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BENEDETTO XVI
e le polemiche sui lefebvriani
Il Concilio
l’unità, la difesa della fede
La lettera di Benedetto XVI «ai vescovi della
Chiesa cattolica riguardo alla remissione della
scomunica dei quattro vescovi consacrati dall’arcivescovo Lefebvre», resa pubblica dalla
Sala stampa vaticana il 12 marzo, ma anticipata in Germania dalla FAZ e in Italia dal Foglio l’11, si presenta per molti
aspetti come inabituale.
È una lettera di spiegazioni; di
fatto determinata dalla violenza
della discussione interna alla
Chiesa (così è stata percepita dal
papa) e dal ruolo rivestito dai
media: «un grande chiasso», come lo definisce il papa.
La lettera ha un tono
fortemente personale, ben oltre
la distinzione oramai usuale fra il
teologo e il papa. La curia quasi
scompare se non per formule
marginali.
Il testo non contiene novità significative in ordine alla
spiegazione dell’accaduto (le risposte erano già state date tutte),
ma presenta un appello ai vescovi che riguarda il tema dell’unità
della Chiesa come difesa dell’esercizio dell’autorità petrina di
fronte all’emergenza vera del nostro tempo: «Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini». Questo
dunque è il significato del pontificato, questo l’intento del gesto
di perdono offerto ai lefebvriani.
In questo senso, la sincerità, la sofferenza e l’esposizione
personale rappresentano un
punto significativo non solo per
la vicenda tradizionalista, ma
per il papato di Benedetto XVI.
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Sui punti critici, si potrebbe riassumerla nell’ammissione di due errori (il caso Williamson e la mancata
comunicazione interna), nell’ammissione di un paradosso (un gesto di
unione che produce invece divisione)
e nel riconoscimento di un dramma
anche personale (sintetizzabile nella
semplificazione: molti contro il papa
e, nella Chiesa, tutti contro tutti). La
lettera produce anche un atto concreto: la riconduzione della Commissione «Ecclesia Dei» alla Congregazione per la dottrina della fede.
La remissione della scomunica ai
quattro vescovi lefebvriani (cf. Regnodoc. 3,2009,69ss; Regno-att.
4,2009,76ss) ha prodotto «una discussione di tale veemenza quale da
molto tempo non si era più sperimentata» con la conseguente perplessità di molti vescovi, gli interrogativi di altri sulla pertinenza del gesto e le accuse di alcuni gruppi al papa «di voler tornare indietro, prima
del Concilio». Le affermazioni antisemite di mons. Williamson rovesciano il significato della decisione: dalla
riconciliazione al conflitto, dal dialogo con l’ebraismo al suo contrario,
dalla fedeltà al Concilio alla sua
smentita. Una sconfitta comunicativa
che suggerisce l’uso diretto da parte
della curia vaticana di una fonte
informativa come Internet.
«Un altro sbaglio, per il quale mi
rammarico sinceramente, consiste
nel fatto che la portata e i limiti del
provvedimento del 21 gennaio 2009
non sono stati illustrati in modo sufficientemente chiaro al momento
della loro pubblicazione». Usando la
duplice distinzione (fra persone e istituzioni che non sono oggetto di censure e fra dimensione canonica e
ambito dottrinale) Benedetto XVI ricorda il riconoscimento degli interessati del ruolo del papa e della sua
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potestà di pastore, giustificando così
un provvedimento di remissione che
senza modificare la posizione canonica della Fraternità San Pio X mirava a raggiungere l’obiettivo del
pentimento e del ritorno all’unità.
Le forti e giustificate critiche indirizzate da più parti alla Commissione «Ecclesia Dei» e al suo presidente, il card. D. Castrillón Hoyos, si
trasformano nell’indicazione di togliere l’autonomia decisionale alla
stessa: «Alla luce di questa situazione
è mia intenzione di collegare in futuro la Pontificia commissione “Ecclesia Dei” (…) con la Congregazione
per la dottrina della fede. Con ciò
viene chiarito che i problemi che devono ora essere trattati sono di natura essenzialmente dottrinale e riguardano soprattutto l’accettazione del
concilio Vaticano II e del magistero
postconciliare dei papi». Per la prima volta il papa critica direttamente
la Fraternità. «Non si può congelare
l’autorità magisteriale della Chiesa
all’anno 1962»; «abbiamo sentito da
rappresentanti di quella comunità
molte cose stonate – superbia e saccenteria, fissazione su unilateralismi»; «finché le questioni concernenti la dottrina non sono chiarite, la
Fraternità non ha alcuno statuto canonico nella Chiesa, e i suoi ministri
(…) non esercitano in modo legittimo alcun ministero nella Chiesa».
Il doloroso paradosso del «sommesso gesto di una mano tesa» che si
trasforma «nel contrario di una riconciliazione, è un fatto di cui dobbiamo prendere atto». L’ammissione
di una impasse si aggrava dal proporsi in ambito sociale ed ecclesiale di
un capro espiatorio, «contro il quale
poter tranquillamente scagliarsi con
odio», come se difendere il papa significasse perdere «il diritto alla tolleranza». L’ammonimento di Paolo
ai Galati di non mordersi e divorarsi
a vicenda (Gal 5,13-15) non è esagerazione retorica. Sono atteggiamenti
che esistono «anche oggi nella Chiesa come espressione di una libertà
mal interpretata».
L’opportunità di tentare una riconciliazione con una Fraternità non
trascurabile nei suoi numeri e non
priva in molti di autentica fede e generosità personale è ricondotta al
tratto saliente del pontificato, del resto più volte espresso: «Condurre gli
uomini verso Dio, verso il Dio che
parla nella Bibbia: questa è la priorità suprema e fondamentale della
Chiesa del successore di Pietro in
questo tempo. Da qui deriva come
logica conseguenza che dobbiamo
avere a cuore l’unità dei credenti»:
dall’ecumenismo al dialogo interreligioso, al recupero della comunione
fra le forze cattoliche marginali.
Il contraddittorio evento di una
comunicazione che rovescia l’originale intento comunionale in un esito
divisivo deve farci riflettere sul processo di costruzione e di condivisione
dell’unità. Il papa guarda con libertà
e trasparenza ai molti contrapposti
interlocutori: da alcuni ebrei vicini
ad alcuni cattolici critici, da alcuni
vescovi consenzienti ad altri perplessi, dalla «grande Chiesa» alle piccole
frange.
Crediamo sia sempre più urgente
attivare al meglio i luoghi collegiali
di esercizio dell’unità; e cercare le
vie di un dibattito che rispondano
maggiormente alle logiche della sincerità e dell’amore, piuttosto che immaginare vero un consenso apparente, frutto di indifferenza o di adulazione. L’urgenza della fede e la testimonianza dell’amore chiedono l’impegno di tutti.
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