<Il nostro primo stato d’animo fu di esaltazione>>, ricorda Weisskopf, <<poi ci accorgemmo di essere stanchi e poi ci preoccupammo>>. Rabi è più complesso:<<Naturalmente eravamo davvero giubilanti per l’esito dell’esperimento. Mentre quella tremenda palla di fuoco era lì davanti a noi, la guardavamo: continuava a espandersi, e col tempo si confuse con le nuvole… Poi fu spazzata via dal vento. Ci girammo gli uni verso gli altri e per i primi pochi minuti ci congratulammo. E dopo ci fu un gelo, un gelo che non era il freddo del mattino: era un gelo che veniva quando si pensava, per esempio quando io pensavo alla mia casa 67 8 MAGGIO di legno a Cambridge, e al mio laboratorio a New York, e ai milioni di persone che vivevano lì intorno, e a questo potere della natura di cui noi, per primi, avevamo compreso l’essere – ed eccolo lì>>. R. Oppenheimer cercò nel Gita [= un antico poema indiano – n.d.r.], ancora una volta, un modello abbastanza grande: <<Aspettammo finché l’onda d’urto fu passata, uscimmo dal rifugio e poi ci fu un momento estremamente solenne. Sapevamo che il mondo non sarebbe più stato lo stesso. Alcuni ridevano, alcuni piangevano. Ma quasi tutti erano silenziosi. Io mi ricordai di un verso del Bhagavad Gita, la sacra scrittura indu: Vishnu sta cercando di convincere il Principe che deve fare il suo dovere e per impressionarlo assume la forma dalle molte braccia e dice: “Ora sono diventato Morte, il distruttore di mondi”. Suppongo che pensassimo tutti a questo, in un modo o nell’altro>>. Venivano in mente anche altri modelli, come disse lo stesso Oppenheimer parlando in pubblico dopo la guerra: <<Quando scoppiò, nell’alba del Nuovo Messico, la prima bomba atomica, pensammo ad Alfred Nobel e alla sua speranza, vana speranza, che la dinamite mettesse fine alla guerra. Pensammo alla leggenda di Prometeo, a quel profondo senso di colpa dell’uomo per i suoi nuovi poteri che riflette il suo riconoscimento del male e la lunga conoscenza che ne ha. Sapevamo che questo era un mondo nuovo, ma ancora di più sapevamo che lo stesso esser nuovi era una cosa molto antica nella vita umana, che tutte le nostre vie erano radicate in esso>>. (R. Rhodes, L’invenzione della bomba atomica. 6 agosto 1945: l’inizio di una nuova era, Milano, Rizzoli, 2005, pp. 738-742.) 68 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE LE REAZIONI DOPO IL LANCIO DELLE BOMBE I l lancio delle bombe su Hiroshima e Nagasaki fu giustificato affermando che esse avrebbero abbreviato la conclusione della guerra. Si tratta di un argomento che ha subito molte contestazioni: il Giappone era stremato; si poteva bombardare una zona disabitata, a titolo dimostrativo (Hiroshima e Nagasaki, al contrario, furono scelte come bersaglio proprio perché non avevano ancora subito attacchi di notevole portata); si poteva evitare la seconda bomba… Secondo alcuni storici, a prevalere furono logiche di tipo militare e politico: dimostrare, all’URSS, la nuova potenza di cui gli Stati uniti disponevano, e di cui i sovietici, al momento, erano ancora sprovvisti. In Giappone, naturalmente, si levarono le proteste. Radio Tokyo affermò risolutamente: <<La bestialità di questa tattica rivela quanto sottile sia la vernice di civiltà di cui il nemico è andato gloriandosi>>. Anche qualche americano fu di questo parere. Il generale Dwight D. Eisenhower si domandò se era stato davvero necessario <<colpirli con quell’ordigno mostruoso>>, e il giornalista Edward R. Murrow commentò che <<rare volte, se mai è successo, una guerra è terminata lasciando nei vincitori un sentimento simile di incertezza e sgomento, con una tale sensazione che il futuro è oscuro e che la sopravvivenza non è garantita>>. Persino l’Herald Tribune non trovò <<nessun compiacimento al pensiero che un equipaggio americano aveva provocato ciò che senza dubbio sarà la più grande carneficina simultanea dell’intera storia dell’umanità>>, tracciando un parallelismo tra l’atomica e i <<macelli di 69 8 MAGGIO massa dei nazisti o degli antichi>>. Il ricorso all’atomica resta un fatto controverso, e sono [numerose] le questioni che dividono aspramente gli storici. In primo luogo, era giustificato all’epoca il ricorso a quell’arma? La motivazione secondo cui era stato necessario per salvare vite di americani resta quella fondamentale, in particolare tra quanti all’epoca erano sotto le armi. […] A dire il vero non mancano prove del fatto che il Giappone si sarebbe arreso se Truman avesse accettato di negoziare. L’imperatore Hirohito aveva tentato di inoltrare una richiesta di pace agli americani il 12 luglio 1945, ma con la minaccia di abolire il trono dell’imperatore (considerato una divinità in Giappone) gli Alleati ritardarono fatalmente la resa. C’è d’altra parte chi afferma che, anche nel caso in cui la salvaguardia dell’imperatore fosse stata garantita, sarebbe comunque mancato l’accordo su quando e come porre fine alla guerra, poiché l’esercito giapponese coltivava ancora il desiderio di garantirsi una pace onorevole. Infine studi recenti hanno restituito a Hirohito un ruolo ben più attivo di quanto ipotizzato in precedenza nella condotta dei negoziati bellici: si sostiene che abbia partecipato direttamente all’organizzazione della resistenza alla prevista invasione americana, risultando decisivo nel procrastinare i colloqui di pace. A parere di questi storici, la versione secondo cui Hirohito sarebbe intervenuto per sollecitare la pace è frutto soltanto della propaganda postbellica, destinata a proteggere il trono. Altri commentatori danno minore rilievo ai negoziati sulla resa e insistono sulle motivazioni e le scelte politiche degli americani. A loro giudizio il lancio dell’atomica fu necessario per ragioni puramente politiche, in quanto essa rappresentava un’arma importante nella 70 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE montante competizione tra USA e URSS: gli americani speravano che l’utilizzo del nucleare avrebbe reso l’Unione Sovietica più malleabile dopo la guerra, dimostrando inoltre che il suo aiuto non era stato necessario nel conflitto col Giappone, e che pertanto gli Stati Uniti non avrebbero accettato l’influenza sovietica nella regione alla fine delle ostilità. Il lancio della bomba, da questo punto di vista, rappresentò un importante vantaggio sull’Unione Sovietica. Volendo discutere della necessità dell’uso degli ordigni nucleari vanno prese in considerazione le alternative a disposizione degli americani. All’epoca alcuni scienziati nucleari sostennero che una dimostrazione degli effetti della bomba sarebbe bastata a convincere il già prostrato Giappone, anche se esisteva il timore che, in caso di una scarsa efficienza della dimostrazione, questa avrebbe sortito effetti controproducenti. Gli Alleati avrebbero potuto continuare con i bombardamenti convenzionali delle città giapponesi e mantenere il blocco, strategie con le quali avevano già inflitto gravi danni all’economia del nemico e alla sua capacità di proseguire il conflitto; con la conquista dell’avamposto di Okinawa, anzi, i bombardamenti convenzionali avrebbero potuto essere incrementati. Ma il fatto che molti comandanti militari giapponesi fossero all’epoca inclini a continuare a combattere può forse avere reso meno desiderabile quest’alternativa, soprattutto per i militari americani. I bombardamenti convenzionali sarebbero costati un numero di vite umane superiore alla stessa bomba atomica. […] In realtà l’atomica fu lanciata per inerzia: una chiara e precisa decisione non fu mai presa al riguardo, e il processo che portò all’impiego effettivo avanzò senza che intervenisse 71 8 MAGGIO nessuno. Unica preoccupazione dei politici era come porre fine al conflitto, e l’atomica sembrava la maniera più efficace per farlo. In effetti, le altre opzioni, tra cui quella di una dimostrazione degli effetti devastanti della bomba in un’area deserta oppure la rinuncia a pretendere una resa incondizionata, non furono prese in considerazione. […] Il giorno del bombardamento di Hiroshima un editoriale del New York Times ammoniva che <<civiltà e umanità a questo punto riusciranno a sopravvivere soltanto se si verificherà una rivoluzione nel pensiero politico mondiale>>; una rivoluzione che non aveva molte probabilità di realizzarsi in tempi brevi. (J. Bourke, La seconda guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 2005, pp. 137-140) 72 Manifesto Dimensione nazionale L’occupazione tedesca in Italia La repUbblica sociale italiana I l 25 luglio 1943, il re Vittorio Emanuele III ordinò l’arresto di Mussolini; il regime fascista crollò senza fatica e senza spargimento di sangue. L’8 settembre, il nuovo capo del governo, il maresciallo Pietro Badoglio, annunciò che l’Italia aveva firmato la pace con gli Alleati. Nel giro di pochi giorni, l’intero territorio della Penisola fu invaso e controllato dai tedeschi, che in un primo tempo pensarono di sottomettere l’Italia ad un puro e semplice regime di occupazione militare. Il 12 settembre 1943, un reparto di paracadutisti tedeschi liberò Mussolini, che era detenuto in un albergo nella zona del Gran Sasso, in Abruzzo. Portato in Germania, il Duce ottenne da Hitler il permesso di ricostruire uno stato fascista in Italia; nacque pertanto la cosiddetta Repubblica Sociale Italiana (RSI), il cui governo prese dimora in varie ville sulla costa del lago di Garda: e poiché il ministero degli esteri, tenuto personalmente da Mussolini, aveva sede nella cittadina di Salò, l’espressione Repubblica di Salò venne ben presto utilizzata per indicare la nuova realtà politica. In primo luogo, il nuovo fascismo cercò di darsi una nuova identità convocando un congresso di rifondazione che ebbe luogo a Verona il 14 novembre 1943; in secondo luogo, sempre a Verona, fu celebrato un processo contro i gerarchi fascisti che avevano votato l’ordine del giorno Grandi il 25 luglio. Il processo si concluse il 10 gennaio 1944, con la sentenza di morte per i cinque imputati (compreso Galeazzo Ciano) che erano caduti nelle mani dei fascisti. La RSI non ebbe vita facile. Per quanto cercasse di presentarsi come uno Stato pienamente sovrano, la sua autonomia e la 75 8 MAGGIO sua legittimità vennero rifiutate da tutti i paesi neutrali, cosicché neppure la Spagna di Franco e il Vaticano riconobbero ufficialmente la nuova repubblica fascista. La stessa Germania la trattò sempre e solo al pari di un qualsiasi altro territorio occupato, e non più come un alleato. Il Trentino-Alto Adige e il Friuli, ad esempio, furono di fatto sottratti alla sovranità italiana e posti sotto la diretta amministrazione del Reich. In tal modo, in pratica, Hitler riportò i confini italiani a quelli del 1915, quando Trento, Bolzano e Trieste erano sotto la dominazione austriaca. Inoltre, la Germania sottopose l’Italia occupata ad uno spietato sfruttamento economico, inserendola nel gigantesco meccanismo della produzione bellica tedesca; in particolare, un gran numero di tecnici e di operai specializzati furono obbligati a trasferirsi nel territorio del Terzo Reich, in modo da farne funzionare a pieno ritmo le fabbriche e le industrie. Il nuovo Stato fascista non trovò mai l’appoggio della popolazione italiana, malgrado i suoi tentativi di conquistarla; tra questi sforzi, il più significativo fu senz’altro quello della cosiddetta socializzazione: espressione dal contenuto vago, che si richiamava al programma fascista delle origini e che avrebbe dovuto servire a conquistare le masse operaie, lasciando intravedere loro la possibilità di una diretta partecipazione agli utili delle aziende. Neppure questa prospettiva (per altro osteggiata dalla borghesia e dagli stessi occupanti tedeschi) servì ad ottenere il consenso dei lavoratori dei grandi centri industriali, che invece, spesso, si dimostrarono disponibili a scioperare e a boicottare in altri modi l’attività produttiva finalizzata a sostenere l’economia di guerra nazista. Gli scioperi più consistenti si verificarono dall’1 all’8 marzo 1944; come le agitazioni operaie di un anno prima, anche in questo caso il motivo scatenante furono le dure condizioni di vita imposte dalla guerra. Nel 1944, tuttavia, vi furono una preparazione molto maggiore, soprattutto da parte dei comu- 76 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE nisti, e un’adesione di massa (208.549, di cui 32.600 solo a Torino, secondo il Ministero degli interni; circa mezzo milione, a giudizio di numerosi storici). Il notevole numero di scioperanti è in ogni caso notevole, soprattutto se si tiene conto dei gravi rischi che una protesta poteva comportare. In effetti, circa 1.200 operai furono deportati in lager dai tedeschi Il dato che più di ogni altro dimostra lo scollamento esistente tra RSI e popolazione riguarda la scarsa risposta alla chiamata alle armi. Solo pochi giovani risposero ai periodici e sempre più minacciosi (per i renitenti) bandi di arruolamento. Spesso, era solo il pericolo di ritorsioni contro le famiglie che spingeva i coscritti a presentarsi agli uffici di leva; la maggior parte di essi, poi, disertava il più presto possibile, si nascondeva o andava ad ingrossare le file della Resistenza, dei ribelli, che per motivazioni ideali e politiche diverse avevano scelto di opporsi con le armi al nuovo Stato fascista e al suo custode nazista. In pratica, la RSI poteva contare solo su alcune unità composte da fascisti convinti (come la cosiddetta X MAS) e sulle cosiddette <<brigate nere>>, nate grazie alla militarizzazione del partito, cioè all’arruolamento di tutti gli iscritti al PNF in età compresa tra i 18 e i 60 anni (1° luglio 1944). I tedeschi si fidavano poco delle truppe italiane; quindi, in linea di massima non le impiegavano al fronte, contro gli anglo-americani, ma nella guerriglia antipartigiana, che andò assumendo contorni sempre più violenti. 77 8 MAGGIO mussolini, hitler e la nascita della rsi D opo aver occupato militarmente il territorio italiano, i tedeschi erano indecisi sul da farsi. Anche se i militari avrebbero preferito una gestione tedesca diretta, prevalse infine l’idea di creare uno stato italiano fascista, alternativo a quello guidato dal re e da Badoglio. L’indipendenza della Repubblica Sociale Italiana, però, era puramente formale, priva di qualsiasi sostanza effettiva. I memorialisti fascisti hanno scritto che Mussolini, mettendosi a capo del governo, salvò l’Italia dalla sorte che era toccata alla Polonia e la loro tesi è stata accettata da Renzo De Felice. Ma, già prima d’incontrare Mussolini, Hitler, nonostante la sua ira, aveva pensato alla formazione di un governo collaborazionista e non a un regime di occupazione, come quello che esisteva in Polonia. [...] Certo, i tedeschi erano veramente infuriati. Lo rivelò più tardi anche Rahn [Rudolf Rahn, plenipotenziario del Reich presso la RSI – n.d.r.] nell’incontro del 4 aprile 1944 con i giornalisti romani, parlando di <<furor teutonicus a proposito dello spirito di reazione contro il tradimento che regnava nell’armata germanica>>. Disse che, se i soldati tedeschi avevano limitato le loro azioni alle più strette ed elementari necessità di guerra, bandendo assolutamente ogni rappresaglia, si doveva al fatto che, tra la reazione e le masse che avrebbero potuto essere chiamate corresponsabili del tradimento, si era posta <<come un diaframma la persona di Mussolini>>. Il duce, per la sua amicizia personale con il Führer e per l’<<enorme prestigio>> di cui godeva in Germania, aveva <<salvato il popolo italiano da spaventose ore>>. 78 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE Le parole di Rahn hanno senza dubbio un valore di testimonianza molto superiore a quello delle rivelazioni fatte ripetutamente da Mussolini sui suoi colloqui con Hitler, perché Rahn a questo riguardo era un testimone imparziale, come invece non era il duce. E tuttavia, stando proprio al compito che Hitler aveva assegnato a Rahn, nelle parole dette ai giornalisti la funzione del <<diaframma>> Mussolini appariva un po’ sopravvalutata. Le linee del trattamento da imporre all’Italia erano state tracciate nelle discussioni che si svolsero ai vertici della Germania prima ancora che Mussolini fosse liberato. I comandi militari tedeschi avrebbero preferito non avere un governo italiano tra i piedi; Rudolf Rahn, al contrario, auspicava una politica di collaborazione con un’autorità fascista italiana. Egli aveva esposto la sua concezione politica del collaborazionismo in un promemoria del 19 agosto 1943: <<Ogni norvegese, croato, francese, polacco o greco che potremo indurre a vedere in noi i rappresentanti di un futuro migliore e più giusto, innanzi tutto non sparerà contro i nostri uomini e non compirà atti di sabotaggio – e già questo sarà un grosso guadagno – ma in molti casi arriverà addirittura a lavorare per noi con convinzione e a diffondere stessa convinzione tra i suoi connazionali>>. Senza dubbio, l’Italia avrebbe avuto lo stesso trattamento dei paesi occupati, ma resta da vedere se sarebbe stata trattata come la Polonia, oppure come la Francia di Petain. Il 10 settembre – e dunque due giorni prima della liberazione di Mussolini – si tenne la riunione, definita <<fondamentale>> dallo storico tedesco Lutz Klinkhammer, nella quale fu decisa la politica da realizzare in Italia. [...] La tesi che Mussolini avrebbe impedito a Hitler 79 8 MAGGIO di trattare l’Italia come stava trattando la Polonia è dunque inficiata dal fatto che essa considera due sole alternative possibili: un’Italia guidata da Mussolini e alleata della Germania, oppure un’Italia occupata e considerata come territorio di nemici e di traditori. Ma le scelte, come si è visto, erano tre: alle due indicate sopra va aggiunta anche quella del governo collaborazionista, adottata da Hitler prima che Mussolini venisse liberato. Senza Mussolini, per questo aspetto sarebbe cambiato poco o niente. La sua liberazione non ebbe nessuna influenza nemmeno sulla decisione di Hitler di procedere a una sostanziale annessione alla Germania di una parte del territorio italiano. [...] Renzo De Felice ha scritto che <<formalmente, ma, tutto sommato, anche effettivamente, la RSI, diversamente dalla Francia e da tutti i paesi sottomessi all’amministrazione o al controllo tedeschi, a rigore non fu un regime collaborazionista, ma alleato della Germania>>. Il fatto, però, che l’Italia fosse formalmente alleata con i tedeschi le portò scarsi vantaggi rispetto alla situazione in cui si sarebbe trovata se fosse stata solo un paese collaborazionista. La decisione di Mussolini di porsi alla testa del governo fascista influì in misura molto limitata sulle relazioni tra italiani e tedeschi ed ebbe invece tragiche conseguenze sui rapporti tra italiani e italiani. Fu solo la sua presenza a spingere molti giovani ad arruolarsi volontari nelle milizie della RSI. Se Mussolini non fosse stato liberato, quel poco di fascismo che era rimasto dopo il 25 luglio non avrebbe ripreso forza, sarebbe vissuto stentatamente all’ombra dei tedeschi e il paese non sarebbe precipitato nel dramma della guerra civile. Su questa terribile responsabilità sembra concordare pienamente anche Renzo De Felice: <<Posta la 80 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE questione sul piano dei costi e delle conseguenze, è fuor di dubbio che la bilancia si squilibri irrimediabilmente a tutto svantaggio della decisione mussoliniana. La costituzione della Rsi fu infatti all’origine della guerra civile ... che, nel 1943-1945, insanguinò le regioni occupate dai tedeschi, divise profondamente gli italiani e scavò solchi d’odio tra loro e condizionò poi per decenni la vita italiana, dandole un carattere diverso da quello di altri paesi occidentali, quali la Francia, il Belgio e, in qualche misura, anche la Germania>>. Anche questo dimostra che, a guardare attentamente nella gran mole delle pagine della biografia di De Felice, è possibile trovare giudizi molto duri su Mussolini. Quello sulle conseguenze della sua azione nel 1943-1945 non potrebbe essere più severo. (A. Lepre, La storia della Repubblica di Mussolini. Salò: il tempo dell’odio e della violenza, Milano, Mondadori, 2000, pp. 95-101) LA NAZIFICAZIONE DEL FASCISMO NEL PERIODO DELLA RSI I l fascismo della Repubblica Sociale fu costretto a darsi una nuova identità e a ricostruire almeno in parte la propria ideologia. Per molti di loro, la scelta più semplice fu prendere come esempio e modello il nazionalsocialismo tedesco. Al di là della convergenza della Repubblica di Salò con la Germania nazista, che si espresse nella collaborazione, 81 8 MAGGIO possiamo dire che nel fascismo della RSI si realizza anche un ulteriore avvicinamento al Terzo Reich nella misura in cui assistiamo a una radicalizzazione del fascismo stesso oltre le sue radici estremistiche e squadristiche delle origini, com’è stato messo bene in evidenza dagli studi specificamente rivolti alla valutazione della violenza, e a quel particolare tipo di violenza, nella RSI. Si tratta di quella tendenza che già altra volta abbiamo definito come una forma di nazificazione del fascismo di Salò. Essa è l’esito dell’autocritica del fascismo come critica al fascismo del ventennio e, come parte, in un certo senso, di un processo di rifondazione del fascismo, che tiene direttamente conto di una duplice esperienza. Da una parte, in negativo, i compromessi e gli accomodamenti derivanti dal dualismo di potere con la monarchia, con gli apparati dello stato (la burocrazia ministeriale), e con la stessa chiesa cattolica; dall’altra, in positivo, l’esperienza del regime nazista in Germania la cui tenuta si doveva in buona parte attribuire alla totale concentrazione del potere nel Partito nazionalsocialista e alla lotta senza quartiere nei confronti di ogni centrifuga articolazione nello stato e nella società (chiese comprese). [...] In altre parole, il nuovo fascismo che si vuole riorganizzare in stato nel suo processo di rifondazione si appropria di una serie di elementi che non consentono di circoscriverne la fisionomia solo come epifenomeno del fascismo del ventennio, ma che intendono esaltarne i caratteri di novità e di originalità in una rinnovata opzione a favore di un attivismo fascista consapevole anche della posta in gioco nel Nuovo ordine europeo. Anche se l’europeismo del fascismo di Salò – se si astrae dalla permanente retorica della spiritualità latina e fascista – è reso ancora più ambiguo dalla identificazione dell’Europa 82 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE con l’area controllata e difesa dalla Germania nazista, senza il cui baluardo la stessa RSI sarebbe totalmente indifesa e quindi un’entità praticamente inesistente. Nel momento in cui tenta di rinascere dalle macerie del fascismo del ventennio, la RSI guarda sicuramente al <<modello del totalitarismo nazista>>, com’è stato detto[dallo storico italiano L. Ganapini – n.d.r.]. All’interno di questo modello si collocano sicuramente il primato del partito rispetto agli apparati dello stato, capovolgendo l’equilibrio a favore dello stato che aveva caratterizzato il regime fascista in Italia a differenza del regime nazista in Germania [...]. La centralità del PFR [= Partito Fascista Repubblicano – n.d.r.] che sarebbe stata affermata non solo teoricamente nel Manifesto di Verona del 14 novembre del 1943 ma soprattutto nella prassi e nella struttura stessa del nuovo partito – non più partito burocratizzato ma partito d’élite e di avanguardia – doveva essere uno dei caposaldi della nuova rigenerazione dello stato e delle sue articolazioni anche in rapporto alla società. Al di là del ruolo in sé del partito, un passo ulteriore verso l’adozione del modello tedesco si può rinvenire nella funzione attribuita ai nuovi capi delle province, che si trovarono a esercitare le funzioni dei vecchi prefetti, ma anche a realizzare l’unità di comando politico e amministrativo, come si espresse la stampa della RSI. Con questa fusione non si veniva forse a riprodurre la figura dei Gauleiter dell’ordinamento nazista, grazie ai quali si operava la fusione a livello dell’amministrazione intermedia tra struttura di partito e struttura dell’amministrazione? [...] Il secondo nucleo della nazificazione sarebbe rappresentato dal peso che nella RSI assunsero gli apparati del terrore e l’uso della violenza, ben al di là dell’organizzazione 83 8 MAGGIO poliziesca che già presiedette nel regime fascista al controllo e alla repressione delle opposizioni e di ogni eventuale manifestazione di dissenso o addirittura di non consenso. In questo contesto non va inclusa soltanto la variegata moltitudine delle polizie della RSI e la relativa autonomia di cui godettero corpi armati, unità speciali e formazioni in qualche misura autonoma, le varie bande Koch o Carità, le Brigate Nere piuttosto che la X MAS: sarebbe da considerare il complesso di un processo di militarizzazione che coinvolse larghi settori della società, che incluse anche certamente la militarizzazione dello stesso Partito fascista repubblicano, di cui le Brigate nere furono per l’appunto il volto militarizzato e militare. Ma in generale, la militarizzazione in questa fase era il risvolto di una mobilitazione totale che prima ancora che nella diffusione delle armi mirava a diffondere negli animi sentimenti di antagonismo senza pietà e senza quartiere. [...] Nella tensione tra vendicatori e conciliazionisti, come potremmo definire le due posizioni principali che si confrontarono nella Repubblica di Salò, a tenere in pugno la situazione non furono certo i conciliazionisti, che facevano appello alla concordia con grande spreco retorico; era l’ora dell’estremismo e qualunque ne fosse l’ispirazione prima, desiderio di vendetta, di purificazione o di espiazione, voglia e necessità di competere con i tedeschi supplendo alla mancanza di armamenti con un superiore tasso di violenza spicciola, il carattere <<militante>> della RSI non poteva che esprimersi attraverso il ricorso forsennato alle misure più radicali. Polizie e unità militari della RSI furono solo eccezionalmente impegnate sul fronte di combattimento contro le forze regolari degli eserciti alleati; il terreno privilegiato del loro impiego fu all’interno del territorio della 84 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE RSI, nell’azione antipartigiana in primo luogo ma anche nel presidio del territorio, nelle guarnigioni delle città, nella repressione di qualsiasi forma di opposizione, nelle fabbriche e in altre situazioni. Furono a fianco dei tedeschi come agenti esecutivi di operazioni promosse da questi, in rastrellamenti, nelle <<rappresaglie>> o nelle deportazioni o con essi collaborarono quando ebbero un minimo di autonomia operativa. Ma ebbero una fondamentale funzione intimidatrice nei confronti della generalità della popolazione; interpretarono il tentativo di coinvolgere la popolazione e di convogliarla sotto le bandiere della RSI non con la persuasione ma con l’intimidazione. [...] Infine, il peso crescente che l’antisemitismo acquista nella RSI è un altro dei segni della nazificazione della quale parlavamo prima. Sotto questo aspetto la lotta e la caccia agli ebrei nella Repubblica di Salò non è il semplice prolungamento cronologico della legislazione contro gli ebrei già emanata dal regime fascista sin dal 1938. L’enfatizzazione in questa fase della questione ebraica corrisponde all’accentuazione dell’identificazione con l’Europa del Nuovo ordine di marca nazista. [...] In questo senso, l’Europa è il nazismo, l’Europa è il razzismo e specificamente il razzismo antiebraico, l’Europa è l’antibolscevismo, l’Europa è l’antidemocrazie plutocratiche, un’ Europa che sostanzialmente si definisce per negazioni ma che alla fine si identifica puramente e semplicemente con la Germania nazista. [...] La riesumazione di un personaggio come Giovanni Preziosi, decano degli antisemiti italiani, tra i quadri della RSI, chiamato dal 15 marzo 1944 a dirigere l’Ispettorato generale per la razza, non è un gesto meramente formale né può considerarsi soltanto un atto di piaggeria nei confronti dei tedeschi. Nel 85 8 MAGGIO contesto della RSI la rivitalizzazione della campagna contro gli ebrei acquista un peso del tutto particolare. Se si ha in mente fra l’altro il Manifesto di Verona del 14 novembre 1943, che in assenza di una costituzione della RSI assume il valore di carta programmatica non solo del PFR, ma della Repubblica di Salò nel suo complesso, la questione ebraica assume il carattere di connotato costitutivo della RSI, ben oltre la sempre sottesa e ricorrente polemica contro il complotto massonico ed ebraico su cui si tenta di scaricare il fallimento del regime fascista e la disfatta militare. (E. Collotti, L’Europa nazista. Il progetto di un Nuovo ordine europeo (1939-1945), Firenze, Giunti, 2002, pp. 412-417) 86 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE L’OSTENTAZIONE FASCISTA DELLA MORTE I l caos amministrativo e la difficoltà che provò la RSI a presentarsi come un potere legittimo e indiscusso si manifestarono nella pluralità delle formazioni, che di fatto sottrassero allo Stato il monopolio della violenza legale. Ad un livello ancora più elementare, tutto ciò si esprimeva nell’assoluta assenza di criteri omogenei nell’uso delle uniformi. Pertanto, l’unico sistema per imporre il potere divenne la violenza, che fece ampio ricorso al terrore e alla pratica dell’ostentazione del cadavere del nemico. A Robecco, un piccolo paese del Milanese, i maschi adulti rastrellati casa per casa furono raccolti nella piazza dove vennero scelti quelli da fucilare: <<Fu formato il plotone d’esecuzione raccogliendo i fascisti più vicini. Qualcuno si offrì subito, qualcun altro cercò di allontanarsi. Un giovane fascista costrinse un altro più anziano di lui a far parte del plotone, trascinandolo come se stessero andando al tiro a segno… I fascisti, finito il loro compito entrarono nel bar a bere. Uno di loro mangiando un panino si aggirava tra i morti che furono lasciati, come ammonimento, fino a sera>>. Stessa scena il 10 agosto 1944 a piazzale Loreto, nella metropoli milanese. Quindici membri della Resistenza furono fucilati da un plotone di esecuzione misto costituito da arditi della Muti e da militi della GNR [= Guardia Nazionale Repubblicana – n.d.r.]; terminato l’eccidio, i tedeschi pretesero che i cadaveri non fossero rimossi. Con il passare delle ore, scriveva a Mussolini il capo della Provincia, Parini, <<cominciarono a transitare per il piazzale Loreto gli operai che si recavano al lavoro e tutti si fermavano ad osservare il mucchio di cadaveri che era raccapricciante 87 8 MAGGIO oltre ogni dire perché i cadaveri erano in tutte le posizioni, cosparsi di terribili ferite e di sangue. Avvenivano scene di spavento da parte di donne svenute e in tutti era evidente lo sdegno e l’orrore>>. […] La strategia ammonitiva in cui si collocano le pubbliche esibizioni dei cadaveri dei nemici uccisi ritorna in quasi tutte le guerre novecentesche, così come l’uso di quei corpi per rinsaldare le file dei carnefici, farli sentire tutti complici oltre che compagni d’arme. Ma per il fascismo di Salò c’è qualcosa in più. Il tentativo della RSI di dotarsi di una propria forza armata autonoma si era arenato in un marasmatico groviglio logistico e operativo. Tronconi istituzionali, i ministeri sparsi intorno al lago di Garda garantivano la pura sopravvivenza amministrativa di un apparato statale. La Repubblica sociale italiana aveva visto fallire quasi immediatamente i suoi tentativi di dare credibilità anzitutto ai propri reparti militari. I tedeschi si erano affermati come l’unico potere reale nel territorio italiano formalmente repubblicano. Per il resto, il moltiplicarsi di formazioni armate tutte apparentemente legali (le Brigate Nere, la Guardia nazionale repubblicana, la Decima Mas), la loro eterogeneità, la diversità dei loro comportamenti, disintegravano gli stessi concetti di ordine e legalità a cui la gente aveva sempre riferito i propri bisogni di sicurezza. Scriveva Renzo Montagna, dal 6 ottobre 1944 capo della polizia della RSI: <<Praticavano arresti e perquisizioni, ciascuna per proprio conto, la Muti, la X Mas, le Brigate Nere, la Guardia Nazionale Repubblicana, e le varie polizie speciali: la Bernasconi, la Carità, la De Sanctis, la Finizio, la Sicherheit, la Panfi, la Pennacchio. Era quasi impossibile, quando qualcuno veniva arrestato, riuscire a sapere in mano a chi fosse andato a finire e di conseguenza in quale prigione. 88 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE Il disordine derivante da questo stato di cose diventava, di giorno in giorno, più preoccupante. Alcune di queste polizie, poi, obbedivano unicamente ai tedeschi e non ne volevano sapere di mantenere le proprie azioni nei limiti della legalità. Ce n’era una, ad esempio, che requisiva quotidianamente a Milano il maggior numero possibile di automobili e le portava ai tedeschi che le pagavano metà del loro valore>>. E Carlo Chevallard, dal suo Diario, da un versante politico del tutto diverso, ribadiva lo stesso concetto: <<Torino, 8 luglio 1944. Un esempio caratteristico della confusione dei tempi è lo studio delle uniformi dell’esercito repubblicano. Che guazzabuglio! I militi della GNR (i successori dei carabinieri) un po’ portano la camicia nera, un po’ no; parte fan servizio in giacca, parte no. Una certa uniformità hanno i militi della X Mas: basco da paracadutisti, uniforme in panno verde e tela kaki con pantaloni lunghi. Per il resto il caos; legionari della Muti colla giubba fatta con tela mimetica e con la testa di morto sul berretto, legionari delle SS con le mostrine rosse, e chi più ne ha più ne metta: militi in camicia nera e short kaki, militi in camicia nera e pantaloni grigio-verdi…>>. Questa dimensione scenografica della dissoluzione dello Stato, della frantumazione della centralità delle istituzioni, questa sua trasposizione in una sorta di recita teatrale […] era il risvolto antropologico della disgregazione dello Stato nazionale […]. Dalla frantumazione dello Stato, dalla sua forzata rinuncia ad esercitare il monopolio legale della violenza e della forza armata, fuoriuscì il magma di una violenza privata incontrollata e incontrollabile. Fu questo lo scenario politico da cui scaturì la scelta disperata ed efferata di trasferire direttamente nei corpi dei nemici uccisi l’unico fondamento 89 8 MAGGIO della propria credibilità istituzionale e della propria autorità statuale. Se la spontaneità della folla rivoluzionaria infierisce sulle sue vittime per sancire la nascita del nuovo potere, il vecchio potere usa le sue pratiche in un disperato tentativo di protrarre la sua esistenza: gli impiccati devono rimanere penzolanti, i fucilati insepolti, perché alla sua autorità resta solo il linguaggio della brutalità, come unico fondamento la paura della morte e la violenza sui corpi nemici. La legittimazione della RSI, dapprima tentata invano attraverso la ricostruzione di un esercito appena decente, fu quindi inseguita, alla fine, nei corpi esposti ed esibiti dei nemici uccisi. (G. De Luna, Il corpo del nemico ucciso. Violenza e morte nella guerra contemporanea, Torino, Einaudi, 2006, pp. 155-160) 90 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE La svolta di Salerno I l 9 settembre 1943, gli angloamericani sbarcarono a Salerno. I tedeschi, tuttavia, riuscirono ad organizzare un’efficacissima resistenza sulla cosiddetta Linea Gustav, all’altezza dei fiumi Garigliano e Sangro. Neppure un altro sbarco, nella zona di Anzio (22 gennaio 1944), riuscì a sbloccare la situazione. Per diversi mesi, l’area in cui si svolsero i combattimenti più violenti fu quella delle alture di Monte Cassino, nella regione in cui sorgeva la celebre abbazia benedettina, che fu bombardata e andò completamente distrutta. Solo nel maggio 1944 i tedeschi furono obbligati a ritirarsi verso nord, permettendo la liberazione di Roma (4 giugno 1944). Qualche mese prima, nella capitale i nazisti avevano attuato la spietata operazione delle Fosse Ardeatine, nel corso della quale furono uccise 335 persone (scelte tra gli antifascisti e gli ebrei reclusi nelle carceri romane), in risposta ad un attentato compiuto in via Rasella, nel corso del quale morirono 33 soldati tedeschi (23 marzo 1944). Fin dall’epoca della guerra, l’episodio di via Rasella, è stato oggetto di violenti polemiche, a partire dai militi scelti come bersaglio: non si trattava infatti di SS o di fascisti noti per la loro brutalità, bensì di reclute del III reggimento di polizia Bozen; a rigore, dunque, non si trattava neppure di tedeschi, ma di altoatesini, da poco arruolati nelle file delle forze armate del Terzo Reich. Probabilmente, la scelta degli attentatori cadde su quel particolare reparto perché era un bersaglio facile, per quanto privo di speciali valenze politiche o militari. Una seconda questione spinosa riguarda il fatto che i nazisti avevano già effettuato alcune rappresaglie in proporzione di dieci italiani fucilati, per ciascun morto tedesco; gli attentatori quindi erano consapevoli delle possibili conseguenze del loro gesto. Del resto, già all’epoca, osservatori maligni rilevarono 91 8 MAGGIO che l’attentato fu compiuto quando nelle carceri romane non era rinchiuso alcun comunista. In effetti, gli attentatori di via Rasella appartenevano ai cosiddetti Gap (Gruppi di azione patriottica), che ricevevano ordini direttamente dal PCI ed erano una specie di suo corpo armato scelto. Lo scopo di questa organizzazione partigiana d’élite era di compiere azioni clamorose, che spargessero il terrore tra le file dei tedeschi e dei fascisti; inoltre, per la loro audacia e la precisione con cui erano organizzati, gli attentati dei Gap dovevano offrire, del movimento di resistenza, un’immagine di forza e di potenza, capace di scuotere gli animi degli italiani indecisi o perplessi. Il prezzo di tali azioni, però, era molto alto, in termini etici, sia perché esse provocavano durissime rappresaglie, sia per gli obiettivi prescelti. Liberato dagli Alleati nel giro di pochi mesi, il Sud della Penisola non conobbe un vero e proprio movimento di resistenza; la grande insurrezione di Napoli (28 settembre/1 ottobre 1943) ad esempio - fu una sorta di spontanea reazione popolare alla sistematica distruzione della città compiuta dai tedeschi in ritirata, più che il frutto di un progetto politico preciso e meditato. Al Sud, i leader dei diversi partiti, usciti dalla clandestinità dopo il 25 luglio, si trovarono a dover subito affrontare, i problemi politici che, a livello nazionale, si sarebbero posti solo dopo la fine della guerra. In particolare, si pose come più urgente di tutte la questione della legittimità (morale, prima ancora che politica) della collaborazione con la monarchia, pesantemente compromessa, negli anni passati, col fascismo. Certo, il re aveva provocato la fine del regime il 25 luglio 1943 e il governo Badoglio aveva proceduto, il 13 ottobre, a dichiarare guerra alla Germania; tuttavia, nel Sud liberato, i partiti antifascisti continuavano a diffidare del sovrano, o meglio ancora a ritenere che fosse suo dovere uscire completamente dalla scena politica. 92 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE Su questo punto insisteva soprattutto il Partito d’Azione, che era nato ufficialmente nel luglio del 1942, ma costituiva lo sviluppo evolutivo del movimento Giustizia e Libertà, fondato in Francia, nel 1929, da Carlo Rosselli (poi assassinato da sicari fascisti, insieme al fratello Nello, il 9 giugno 1937), da Emilio Lussu e da altri intellettuali democratici ostili alla dittatura. Dopo la caduta di Mussolini, il Partito d’Azione assunse una posizione di rigida intransigenza, mostrando la volontà di rompere radicalmente non solo con il fascismo, ma anche con tutti quei soggetti politici e sociali che col fascismo stesso erano scesi a patti: la grande borghesia, i quadri dirigenti dell’esercito, la magistratura e naturalmente, al primo posto, la monarchia. Partiti più moderati come la Democrazia Cristiana (risorta dalle ceneri del Partito Popolare Italiano) e i liberali avrebbero accettato di dialogare con il re e Badoglio, ma gli azionisti (sostenuti dai socialisti e dai dirigenti comunisti attivi sul territorio nazionale) continuavano ad opporsi in modo categorico. La situazione, che sembrò a lungo senza sbocco, si mise in movimento solo nella primavera del 1944, quando l’URSS e il partito comunista italiano presero alcune iniziative clamorose e spiazzarono le altre forze antifasciste, obbligandole ad adeguarsi al loro indirizzo. Il 4 marzo, un diplomatico sovietico fu inviato a Salerno, dove il governo si era trasferito, e comunicò a Badoglio che l’URSS era disponibile e pronta a riprendere rapporti ufficiali con l’Italia; lo stesso giorno, a Mosca, Stalin convocò il più prestigioso leader comunista italiano presente in Russia, Palmiro Togliatti, e gli diede precise istruzioni, in vista del suo imminente ritorno in patria. Subito dopo il suo arrivo in Italia (27 marzo) Togliatti dichiarò a Salerno, sede provvisoria del governo, che il suo partito era disposto a partecipare ad un esecutivo di unità nazionale, rinviando la soluzione della questione istituzionale (= mantenimento della monarchia o instaurazione della repubblica) al 93 8 MAGGIO periodo successivo alla vittoria. Il nuovo governo Badoglio (con la partecipazione di sei partiti antifascisti) nacque il 24 aprile 1944 e durò fino alla liberazione di Roma (4 giugno 1944). A quel punto, mentre Vittorio Emanuele III accettò di nominare come luogotenente del regno il proprio figlio Umberto, si ebbe la formazione di un ulteriore governo, aperto a tutte le formazioni politiche antifasciste, presieduto dall’anziano leader del socialismo riformista Ivanoe Bonomi. 94 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE LA LINEA POLITICA DI TOGLIATTI NEL 1943 L a cosiddetta svolta di Salerno non fu un’iniziativa autonoma di Togliatti. I nuovi documenti emersi dagli archivi sovietici mostrano che si trattò di una precisa scelta di Stalin (che infatti, in novembre, diede indicazioni simili anche ai comunisti francesi), finalizzata a sostenere l’autonomia e il potere contrattuale del debole Stato italiano, nei suoi rapporti con gli angloamericani, e a rafforzare in Italia, il peso del partito comunista, che grazie alla nuova linea politica riuscì ad entrare nell’esecutivo. In quel periodo [= nelle prime caotiche settimane seguenti la caduta del fascismo, il 25 luglio 1943 – n.d.r.] Togliatti richiese ripetutamente alla leadership sovietica l’autorizzazione a rientrare in Italia, dove, come scrisse in una lettera a Dimitrov [= segretario del Comintern, l’Internazionale comunista – n.d.r.] del 14 ottobre 1943, la sua azione avrebbe potuto essere utile a evitare che i comunisti <<respingano un invito di Badoglio, se noi non eserciteremo una pressione in forma adeguata>>. Questo atteggiamento di disponibilità nei confronti di Badoglio era condiviso anche dagli altri partiti del fronte antifascista. Dopo i disastrosi avvenimenti seguiti all’annuncio dell’armistizio, con la fuga del re e del governo da Roma e la dissoluzione dell’esercito, i partiti antifascisti riuniti nel CLN avrebbero però assunto una posizione di netta intransigenza nei confronti della monarchia e del governo Badoglio. Questa linea, enunciata nell’ordine del giorno del 16 ottobre del 1943, sarebbe poi culminata nella richiesta di abdicazione del re nel convegno dei CLN [= Comitati di Liberazione Nazionale, n.d.r.] riuniti a Bari nel 95 8 MAGGIO gennaio 1944. Togliatti invece fino al dicembre del 1943, in pieno accordo con la linea generale del governo sovietico e del Comintern, insistette sulla necessità della formazione di un governo nazionale provvisorio con la partecipazione dei comunisti con il compito di liquidare il fascismo e preparare la soluzione della questione del prossimo regime in Italia. A metà dicembre Togliatti cambiò nettamente posizione. Come sostenne in una trasmissione alla radio per l’Italia: <<È giusto chiedere che il re attuale, complice di Mussolini e di tutti i suoi delitti, sia allontanato come ostacolo insuperabile all’unità della nazione>>. […] Gli eventi in Italia si susseguirono con tanta rapidità che i comunisti locali dovettero agire per conto proprio senza avere direttive precise da Mosca. Il 20 gennaio Badoglio invitò Reale e Spano a colloquio proponendo loro di entrare nel governo. Dopo aver appreso da Badoglio che il re non intendeva abdicare, i rappresentanti comunisti respinsero la sua proposta con la giustificazione che <<la permanenza sul trono del re fascista universalmente disprezzato dal popolo frustrerebbe sin dall’inizio ogni tentativo patriottico di un qualsiasi governo, il quale avrebbe oggi perduto, per il fatto stesso di collaborare con Vittorio Emanuele, ogni autorità>>. […] Nel febbraio 1944 Togliatti, in vista della sua imminente partenza per l’Italia, […] scrisse: <<Partendo dalla risoluzione della Conferenza di Mosca e in unione con gli altri partiti antifascisti, i comunisti chiedono la costituzione di un governo democratico provvisorio, al fine di organizzare e dirigere gli sforzi di guerra del Paese… Essi chiedono l’abdicazione del re, in quanto complice della costituzione del regime fascista e di tutti i crimini di Mussolini, e in quanto centro di unificazione, nel 96 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE momento attuale, di tutte le forze reazionarie, semifasciste e fasciste che oppongono resistenza alla democratizzazione del Paese e coscientemente sabotano gli sforzi di guerra dell’Italia. In considerazione di ciò, i comunisti (benché in caso di abdicazione del re possano consentire alla reggenza temporanea del maresciallo Badoglio) rifiutano di partecipare all’attuale governo e denunciano nella politica di questo governo un ostacolo a una vera partecipazione del popolo italiano alla guerra contro la Germania>>. […] La notte del 4 marzo Togliatti fu ricevuto da Stalin in presenza di Molotov e Vyshinsky [= il ministro degli Esteri dell’URSS e un alto funzionario che si occupava anch’egli di relazioni internazionali – n.d.r.]. Il verbale del colloquio Stalin-Togliatti, che durò soltanto 45 minuti, non è ancora emerso dagli archivi, ma il suo contenuto è noto dal diario di Dimitrov, il quale fu subito informato delle direttive staliniane telefonicamente da Molotov e il giorno seguente dallo stesso Togliatti, che si recò da lui per riferirgli dettagliatamente le direttive staliniane. Durante il colloquio Stalin rifiutò nettamente tutta l’argomentazione di Togliatti e di Dimitrov, i quali presentavano l’Italia come un caso speciale, in cui sarebbe stato opportuno per i partiti antifascisti creare un governo alternativo antimonarchico e senza la partecipazione di figure politiche compromesse con il regime fascista. Stalin suggerì, invece, che il PCI abbandonasse per il momento la richiesta dell’abdicazione del re ed entrasse nel governo Badoglio. […] Rovesciando la linea politica suggerita da Togliatti e da Dimitrov, Stalin sostenne che entrando nel governo Badoglio i comunisti avrebbero potuto svolgere il ruolo di forza principale per <<attuare la democratizzazione del paese e realizzare 97 8 MAGGIO l’unità del popolo italiano>>. […] Stalin non prestava alcuna attenzione all’opinione dei partiti antifascisti italiani, tanto da non capire la loro ostilità verso Badoglio. Il successo di Togliatti nel rovesciare la linea politica del PCI e degli altri partiti antifascisti sulla questione della collaborazione con la monarchia, convincendoli ad entrare nel governo di coalizione capeggiato da Badoglio, fu dovuto sia all’effetto del riconoscimento del governo Badoglio da parte sovietica sia all’enorme autorità personale di Togliatti, arrivato da Mosca come l’indiscusso leader del PCI. L’influenza del PCI a sua volta derivava in gran parte dalle vittorie dell’Armata rossa e dall’aura di irresistibile, sconvolgente, imponente successo che il compiersi storico del comunismo in Unione Sovietica riverberava sull’immagine di potenza dei comunisti italiani. Nonostante le forti resistenze di diversi dirigenti del PCI e soprattutto del partito d’Azione, che fino alla fine cercò di contrastare l’iniziativa togliattiana, minacciando di rimanere fuori dalla nuova compagine, il 24 aprile 1944 nasceva il nuovo governo Badoglio con la partecipazione dei sei partiti antifascisti del CLN. (E.A. Rossi – V. Zaslavsky, Togliatti e Stalin. Il PCI e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca, Bologna, Il Mulino, 2007, pp. 68-75) 98 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE Le violenze contro i civili N el corso degli anni 1943-1945, la guerra in Italia andò assumendo un carattere sempre più brutale e barbaro: non si limitò ad essere un conflitto durissimo per gli eserciti che lo combattevano, ma coinvolse in modo crescente la popolazione civile, oggetto di una serie di eccidi da parte dei tedeschi, che nel complesso provocarono 10-15.000 vittime. Tali violenze non furono compiute solo ed esclusivamente dalle SS; anzi, la maggioranza delle stragi fu commessa da soggetti ordinari, da uomini comuni, cioè da normali soldati, inquadrati nell’esercito o addirittura nell’aviazione. Nella deposizione volontaria che rese agli Alleati il l5 marzo 1946, il generale Frido von Senger und Etterlin (del 14° Corpo d’Armata) pose l’accento sulle durissime condizioni di vita dei soldati: sempre affamati, costantemente in prima linea senza possibilità di ricambio, soggetti a perdite micidiali. Secondo il generale, tutto ciò spinse a livelli elevatissimi l’aggressività della truppa, che poi scaricò la propria rabbia sui civili: <<Con lo sfondamento degli Alleati e la ritirata delle forze tedesche verso l’Arno, - scrive Frido von Senger und Etterlin, descrivendo la situazione venutasi a creare nella tarda estate del 1944 - i partigiani iniziarono a comparire nelle retrovie delle truppe tedesche. Sulle montagne in particolare e nelle zone boscose, essi dominavano interi distretti costituendo un serio pericolo per la condotta della guerra; erano difficili da combattere in quanto non facevano parte di una organizzazione militare, non avevano insegne o distintivi militari e nel corso del combattimento si ritiravano sulle montagne o si facevano passare da cittadini inermi. La furia delle truppe, che erano completamente disarmate contro i partigiani, si riversò contro l’intera popolazione civile delle aree da loro controllate, la quale volontariamente o involontariamente li assisteva>>. 99 8 MAGGIO Un’interpretazione di questo genere è molto riduttiva, cioè finisce per minimizzare gli eccidi (ridotti a occasionali e disordinate esplosioni di violenza, nate dal basso) e rischia di tralasciare le responsabilità di vertice e gli ordini superiori. In effetti, mentre liquida come episodi sporadici e occasionali le stragi di civili, è lo stesso generale von Senger und Etterlin ad ammettere che <<purtroppo le truppe erano anche incoraggiate dagli ordini dell’Alto Comando, che permettevano in qualche modo che venissero compiuti eccessi nei confronti della popolazione civile, o da altre autorità che esigevano le più severe misure allo scopo di eliminare sul nascere ogni possibile pericolo per il Comando tedesco e le sue truppe>>. Le prime direttive che contemplavano in modo esplicito l’uccisione dei civili (anche di donne, ragazze e bambini), qualora fossero sospettati di aver svolto azioni di spionaggio, oppure, più semplicemente, di aver sostenuto in un modo qualsiasi i partigiani, furono emanate in Russia. Sul fronte orientale, si venne a creare un vero e proprio stile - cioè una precisa modalità di concepire e condurre la lotta contro i partigiani - secondo cui non esistevano più limiti o remore nelle azioni che si potevano condurre contro la popolazione civile, disprezzata sotto il profilo razziale e quindi privata di qualsiasi diritto umano. Col passar del tempo, lo stile elaborato in Unione Sovietica venne esportato in altri contesti, a cominciare dalla Serbia, considerata un territorio abitato da sottouomini slavi non molto diversi dai russi. Già nell’ottobre 1941, la Wehrmacht fucilò a Kraljevo nell’arco di una settimana circa 4.000 civili; poco più tardi, a Kragujevac, vennero uccisi 2.300 serbi. Era l’inizio di una politica violenta che avrebbe provocato la morte di almeno 20.000 serbi, solo nel periodo settembre 1941 – febbraio 1942. Basata sul principio della superiorità razziale e pienamente legittimata (per non dire incentivata) dalle autorità militari e politiche, tale sistema era finalizzato a pacificare con qualun- 100 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE que mezzo una terra destinata esclusivamente (come la Russia) a fornire risorse e manodopera servile alla razza padrona. Con più cautela e gradualità, invece, il modello elaborato a Est fu trasferito in un territorio occidentale (ariano, in un’ottica nazista) come la Francia, che in effetti subì gravi eccidi solo dopo lo sbarco alleato in Normandia (si pensi, innanzi tutto, ai 634 abitanti di Oradour-sur-Glane, assassinati il 10 giugno 1944). A partire dal settembre 1943, il modello orientale approdò anche in Italia. La prima strage compiuta dai nazisti venne operata a Boves, in provincia di Cuneo, il 19 settembre, allorché vennero uccise 25 persone e incendiate 350 case; non a caso, il reparto che entrò in azione (il 3° battaglione, comandato dallo SS-Sturmbannführer Joachim Peiper) apparteneva alla divisione corazzata Leibstandarte-SS Adolf Hitler (Guardia del corpo di Adolf Hitler), un’unità d’élite composta da nazisti convinti, appena trasferita dal fronte russo. Della stessa divisione faceva parte anche i1 1° battaglione, l’unità che, tra il 21 e il 22 settembre, procedette all’uccisione di alcune decine di ebrei sulla sponda occidentale del Lago Maggiore. In queste prime azioni commesse in Italia settentrionale (e nell’eccidio verificatosi a Caiazzo, sul Volturno, il 13 ottobre 1943: furono uccisi 22 civili, accusati di aver fatto segnali luminosi al nemico) ci fu un ampio margine di improvvisazione e di autonomia, da parte dei comandanti. Anzi, si potrebbe quasi parlare di automatismo, di applicazione meccanica di tecniche di repressione che, in passato, erano già state direttamente messe in atto in Russia da chi stava compiendo il crimine in Italia, oppure erano state interiorizzate e accettate come del tutto normali da un gran numero di soldati e, soprattutto, di ufficiali.Del resto, fra soldati e ufficiali, andava diffondendosi a tutti i livelli un sempre più accentuato disprezzo di tipo razziale nei confronti degli italiani, declassati al rango di popolo inferiore, privo delle perfette qualità tipiche degli ariani. Tale processo era iniziato già prima della disfatta 101 8 MAGGIO del 1943 e trovava le proprie ragioni nelle continue sconfitte subite dagli italiani, in Grecia prima, in Africa poi. Rafforzati ed esasperati dal tradimento dell’8 settembre, i giudizi sprezzanti finirono per trasformare i civili italiani in sottouomini che era del tutto lecito assassinare, ripetendo alla lettera il modello elaborato in Europa orientale. 102 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE BARBARIE E CRIMINI DI GUERRA SUL FRONTE ORIENTALE L o storico tedesco O. Bartov ha studiato in modo specifico il comportamento dell’esercito tedesco sul fronte russo. A suo giudizio, le condizioni estreme in cui i soldati si trovarono ad operare e la durezza dello scontro in atto non sono sufficienti a spiegare le violenze condotte in modo brutale e sistematico contro i civili. A suo giudizio, la maggior parte degli ufficiali e moltissimi soldati avevano di fatto recepito e interiorizzato i principi razzisti tipici dell’ideologia nazista. L’imbarbarimento della condotta di guerra sul fronte orientale fu il risultato dell’interrelazione fra diversi fattori, come la brutalità dei combattimenti, le dure condizioni di vita al fronte, l’inclinazione verso l’ideologia nazista mostrata dagli ufficiali subalterni – e probabilmente da molti soldati – e il continuo indottrinamento politico delle truppe. Tuttavia la causa più diretta delle attività criminali dell’esercito tedesco sul fronte orientale e della barbarie mostrata dai singoli soldati fu l’emanazione dei cosiddetti <<ordini criminali>>. Questo complesso di disposizioni impartite dall’Okw [Oberkommando des Wehrmacht = Comando supremo delle Forze Armate – n.d.r. ] e dall’Okh [Oberkommando des Heers = Comando supremo dell’esercito – n.d.r.] alla vigilia dell’invasione dell’Unione Sovietica influenzò in larga misura la condotta brutale delle truppe al fronte, offrendo una sorta di cornice disciplinare e di pseudolegalità. Gli <<ordini criminali>> erano composti da quattro gruppi di istruzioni: 103 8 MAGGIO 1. Disposizioni relative alle attività delle Einsatzgruppen delle SS e dell’SD, che consentivano a queste squadre di assassini di operare in relativa libertà nelle aree controllate dalle armate, sotto il comando diretto di Reinhard Heydrich. 2. La Einschränkung der Kriegsgerichtsbarkeit (limitazione della giurisdizione militare), che permetteva all’esercito di fucilare i partigiani e i civili sospettati di prestare loro aiuto, prescrivendo, nel caso non si trovassero dei colpevoli, di prendere misure collettive contro la popolazione civile della zona. 3. Il Kommissarbefehl (ordine sui commissari) che stabiliva l’immediata fucilazione dei commissari politici dell’Armata Rossa catturati dalle truppe. 4. Le <<Linee guida per la condotta delle truppe in Russia>>, che ordinavano di agire senza pietà contro <<agitatori bolscevichi, partigiani, sabotatori ed ebrei>>, mirando alla completa eliminazione di ogni forma di resistenza attiva o passiva. 5. Gli <<ordini criminali>> pervennero a tutte le unità tedesche alla vigilia dell’invasione. [...] La 12 ª Divisione di Fanteria emanò un primo ordine relativo al trattamento dei partigiani il giorno stesso dell’invasione. Esso non ammetteva alcuna flessibilità rispetto alle istruzioni dell’Okh: i partigiani non sarebbero stati trattati come prigionieri di guerra, bensì <<giustiziati sul posto da un ufficiale>>. Il 31 luglio 1941 la 16 ª Armata comunicò alle proprie unità che i <<battaglioni di irregolari>> che si formavano dietro il fronte e che non avessero ottemperato esattamente alle leggi di guerra per quanto 104 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE concerneva abbigliamento, armi e mezzi di identificazione, sarebbero stati trattati come partigiani, che si trattasse o meno di soldati; i civili che avessero dato loro assistenza sarebbero stati trattati nello stesso modo. In questo contesto l’espressione <<trattati come partigiani>> era un eufemismo che significava semplicemente morte per fucilazione o impiccagione. Lo stesso ordine venne emanato anche dalla 18 ª Divisione Corazzata il 4 agosto 1941. Ciò significava, naturalmente, che se una formazione partigiana fosse entrata in un villaggio e si fosse procurata da sé gli approvvigionamenti necessari, i tedeschi avrebbero visto ciò come collaborazione coi partigiani e, per rappresaglia, avrebbero distrutto il villaggio e ucciso i suoi abitanti. E in effetti il 30 gennaio 1942 la 12 ª Divisione di Fanteria riferiva che in seguito a un incidente in cui alcune delle sue slitte erano finite su delle mine nei pressi del villaggio di Nov. Ladomery l’intera popolazione maschile dell’abitato era stata fucilata e le case bruciate come <<misura collettiva>>. [...] Di quando in quando venivano effettuate operazioni su vasta scala contro le <<zone partigiane>>, con terribili conseguenze per la popolazione. Fra il 19 novembre e il 5 dicembre 1941 unità del II Corpo entrarono in azione nell’area del lago di Polisto, uccidendo 250 <<partigiani>>, distruggendo quindici <<campi>> e dando alle fiamme sedici villaggi, portando via bestiame e cavalli e distruggendo le scorte di cibo; i tedeschi ebbero solo sei morti e otto feriti, tutti in seguito a un’unica imboscata tesa dai partigiani nella zona delle operazioni. Queste <<purghe>> ebbero come unico effetto quello di ingrossare le file delle formazioni partigiane, dando ulteriore 105 8 MAGGIO impulso al circolo vizioso iniziato dall’esercito tedesco. La sua politica, tuttavia, non cambiò, e il 31 gennaio 1942 il comandante del Gruppo di Armate Nord emanò l’ordine seguente: <<Il recente risveglio delle attività partigiane nelle retrovie [...] insieme alle battaglie al fronte, richiedono un’azione da intraprendere [...] con la massima risolutezza. I partigiani devono essere distrutti laddove fanno la loro comparsa, se i loro nascondigli (cioè i villaggi) non siano necessari all’alloggiamento delle truppe>>. (O. Bartov, Fronte orientale. Le truppe tedesche e l’imbarbarimento della guerra (1941-1945), Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 131-132 e 146-150. Traduzione di F. Degli Esposti) LA LEGITTIMAZIONE DELLE VIOLENZE CONTRO I CIVILI A nche Lutz Klinkhammer ha messo in evidenza il ruolo delle autorità militari, che con i loro ordini di fatto lasciarono liberi i propri subalterni di agire senza alcun riguardo nei confronti dei civili. Di fatto, a completa discrezione dei singoli ufficiali, era possibile uccidere civili o distruggere villaggi, in tutti i casi in cui ciò fosse ritenuto opportuno per garantire la sicurezza delle truppe e il completo controllo del territorio. Con l’occupazione tedesca dell’Italia entrarono teoricamente in vigore alcuni ordini generali per la repressione del movimento partigiano che erano stati emanati per un 106 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE contesto politico-militare diverso: la guerra di sterminio nei paesi dell’Europa dell’Est e del Sud-est. La più importante disposizione fu la <<direttiva di combattimento per la lotta contro le bande nell’Est>>, [dell’11 novembre 1942 – n.d.r.] che viene spesso indicata come Merkblatt 69/1. Questo <<foglio d’istruzioni>> entrò in vigore in Italia a partire dal 28 novembre 1943 nell’ambito della 14ª armata, mentre è da supporre che fosse stato introdotto nell’ambito della 10ª armata già con l’8 settembre. L’uccisione dei civili, anche di donne, ragazze e bambini, era in queste <<direttive>> espressamente contemplata. Al numero 84 della direttiva si diceva che di norma i partigiani catturati dopo un breve interrogatorio dovevano essere fucilati sul posto: <<Ogni comandante di un reparto è responsabile del fatto che banditi e civili catturati nel corso di azioni di combattimento (anche donne), vengano fucilati o, meglio, impiccati>>. E al numero 85 si aggiungeva inoltre: <<Chiunque sostenga le bande, offrendo rifugio o alimenti, tenendo segreto il luogo dove si nascondono o in qualsiasi altro modo, merita la morte>>. Anche il contenuto del numero 110 era indicativo: <<La truppa deve continuamente essere istruita sulla prudenza necessaria nei confronti di tutti i Russi. In particolare si deve richiamare l’attenzione sul fatto che i banditi spesso utilizzano donne, ragazze e bambini come spie; chi viene scoperto nel far questo deve essere eliminato immediatamente>>. In modo esplicito si aggiungeva che queste <<direttive di combattimento>> non erano <<né una disposizione permanente, né uno schema>>: <<come nessun altro tipo di combattimento la lotta contro le bande richiede duttilità e capacità di adattamento alle singole situazioni>>, ciò 107 8 MAGGIO significa che le direttive non ordinavano una determinata procedura in modo perentorio bensì legittimavano esplicitamente una procedura spietata, senza tuttavia richiederla in modo vincolante a tutti i membri della Wehrmacht; ma tutte le unità militari poterono richiamarsi a questa disposizione per giustificare a posteriori un eccidio. [...] Per quanto concerneva la lotta antipartigiana, la disposizione che prevedeva l’istituzione di un processo sommario davanti a una corte marziale, richiesta dall’ordinamento speciale, fu esplicitamente dichiarata non in vigore, superflua, dalla <<direttiva di combattimento per la lotta contro le bande nell’Est>> (Merkblatt 69/1 ); perciò fu evidente per i comandanti operativi che il vertice militare richiedeva un’esecuzione immediata e sommaria di tutti i <<banditi>>. Per poter avanzare un’accusa di questo genere era spesso sufficiente l’apparenza o il semplice sospetto. Un comandante di battaglione o di compagnia aveva il potere di stabilire chi, essendo un <<bandito >>, poteva essere ucciso. [...] Di regola né i superiori militari, né la giustizia della Wehrmacht si occuparono di appurare se i civili italiani uccisi da soldati tedeschi avessero veramente commesso le azioni considerate <<criminali>>. Perché si evitasse un’indagine era sufficiente che nel rapporto figurasse un’accusa adeguata e l’affermazione che i civili erano stati uccisi per reati di spionaggio o per comportamento da franco tiratore; al massimo venivano avviate indagini se c’era il fondato sospetto di un delitto privato (ad esempio delitti contro la proprietà o casi di violenza carnale con esito mortale). Le direttive del Merkblatt 69/1 rappresentavano una 108 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE minaccia mortale per i civili dei paesi occupati: soprattutto quando a soldati tedeschi disposti a uccidere veniva il seppur minimo sospetto di attività rivolte contro le truppe tedesche – e un simile sospetto nei soldati tedeschi sorse sempre nei casi di attentato. (L. Klinkhammer, Stragi naziste in Italia. La guerra contro i civili (1943-1945), Roma, Donzelli, 1997, pp. 51-52) LE MOTIVAZIONI DEL COMPORTAMENTO DELLE TRUPPE TEDESCHE VERSO GLI ITALIANI N ella sua ricostruzione delle stragi naziste in Italia, lo storico tedesco Gherard Schreiber ha insistito soprattutto sulle motivazioni razziali che hanno mosso all’azione ufficiali e soldati. Ai loro occhi, gli italiani erano un popolo inferiore, composto da sottouomini non molto diversi dagli slavi. Quindi, verso di loro era lecito qualsiasi azione, comprese quelle più brutali e violente. Per quanto riguarda i circa 7.000 militari e gli oltre 9.000 civili italiani assassinati, fra cui vi furono almeno 580 bambini innocenti di età inferiore ai quattordici anni, è stato dimostrato che essi non caddero vittime della violenza nazista solo per motivi legati a una particolare situazione storica. La spiegazione del perché toccò loro un simile destino va piuttosto ricercata nella concomitanza di vari fattori, che complessivamente fecero venir meno il rispetto per ogni vita 109 8 MAGGIO umana che non fosse tedesca. In ciò si concretizzò un’affinità mentale dei colpevoli con l’ideologia nazionalsocialista, di cui essi introiettarono una visione dell’uomo improntata al razzismo. In altre parole, la convinzione di appartenere a una razza superiore, diffusa non soltanto fra le massime autorità dello Stato nazionalsocialista, influenzò in maniera molto sfavorevole l’atteggiamento verso la popolazione italiana e fece sì che nei confronti di quest’ultima si scatenasse quotidianamente un razzismo sconsiderato che, pur avendo contorni molto vaghi, era ampiamente diffuso, profondamente radicato e facile da innescare. Spesso tale sentimento veniva poi esacerbato dall’odio che insorgeva nelle situazioni concrete. Di sicuro non si trattò di un razzismo paragonabile a quello che causò lo sterminio degli ebrei, bensì di un atteggiamento razzistico che aveva come scopo il declassamento di una nazione. Dopo l’uscita dell’Italia dalla guerra, questa disposizione ideologica contribuì ad un abbassamento della soglia degli scrupoli morali nella pratica della tortura o addirittura dell’omicidio nei confronti degli italiani, e falciò migliaia di vite umane. Le relazioni tra tedeschi e italiani furono all’epoca, in buona sostanza, quelle tra un Herrenvolk [= popolo di signori – n.d.r.] e uno Sklavenvolk [= popolo di schiavi – n.d.r]. Quel razzismo è, a nostro avviso, la chiave di volta per comprendere e spiegare in modo adeguato perché la Wehrmacht, le SS e la polizia reagirono con rappresaglie sproporzionate, e più precisamente con stragi, alla Resistenza italiana. L’ideologia razzista non costituisce tuttavia l’unico fattore che può rendere ragione del comportamento 110 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE inumano delle forze armate tedesche in Italia. Dobbiamo anche considerare la particolare mentalità degli uomini in guerra, giacché l’incombente e costante presenza della morte induce in molti soldati una profonda indifferenza morale. [...] Là dove la morte diventa la norma o una costante eventualità, la propria vita e quella degli altri perde di stima, rispetto e di valore. Ma ciò vale, probabilmente, per quasi tutti gli uomini in guerra. Particolarità germaniche che possono spiegare gran parte di quello che è successo tra tedeschi e italiani dopo l’8 settembre 1943 sono invece l’indottrinamento delle truppe con idee contrarie al diritto internazionale, la tendenza tradizionale delle autorità militari a combattere una mentalità umanitaria che veniva considerata inconciliabile con la cosiddetta <<necessità bellica>> e con il <<carattere peculiare>> della guerra. […] Nella seconda guerra mondiale un ulteriore elemento per la spiegazione dell’atteggiamento dei militari tedeschi viene offerto dall’ideale del <<soldato politico>>: un soldato della Wehrmacht (e non solo delle SS, come qualcuno ha supposto erroneamente) che si identifica con l’ideologia nazista e gli obiettivi politici del regime. A questo scopo fu inculcato nei militari il dogma dell’indissolubile unità tra il popolo, la razza e lo Stato, L’idea della comunanza di sangue e di destino di tutti i tedeschi doveva diventare il fondamento dell’agire personale. Come abbiamo dimostrato, fu questa una delle principali richieste delle autorità militari tedesche nel teatro di guerra italiano. Infatti, per la Wehrmacht la seconda guerra mondiale diventò sempre più, anche in Italia, una guerra essenzialmente nazionalsocialista. Si deve inoltre accennare al fondamentale principio di ordine 111 8 MAGGIO e ubbidienza proprio della vita militare, che sicuramente favorisce un indebolimento del senso di responsabilità individuale. E non c’è dubbio che le direttive criminose emanate dal comando supremo della Wehrmacht, nonché gli ordini per la lotta contro le << bande >> impartite dal comandante superiore Settore Sudovest o da altri comandi, che davano in pratica carta bianca a qualsiasi arbitrio, abbiano facilitato il gioco omicida dei vari von Hirschfeld, von Loeben, Peiper, Reder e dei loro superiori. Esisteva anche una stretta correlazione tra lo svolgimento delle operazioni, la costante minaccia partigiana, la frustrazione delle truppe tedesche in continua ritirata, il quadro strategico deprimente, la vendetta, spesso condizionata dalla situazione, e la disponibilità alla violenza estrema. In un tale scenario, nessun militare tedesco considerava l’innocente popolazione civile italiana degna di alcun riguardo. E non dimentichiamo, infine, che numerosi soldati e ufficiali tedeschi impiegati in Italia avevano avuto una certa esperienza della guerra di annientamento in Russia. (G. Schreiber, La vendetta tedesca. 1943-1945: le rappresaglie naziste in Italia, Milano, Mondadori, 2001, pp. 232-234. Traduzione di M. Buttarelli) 112 ro i partigiani Armi pesanti cont Dimensione regionale Guerra e violenza in Emilia-Romagna La strage di Monchio N el 1944, le violenze naziste contro i civili investirono in modo particolarmente brutale dapprima la Toscana, poi l’Emilia Romagna. I massacri più spietati e sistematici furono compiuti nell’estate, durante il ripiegamento delle truppe tedesche verso gli Appennini, dietro il sistema difensivo denominato Linea Gotica. Tuttavia, già il 18-20 marzo 1944, nei dintorni del Monte Santa Giulia, (nell’appennino modenese/ reggiano), presso le località di Monchio e Cervarolo furono uccise 155 persone. Obiettivo dichiarato dell’azione era di ripulire la zona dai partigiani; ma è significativo che non vi sia stato neppure un combattimento e che, da parte tedesca, vi sia stato solamente un ferito. I soldati responsabili della maggior parte delle uccisioni appartenevano al reparto esploratori della Divisione Hermann Göring, la cui origine si spiega tenendo conto del fatto che, all’interno del Terzo Reich, esistevano diversi centri di potere in cronica concorrenza reciproca. Questo sistema basato simultaneamente sulla rivalità di diversi soggetti nazisti e sull’autorità carismatica del Führer, unica autorità universalmente riconosciuta, è comunemente denominato <<policrazia>> dagli storici e funzionava perfino nell’ambito dell’organizzazione delle Forze armate. Pertanto, a fianco della Wehrmacht (l’esercito) e della Luftwaffe (l’aviazione), troviamo nel 1944 ben 900.000 uomini (organizzati in circa 40 divisioni) organizzati nelle cosiddette Waffen SS, che rispondevano del loro operato direttamente al comandante delle SS, Heinrich Himmler. Per non essere da meno, anche Göring cercò di organizzare un reparto 115 8 MAGGIO di terra che fosse alle sue dirette dipendenze, come per altro lo era già l’aviazione. Nella prima fase del conflitto, una divisione di fanteria motorizzata che portava il nome di Göring combatté sul fronte russo (in Ucraina) e in Tunisia, dove, a seguito delle sconfitte del 1943, perse circa 10.000 uomini. Riorganizzata in Italia, l’unità fu trasformata in divisione corazzata e (dotata di circa 21.000 uomini) prese parte agli scontri che, in Sicilia, tentarono di impedire lo sbarco degli Alleati nel luglio 1943. Nel 1944, tra marzo e luglio, svolse un ruolo determinante nella lotta antipartigiana in Italia centrale, prima di essere di nuovo inviata sul fronte orientale, contro l’Armata Rossa che stava dilagando in Polonia. Nei mesi in cui fu impiegata contro i partigiani, la Divisione Göring si distinse per la sua violenza contro i civili, uccidendone almeno un migliaio; tra gli episodi più gravi, ricordiamo la strage di Vallucciole (località in comune di Stia, in provincia di Arezzo), ove il 13 aprile 1944 furono uccise 108 persone, compresi diverse donne e bambini. Come nel caso di Monchio, il ruolo decisivo fu svolto dal reparto esploratori, guidato dal capitano (Rittermeister) Kurt Christian Von Loeben; denominato Panzer Aufklärungs Abteilung, il gruppo operativo era composto da 25 ufficiali, 131 sottufficiali e 916 soldati. Per la maggioranza, si trattava di elementi molto giovani, reclutati nelle classi 1924-1926. Nel marzo 1944, mentre questo reparto di esploratori era dislocato nei dintorni di Bologna, nell’appennino modenese e reggiano si ebbero diversi scontri di soldati fascisti e tedeschi con i gruppi partigiani che operavano nella zona; anzi, nella zona di Monte Santa Giulia, le autorità della RSI segnalarono che la banda dei ribelli aveva raggiunto il consistente numero di duecento elementi. La morte di una quindicina di militi repubblichini e di cinque tedeschi (tra cui un ufficiale) sembrava confermare la pericolosità del gruppo. Pertanto, il comando tedesco di Bologna affidò a Von Loeben il comando di una vasta azione 116 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE di rastrellamento e di eliminazione alla radice del pericolo, ai fini di riacquistare il controllo del territorio. L’azione ebbe inizio all’alba di sabato 18 marzo 1944 e coinvolse l’intera valle del fiume Dragone. Mentre 400 uomini (100 poliziotti tedeschi e 300 militi fascisti) organizzarono un cordone di accerchiamento, bloccando tutte le strade e le vie di comunicazione, 250300 uomini del reparto esploratori della Divisione Göring si addentrarono all’interno della zona circondata e condussero il rastrellamento nei boschi, nelle campagne, nei casolari e nei diversi villaggi dell’area. I soldati di Von Loeben furono accompagnati da alcuni fascisti italiani; questi militi repubblichini svolsero funzioni di guide e di interpreti, ma non ebbero un ruolo di primo piano nelle violenze di massa contro i civili. La maggioranza dei partigiani riuscì a nascondersi o ad allontanarsi (eludendo senza difficoltà e senza scontri a fuoco il cordone dei gendarmi tedeschi e dei fascisti). L’operazione di rastrellamento a tappeto fu preceduta da un intenso fuoco di artiglieria, che a partire dalle 6.30 del mattino batté a tappeto l’intera vallata: i cannoni, infatti, erano collocati a Montefiorino, da cui potevano sparare verso il monte Santa Giulia e, in particolare, in direzione di Monchio. Von Loeben progettò la sua azione come se fosse un assalto militare in piena regola: in realtà, non trovò alcun tipo di resistenza (e l’unico ferito tedesco fu un soldato colpito da fuoco amico, cioè da una scheggia di un proiettile sparato dai cannoni, mentre percorreva la strada principale). I cannoni, inoltre, non provocarono molte vittime (appena una mezza dozzina) e la maggior parte dei colpi non raggiunse i paesi, ma finì in aperta campagna. Quasi tutti i civili, dunque, furono fucilati dai soldati, che erano autorizzati a considerare ribelli (e, quindi, ad uccidere) tutti i maschi adulti, senza eccezioni, ed avevano ottenuto una licenza di saccheggio praticamente completa. La maggioranza delle vittime dunque furono uomini, ma in alcuni casolari nell’area del villaggio di Susano i tedeschi uccisero sul posto anche alcune donne e bambini: si trattò di una specie di apprendistato, 117 8 MAGGIO di prova generale di quella violenza indiscriminata che il reparto esploratori avrebbe poi esercitato senza più remore di sorta a Vallucciole, un mese più tardi. In alcuni casi, le vittime furono uccise nel punto in cui furono trovate: nella loro casa, in cantina, in qualche nascondiglio scarsamente efficace… Un gruppo di 53 uomini, invece, fu condotto dalle varie frazioni ad un campo situato vicino al castello di Monchio e lì eliminato a colpi di mitragliatrice. Nel complesso, nella zona di Monchio furono uccisi 131 civili (tra cui 7 donne e 6 bambini sotto i 10 anni); due giorni dopo, a Cervarolo, nel reggiano, i soldati della Divisione Göring uccisero altri 22 uomini, cui vanno aggiunte due ulteriori vittime fucilate a Civago, un paese di cui furono incendiate varie case, ma risparmiata la popolazione. rta Lame. 44. Battaglia di Po 9 1 e del macello br m ve no 7 ra gli stabilimenti st Bologna de A . rto pe con i co o, oggi rtigiani superstiti, pa I . hi Canale Cavaticci sc de te i iti dai cannon via del Po comunale demol i il canale sino a ed pi a no iro al ris feriti in spalla, 118 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE IL RAPPORTO DI VON LOEBEN SULLA STRAGE DI MONCHIO A l termine dell’operazione di rappresaglia condotta nella zona del monte Santa Giulia, il capitano Von Loeben stese un rapporto molto dettagliato, dal quale traspaiono con chiarezza numerosi aspetti della mentalità nazista. Von Loeben, ad esempio, esprime un giudizio molto severo sui militi fascisti, italiani, accusati di sostanziale inettitudine. Al contrario, il numero inesatto dei morti (300, invece di 131) è probabilmente amplificato al fine di mostrare ai superiori la determinazione e l’efficienza del reparto tedesco impiegato nell’azione antipartigiana. Il 17.03. 1944, alle ore 12,30, il Reparto ricevette l’ordine di annientare un gruppo di banditi localizzato a circa 40 km a sud ovest di Modena. La forza della banda era valutata in circa 200 uomini. Sede principale il M. S.- Giulia. […] Alle ore 10,15 [del 18 marzo – n.d.r.] furono presi Monchio ed il M. S. Giulia. Nelle case tra Savoniero ed il M. S. Giulia furono rinvenute attrezzature ed indumenti militari, talvolta delle armi e munizioni in notevole quantità. Inoltre in quasi tutte le case venne scoperto del bottino frutto delle rapine dei banditi. L’insieme della popolazione maschile ed il bestiame della zona a sud tra il M. S. Giulia e Monchio si era radunato intorno al M. S. Giulia. Atterriti dall’assalto e dall’azione energica, essi tentarono di farsi passare per civili innocenti. Nessuno disse di sapere qualcosa sui banditi. Tutti furono ritenuti corresponsabili e sterminati secondo l’ordine del Führer sulla lotta contro le bande, le case bruciate o 119 8 MAGGIO fatte saltare. In molti casi esplosero le munizioni che in precedenza non erano state rinvenute. […] Il numero dei nemici uccisi è di circa 300. Alle ore 17,00, la 2ª e la 4ª Compagnia il plotone del genio e la sezione di artiglieria ricevettero l’ordine di riportarsi alle basi di partenza. Insegnamenti: Grazie all’azione energica i banditi si persero d’animo, tentando di confondersi con i civili e di non ingaggiare battaglia. L’accerchiamento fu affidato a circa 400 uomini appartenenti alla Gendarmeria tedesca, alla Gendarmeria italiana e alla Milizia. Essi tuttavia non fecero nulla, e si rifugiarono nelle osterie per la tremenda paura di essere coinvolti in combattimento. Mediante un comando energico e coordinato di tutti questi reparti è possibile combattere con successo queste bande. Le bande non davano l’impressione di possedere una forte organizzazione militare, piuttosto facevano pensare a banditi di strada che trovavano il coraggio di compiere scorrerie nei dintorni solo a causa della avidità e dell’indecisione [di chi li doveva combattere] e a causa del fatto che né la Milizia, né la Gendarmeria tedesca erano state impiegate in modo attivo. Con questa azione il reparto ha dato l’esempio di come devono essere combattute tali bande. […] La Milizia fascista ritiene di non avere a disposizione abbastanza munizioni, armi pesanti e leggere di fanteria per operazioni di combattimento. In realtà, la Milizia fascista, come risulta da un controllo personalmente effettuato su un plotone, è sufficientemente dotata di mitragliatrici e munizioni. La lezione da trarre da questi combattimenti, come viene riferito dalle truppe, è che gli scontri con i banditi siano più 120 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE impegnativi di quelli sostenuti sulla testa di ponte di Nettuno. Firm. Von Loeben – Capitano di cavalleria e Comandante del Reparto. (G. Fantozzi, Monchio 18 marzo 1944. L’esempio, Modena, Artestampa, 2006, pp. 469-472) LE VIOLENZE TEDESCHE A CERVAROLO L a strage compiuta il 20 marzo 1944 a Cervarolo, nel reggiano, può essere considerata il seguito degli eventi di Monte Santa Giulia (18 marzo). La vicenda però presenta alcuni particolari interessanti, utili a comprendere la psicologia e il comportamento dei tedeschi cui veniva ordinato di uccidere i civili nelle zone in cui erano attivi gruppi partigiani. Alle ore 18,30 del 19 marzo fa il suo ingresso a Gazzano il capitano Richard Heimann, rilevando il capitano Hartwig nella <<responsabilità dell’intera operazione>>. Una spiegazione possibile riguardo al frettoloso invio di Heimann a Gazzano è che Hartwig abbia rifiutato l’espresso ordine di Von Loeben di eseguire una ritorsione sui civili, mentre Heimann, che ha partecipato alla strage di Monchio quale comandante della 2ª compagnia reparto esplorante, sicuramente non deve avere gli stessi scrupoli ad eseguirne una seconda. È inoltre probabile che una volta trasferito il comando ad Heimann, capitano della Luftwaffe come lui, Hartwig rientri immediatamente al suo reparto anziché 121 8 MAGGIO partecipare in posizione subordinata agli avvenimenti del giorno successivo. Se però per Hartwig non possediamo la prova certa di un suo rifiuto ad eseguire la strage, l’abbiamo invece per il tenente Riemann, il quale, secondo quanto afferma il colonnello Mühe, <<chiese di essere congedato>> dalla formazione della HD [= la Divisione Hermann Göring – n.d.r.] <<dato che questa doveva essere impiegata al solo scopo di eseguire una rappresaglia nell’area Civago-Cervarolo>>. Anche Von Loeben, seppure in modo più sfumato, nel suo rapporto sulla stage di Cervarolo conferma l’assenza di Riemann e di altri soldati che erano con lui: <<Il gruppo Riemann fu congedato in quanto era in servizio già da diversi giorni e per questa azione non era più necessario>>. L’esplicito e coraggioso rifiuto di Riemann è importante perché testimonia come nella Wehrmacht l’uccisione indiscriminata dei civili attraverso la rappresaglia non era un costume di guerra universalmente condiviso, e conferma che era possibile per un ufficiale sottrarsi ad ordini superiori che la imponevano. Nell’esercito tedesco, pur ampiamente nazificato, non era del tutto annullata l’etica militare e la possibilità di disobbedire ad ordini ingiusti: e se Riemann la sera del 19 marzo decise consapevolmente di non partecipare al massacro di Cervarolo del giorno dopo, altrettanto consapevolmente Heimann scelse di prendervi parte. […]. Assunte tutte le informazioni necessarie, nella tarda serata del 19 marzo, Richard Heimann pianifica l’azione per il giorno successivo, lunedì 20 marzo. La metodologia è la stessa già sperimentata nella valle del Dragone: si colpisce la popolazione adulta maschile di quei paesi sospettati di collusione con i partigiani, mentre gli abitati devono essere distrutti. Ai soldati si concede il diritto 122 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE di preda nelle case. Unica differenza con il modenese è il bilancio dei morti: nel reggiano sarà fortunatamente molto meno elevato. Si legge nel rapporto di Von Loeben: <<Il capitano Heimann sospettò, come fu poi confermato, che parte dei banditi dimorassero là spacciandosi come civili inoffensivi. Il comandante dell’operazione di conseguenza diede ordine che la terza Compagnia, affiancata da due compagnie della milizia italiana, all’alba del 2.3.1944 attaccasse entrambe le località [= Cervarolo e Civago – n.d.r.], che tutti gli uomini abili al servizio militare fossero fucilati e le località incendiate>>. All’alba del giorno 20 Heimann muove da Gazzano e giunge poco dopo a Cervarolo. Qui lascia un plotone della terza compagnia e una compagnia della milizia e poi prosegue per Civago con i restanti due plotoni della terza compagnia ed un’altra compagnia della milizia. Insieme al plotone della HD restano a Cervarolo anche soldati del NSKK [= Nationalsozialistisches Kraftfahrkorps, un corpo di volontari fiamminghi e belgi – n.d.r.], tra i quali alcuni francesi e probabilmente poliziotti della Feldgendarmerie. Non ci sono invece SS, nonostante le testimonianze contrarie dei sopravvissuti, i quali, come accadde anche a Monchio e in molti altri episodi simili, automaticamente collegano le stragi al corpo più violento e fanatizzato delle SS. Mentre le alture prospicienti al paese sono sorvegliate da un contingente della GNR per scongiurare ogni tentativo di fuga, a Cervarolo ha inizio la perquisizione sistematica di tutte le case. Esattamente come a Monchio, ogni oggetto di valore, denaro, preziosi, commestibili sparisce negli zaini dei militari. Anche il bestiame viene razziato dalle stalle e spedito a Gazzano. Gli uomini che la sera prima erano rientrati alle loro case, 123 8 MAGGIO convinti che tedeschi e fascisti non avessero intenzioni punitive nei confronti del paese, si vedono puntare contro le armi e poi condurre in un’aia lastricata di pietra al centro del paese che funge da centro di raccolta. I tedeschi non si limitano a prelevare solo gli uomini in età da militare, ma trascinano via tutti quelli che trovano, tanto che alla fine più della metà dei rastrellati risultano essere ultrasessantenni, alcuni dei quali invalidi e semiparalizzati. […] L’agonia dell’incertezza dura fin verso le 16,30, quando il bel sole primaverile comincia a calare dietro le montagne. Nell’aia giunge Heimann, il comandante della spedizione reduce da Civago, alla testa dei suoi uomini, non pochi dei quali alticci. […] Heimann si rivolge all’ufficiale a cui al mattino ha delegato le operazioni a Cervarolo. Costui cerca di convincerlo a mitigare la rappresaglia, a limitarla a sei o sette persone, forse i giovani in età da militare. Poco prima dell’arrivo del comandante, infatti, costui aveva dato l’ordine di dividere in due il gruppo dei rastrellati: gli uomini più giovani e forti erano stati spinti dentro l’aia mentre gli altri, i vecchi e i ragazzi, erano stati tenuti poco lontano ai margini di una siepe. Ma Heimann, mentre cammina a grandi passi urla: <<Alles! Alles!>>, tutti, tutti. Se ha risparmiato Civago non intende fare lo stesso con Cervarolo e la trentina di persone allineate su quello spiazzo gli devono sembrare anche poche. Ma è possibile che qualche superiore gli abbia ordinato di non eccedere coi morti dopo quanto è accaduto a Monchio due giorni prima. Per i prigionieri il destino è definitivamente segnato: la macchina della rappresaglia si mette rapidamente in moto […] e sull’aia di Cervarolo giacciono ventidue cadaveri. (G. Fantozzi, Monchio 18 marzo 1944. L’esempio, Modena, Artestampa, 2006, pp. 361-371) 124 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE Le stragi dell’estate 1944 T ra maggio e giugno del 1944, il comandante in capo delle forze tedesche in Italia, feldmaresciallo Albert Kesselring, emanò una serie di ordini che, in pratica, davano carta bianca ai comandanti delle varie regioni che i tedeschi stavano attraversando nel corso della loro ritirata verso nord, dopo il crollo della linea Gustav, che aveva permesso agli Alleati di conquistare Roma. Qualsiasi azione fosse compiuta per stroncare, punire o prevenire l’attività dei partigiani, veniva coperta e giustificata. Si spiegano in questo modo i gravi massacri verificatisi in Toscana nell’estate del 1944, tra cui ricordiamo solo Guardistallo (29 giugno; 11 partigiani e 46 civili); Civitella, San Pancrazio e Cornia (29 giugno; 203 morti, tutti civili); Sant’Anna di Stazzema (12 agosto; 560 vittime civili); Fucecchio (23 agosto; 176 vittime civili). In alcune delle località toscane più duramente colpite dai nazisti, la popolazione (o una parte di essa) accusò i partigiani di cinismo e scarso senso di responsabilità; secondo questi superstiti, con le loro azioni di resistenza armata, i ribelli avevano provocato e attirato sul paese la rappresaglia tedesca: i partigiani, in ultima analisi, dovevano essere considerati i veri colpevoli morali della strage. A Guardistallo, Civitella e in altri centri, si è creata intorno alla strage nazista quella che gli storici chiamano <<una memoria divisa>>, cioè una grave lacerazione interna alla popolazione, spaccata tra coloro che ricordano con orgoglio la propria militanza partigiana e quanti, invece, prendono duramente le distanze da essa. Ad eseguire questi eccidi furono reparti molto diversi fra loro; in comune, tutti ebbero però la stessa disponibilità al massacro dei civili, considerati a pieno titolo complici dei partigiani. Evidentemente, dietro ad ogni azione si può individuare una 125 8 MAGGIO comune regia, o meglio una serie di istruzioni che promettevano l’impunità assoluta a chiunque agisse in modo violento e criminale. Pur di far cessare la lotta partigiana e di garantire la sicurezza dell’esercito tedesco, ogni misura era lecita e nessuna era considerata eccessiva, secondo il principio per cui <<è meglio agire e commettere errori piuttosto che non far niente ed essere deboli>>. I prefetti e le altre autorità italiane della RSI non poterono far altro che prendere atto della nuova situazione: gli alleati si comportavano ormai solo come degli occupanti puri e semplici, col risultato che la popolazione li odiava e li disprezzava. Si prenda ad esempio il testo seguente, tratto da una relazione indirizzata al Duce, stesa a Vercelli nel settembre 1944: <<Quello che maggiormente ha inasprito l’animo della popolazione in questo ultimo periodo è la continua rappresaglia che i germanici infliggono a molte persone che il più delle volte non hanno nulla in comune con i partigiani, banditi o genere simile. L’impiccagione ha poi suscitato nelle famiglie dei colpiti un vero odio verso i tedeschi in quanto, a parte che la morte comunque provocata è sempre morte, tale sistema in Italia non era mai stato applicato ed ha perciò prodotto profonda impressione>>. L’autore del testo appena citato ha perfettamente ragione: il metodo adottato, infatti, era ormai in tutto e per tutto quello collaudato sul fronte orientale, e non era più applicato in modo autonomo e improvvisato da singole unità, bensì era divenuto sistema, cioè procedura abituale e prassi normale, in virtù di un preciso impulso proveniente dall’alto e di una mentalità razzista, penetrata talmente in profondità sia nelle alte sfere dell’esercito che fra i semplici soldati, da spingerli a considerare come sottouomini anche i civili di una nazione ex-alleata come l’Italia. In questa fase, il culmine della violenza venne toccato nella zona di Monte Sole che registrò l’uccisione di 770 civili (fra cui 216 bambini sotto i 12 anni), il 29 e il 30 settembre 1944. 126 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE In genere, questo grave episodio di violenza è denominato <<strage di Marzabotto>>; in realtà, si tratta di un’espressione decisamente infelice e impropria, nella misura in cui dà l’impressione che il paese di Marzabotto sia stato assunto come il bersaglio privilegiato e come la vittima principale dell’azione dei tedeschi. In realtà, quanto accadde nell’area di Monte Sole fu una serie di singoli atti di violenza, compiuti nell’ambito di una vasta attività di bonifica della zona da qualsiasi presenza umana, considerata a priori come favorevole nei confronti dei gruppi partigiani. L’azione investì ben 115 luoghi diversi (anche se i principali atti di violenza ebbero luogo in una decina di siti), distribuiti sul territorio di tre diversi comuni (Marzabotto, Grizzana e Monzuno); per la maggioranza, si trattava di casolari isolati o di frazioni molto piccole. Nell’area di Monte Sole, operava un gruppo di partigiani che portava il nome di Stella Rossa, ma era guidato da un comandante non comunista, Mario Musolesi (Lupo). L’azione non fu una rappresaglia per un preciso colpo messo a segno dai ribelli, ma una campagna finalizzata a rendere impossibile qualsiasi ulteriore presenza partigiana, mediante la distruzione di tutte le comunità e i soggetti che avrebbero potuto offrire ai banditi riparo, cibo e sostegno. Non tutti i reparti tedeschi impegnati nella strage (comprendenti, in totale, circa 1.400-1.500 uomini) erano composti da SS; tuttavia, il ruolo determinante fu assegnato alla 16ª divisione panzergrenadieren delle SS, che era nata come battaglione di scorta di Himmler e successivamente era stata trasformata in brigata d’assalto Reichsführer SS. In Italia, nella zona tra l’Arno e Bologna, questa unità uccise circa 2.500 civili e catturò almeno 10.000 uomini, spediti poi a lavorare in Germania. La responsabilità ultima dell’azione fu assegnata al maggiore Walther Reder, comandante del 16° battaglione corazzato di ricognizione, della medesima e già citata 16ª divisione panzergrenadieren delle SS. Nel maggio 1944, 127 8 MAGGIO quando fu inviato in Italia dopo aver combattuto in Francia sul fronte orientale, Reder aveva da poco compiuto 29 anni. Dopo la guerra, nel 1951, Reder fu condannato all’ergastolo come criminale di guerra; tuttavia, nel 1979, il Tribunale militare di Bari decise per la sua scarcerazione. È morto in libertà, a Vienna, nel 1991. Lame. presidio Battaglia di Porta comandante del d ol G no ta pi ca Al centro il a. operanti a Bologn delle SS tedesche 128 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE GLI ORDINI DI KESSELRING R iportiamo due dei numerosi ordini emanati dal feldmaresciallo Albert Kesselring, che autorizzava i suoi subordinati a stroncare con ogni mezzo le azioni dei partigiani, anche a costo di compiere violenze di massa contro i civili. Nuove misure in relazione alle operazioni antipartigiane (10 maggio 1944) La situazione dei partigiani in Italia, particolarmente nel centro Italia, si è recentemente acutizzata, e ciò costituisce un serio pericolo per le truppe combattenti e per i rifornimenti; sia per ciò che concerne il materiale bellico, sia per il potenziale economico. La lotta contro i partigiani deve essere combattuta con tutti i mezzi a nostra disposizione e con la massima severità. Io proteggerò quei comandanti che dovessero eccedere nei loro metodi di lotta ai partigiani. In questo caso suona bene il vecchio detto: meglio sbagliare la scelta del metodo, ma eseguire gli ordini, che essere negligenti o non eseguirli affatto. Soltanto la massima prontezza, e la massima severità nelle punizioni saranno valido deterrente per stroncare sul nascere altri oltraggi o per impedire la loro espansione. Tutti i civili implicati nelle operazioni antipartigiane che saranno arrestati nel corso delle rappresaglie saranno portati nei campi di concentramento costituiti a questo scopo dal generale comandante in capo del Commissariato militare Sudovest, come è indicato dall’ultimo dispaccio del Reich in materia di lavoratori. [...] Firmato: Kesselring Comandante Supremo del Settore Sudovest Misure antipartigiane (ordine del 17 giugno 1944) 129 8 MAGGIO Nel mio appello agli italiani io ho annunciato che severe misure sarebbero state intraprese contro i partigiani. Questo annuncio non deve rappresentare una inconsistente minaccia. È preciso dovere di tutte le truppe e della polizia sotto il mio comando di adottare le più severe misure. Ogni atto di violenza commesso dai partigiani deve essere punito immediatamente. I rapporti dovranno fornire in dettaglio le contromisure intraprese. Laddove vi sia presenza di bande partigiane di notevoli proporzioni, una percentuale della popolazione maschile della zona dovrà essere arrestata e nel caso in cui si verifichino atti di violenza, questi uomini saranno fucilati. La popolazione deve essere informata di questo. Se si avvertiranno spari provenienti da un paese, il paese sarà incendiato. Gli esecutori e i capibanda saranno impiccati sulla pubblica piazza. I paesi circostanti devono essere ritenuti responsabili di sabotaggi a cavi o danni a pneumatici. La contromisura più efficace è l’utilizzo di pattuglie locali. I membri del partito fascista non devono essere inclusi nelle misure di rappresaglia, le persone sospette devono essere consegnate ai Prefetti e i rapporti sui loro casi mi devono essere spediti. Fuori dai paesi i soldati si devono proteggere con armi da fuoco. I comandanti di ciascun distretto militare decideranno se e in quali città sarà necessario trasportare armi. Ogni genere di saccheggio è proibito e sarà punito severamente. Le contromisure dovranno essere dure, ma giuste. La dignità del soldato tedesco lo esige. Firmato: Kesselring - Comandante Supremo (Comando supremo del 6° Gruppo d’Armata) (M. Battini - P. Pezzino, Guerra ai civili. Occupazione tedesca e politica del massacro. Toscana 1944, Venezia, Marsilio, 1997, pp. 423 e 426-427) 130 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE L’APPLICAZIONE DEGLI ORDINI DI KESSELRING Quartier Generale I Corpo Paracadutisti Ordine Operativo n.838/Segreto. 20 luglio 1944 Soggetto: operazioni contro i partigiani: ordine n. 2 1. La situazione dei partigiani nelle retrovie dei corpi continua ad essere una seria minaccia alle truppe combattenti e ai rifornimenti. La lotta contro i partigiani deve perciò essere condotta con la massima severità. Il buon carattere e la moderazione, così comuni tra le truppe tedesche, devono essere guidate da continue istruzioni. Sono perciò emanati i seguenti ordini: Ogni azione di violenza da parte dei partigiani dev’essere immediatamente punita. Il rapporto sull’incidente indicherà quale contromisure sono appropriate. Dove esistono partigiani in numero considerevole, saranno presi ostaggi tra la popolazione locale ed essi saranno fucilati nel caso in cui si verifichino atti di violenza. Le popolazioni saranno di ciò informate quando saranno operati gli arresti. Nei casi in cui siano uccisi soldati presso qualche paese, il paese verrà incendiato. Gli esecutori e i capi dei banditi saranno pubblicamente impiccati. Nel caso di sabotaggi alle linee telefoniche o di danneggiamento ai pneumatici, i paesi nelle immediate vicinanze saranno ritenuti responsabili. La miglior contromisura è che l’area sia guardata da pattuglie formate dalla truppa locale. I membri del partito fascista saranno esclusi da tutte le misure di rappresaglia. I membri del partito sospetti saranno consegnate al Prefetto e un rapporto sarà inviato al sottoscritto. 131 8 MAGGIO Tutte le truppe saranno armate in ogni momento dentro e fuori i paesi. Il saccheggio è proibito e sarà punito severamente. Sarà anche immediatamente fucilato : chiunque dia aiuto ai partigiani criminali e traditori, dando loro cibo o alloggio, o portando messaggi militari, chiunque porti armi (inclusi fucili da caccia) o esplosivi, chiunque commetta atti ostili alle Forze Armate tedesche. Coprirò qualsiasi ufficiale che andasse oltre alla nostra tradizionale moderazione nella scelta delle misure per affrontare i partigiani, o la severità con la quale esse sono applicate. In questo caso vale il vecchio principio che è meglio agire e commettere errori piuttosto che non far niente ed essere deboli. Ogni intervento energico e immediato è una punizione essenziale e un deterrente per soffocare sul nascere eccessi su più ampia scala. [...] 20 luglio 1944 Firmato: Von Hoffman, Capo del Quartier generale (M. Battini – P. Pezzino, Guerra ai civili. Occupazione tedesca e politica del massacro. Toscana 1944, Venezia, Marsilio, 1997, pp. 427-428) 132 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE L’ECCIDIO DI MONTE SOLE: LA PRESENZA PARTIGIANA E LA LOGICA MILITARE TEDESCA I l dibattito storiografico sulle stragi tedesche in Italia si è concentrato su molte questioni: quella dei reparti coinvolti direttamente negli eccidi (problema fondamentale, anche a fini processuali, per l’individuazione delle responsabilità penali), quello delle motivazioni degli assassini, quello delle eventuali responsabilità di gruppi partigiani operanti nelle aree più direttamente interessate dalle violenze. Un topos [= un luogo comune – n.d.r.] ricorrente nella ricezione del massacro di Marzabotto da parte della letteratura apologetica tedesca è l’affermazione secondo cui a Marzabotto non solo non ci sarebbe stata alcuna strage, ma Reder e i suoi uomini della 16 ª divisione panzergrenadieren non vi avrebbero mai messo piede. Una leggenda che si basa su un’imprecisione nell’indicazione della località dove tra il settembre e l’ottobre del 1944 gli occupanti tedeschi si resero responsabili di uno dei massacri più efferati: non il paese, bensì il comune di Marzabotto. Situato a circa venticinque chilometri a sud di Bologna, il comune di Marzabotto si estende su un massiccio montuoso che tocca i mille metri, ed è delimitato a ovest dalla valle del Reno, dove si trova anche il capoluogo del comune, e a est dalla valle del Setta. A sud la strada provinciale che unisce le due valli fa da confine tra il comune di Marzabotto e quello di Grizzana. L’area è montuosa, in parte coltivata, in parte rocciosa e brulla e in parte coperta da macchia mediterranea. Nel territorio che dal punto di vista amministrativo dipende dai due paesi di Marzabotto e 133 8 MAGGIO Grizzana si trovano anche alcuni borghi, oltre che un certo numero di fattorie e di piccoli insediamenti isolati. Durante l’inverno 1943-1944 il meccanico Mario Musolesi, che nel 1942 era stato degradato per la sua attività di propaganda disfattista e sovversiva, aveva cominciato a raccogliere intorno a sé un gruppo di partigiani, il primo nucleo della brigata autonoma cui Musolesi avrebbe dato il nome di una formazione partigiana jugoslava: Stella Rossa. La composizione della brigata, che nel settembre del 1944 poteva contare su circa ottocento uomini, era alquanto eterogenea. Accanto a reduci del Regio esercito, infatti, essa annoverava nelle sue file anche soldati alleati fuggiti dalle prigioni fasciste, carabinieri di idee antifasciste, una novantina di donne e un nutrito gruppo di ex prigionieri di guerra russi. La comandava lo stesso Musolesi, nome di battaglia Lupo. Quanto erano pericolosi i partigiani? Non è facile rispondere sulla base dei numeri. Infatti, non solo i partigiani avevano interesse a descrivere in termini quanto più positivi i loro successi, ma anche i tedeschi, dopo la guerra, si sforzarono di aumentare il più possibile il numero dei loro caduti, per giustificare le <<azioni di rappresaglia>>. Le cifre di cui disponiamo – cifre stando alle quali la Stella Rossa avrebbe compiuto 72 azioni di guerra, 26 razzie e 7 attacchi a caserme, che avrebbero causato 1.311 vittime tra i tedeschi e provocato la distruzione di 62 automezzi e 50 convogli ferroviari – sono chiaramente esagerate […]. Quel che è certo, in ogni caso, è che con il trascorrere dei mesi i tedeschi avevano cominciato a considerare con sempre maggior attenzione le azioni delle formazioni partigiane a causa della preoccupante situazione militare e del crescente pericolo per i rifornimenti e le linee di comunicazione che 134 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE esse rappresentavano. Durante l’estate del 1944 gli Alleati erano riusciti a sfondare la Linea Gustav e avevano costretto i tedeschi a ritirarsi fino alla Linea Gotica, che correva a sud di Bologna. Nel settembre del 1944 le truppe di Kesselring vennero a trovarsi praticamente tra due fuochi, gli Alleati a sud e i partigiani a nord, in un territorio ormai non più largo di dieci-quindici chilometri, con il risultato, tra l’altro, che in una situazione così critica si mostrarono anche più propensi a dare credito agli esagerati rapporti dei fascisti saloini [= della Repubblica di Salò – n.d.r.] in merito alla forza del movimento di resistenza. Quando, nel settembre del 1944, gli Alleati presero ad avanzare in direzione della Linea Gotica, Kesselring decise di rafforzare il settore del fronte affidato alla 334ª divisione di fanteria, che si trovava sotto la forte pressione degli americani, mediante l’invio della 16ª divisione panzergrenadieren Reichsführer SS. […] Non c’è dubbio che l’operazione contro la Stella Rossa venne inizialmente pianificata come azione militare e non come rappresaglia. L’azione avrebbe dovuto essere condotta da un reparto misto formato da unità delle SS e dell’esercito. Vi presero parte il 16ª battaglione corazzato di ricognizione delle SS [inquadrato nella 16ª divisione panzergrenadieren Reichsführer SS – n.d.r.], diverse unità d’allarme, reparti del 35ª reggimento panzergrenadieren delle SS, una batteria di artiglieria pesante del reparto contraereo delle SS, la compagnia di scorta divisionale delle SS, batterie del 16ª reggimento di artiglieria delle SS e cannoni d’assalto. A questo schieramento andarono ad aggiungersi parti del 105ª reggimento contraereo della Luftwaffe [= l’aviazione militare tedesca – n.d.r.], il 1059ª reggimento della 92ª divisione di fanteria (il cosiddetto 135 8 MAGGIO <<battaglione dell’Est>>) e unità d’allarme dell’esercito. Nel complesso la formazione disponeva di una forza di 1.400-1.500 uomini. A causa della precaria situazione al fronte non si poté disporre di un maggior numero di uomini, per cui si preferì fare molto affidamento sulle armi pesanti, in particolare l’artiglieria. […] Nel caso di Marzabotto non si trattò di un’operazione militare – anche se inizialmente venne pianificata come tale – ma di una ininterrotta serie di massacri di civili. In realtà, gli scontri di cui si parla nella memorialistica tedesca e nei racconti di alcuni partigiani non ebbero mai luogo. Perfino in uno scritto in difesa di Reder si riconosce che gli scontri <<non furono poi così duri>>. Combattimenti di un certo rilievo ebbero luogo solo a Cadotto, dove trovò la morte la maggior parte dei partigiani caduti in battaglia. Per il resto, i partigiani ripararono nei boschi e riuscirono, molto probabilmente durante una pausa nei combattimenti che ci fu tra il 29 e il 30 settembre, a rompere l’accerchiamento e a sfuggire alla cattura. […] Se oltre a quelle già prodotte ci fosse bisogno di una ulteriore prova del fatto che a Marzabotto vennero trucidati donne e bambini (non colposamente, come si potrebbe forse sostenere se fossero caduti sotto il fuoco dell’artiglieria, ma deliberatamente), in tal caso è sufficiente leggere il terribile rapporto finale, dove tra l’altro si parla di 718 nemici uccisi, di cui 497 banditi e 221 fiancheggiatori delle bande>>. Una cifra che sembra indicare non tanto che per i soldati impegnati non fu possibile contare tutti i caduti, quanto piuttosto che si fece ricorso a una tattica di occultamento dei fatti particolarmente cinica. Sappiamo che i soldati avevano ricevuto l’ordine di contare le loro vittime, e a quanto pare lo eseguirono: il Comitato 136 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE regionale per le onoranze ai caduti di Marzabotto indica infatti in 770 (tra cui 216 bambini) il numero delle vittime delle stragi […]. Mentre il numero dei <<banditi>> uccisi indica la cifra complessiva degli uomini e delle donne che trovarono la morte (i partigiani vi sono compresi al massimo nella misura di uno ogni dieci vittime), il numero dei bambini trucidati corrisponde quasi esattamente a quello dei <<221 fiancheggiatori delle bande>> di cui si parla nel rapporto. Siccome anche con tutta la buona volontà non si poteva certo attribuire loro la qualifica di partigiani, i massacratori trovarono la soluzione indicando nei bambini uccisi altrettanti <<fiancheggiatori delle bande>>. (J. Staron, Fosse Ardeatine e Marzabotto. Storia e memoria di due stragi tedesche, Bologna, Il Mulino, 2007, pp. 67-69. 73 e 88-90. Traduzione di E. Morandi) 137 8 MAGGIO Lo sfondamento della linea gotica D opo che gli Alleati ebbero conquistato Cassino e, di conseguenza, liberato Roma (4 giugno 1944), i tedeschi si ritirarono verso nord, dove avevano predisposto un’ulteriore sistema difensivo denominato dapprima Linea Verde e poi Linea Gotica. Mediamente, questo nuovo apparato aveva una profondità operativa di 16-20 chilometri, corrispondente allo spazio che separava le truppe di prima linea dalle riserve pronte a intervenire come rinforzo. La Linea di difesa era stata costruita in fretta, utilizzando manodopera locale rastrellata fra i civili e obbligata a lavorare per l’esercito tedesco: 15.000 operai italiani avevano infine predisposto 2.376 postazioni per mitragliatrici, creato 479 basi per cannoni anticarro, steso 120.000 metri di filo spinato e dislocato migliaia di mine finalizzate a bloccare l’attacco nemico. In lunghezza, la Linea Gotica si estendeva per circa 300 chilometri, da Massa Marittima, sul Tirreno, fino a Pesaro, sull’Adriatico; e mentre sul versante toscano la principale forza offensiva era costituita dagli americani (5ª Armata), nelle regioni più orientali d’Italia operava l’8ª Armata britannica. Il generale tedesco Albert Kesselring poteva ancora contare su 26 divisioni (19 schierate sulla Linea Gotica e 7 dislocate più a nord); tuttavia, le forze tedesche erano gravemente carenti dal punto di vista aereo: un settore in cui la supremazia alleata era pressoché assoluta. Il fattore più importante, a vantaggio dei tedeschi dislocati sul fronte italiano, consisteva nel fatto che – dopo lo sbarco in Normandia – la maggior parte delle energie degli Alleati si era indirizzata verso la Francia (al punto che, in giugno, ben sette divisioni della 5ª Armata americana erano state trasferite). L’unica figura realmente interessata al fronte italiano era Winston Churchill preoccupato dell’avanzata sovietica in Europa 138 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE centrale, sognava di poterla fermare, giungendo a Vienna, da Sud, prima dell’Armata Rossa. Fu per questa ragione di politica internazionale che venne infine deciso di lanciare l’offensiva più importante sul versante adriatico, un attacco in grande stile denominato in codice operazione Olive che iniziò la sera del 25 agosto 1944 con un intenso bombardamento della zona del fiume Metauro. Gli inglesi potevano contare su 19 divisioni, un migliaio di cannoni e 1.200 carri armati. Avendo colto di sorpresa i tedeschi, riuscirono ad entrare con relativa facilità a Pesaro il 29 agosto. Molto più difficile fu proseguire l’avanzata: dopo la durissima battaglia combattuta sulle colline di Coriano (13 settembre), fu possibile raggiungere Rimini solo il 21 settembre. Dopo un mese di combattimenti furiosi, le forze inglesi (che comprendevano, tuttavia, anche canadesi, polacchi e altre nazionalità) avevano perso 15.000 uomini; anche se le perdite tedesche erano ben superiori (circa 20.000 morti), la spinta degli inglesi andò lentamente spegnendosi, complici anche il maltempo e le piogge torrenziali, che resero molto difficili gli attacchi aerei. Per di più, gli allagamenti di vaste aeree (in parte causate dalle precipitazioni, in parte provocate artificialmente dai tedeschi) obbligavano i soldati inglesi ad avanzare nel fango, oppure sulle poche strade praticabili, esposte al fuoco avversario. L’ultimo importante successo strategico fu la conquista, il 25-27 settembre, del Monte Battaglia, nell’Appennino Faentino, da cui si intravedeva Bologna all’orizzonte. Più a est, l’attacco investì infine anche Cesena (20 ottobre) e Forlì (9 novembre): ma, a quel punto, fu deciso di rinviare alla primavera seguente l’offensiva finale. Riorganizzate le proprie forze, i tedeschi assunsero il fiume Senio (un affluente del Reno) come linea difensiva fondamentale; più a nord, infatti, a causa della presenza delle valli di Comacchio, sarebbe stato molto difficile lo sfondamento del fronte da 139 8 MAGGIO parte degli Alleati. Per garantirsi il successo nella nuova offensiva primaverile, gli Alleati si dotarono di una grande quantità di aeroplani (2.000), di carri armati (circa 3.000), di carri dotati di lanciafiamme e perfino di mezzi anfibi, capaci di superare i terreni acquitrinosi o invasi dalle acque. L’attacco ebbe inizio il 1° aprile 1945 e si caratterizzò per l’impressionante potenza di fuoco dispiegata: davanti a Cotignola, la 2ª divisione neozelandese sparò da sola 250.000 granate, mentre aerei di ogni dimensione bombardavano senza interruzione le postazioni tedesche. L’attraversamento del fiume Senio ebbe luogo, nella notte tra il 9 e il 10 aprile, dopo una violentissima battaglia che numerosi diari paragonano al giorno del giudizio e all’Apocalisse. Mentre un’avanguardia di truppe neozelandesi ed indiane puntava su Lugo, i genieri realizzarono sei ponti capaci di far passare il resto degli uomini e dei mezzi alleati. Alle 6 del mattino del 10 aprile, i soldati italiani del gruppo di combattimento Cremona raggiunsero Fusignano e poi Alfonsine; un paese, quest’ultimo, che fu investito in pieno dal fuoco e, quindi, fu di fatto raso al suolo per tre quarti. Intanto, più a ovest, superato il fiume Santerno altri reparti indiani e neozelandesi raggiunsero Massalombarda e riuscirono a varcare il Reno (13-14 aprile), mentre le truppe polacche liberavano Imola e, infine, la stessa Bologna (22 aprile). Sul Senio fu schierata dagli inglesi anche una Brigata ebraica, guidata dal generale ebreo-canadese Ernest Frank Benjamin. Si trattava di circa 4.000 uomini, tutti volontari, provenienti per 1/5 dalla Palestina (ancora sotto mandato britannico) e per 4/5 da 53 diversi paesi del mondo. A Piangipane (nei pressi di Ravenna) si trovano tuttora sepolti 37 di questi soldati, caduti durante la battaglia in Romagna. Ad Alfonsine, invece, è possibile approfondire questi temi presso il Museo della battaglia del Senio, situato in Piazza Resistenza 2 (Tel. 0544 -83585). 140 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE LA GUERRA IN ITALIA: I PROBLEMI POLITICI DI FONDO L a campagna d’Italia fu concepita da inglesi e americani in maniera molto diversa. Per gli uni, essa era da condurre con il massimo di impegno e di energia per colpire il Terzo Reich da sud, giungere fino a Vienna e sbarrare la strada ai sovietici. Per gli americani, invece, essa era solo un diversivo, un fronte secondario, mentre la maggior parte delle forze (dopo il successo dello sbarco del 6 giugno 1944) andava impiegata in Francia, per attaccare la Germania da ovest. Nella primavera e nell’estate del 1944, sembrava finalmente che né la popolazione italiana né gli anglo-americani avrebbero dovuto attendere a lungo la fine della guerra. Cassino cadde nelle mani degli alleati il 18 maggio, e subito dopo le forze attestate ad Anzio si congiunsero con quelle provenienti dal sud. L’esercito anglo-americano così unificato entrò a Roma il 4 giugno, appena due giorni prima che si verificasse la tanto attesa invasione attraverso il canale della Manica sulle spiagge della Normandia. A metà dell’estate le forze alleate in Italia avanzavano rapidamente poiché i tedeschi non riuscivano a organizzare delle efficaci linee difensive nel territorio relativamente aperto dell’Italia centrale. Il 12 agosto, dopo duri combattimenti, gli angloamericani occuparono anche Firenze. Per un momento sembrò che il sogno a lungo accarezzato dagli alleati di una rapida fine della campagna in Italia stesse per diventare realtà. Sentendosi vacillare sotto una serie di sconfitte, l’alto comando tedesco discusse a lungo se abbandonare la maggior parte dell’Italia e costruire una nuova linea di 141 8 MAGGIO difesa sulle Alpi. Sembra che persino Hitler abbia esitato a considerare fattibile o conveniente una prolungata difesa in Italia. Ma i comandanti tedeschi sul campo, a cominciare da Kesselring, erano convinti che l’attacco alleato si fosse praticamente esaurito, e che, quando la battaglia avesse raggiunto l’Appennino, i tedeschi sarebbero stati in grado di tenere. Citando i vantaggi che sarebbero potuti derivare alla Germania dalle risorse agricole e industriali dell’Italia settentrionale, i militari tedeschi persuasero Hitler della possibilità di una prolungata resistenza sulle posizioni fortificate della Linea Gotica. La valutazione della situazione fatta da Kesselring e dai suoi colleghi era fondata; la forza offensiva alleata in Italia era molto più debole di quanto apparisse dalla campagna estiva. L’apertura del secondo fronte in Normandia aveva già impoverito di truppe il teatro operativo italiano, e l’invasione della Francia meridionale (l’operazione Anvil), avvenuta il 15 agosto, non fece che accelerare quella tendenza. D’ora in poi quelle due operazioni militari, e non la campagna d’Italia, avrebbero assorbito la maggior parte delle forze di riserva anglo-americane. A questo punto si fecero finalmente sentire tutte le conseguenze dell’insistenza americana di dare priorità assoluta allo sbarco in Normandia. Churchill e lo stato maggiore britannico avevano cercato invano di convincere gli americani, alla conferenza di Teheran del dicembre 1943, di non distogliere forze dal fronte italiano per usarle nell’operazione Anvil. Gli inglesi avevano ripetutamente esortato gli americani a concentrare uomini e materiali in Italia per spingere l’attacco verso nordest, attraverso Trieste e Lubiana nella direzione di Vienna. Ma il Joint Chiefs of 142 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE Staff americano credette di avere a che fare con una nuova manifestazione di imperialismo britannico e respinse ogni <<impegno delle risorse del Mediterraneo in operazioni su larga scala nell’Italia settentrionale e nei Balcani>>. D’altra parte le autorità militari americane appoggiarono la raccomandazione di Eisenhower che lo sbarco nella Francia meridionale a sostegno del secondo fronte acquistasse un’importanza tale da sacrificare gli interessi del teatro operativo italiano. Sette divisioni furono rimosse dall’Italia; gli americani imposero la loro soluzione, e l’operazione Anvil ebbe via libera. […] Man mano che ci si inoltrava nell’autunno, le piogge diventavano più violente, il fango più pesante, le colline più alte e la resistenza nemica più accanita. Ancora una volta gli alleati si ritrovarono in una situazione senza via d’uscita, sacrificando uomini per pochi metri di inutile terreno. Solo un abbondante afflusso di forze nuove avrebbe permesso alle truppe di Alexander di rimettersi in movimento, e secondo lo scenario ormai familiare, Churchill cercò di persuadere Roosevelt a procurare gli uomini necessari. Ma il presidente americano non era più interessato a compromessi o mezze misure. <<Una diversione di truppe verso l’Italia terrebbe lontano dalla Francia forze fresche vitalmente necessarie in quel settore, mentre esporrebbe tali forze all’elevato logorio di una campagna invernale non decisiva in Italia>> scrisse Roosevelt a Churchill il 16 ottobre: <Non possiamo distogliere dal compito principale forze che sono necessarie nella battaglia di Germania>>. Lo scontro fra inglesi e americani sulla strategia mediterranea si era perciò concluso. Non ci sarebbe più stata alcuna disponibilità di truppe fresche per la battaglia d’Italia, che fu così relegata 143 8 MAGGIO al ruolo che gli americani le avevano attribuito fin dall’inizio: un’operazione secondaria che tenesse impegnato il maggior numero possibile di truppe nemiche. (E. Aga-Rossi – B. F. Smith, Operazione Sunrise. La resa tedesca in Italia. 2 maggio 1945, Milano, Mondadori, 2006, pp. 47-49) LA GUERRA SULLA LINEA GOTICA: PROBLEMI MILITARI L a Linea Gotica fu l’ultimo importante ostacolo che le forze del Terzo Reich seppero opporre di fronte all’avanzata da sud degli anglo-americani. L’abilità dimostrata dai tedeschi nello sfruttare i caratteri del terreno su cui combattevano venne facilitata dalle condizioni meteorologiche, cioè dalle piogge battenti che nell’autunno 1944 impedirono spesso il pieno dispiegamento della superiorità meccanica degli Alleati. A differenza degli americani, Churchill continuava a essere affascinato dalle occasioni che poteva offrire un’avventura nei Balcani. In realtà, non furono le macchinazioni degli Alleati, ma la dislocazione delle forze tedesche a decidere la situazione. Quando la 5ª e l’8 ª armata raggiunsero la Linea Gotica, le loro forze complessive ammontavano soltanto a 21 divisioni, mentre la 10ª e la 14ª armata tedesche, grazie al trasferimento di cinque divisioni fresche e agli effettivi di altre tre, ne contavano 26. Anche se la Linea Gotica era 120 chilometri più lunga della Linea Gustav [il sistema difensivo 144 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE che aveva il proprio centro in Cassino e che aveva retto fino al maggio 1944 – n.d.r.], era appoggiata da un’eccellente strada quasi parallela, la vecchia via Emilia romana nel tratto da Bologna a Rimini, e che consentiva il trasferimento di rinforzi da un punto minacciato all’altro, e lungo la costa adriatica era avvantaggiata dalla presenza di non meno di tredici fiumi che scendevano verso il mare, ciascuno dei quali costituiva un grosso ostacolo per le operazioni. Questo tipo di terreno e l’inizio delle piogge autunnali garantivano a Kesselring che non sarebbe stato possibile per ora occupare l’Italia settentrionale e, forse, neppure sfondare la stessa Linea Gotica. Alexander, considerando che era più facile sboccare nella grande pianura padana dal lato adriatico che da quello tirrenico, durante il mese d’agosto fece trasferire in segreto il grosso dell’8ª armata sulla costa orientale. Il 23 agosto sferrò il suo attacco, sfondò la Linea Gotica e avanzò fino a 16 chilometri da Rimini, prima di arrestarsi davanti al fiume Conca, poco lontano da Cattolica. Mentre l’armata sostava per riorganizzarsi, Vietinghoff, che comandava la 14ª armata tedesca, fece affluire rinforzi lungo la via Emilia per bloccare l’avanzata. Gli inglesi ripresero l’offensiva il 12 settembre, ma incontrarono un’accanita resistenza e la 1ª divisione corazzata perse un tale numero di carri armati che dovette essere ritirata dalle operazioni. Allo scopo di distogliere forze nemiche dal fronte tenuto dagli inglesi, Alexander [generale inglese, capo di tutte le forze alleate in Italia – n.d.r.] ordinò a Clark [generale americano – n.d.r.] di sferrare la sua offensiva lungo il versante tirrenico il 17 settembre, attraverso un terreno molto meno promettente a nord di Pisa. La piana costiera di quella zona era talmente stretta 145 8 MAGGIO e dominata da montagne molto simili a quelle di Cassino, che la 5ª armata fece solo lenti progressi. Durante i mesi d’ottobre e novembre, sotto le piogge che trasformarono in pantano la zona delle operazioni e gonfiarono in piena i fiumi, la campagna si trascinò, guadagnando pochi chilometri di terreno al prezzo di migliaia di morti. L’8ª armata perse 14.000 uomini, tra morti e feriti, nelle battaglie d’autunno sull’Adriatico, e i canadesi diedero il contributo maggiore perché erano in prima linea. Il II corpo canadese conquistò il 5 dicembre Ravenna e si spinse fino al fiume Senio, raggiunto il 4 gennaio 1945. La 5ª armata, che attaccava su per le montagne dell’Italia centrale, arrivò il 23 ottobre fino a 15 chilometri da Bologna, ma anch’essa subì gravissime perdite (più di 15.000 uomini tra morti e feriti) e si trovò su un terreno ancor più difficile di quello dell’armata britannica. Rimase talmente indebolita che un contrattacco tedesco di sorpresa in dicembre riconquistò una parte del territorio occupato in settembre a nord di Pisa. […] Gli eroi di tutta la campagna d’Italia, dal 1943 al 1944, furono i soldati del genio: essi dovettero ricostruire sotto il fuoco nemico i ponti demoliti – che le truppe alleate incontravano ogni dieci-quindici chilometri nel corso della loro avanzata su per la penisola –, disattivare le cariche di demolizione, i campi minati e le trappole esplosive, che i tedeschi si lasciarono abbondantemente dietro dopo ogni ripiegamento, aprire con i bulldozer un passaggio tra le rovine delle città e dei paesi a cavallo delle rotabili verso il Nord, riattivare i porti bloccati dalle distruzioni della battaglia. Anche la fanteria si dimostrò eroica: nessuna campagna in Occidente costò più vittime di quella d’Italia alle truppe di fanteria, in vite perdute e in ferite e mutilazioni 146 rta Lame. 4. Battaglia di Po 4 9 1 e br m ve tiglieria no Bologna 7 o l’attacco di ar an id gu e ch i st zi I comandanti na l Macello rtigiana di via de contro la base pa 8 MAGGIO nel corso di brevi e violentissimi attorno ai capisaldi della Linea Gustav, nel perimetro di Anzio e sulla Linea Gotica. Queste perdite vennero subite sia dagli Alleati sia dai tedeschi, in gran parte per le difficoltà naturali e il rigido clima dell’inverno italiano: <<Una postazione in cima a un costone roccioso era tenuta da quattro o cinque uomini… Se uno di loro era ferito, doveva rimanere là con gli altri, oppure cercare di arrivare, per i sentieri di montagna, fino a un posto di medicazione. Se restava, era un peso per i compagni e rischiava di morire congelato o dissanguato. Se tentava di scendere era fin troppo facile… fermarsi a riposare al riparo… o perdere la strada… e finire per morire di freddo>>. Molti paracadutisti tedeschi della 1ª divisione che difese con tanta tenacia Cassino devono aver fatto questa fine; come anche molti americani, inglesi, indiani, sudafricani, canadesi, neozelandesi, polacchi, francesi e (in seguito) brasiliani, che combatterono contro di loro laggiù e lungo la Linea Gotica. ( J. Keegan, La seconda guerra mondiale, Milano, Rizzoli, 2000, pp. 378-381. Edizione italiana a cura di M. Pagliaro) 148 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE 149 8 MAGGIO INDICE ICONOGRAFICO Immagine: Berlino, 30 aprile 1945; la bandiera rossa sventola sul Reichtstag (Foto di Yevgeni Khaldei) Fonte: La seconda guerra mondiale : immagini dal fronte / testi di David Boyle. - Vercelli : White Star, 1999. - 598 p. : in gran parte ill. ; 31 cm. (Traduzione e ampliamento del testo a cura di Fabio Bourbon) Per concessione: Istituto Storico Parri Emilia-Romagna, Via Sant’Isaia, n. 18, 40100 - Bologna Immagine: Sbarco in Normandia Fonte: La seconda guerra mondiale : immagini dal fronte / testi di David Boyle. - Vercelli : White Star, 1999. - 598 p. : in gran parte ill. ; 31 cm. (Traduzione e ampliamento del testo a cura di Fabio Bourbon) Per concessione: Istituto Storico Parri Emilia-Romagna, Via Sant’Isaia, n. 18, 40100 - Bologna Immagine: Manifesto - Immagini del razzismo Fonte: La menzogna della razza: documenti e immagini del razzismo e dell’antisemitismo fascista / a cura del Centro Furio Jesi ; scritti di David Bidussa ... [et al.]. - Bologna : Grafis, [1994]. - 399 p. : ill. ; 30 cm. (Catalogo della Mostra tenuta a Bologna nel 1994. - Segue: Appendici e repertori). Per concessione: Istituto Storico Parri Emilia-Romagna, Via Sant’Isaia, n. 18, 40100 - Bologna Immagine: Armi pesanti contro i partigiani - Porte Lame - Bologna 7 novembre 1944 Fonte: Fondo Fotografico Luigi Arbizzani, Istituto Storico Parri. Emilia-Romagna Per concessione: Fondo Fotografico Luigi Arbizzani, Istituto Storico Parri Emilia-Romagna, Via Sant’Isaia, n. 18, 40100 - Bologna Immagine: Battaglia di Porta Lame. Al centro il capitano Gold comandante del presidio delle SS tedesche operanti a Bologna. (7 novembre 1944) Fonte: Fondo Fotografico Luigi Arbizzani, Istituto Storico Parri. Emilia-Romagna Per concessione: Fondo Fotografico Luigi Arbizzani, Istituto Storico Parri Emilia-Romagna, Via Sant’Isaia, n. 18, 40100 - Bologna Immagine: Bologna 7 novembre 1944. Battaglia di Porta Lame. Canale Cavaticcio, oggi coperto. A destra gli stabilimenti del macello comunale 150 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE demoliti dai cannoni tedeschi. I partigiani superstiti, con i feriti in spalla, risalirono a piedi il canale sino a via del Po Fonte: Fondo Fotografico Luigi Arbizzani, Istituto Storico Parri. Emilia-Romagna Per concessione: Fondo Fotografico Luigi Arbizzani, Istituto Storico Parri Emilia-Romagna, Via Sant’Isaia, n. 18, 40100 - Bologna Immagine: Bologna 7 novembre 1944. Battaglia di Porta Lame. I comandanti nazisti che guidano l’attacco di artiglieria contro la base partigiana di via del Macello. Fonte: Fondo Fotografico Luigi Arbizzani, Istituto Storico Parri. Emilia-Romagna Per concessione: Fondo Fotografico Luigi Arbizzani, Istituto Storico Parri Emilia-Romagna, Via Sant’Isaia, n. 18, 40100 - Bologna 151 8 MAGGIO 152 La FINE DELLA seconda GUERRA MONDIALE 153 © Regione Emila-Romagna - Assemblea Legislativa Progetto grafico: lucignolo progetti grafici (Bo) I° edizione - finito di stampare il xx Xxxxxx 2011 stampa a cura di XXXXXXX Francesco Maria Feltri insegna Italiano e Storia presso l'ITAS "Francesco Selmi" di Modena. E' autore di numerosi manuali di Storia per la Scuola Superiore, tra cui ricordiamo "I giorni e le idee" (SEI, Torino, 2001) e "Chiaroscuro" (SEI, Torino, 2011). In qualità di studioso della Shoah, ha collaborato con la Fondazione Anne Frank di Amsterdam e con il Museo Yad Vashem di Gerusalemme. Per l'Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna, ha curato il sussidio didattico on line "Viaggio visivo nel Novecento totalitario". CONSAPEVOLEZZA MEMORIA LucignoloProgettiGrafici Cittadinanza