NOTA INFORMATIVA Febbraio 2012 Gli articoli presenti in questa sezione sono liberamente redatti e curati dal dott. Di Nuzzi, attingendo dalla propria complessiva formazione, e quindi dalle fonti scientifiche più accreditate e dalla propria esperienza clinica professionale. Al lettore si rivolge la più viva raccomandazione a voler cogliere tale materiale come una semplice fonte divulgativa, che in nessun caso può e deve sostituirsi ad una diagnosi diretta effettuata da un professionista psicologo e/o medico specialista. “Soccorritori e stupratori: l’ambivalenza dei gruppi” Il genere umano ha una lunga storia sociale, tant’è che sin dall’antichità i pensatori più eccelsi, quali ad esempio Platone e Aristotele, si interessarono al rapporto che l’individuo instaura con le altre persone e con la società nel suo complesso. Certo è che l’essere umano, intrinsecamente debole sul piano biologico e fisico in rapporto ad altri animali, è riuscito a dominare la scala evoluzionistica – e quindi la catena alimentare sottraendosi ai predatori – grazie a varie funzioni e abilità sviluppate nel tempo, tra le quali sicuramente la determinazione di una vita di interazioni e relazioni intessute con i suoi simili, costituendo dunque una vita di gruppo. Ma che cos’è un gruppo? Quali sono i suoi aspetti caratterizzanti? E infine, come suggerisce il titolo del presente scritto, una domanda cruciale: i gruppi sono buoni o sono cattivi? Andiamo per ordine, partendo da una definizione generica di gruppo. Premesso che ogni definizione potrebbe presentare limiti e imperfezioni, essendo estremamente vasta la varietà dei gruppi che l’uomo è in grado di strutturare, possiamo riferirci alla descrizione dello psicologo Rupert Brown: “un gruppo esiste quando due o più persone se ne definiscono membri e quando la sua esistenza viene riconosciuta da almeno un’altra persona”. La prima imperfezione che balza all’occhio è la necessità che il gruppo venga riconosciuto da almeno un’altra persona, e questo esclude ad esempio le società segrete. Potremmo dunque parafrasare e integrare la definizione di Brown connotando il gruppo come un insieme di due o più persone che si ritengono appartenenti ad un gruppo in modo sia esplicito sia implicito, e sia quando riconosciuto da elementi esterni, sia quando, per varie circostanze, non riconosciuto. Quanto detto ci permette anzitutto di tracciare una prima dicotomia, nota in psicologia sociale con il termine “ingroup-outgrup”, cioé ‘interno’, gruppo al quale una persona appartiene, ed ‘esterno’, gruppo al quale una persona non appartiene. A sua volta, tale distinzione evoca le teorizzazioni di Tajfel sull’identità sociale, mediante la quale ciascun individuo cerca di definire la propria personalità confrontandosi con i membri del gruppo di appartenenza (ingroup) e distinguendosi da coloro che a tale gruppo non appartengono (outgroup). Tale atteggiamento mentale produrrebbe alcune distorsioni attribuzionali, quali ad esempio l’esagerazione delle qualità del proprio gruppo e dei difetti dei gruppi diversi, così come l’accentuazione del grado di somiglianza che l’individuo possiede con il suo gruppo di riferimento. Insomma i gruppi sono un fenomeno complesso, si è capito, e possiamo, sinteticamente e in modo non esaustivo, delinearne le caratterizzazioni facendo riferimento ad alcuni concetti chiave: processi di identificazione, bisogni di sicurezza, idealizzazioni, perseguimento di obiettivi. Ma veniamo dunque al quesito più affascinante, cioé se i gruppi siano intrinsecamente buoni o cattivi; il lettore avrà certo intuito che non sarà facile pervenire ad una risposta univoca, e che dunque l’ambivalenza continuerà a persistere. L’accostamento proposto nel titolo del presente articolo è molto indicativo, e rende conto di un contrasto insanabile: da un lato, individui che si aggregano, spesso nella forma del volontariato, con lo scopo di prestare soccorso a feriti e persone inermi in situazioni di emergenza, catastrofi che hanno spesso segnato anche il territorio italiano, come ad esempio il sisma che ha distrutto L’Aquila e le recenti alluvioni della Liguria; d’altro lato, vigliacchi e laidi della peggiore specie che si riuniscono in un branco dando sfogo alla loro violenta brutalità. Perchè Dott. Gianni Di Nuzzi Psicologo clinico esperto in Neuropsicologia n. iscr. OPL 03/13197 www.giannidinuzzi.it questi estremi? Quali sono le variabili in gioco quando i gruppi presentano connotazioni così diametralmente opposte? Naturalmente il gruppo non va considerato come un blocco uniforme; al suo interno gravitano anime diverse, e ciascun membro presenta il suo grado di aggressività/generosità, predominanza/remissività, manipolabilità/tendenza alla leadership, e anche psicopatologia nei casi più estremi. Questo significa anche che ciascun gruppo presenta una sua specifica fisionomia che lo caratterizza, configurandosi così con un’architettura solo in parte sovrapponibile a quella di gruppi diversi. Limitiamoci quindi ad alcune considerazioni generali. Alcuni femomeni psicologici possono contraddistinguere l’individuo che agisce nel gruppo, rendendolo di fatto qualcosa di diverso dal suo agire individuale. In alcuni casi si parla specificatamente di “deindividuazione”, cioé la perdita del proprio senso di identità individuale, associata a una minore consapevolezza del sé e a un minore senso di responsabilità personale nei contesti di gruppo. Un concetto correlato è quello di “diffusione della responsabilità”, inteso come una diminuzione del senso di responsabilità che ciascun individuo avverte quando sono presenti altri individui. Quindi l’euforia del gruppo, l’adrenalina che si produce, il passaggio all’azione del più esaltato – o del leader, come vedremo più avanti – determinano un clima psicologico gruppale in cui un individuo non necessariamente aggressivo si deresponsabilizza, lasciandosi coinvolgere nell’esecuzione di azioni negative, o quanto meno partecipandovi passivamente. Chiaramente queste teorie non vanno colte come una sorta di giustificazione pseudoscientifica alla violenza di gruppo – l’argomento è corposo e non mi prefiggo qui l’obiettivo di disquisire in merito, rimandando eventualmente il lettore alla branca della psicologia forense sul tema della responsabilità penale. Insomma comprendere non significa giustificare, e i concetti summenzionati non sono di per se stessi esaustivi. E poi ci sono anche situazioni opposte, in cui l’individuo, anziché deresponsabilizzarsi, si “iperresponsabilizza”, ossìa si assume molta più responsabilità di quanto sarebbe lecito chiedergli, ad esempio ponendo in serio pericolo la propria vita per salvare altre vite. In questo caso, talvolta appare calzante il concetto psicodinamico di “depersonalizzazione”, ove cioé il comportamento dell’individuo si sgancia dal nucleo razionale della coscienza, travalicando la barriera dell’autoconservazione per compiere azioni altruistiche. Accanto a questi elementi esplicativi, possiamo giustapporre ulteriori riferimenti in merito al comportamento gruppale, adducendo una “visione normativa”. Non aprirò comunque un ulteriore capitolo sul perché gli individui scelgano di appartenere ad un gruppo ‘buono’ oppure ad un gruppo ‘cattivo’, rimandando anche in questo caso agli opportuni studi di criminologia, e limitandomi a fare riferimento ad un modello multicausale: a tale scelta concorrono certamente aspetti psicologici e biologici individuali, variabili sociali, economiche, culturali, scelte politiche e fattori ambientali. Proviamo dunque a delineare la visione normativa suddetta: nei gruppi le persone si comportano in modo diverso non perché smarriscano se stesse o perché esperiscano una diffusione di responsabilità. Ciascun gruppo si definisce mediante delle norme connotative, alcune esplicite, altre implicite ma altrettanto importanti, e l’individuo che vuole aderire ad un gruppo sviluppa un processo di identificazione acquisendo e interiorizzando di fatto le norme di riferimento. Tali norme possono essere ancor più imperative di quelle emanate dalla società di appartenenza, cosicché anche un’azione considerata deplorevole dalle norme sociali, può essere invece riconosciuta positivamente dalla sottocultura del gruppo di riferimento. In questo ambito, possono comparire veri e propri “riti di iniziazione”, cioé prove di coraggio, bravate, vandalismi, goliardìe, o anche violenze tout court – compiute liberamente o più spesso indotte – che sanciscano la “maturazione” di un individuo nei confronti di un gruppo cui chiede di essere introdotto. Può sembrare inconcepibile che un soggetto decida di compiere un’azione, anche di intensa efferatezza, per poter appartenere ad un gruppo deviante, che sicuramente lo condurrà verso un escalation progressiva destinata a segnare la sua vita. Eppure spesso è così. Negli esseri umani, il bisogno di identità assume un carattere di estrema rilevanza, e quanto più debole sarà il proprio percorso esistenziale in termini di autonomia psichica e individuazione del Sé, tanto più pervasivo si farà il bisogno di guardare esternamente per definire Dott. Gianni Di Nuzzi Psicologo clinico esperto in Neuropsicologia n. iscr. OPL 03/13197 www.giannidinuzzi.it la propria entità. In altre parole, un individuo che si annovera in un dato gruppo cerca risposta ad un quesito fondamentale, espressamente caratteristico del genere umano: “chi sono io?”. Come accennato, i gruppi sono spesso guidati da una figura carismatica, convincente, persuasiva, in altre parole ciò che definiamo “leader”. Che cosa sta a designare il termine suddetto? Proviamo a spiegarlo citando un fatto di cronaca. Nell’anno 1997, in una splendida villa californiana, vennero rinvenuti 39 cadaveri, distesi supini sui letti, elegantemente vestiti e ordinatamente adagiati. La casa si presentava in maniera estremamente pulita, con un senso di cura e di gusto per gli arredi. Gli investigatori acclararono che era stato compiuto un suicidio di massa, e i corpi appartenevano ai seguaci di una setta, gli adepti del culto “Heaven’s Gate”. Non si trattava in apparenza di individui sbandati, o reietti della società, bensì di persone dotate di un livello culturale medio-alto, tecnici informatici che ricavavano discreti guadagni da tale abilità. Il dominatore del gruppo, un uomo malato allo stadio terminale, convinse i seguaci ad accompagnarlo per l’ultima dipartita, poiché, come scrisse un adepto, “quando lui se ne sarà andato, non rimarrà più nulla per me sulla faccia della terra”. Ecco, visto in senso estremo, un leader è colui che riesce ad esercitare le sue capacità persuasive in modo tale da ottenere da un gruppo ciò che altri diversamente non saprebbero ottenere. Naturalmente ho citato un caso estremo, e non è corretto pensare che basti essere carismatici per indurre qualcuno al suicidio. La persuasività di un individuo si avvale di diversi fattori, solo in parte ascrivibili ad egli stesso. Senz’altro si tratta di una figura per certi versi “magnetica”, capace di focalizzare su di sé l’attenzione degli altri mediante l’uso di un linguaggio comprensibile e accattivante, sintonizzato con i bisogni degli ascoltatori, più emozionale che razionale: pensate a certi politici, che continuano a parlare del vuoto, reiterando frasi fatte e promesse ingannevoli, eppure conquistando il “cuore” degli elettori grazie ad un eloquio caldo ed elettrizzante! Insomma, il leader, a torto o a ragione, viene riconosciuto dai più come una grande persona, diverso da tutti gli altri, speciale, esaltandone le caratteristiche, talvolta fino agli estremi dell’adorazione idolatrica. Ma il leader non è tutto. Affinché funzioni, occorre che dall’altra parte vi sia una specifica situazione, costituendo così una speciale contingenza; rimanendo alla politica – e chiedo venia per la digressione! – non è difficile immaginare che certi personaggi nostrani, in un contesto culturale diverso da quello italiano, non avrebbero probabilmente attecchito... Vorrei concludere questo articolo con alcune riflessioni dalle tonalità positive, anche per controbilanciare alcune pesantezze fin qui emerse. Anzitutto, non ci troviamo affatto in una società estremamente deteriorata, dove i gruppi cattivi prevalgono sgretolando le fondamenta della vita sociale. Certo la violenza esiste, è un fenomeno preoccupante che necessita attenzione e sensibilità da parte delle istituzioni, non lo si può negare; ma la dimensione della violenza non va confusa con l’impatto che i riflettori dei mass-media producono nell’opinione pubblica: una ricerca in tal senso eloquente, ha evidenziato che dal 1998 al 2001, in Italia, giornali e programmi televisivi hanno significativamente incrementato lo spazio dedicato ai crimini violenti, a fronte di una diminuzione degli stessi! Si badi bene, non intendo affatto minimizzare, ma soltanto denotare un fenomeno sottovalutato: la maggior parte dei decessi non avviene a causa di violenze perpetrate da individui facinorosi, bensì a causa di incidenti automobilistici, incidenti sul lavoro e inquinamento atmosferico. Se la tv dovesse più correttamente riproporzionare i programmi sulla base delle statistiche reali, avremmo ogni giorno e costantemente le telecamere posizionate nei reparti oncologici degli ospedali, nelle strade e nei cantieri edili dove le norme sulla sicurezza vengono spesso violate; forse qualcuno non gradirebbe, però... E infine, qualche parola sui gruppi buoni. Compiere qualcosa a beneficio di altri significa sapersi decentrare dal proprio nucleo personale di bisogni e profondere attenzione all’esterno. Detto in due parole: essere altruisti. Possiamo distinguere due forme di “esserci per l’altro”: l’altruismo eroico e l’altruismo assistenziale. Nel primo caso spicca in genere un personaggio, un individuo che si rende speciale attraverso la realizzazione di un gesto salvifico, un poliziotto fuori servizio che sventa uno stupro, un vicino di casa che salva un anziano dalla casa in fiamme, un uomo che perde la vita Dott. Gianni Di Nuzzi Psicologo clinico esperto in Neuropsicologia n. iscr. OPL 03/13197 www.giannidinuzzi.it tuffandosi nelle correnti gelide di un fiume per soccorrere un bambino, etc. Donne e uomini dalla personalità eccezionale, fulgido paradigma di svettante umanità, verso i quali viene spontaneo nutrire la più intensa ammirazione. Si tratta di eroi, figure che attingono l’attenzione loro rivolta dalla grandezza di ciò che hanno fatto. E poi esiste un altruismo più nascosto, meno illuminato dai mass-media, meno individuale e più gruppale, generalmente non correlato ad un singolo evento, bensì svolto nel tessuto della continuità, della quotidiana assistenza, rinnovato dalla più intensa e calorosa dedizione, spesso vicariante quelle manchevolezze che scaturiscono dal sistema istituzionale, laddove la sofferenza si perpetua giorno per giorno, lenita e contenuta da carezze fisiche e psichiche di persone straordinarie, colme di umiltà e dignità. E’ questo, appunto, il cosiddetto ‘altruismo assistenziale’, composto da individui e gruppi eterogenei provenienti dalle matrici identitarie più articolate. Malati terminali, psichiatrici, bambini ospedalizzati, indigenti, senzatetto e molti altri ancora ricevono assistenza da questi altruisti, un’assistenza che viene a volte negata sul piano istituzionale, ed è su tale negazione che bisognerebbe accendere più spesso il riflettore dell’attenzione. A tutti Voi, altruisti eroici e altruisti assistenziali, grazie. Siete la faccia migliore della società. Principali riferimenti bibliografici B. Bertani et al. [a cura di] (1998), Psicologia dei gruppi, Franco Angeli, Milano. Moghaddam, F. M. (2002), Psicologia sociale. Tr. it. Zanichelli, Bologna. Selmini, R. [a cura di] (2004), La sicurezza urbana, Il Mulino, Bologna. Dott. Gianni Di Nuzzi Psicologo clinico esperto in Neuropsicologia n. iscr. OPL 03/13197 www.giannidinuzzi.it