Prof. Monti - Filosofia V – a.s. 2015-2016 – Arthur Schopenhauer
Arthur Schopenhauer
1788 – 1861
1. INTRODUZIONE: I COSIDDETTI “IRRAZIONALISTI”
Se l’800 è dominato da tre indirizzi filosofici – Idealismo, Materialismo,
Positivismo – vi sono importanti pensatori che si sono sottratti all’appartenenza a
uno qualunque di questi orientamenti.
Fra questi pensatori “diversi”, tre sono di grande rilievo – Schopenhauer,
Kierkegaard, Nietzsche – nessuno dei essi, però, ebbe numerosi discepoli o ebbe
modo di costituire, almeno durante la propria vita, una vera e propria scuola di
pensiero.
Questi autori sono stati chiamati “irrazionalisti” perché tutti, ognuno a suo
modo, si ergono contro le certezze, idealistiche e positivistiche, relative alla
razionalità del mondo e alle possibilità illimitate del sapere umano.
Per questi autori la realtà non è tutta razionale: fra ordine delle cose (cose reali,
naturali) e ordine dei concetti vi è una differenza ultimamente irriducibile.
Il sapere dell’uomo, e la cosa è dovuta tanto ai limiti dell’uomo quanto alla
irriducibile differenza fra mondo e pensiero, è sempre limitato.
L’uomo stesso, in effetti, eccede le sole categorie della razionalità: l’uomo,
proprio come il mondo cosiddetto “reale”, non è solo ragione!
Compito della filosofia, quindi, non sarà tanto quello di far acquisire
all’uomo presunti fondamenti assoluti della realtà (come accade con gli
idealisti, per esempio), quanto quello di metterlo in guardia riguardo la sua
finitudine e i pregiudizi che, facilmente, lo imprigionano.
Ecco che gli “irrazionalisti” hanno portato alla luce aspetti “oscuri”, non
razionali, e pur tuttavia reali dell’uomo: la pressione della volontà inconscia (e,
a questo riguardo, dovremo vedere anche Freud!), l’angoscia costitutiva dell’io,
l’azione molteplice degli istinti.
Sia anche detto, onde evitare fraintendimenti, che la battaglia di questi tre filosofi
non si rivolge contro la ragione, quanto contro il razionalismo, cioè contro
l’assolutizzazione della dimensione razionale.
Prova di questo fatto è che questi filosofi, in effetti, non hanno ristretto, bensì
allargato l’ambito di ciò che può e deve essere sottoposto all’analisi della
riflessione razionale umana - basti pensare all’inconscio, ma è solo un esempio insegnandoci per al contempo, e in modo inequivocabile, che la ragione non
esaurisce in sé la ricchezza del mondo in cui viviamo.
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2. BREVI CENNI SULLA VITA DI SCHOPENHAUER
Schopenhauer nacque a Danzica, nel 1788, da un agiato commerciante e da una
nota scrittrice (Johanna Henriette Trosiener). Il giovane Arthur si dedicò – subito
dopo la dipartita del padre, morto suicida – allo studio della filosofia.
Pur restando letteralmente disgustato da alcune lezioni di Fichte, si laureò presso
l’università di Jena con la dissertazione Sulla quadruplice radice del principio di
ragion sufficiente.
Dopo aver interrotto i già burrascosi rapporti con la madre, nel 1818 si trasferì a
Dresda dove portò a termine, a 33 anni, la sua opera capitale: Il mondo come
volontà e rappresentazione.
L’opera, al suo apparire, ebbe ben scarso successo e Schopenhauer cercò la
fortuna accademica presso l’Università di Berlino (ove si trasferì nel 1820): qui
però incontrò Hegel, che diventerà suo acerrimo nemico.
Schopenhauer giunse al successo piuttosto tardi, con l’opera Parerga e
Paralipomena1, del 1851, una serie di brevi saggi a carattere prevalentemente
morale.
Morirà a Francoforte nel 1861.
Proprio il mancato successo, tanto riguardo al Mondo quanto all’accademia,
ingenerarono in Schopenhauer un atteggiamento di forte astio e, addirittura,
disprezzo verso il prossimo, misantropia, e in particolare verso le donne,
misoginia, accompagnato da una altissima concezione di sé.
A questo riguardo basti leggere le seguenti citazioni, tutte tratte da alcune sue
annotazioni private:
“ La mia vita è eroica, e non si può valutare con un metro da filisteo o con il
cubito del bottegaio, né con una misura proporzionata alla gente comune […] ”
“ ‘It’s safer trusting fear than faith’. Da ricordare sempre che non mi trovo nel mio
paese, tra esseri simili a me […] ”
“ In un mondo così spregevole tutto ciò che non lo è inevitabilmente si isolerà,
ed è proprio quanto è accaduto. ”
“ Non appena ho cominciato a pensare, mi sono sentito diviso dal mondo.
Spesso in gioventù ho temuto per me, perché ho creduto che la ragione sarebbe
stata dalla parte della maggioranza […].
Per tutta la vita mi sono sentito terribilmente solo, e nell’intimo ho sempre
sospirato: ‘Ora dammi un essere umano!’ ”
“ Dopo che si è trascorsa una vita tanto lunga nell’insignificanza e nel disprezzo,
ecco che alla fine arrivano con timpani e tamburi, e credono che basti. ”
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"Parerga", dal greco párergon, significa "accessorio" nel senso di "aggiunto", magari in forma di appendice (a
un'opera). "Paralipomena" - dal verbo greco paraleípo, "tralasciare" - indica in senso proprio delle cose che siano state
tralasciate, omesse. Per estensione, si può riferire a uno scritto che sia inteso come la continuazione di un altro scritto
tramite l'aggiunta di parti in precedenza, appunto, tralasciate.
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3. CONTRO HEGEL; PRIMI CENNI SUL PENSIERO DI SCHOPENHAUER
La convivenza dei due filosofi presso l’università di Berlino non fu facile e
Schopenhauer, di fatto, dovette subire le conseguenze derivanti dalla grande fama
e importanza di Hegel.
Ma ecco cosa ebbe a dire di lui (parole che ci fanno ben comprendere il pesante
astio che egli dovette provare nei confronti del celebre “collega”):
“
La filosofia, dopo essere stata rimessa in onore da Kant, è divenuta lo
strumento di interessi estranei, di Stato dall’alto e personali dal basso [...]; quelli
cui si tende sono interessi personali, d'ufficio, di Chiesa, di Stato e cioè, in breve,
interessi materiali. Oserei dire che nessuna epoca può essere più sfavorevole
alla filosofia, di quella in cui la filosofia da una parte viene ignobilmente sfruttata
come mezzo di governo, e dall’altra come mezzo di lucro [...]. La verità non è la
meretrice che si getta al collo di chi non la vuole: essa possiede una così
altera bellezza che persino chi le sacrifica tutto non può ancora esser certo
di ottenere i suoi favori. ”
La filosofia con Hegel sarebbe divenuta – questo, almeno, è il parere di
Schopenhauer! – un semplice “mestiere”, uno strumento di mero guadagno,
spesso disposta a servile sostegno dei potenti.
Ecco, infatti, che:
“ [...] oggi i governi fanno della filosofia un mezzo per i loro fini di Stato, e i dotti
vedono nelle cattedre filosofiche soltanto un mestiere che, alla stregua degli altri,
è in grado di nutrire chi lo esercita ”
Ma come si può evitare che questo accada? Di fatto non si può: basti pensare
agli antichi sofisti, fa notare Schopenhauer, che prestavano la loro opera di
filosofi per denaro.
“
Come è possibile evitare [...] che la filosofia, degradata a strumento di
guadagno, non degeneri in sofistica? Proprio perché questo è inevitabile, e
perché la regola del "di chi io mangio il pane, di lui canterò le lodi" è stata sempre
in vigore, presso gli antichi guadagnar denaro con la filosofia era il segno
distintivo dei sofisti ”
Anche oggi avviene, dunque, lo stesso: Hegel sarebbe il sofista moderno!
Hegel è, agli occhi del nostro, un ciarlatano che va blaterando non-sensi, subito
accettati e spacciati per sapienza immortale da adulatori prezzolati, e qualcosa di
simile vale anche per Fichte e Schelling.
Di Hegel, “l’accademico mercenario”, Schopenhauer dice anche che:
“ Hegel, insediato dall’alto, dalle forze al potere, fu un ciarlatano di mente ottusa,
insipido, nauseabondo, illetterato che raggiunse il colmo dell’audacia
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scarabocchiando e scodellando i più pazzi e mistificanti non-sensi. Questi nonsensi sono stati prontamente celebrati come sapienza immortale da seguaci
mercenari e prontamente accettati per tali da tutti gli stolti, che così si unirono a
intonare un coro di ammirazione tanto perfetto quanto non si era mai udito prima.
L’immenso campo di influenza spirituale che è stato messo a disposizione di
Hegel da coloro che erano al potere gli ha consentito di perpetrare la corruzione
intellettuale di un’intera generazione. ”
Parole tanto forti si possono ben difficilmente spiegare senza la presenza anche di
ragioni personali, tali da far montare l'avversione quasi in odio manifesto.
In effetti, ammette Schopenhauer, questi mercenari avrebbero di fatto rinchiuso
nel silenzio la sua filosofia, quella filosofia che “senza guardare né a destra né a
sinistra, sempre volge diritto il suo timone” verso “la semplice, la nuda, non
rimunerata, priva di amici e spesso perseguitata verità”.
Schopenhauer rappresentò un elemento di discontinuità e di rottura rispetto
a una precisa tradizione filosofica, sia precedente che successiva a lui. In una
tradizione dominata dal monismo (si pensi ad Hegel, ma anche a Marx) egli
introdusse un forte dualismo: essenza – apparenza, soggetto – oggetto, uomo –
cose.
Schopenhauer porta con sé una concezione radicalmente anti-razionalistica
ed anti-provvidenzialistica del mondo.
Egli instilla profondi dubbi sull’omogeneità del mondo e della natura umana,
sulle possibilità della scienza di raggiungere qualcosa di più di una semplice
organizzazione di fatti.
Come vedremo, egli assume anche taluni temi tratti dalla sapienza orientale
che, in Occidente, è uno dei primi pensatori a studiare.
La mancanza di senso oggettivo delle cose, la concezione relazionistica e
prospettivistica della conoscenza, le nozioni di inconscio e di lotta per la vita, la
funzione cognitiva e liberatoria dell’arte: sono tutti temi introdotti con forza da
Schopenhauer che avranno grande seguito nella seconda metà dell’800 e nel ‘900.
4. IL MONDO COME VOLONTÀ E RAPPRESENTAZIONE
“La mia filosofia muove da quella kantiana”, dichiara apertamente
Schopenhauer. Del “sorprendente Kant” egli apprezza, nonostante i notevoli
errori di cui lo accusa, il suo aver liberato l’uomo dal mito del realismo, ossia
dall’idea che le cose abbiano significato e realtà indipendentemente dal soggetto
che le conosce, e l’aver operato la fondamentale distinzione fra fenomeno e
noumeno.
Leggendo in modo assai personale la Critica della ragione pura,
Schopenhauer delinea una nuova interpretazione di tale distinzione.
Da una parte ci sono i fenomeni: essi sono semplici apparenze, volti superficiali
delle cose. Dall’altra parte, cioè dal lato dei noumeni, c’è la dimensione
sostanziale delle cose medesime, che sfugge alla conoscenza intellettuale (come
diceva anche Kant!) ma che è, però, afferrabile per altra via (cosa che Kant non
accettava).
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Dal primo punto di vista il mondo è “rappresentazione”, dal secondo è
“Volontà”.
LA RAPPRESENTAZIONE
Nella prima parte del Mondo, Schopenhauer esamina i caratteri della realtà in
quanto rappresentazione.
C’è grande distanza fra uomo e cose: che il mondo abbia un senso e che
l’uomo lo possa cogliere con il proprio intelletto (quindi con la razionalità e, in
particolare, con il raziocinio oggettivante delle scienze) è mera illusione o
presunzione.
L’uomo non deve dimenticare la propria radicale differenza rispetto alle cose della
natura e la propria ignoranza rispetto a quanto accade realmente, cioè al di là del
mondo fenomenico.
Siamo circondati da un immenso complesso di fenomeni, tutto ciò che a noi
appare: essi, però, però sembrano più occultare che rivelare la propria ragion
d’essere.
Dov’è il significato del mondo? Qual è la sua verità? I fenomeni non
rispondono, anzi, costituiscono un velo di Maja.
“ È Maya, il velo ingannatore, che avvolge gli occhi dei mortali e fa loro vedere
un mondo del quale non può dirsi né che esista, né che non esista; perché ella
rassomiglia al sogno, rassomiglia al riflesso del sole sulla sabbia, che il
pellegrino da lontano scambia per acqua; o anche assomiglia alla corda gettata a
terra, che egli prende per un serpente. ”
La realtà visibile, fenomenica, è apparenza, occultamento, illusione.
Le cose come ci appaiono sono, dunque, di per sé prive di fondamento e di
ragione.
L’uomo normalmente fa assegnamento su di esse per capire il mondo, invece è lui
stesso che, pur senza produrle, è l’unico punto di riferimento per il loro senso!
Il mondo non esiste come totalità significante autonoma, ma come dispersione
di cose, anzi di mere “rappresentazioni”, il cui senso dipende dal soggetto.
“ 'Il mondo è una mia rappresentazione': ecco una verità valida per ogni essere
vivente e pensante, benché l’uomo possa venirne soltanto a coscienza astratta e
riflessa. E quando l’uomo sia venuto a tale coscienza, lo spirito filosofico è
entrato in lui. Allora, egli sa con chiara certezza di non conoscere né il Sole né la
Terra, ma appena un occhio che vede un sole, e una mano che sente il contatto
di una terra; egli sa che il mondo da cui è circondato non esiste che come
rappresentazione, vale a dire sempre e dappertutto in rapporto a un altro, a colui
che rappresenta [...]. Tutto ciò che esiste per la conoscenza – dunque questo
mondo intero – è solamente oggetto in relazione a un soggetto, intuizione di chi
intuisce; in una parola, rappresentazione. ”
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L’intero mondo è rappresentazione, ed essa ha due metà indisgiungibili - soggetto
e oggetto - del tutto inseparabili fra loro.
Ciascuna delle due “non ha senso né esistenza se non per mezzo dell’altra e in
ordine all’altra, ovvero ciascuna esiste con l’altra e con essa dilegua”.
Schopenhauer, quindi, rifiuta tanto la posizione del materialismo – che tutto
riduce, compreso il soggetto, a mera materia – quanto il realismo – secondo il
quale il reale, esterno a noi, si rispecchierebbe, così come esso è, dentro di noi.
Se egli rifiuta, in effetti, anche l'idealismo degli autori che abbiamo affrontato nei
mesi scorsi, da Fichte a Hegel, sulla scorta di Kant afferma che “non può in alcun
modo darsi un’esistenza assoluta in se stessa obiettiva; essa è impensabile. Tutto
ciò che è obiettivo ha sempre ed essenzialmente, come tale, la sua esistenza nella
coscienza di un soggetto, è quindi la sua rappresentazione ed è condizionato dal
soggetto e dalle sue forme rappresentative, le quali ineriscono, come tali, al
soggetto e non all’oggetto”.
È, come con Kant, l’uomo che organizza e mette in ordine la realtà dei
fenomeni, costituita da disordinate rappresentazioni. Ma secondo quali
principi lo fa?
Kant, come ben sapete, a questo riguardo aveva individuato le forme pure
dell’intuizione sensibile, cioè lo spazio e il tempo, e le dodici categorie
dell’intelletto. Schopenhauer mantiene le prime, spazio e tempo, riducendo le
dodici categorie ad una sola: la causalità (o “principio di ragione” o “ragion
sufficiente”).
Il tempo fa sì che i fenomeni si diano secondo il nesso della successione, mentre
lo spazio secondo quello della posizione.
Ogni nostra sensazione è “spazializzata” e “temporalizzata”: su queste sensazioni,
poi, interviene l'intelletto mettendole in ordine tramite la categoria di causalità.
“
È solo quando l’intelletto entra in attività e applica la sola e unica sua forma, la
legge di causalità, che ha luogo un’importante trasformazione e la sensazione
soggettiva diventa un’intuizione obiettiva. Esso infatti in virtù della forma che gli è
propria, e quindi a priori [...] prende la sensazione organica data come un effetto
[...] il quale deve necessariamente, come tale, avere una causa [...] l’intera
esistenza di tutti gli oggetti, in quanto oggetti, rappresentazioni e null’altro, in
tutto e per tutto fa capo e quel loro necessario e scambievole rapporto. ”
L’intera e sola realtà dell’oggetto è la sua capacità di agire causalmente su altri
oggetti: a questo riguardo Schopenhauer mette a partito anche la lingua tedesca,
nella quale il termine normalmente tradotto con l’italiano “realtà” (wirklichkeit)
deriva dal verbo wirken: “agire”!
La causalità, naturalmente, risulta strettamente legata al tempo (cosa “ovvia”: la
causa viene prima dell’effetto), ma anche lo spazio.
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“ il cambiamento che sopraggiunge secondo la legge causale concerne [...] ogni
volta una determinata parte di spazio e una determinata parte del tempo,
simultaneamente e insieme; perciò la causalità congiunge lo spazio col tempo. ”
Non di poca importanza è la sottolineatura di Schopenhauer della categoria di
causa: il principio della necessità domina, a suo avviso, tanto il mondo delle cose
quanto quello umano.
In effetti la necessità causale si manifesta su quattro livelli:
1.
2.
3.
4.
necessità fisica - la causalità come essa emerge nei fenomeni della natura;
necessità logica - la causalità come essa emerge nei ragionamenti scientifici
elaborati dagli esseri umani;
necessità dell'essere (matematica) - la causalità in quanto essa emerge nei
rapporti che si costituiscono nel tempo e nello spazio, ciò che sta alla base di
matematica e geometria.
necessità morale - la causalità in quanto emerge nel comportamento morale
dell'uomo, nel suo agire personale.
Le quattro forme del principio di causalità strutturano rigidamente l'intero
mondo della rappresentazione, uomo compreso: l’uomo, come fenomeno, sottostà
alla comune legge di tutti i fenomeni, ciò che esclude la libera volontà: come un
animale, l’uomo agisce necessariamente in base a cause.
Attenzione però! Se nei primi tre livelli tanto la causa quanto l’effetto
permangono all’interno del mondo come rappresentazione, un mondo determinato
in modo del tutto rigido, meccanicistico, il quarto livello costituisce una
eccezione. Ogni azione umana è determinata da una motivazione: ecco però che è
possibile conoscere (in termini compiutamente scientifici) solo l’azione nella sua
esteriorità, non la sua causa, il suo motivo, che “sprofonda” nell’intimità del
soggetto. Tutto ciò che è motivo per l’uomo è da ricondursi a dinamiche interiori
all’individuo, dunque a qualcosa che sfugge alla rappresentazione.
Da tutto questo emerge che, se è possibile prevedere con esattezza un fenomeno
fisico, la conclusione di un ragionamento logico, un risultato di carattere
aritmetico o geometrico, lo stesso non accade per quanto riguarda il
comportamento umano.
Prima di approfondire la questione, un’altra precisazione.
Contrariamente a quanto potrebbe sembrare, Schopenhauer non svaluta la
conoscenza, il sapere fenomenico, ma ne afferma il carattere pratico e
condizionato.
Chiariamo meglio: a suo avviso la conoscenza scientifica non deve ambire a
cogliere l’essenza delle cose, ma deve limitarsi a quanto può effettivamente
fare: rispondere agli interessi pratici degli uomini. Essa non deve scoprire le
cause genetiche dei fenomeni, visto che non è in grado di farlo, essa deve solo
descrivere questi ultimi. In effetti, la scienza galileiana propone proprio questo!
La spiegazione scientifica può, cioè, solo mostrare due rappresentazioni nel
loro reciproco rapporto (di causa ed effetto): non può rispondere ad alcun
vero perché. La scienza descrive, coordina, organizza i molteplici fatti
dell’esperienza, fatti puramente fenomenici, e questo è sufficiente per la
maggior parte dei bisogni pratico-esistenziali dell’uomo.
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Ben diversa, se ricordate, la posizione di Kant. Egli aveva fatto coincidere la
conoscenza con la conoscenza scientifica, conoscenza che non può oltrepassare
affatto la sfera dei fenomeni.
Schopenhauer dice, invece, che l’uomo può guardare al di là dei fenomeni: se
è vero che non può avene scienza della realtà in sé, può però averne
conoscenza.
Strumento di questa conoscenza è l’intuizione, non il pensiero razionale, e la
filosofia può impiegarla per conoscere ciò che né i sensi né la scienza sono in
grado di cogliere. Ecco in che senso Schopenhauer afferma che “la filosofia
comincia dove la scienza finisce.” Essa, cioè, risponde a domande non
meramente pratiche, domande che, però, sono ineludibili.
L’uomo infatti vuole conoscere il significato della rappresentazione, vuole
conoscere in profondità, in interiorità, l’essenza del mondo e di sé, ma tale
significato è ben diverso dalla rappresentazione e non obbedisce alle sue leggi.
Il sapere oggettivo, la scienza, non è in grado di squarciare il velo di Maja.
C’è, però, dell’altro...
VOLONTÀ
Per Schopenhauer è possibile giungere al noumeno, la realtà in sé, e la via che ad
esso conduce è una specie di "passaggio sotterraneo" che permette di espugnare
una fortezza che, finché attaccata dall'esterno, sarebbe sempre restata
imprendibile.
Di che via si tratta?
L'essere umano non è solo un soggetto che, tramite l’intelletto, elabora i
rapporti fra le rappresentazioni, ma è anche corporeità.
Ciascuno di noi può scoprire il proprio corpo in superficie, cioè in termini
fenomenici, esattamente come si fa con qualunque oggetto fisico esteriore.
Ci sono io - un soggetto che osserva - è c'è la mia mano - l'oggetto osservato, qui
davanti a me, a mezzo metro dai miei occhi.
Il corpo proprio, però, può essere conosciuto anche in un altro modo. La mia
mano - per stare a questo unico esempio - non è solo qualcosa che, posto a
distanza e dunque osservato, diventa un oggetto per un soggetto. C'è di più: la
mano è la mia mano, appunto, sono io, e la sento prima e al di là di qualunque
distanza soggetto - oggetto!
La mia mano, il mio corpo tutto, non è semplicemente e solamente un oggetto in
mezzo ad altri, ma sono io medesimo. Quella distanza che sola consente a un
soggetto di conoscere un oggetto è così annullata.
Analizzando, o meglio, sentendo il proprio corpo, l’uomo scopre gli impulsi
che vi si agitano: passioni, desideri, gioie e sofferenze, slanci, timori...
Schopenhauer ritiene che tutto ciò rimandi a qualcosa che lui qualifica con un solo
nome: "Volontà".
Il corpo, il corpo di tutti e di ciascuno è, per Schopenhauer, Volontà
oggettivata. Ciascuno di noi sente che "l'intima essenza del proprio fenomeno [...]
non è altro che la sua volontà, la quale costituisce l'oggetto immediato della sua
propria coscienza".
L'immersione in noi stessi ci fa scoprire che siamo, appunto volontà. Ma non solo
questo! Tale immersione, infatti, "squarcia il Velo di Maja" consentendoci di
riconoscerci come parte di un'unica Volontà, un unico "cieco e irresistibile
impeto" che pervade e forma l'universo tutto, in tutte le sue manifestazioni.
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Tutte le forze che si mostrano in natura sono manifestazioni di quest’unica
forza, che là dove è più chiara e distinta (cioè nell'essere umano) prende
appunto il nome di “volontà” (attenzione, quindi, a distinguere bene la Volontà
dalla volontà!).
“ volontà vedrà [...] nella forza che fa crescere e vegetare la pianta; in quella che
dà forma al cristallo; in quella che dirige l'ago calamitato al nord; nella
commozione che prova al contatto di due metalli eterogenei; nella forza che si
manifesta nelle affinità elettive della materia in forma di repulsione e attrazione,
di combinazione e decomposizione; e persino nella gravità, che agisce con tanta
potenza in ogni materia e attira la pietra a terra come la terra al cielo ”
La Volontà è la oscura e terribile energia del mondo che si oggettiva (cioè si
manifesta nella forma dell'oggetto) in forme di complessità crescente.
"Cosa in sé è soltanto la Volontà": essa è una forza cieca e a-razionale (né
razionale né irrazionale, quindi!), non riducibile nelle categorie della ragione e
dello spazio-tempo, e che proprio per questo elude la scienza e il suo sapere.
Essa è un tendere che ricorda la dolorosa inquietudine della libido freudiana.
Approfondiamo!
Se, da una parte, la Volontà alimenta la vita di tutti gli esseri, dall’altro essa è
sorgente di conflitto permanente. Essa è come una insoddisfazione che nulla
riesce mai a saziare e, in quanto tale, dà luogo a complessità di manifestazioni
sempre mutevoli e crescenti nel dominio delle forze, della natura fisica, della
natura animale e di quella umana. Volontà “è quella che appare nella forza
naturale, cieca, e quella che si manifesta nella condotta ragionata dell'uomo;
l'enorme differenza che separa i due casi non concerne se non il grado della
manifestazione; l'essenza di ciò che si manifesta ne rimane assolutamente intatta”.
Tale lotta universale raggiunge il suo massimo nel regno animale, dove ogni
essere tende ad annullare l’altro, per imporsi. Questo accade perché, simile alla
libido di Freud, la Volontà è una forza che non obbedisce ad alcuna ragione e che
insegue la pura e semplice affermazione di sé, senza curarsi di nulla!
Occorre capire che la Volontà non ha alcun fine ultimo, alcuno scopo, alcun
risultato da conseguire: l’aspirare, il tendere infinito e mai sazio è la sua sola
essenza.
VOLONTÀ E UOMO
La radice dell’infelicità, così largamente presente nel mondo fenomenico,
trova spiegazione nel fatto che l’infinita energia della Volontà si può
manifestare solo in modi finiti che, in quanto tali, non sono mai una adeguata
oggettivazione della Volontà stessa.
Ecco, allora, che Schopenhauer si chiede: chi è, alla fine, l’essere umano? Egli
è il più bisognoso degli esseri, sempre bramoso di qualcosa che, nella sua
finitudine, mai potrà avere.
Egli manca - e manca costitutivamente, non in modo accidentale! - di qualcosa.
La mancanza è la sua vera cifra.
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Egli aspira continuamente e continuamente oscilla fra il dolore e la noia.
Perché questo accade? Diciamo così: quando l'essere umano non si sente
"realizzato" - quando cioè la sua personale volontà tende a un oggetto ancora non
posseduto, uno scopo ancora non raggiunto - egli soffre, prova dolore per questa
mancanza. Quando però, finalmente, l'uomo ottiene ciò che desiderava, ecco che
ben presto subentra la noia e, subito dopo, un nuovo desiderio di ulteriore
realizzazione (e, con esso, di nuovo il dolore!). Quando ottengo ciò che voglio,
ben presto comincio a volere qualcos'altro!
“ Il fine, in sostanza, è illusorio: col possesso, svanisce ogni attrattiva; il desiderio
rinasce in forma nuova, e, con esso, il bisogno; altrimenti, ecco la tristezza, il
vuoto, la noia, nemici ancor più terribili del bisogno ”
Ecco che l’esistenza umana non ha un senso, un fine: l’uomo somiglia ad un
orologio, che viene caricato e cammina senza sapere il perché.
Non che il sapere, di per sé, possa essere un "sollievo":
“ man mano che la conoscenza diviene più distinta, e che la coscienza si eleva,
cresce anche il tormento, che raggiunge nell'uomo il grado più alto, quanto più
l'uomo è intelligente; l'uomo di genio è quello che soffre di più ”
Nei Parerga e Paralipomena, Schopenhauer mette ulteriormente a fuoco le sue
riflessioni sulla condizione umana, "rincarando la dose". Se nell'ambito della
società civile l'uomo appare una creatura addomesticata e mite, al fondo egli resta
la più feroce delle creature: “L'uomo è l'unico animale che faccia soffrire gli altri
per il solo scopo di far soffrire” e ancora “l'uomo è un animale da preda, il quale
non sì tosto ha spiato accanto a sé un essere di lui più debole vi piomba sopra”.
Infine accade che “[...] la vita di ogni individuo è una continua lotta, e non solo la
lotta metafisica col bisogno o con la noia, ma anche lotta reale con gli altri
individui. Egli trova a ogni passo il suo avversario, vive in una continua guerra e
muore con le armi in mano”.
L'UOMO, LA MORTE E L'AMORE
Nella misura in cui la società non è che la somma di molti individui, essa
condivide il destino del singolo.
L’individuo stesso considera spesso la vita come insopportabile, una strenua
battaglia destinata alla sconfitta, alla morte. La morte è, in effetti, ineluttabile e
nessun piacere può far dimenticare questo "traguardo". Ogni atto diventa una sorta
di compromesso, di equilibrio instabile fra la vita e la morte. La vita è solo una
morte rinviata. L’esistenza temporale dell’uomo altro non è che un perenne
morire.
Il pessimismo di Schopenhauer non si ferma neppure di fronte a un
sentimento come l’amore – sentimento che ognuno di noi potrebbe, forse,
portare come esempio teso a dimostrare che nella vita dell’uomo vi può anche
essere una positiva pienezza, e non solo mancanza. L'amore è invece visto da
Schopenhauer in termini che possono risultare sconcertanti.
L’amore lusinga e incanta, certo, e Schopenhauer stesso gli dà grande importanza,
ma in realtà esso è una sorta di trucco cui la Volontà oggettivata nella specie
umana ricorre al solo e unico scopo di perpetuare la specie medesima!
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L’amore, con tutto ciò che lo circonda e gli dà sostanza, altro non sarebbe che uno
stratagemma biologico!
“ Ogni innamoramento, per quanto etereo voglia apparire, affonda sempre le sue
radici nell’istinto sessuale. ”
“ Se la Passione del Petrarca fosse stata appagata, il suo canto sarebbe
ammutolito... ”
È per questo che che l’amore come atto procreativo, come atto sessuale, viene
inconsapevolmente avvertito come “peccato” e “vergogna”: accade questo perché,
seppure oscuramente, l’essere umano percepisce in quest’atto il cieco egoismo
della Volontà, così come sente il prepararsi di una infelicità nuova.
Quella di Schopenhauer, però, non è una condanna dell’amore tout court: egli,
infatti, tesse l’elogio di un’altra forma di amore, non l’egoismo dell’eros, ma
l’altruismo della pietas.
Molti studiosi hanno ascritto questa cupa analisi dell’uomo che Schopenhauer
propone alla nostra riflessione alla crisi di valori seguente l’epoca della
Restaurazione, ma ciò non basta.
La tematica che Schopenhauer affronta, quella dell’uomo ontologicamente
mancante sarà la base dell’Esistenzialismo. L’appartenenza dell’uomo alla morte
precorre “l’essere per la morte” di Martin Heidegger, così come la nozione di una
storia priva di un senso è anticipatrice della polemica anti-storicistica del grande
Friedrich Nietzsche.
La vita è, comunque, dolore, al di là di ogni inganno. Lo conferma questa
bellissima citazione:
“ Nella vita umana, come in ogni cattiva mercanzia, il lato esterno è mascherato
con falso splendore: sempre si cela ciò che soffre; mentre ciascuno... quanto più
interna contentezza gli manca, tanto più desidera nell’opinione altrui passare per
felice ”
L'UOMO, IL SUICIDIO E IL PESSIMISMO
Si potrebbe pensare che, partendo da simili premesse, Schopenhauer possa
essere una sorta di difensore o propositore del suicidio. Al contrario, egli lo
condanna esplicitamente!
Il suicidio non è in alcun modo una fuga dalla Volontà, un suo rifiuto, ma, al
contrario, è una fortissima affermazione di Volontà: il suicida infatti non rinuncia
alla vita, egli invece vorrebbe vivere diversamente! Egli non nega la propria
volontà, e dunque il dolore, ma solo la sua vita così come essa è.
La cosa in sé, il noumeno, è volontà cieca, a-razionale, priva di scopo: tutto
questo conduce all'esito, evidentemente pessimistico, che abbiamo or ora
tratteggiato.
Vi è in Schopenhauer un pessimismo metafisico - come abbiamo detto, l'interno
universo è del tutto privo di scopo, è solo una sorta di immenso campo di battaglia
del tutto privo di qualunque razionalità - un più specifico un pessimismo sociale e
storico - la società è dominata dall'egoismo e la storia non ha alcuna finalità - e un
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ancor più specifico pessimismo esistenziale - la morte è l'orizzonte unico per ogni
vita, il piacere è solo assenza di dolore e l'unica reale alternativa al dolore stesso è
la noia.
LA LIBERAZIONE DELL'UOMO
Ma non c'è alcuna speranza? L’uomo non può, in qualche modo, sfuggire
all’infelicità, al dolore, alla noia? Sì, può farlo!
Se l’uomo è infelice, la causa è da ricercarsi nella sua dipendenza dalla volontà:
essa lo rende individualistico e interessato, incapace di conciliarsi con gli altri
esseri, di comprendere e contemplare il senso profondo delle cose, di vivere
un’esistenza libera dai desideri terreni.
-1Ecco che il primo modo di superare questa condizione è la conoscenza.
Ovviamente non la conoscenza scientifica la quale, come abbiamo visto, ha solo
un valore pratico e strumentale, ma quella disinteressata, contemplativa, che
permette all’uomo di giungere all’intuizione delle Idee, quelle immaginate dal
"divino Platone", che sono la più piena oggettivazione della Volontà, essenze
universali che trascendono ogni particolare.
Le Idee non fanno parte del mondo della rappresentazione e, in quanto tali,
sono del tutto sottratte a ogni determinazione di tipo spaziale (l'Idea dunque esiste,
ma non in un punto spaziale determinato o determinabile) e temporale (l'Idea
esiste, ma non in un certo tempo determinato). Ecco che ogni Idea è
perfettamente singolare, unica, e la pluralità di oggetti simili ha luogo, nella
rappresentazione, solo attraverso quei prismi moltiplicatori che spazio e tempo
sono: non a caso il singolo individuo è, nei confronti della specie e del genere, del
tutto irrilevante.
-2Il traguardo di una più compiuta liberazione dal "giogo" della volontà, più che con
la conoscenza comunemente intesa (la quale è, pur sempre, manifestazione di
volontà), si raggiunge con l’arte.
L’arte, infatti, libera l’uomo dalla propria individualità, produce
quell’annullamento per cui non si è più consapevoli di sé, ma solo degli oggetti
intuiti.
L’uomo, attraverso l’arte, può distanziarsi da bisogni e interessi, dalla volontà che
ci alimenta, sì, ma che ci determina come esseri finiti.
L’arte ci permette di guardare le cose in modo nuovo, di spogliarle del loro
principio di individuazione, cioè di quanto in esse è effimero, e di contemplare in
esse l’Idea, l’universale.
L’arte allontana così l’uomo dall’imperfezione e dal dolore del mondo dei
fenomeni.
Fra le varie forme artistiche, quelle che più permettono questa elevazione sono, ad
avviso di Schopenhauer, la tragedia e la musica.
-3L’arte, tuttavia, se garantisce un "attimo di conforto", non può redimere del
tutto. Perché questo avvenga ci si deve completamente liberare dalla volontà e
ciò si può ottenere non con la teoresi contemplativa, ma con la pratica.
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L’uomo deve a questo scopo mettere in atto tutti i cosiddetti “quietivi”, ovvero
quelle forme di comportamento pratico che deprimono la volontà.
Ma come può la volontà, quella volontà che l'uomo è, negare se stessa?
Schopenhauer non risponde pienamente a questa domanda.
Sono, comunque, utili quietivi tutte le auto-negazioni psichiche e fisiche.
Lo sono, nello steso modo, anche quei comportamenti che conducono a superare
la considerazione della propria individualità, come la giustizia e la compassione.
Il quietivo più radicale ed efficace è però quello ascetico, per cui tutte le forme
positive di vita vengono soppresse, tutte le determinazioni individualizzanti
svaniscono insieme a tutte le pulsioni vitali, fino a raggiungere la “nolontà”.
La nolontà non è tanto un atto, ma uno stato.
Questa sorta di ascesi non ha il carattere di pienezza dell’ascesi mistica cristiana,
la contemplazione del divino, ma porta anzi all’annullamento delle
rappresentazioni, alla negazione della volontà, dunque porta alla contemplazione
del nulla.
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