n. 26 del 24 ottobre 2016 - Ministero degli Affari Esteri e della

CIRCOLO DI STUDI DIPLOMATICI
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Quaderni di Politica Internazionale
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La Sapienza 24 ottobre 2016
1. L’Asia centrale, crocevia tra Est e Ovest?
(Amb. Jolanda Brunetti)
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2. Cina e Asia Centrale
(Amb. Alessandro Quaroni)
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L’Asia centrale, crocevia tra Est e Ovest?
Amb. Jolanda Brunetti
(La Sapienza, 24 ottobre 2016)
Alla dissoluzione dell’Unione Sovietica apparvero sul piano internazionale i suoi Stati membri
molto spesso poco conosciuti dal pubblico perché in parte coperti da segreto di Stato. Tra questi i
paesi del Caucaso e quelli dell’Asia centrale che si estendono grosso modo dal Caspio alla Cina.
Questi ultimi avevano avuto nel passato una storia comune quali parti di uno stesso territorio, ma
la loro identità finale di Stati dell’Unione Sovietica, corrispondeva solo parzialmente alla realtà
delle loro società spesso etnicamente molto miste. Nel tempo però la loro stessa identità territoriale
e la politica sovietica hanno influenzato la natura delle loro società orientandole diversamente in
attività e stile di vita, tanto da differenziarne il carattere. Dal momento dell’indipendenza quindi i
cinque Paesi hanno seguito indirizzi di sviluppo diversi anche se ancora sotto il dominio delle élites
che li guidavano durante il periodo sovietico.
Alcuni tratti però sono rimasti comuni: quattro delle cinque repubbliche centrasiatiche sono
abitate da popolazioni di origine turca (anche se è evidente una contaminazione mongola nel
Kazakhstan che accentua il taglio a mandorla degli occhi) e anche le lingue parlate risentono della
matrice turca. La quinta, il Tajikistan è invece di lingua persiana.
Naturalmente tutti gli abitanti avevano dovuto convertirsi alla lingua russa e rinunciare almeno
formalmente alle religioni che nel loro caso era prevalentemente l’Islam, ma almeno avevano
raggiunto un alto grado di alfabetismo, e una rete di comunicazioni terrestre molto più avanzata che
nei territori vicini.
Vivendo in quei Paesi specialmente nel momento dell’indipendenza si aveva l’impressione molto
netta che il “razzismo” dei Russi che li consideravano estranei e in sostanza inaffidabili, li avesse
preservati da una pressione politica che invece era molto sensibile in Ucraina, Bielorussia e altri
paesi dell’Est, più vicini a Mosca. Il Caucaso e l’Asia centrale erano stati lasciati cuocere nel loro
brodo, cosicché allo scoccare dell’indipendenza, si erano ritrovati con gli stessi clan e leader che
avevano conquistato il potere sotto il precedente sistema.
Per altro, la relativa libertà politica (di gestirsi secondo linee tradizionali, nel quadro del sistema
sovietico) non si era estesa ad una corrispondente libertà economica che invece era stata del tutto
soppressa integrandoli in un sistema di sviluppo sovietico globale, che aveva non solo mancato di
rispettare i talenti e le tradizioni locali (commercio, artigianato, orticoltura), ma persino la loro
geografia, con conseguenze aberranti. Tipico il disastro ambientale del lago d’Aral, privato delle
acque dei naturali affluenti: l’Amu Daria e il Syr Darya la cui portata era stata deviata in mille
canali e utilizzata in modo massiccio nella coltivazione del cotone. Praticamente una monocoltura in
Uzbekistan, nel sud del Kazakhstan e persino nel montuosissimo Tajikistan al cui sviluppo era stata
dedicata scarsa attenzione
Il Kazakhstan desolato, freddo ed estesissimo era stato utilizzato principalmente per la comune
industria pesante e per gli impianti di lancio di satelliti. Ma anche il Tajikistan contribuiva alle
necessità generali con un gigantesco impianto per la lavorazione dell’alluminio, per il quale veniva
importata bauxite dalla Nuova Zelanda.
Ma fu durante la seconda guerra mondiale che più forti cambiamenti si verificarono tra gli Stati.
I due paesi più grandi: Uzbekistan e Kazakhstan ebbero una grande opportunità di progresso:
vennero scelti rispettivamente come “buon ritiro” per le scuole d’arte sovietiche al riparo dalla
invasione tedesca, e per le fabbriche belliche. Questi trasferimenti che durarono alcuni anni hanno
lasciato nei due paesi tracce importanti e positive, ad esempio nel campo musicale e nel teatro sia
operistico che di prosa in Uzbekistan.
Mentre nel passato si conosceva l’importanza della via della seta cui l’Uzbekistan aveva
contribuito specialmente con tre meravigliose città e il loro artigianato: Samarcanda, Bukhara e
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Khiva - e anche con altri monumenti sfortunatamente spesso devastati dalle guerre locali - le
ricchezze energetiche e minerarie sono state una scoperta relativamente recente e comunque il loro
sfruttamento intensivo sta avvenendo progressivamente in tutta l’Asia centrale.
Il Kazakhstan è sicuramente il più ricco di idrocarburi, anche se sembra che sotto il Tajikistan ci
sia anche un mare di petrolio (non so quanto difficile da estrarre).
In Uzbekistan idrocarburi, uranio, oro e altri minerali rappresentano anche una ricchezza
significativa.
Ho già descritto alcuni tratti comuni tra le varie repubbliche:
la continuità con forme di governo precedenti che rallentano l’affermarsi di istituti democratici; la
presenza di una corruzione molto capillare e progressivamente più grave che inceppa - attraverso
una pubblica amministrazione pesante e macchinosa - la vita economica e sociale; l’assenza della
società civile; inoltre lavorano contro il progresso e lo sviluppo, vecchi pregiudizi comunisti verso
una accumulazione capitalistica (anche se legittima) ed il profitto in quanto tale. Abbiamo potuto
constatare di persona l’interruzione di nascenti attività di ristorazione in località turistiche di
montagna, in periodi di maggior afflusso di sportivi, per prolungati controlli finanziari che di fatto
impedivano il decollo dell’impresa, e altri ostacoli alla piccola iniziativa privata.
Questa non è stata per molto tempo valutata positivamente perché l’abitudine di pensare in
grande, a grossi gruppi industriali hanno fatto preferire investimenti ad esempio di Coca Cola, di
British Tobacco o di Hyunday.
Questa tendenza che accomuna le società e i Governi locali, appare evidente dalla sorte delle
joint ventures con stranieri che, impostate su di un contributo di esperienza e finanze del socio
esterno e di personale e servizi del socio locale, si sfasciano appena raggiunto il momento della loro
sostenibilità autonoma, nella presunzione del socio asiatico di poter oramai fare a meno dell’altro.
Del resto anche i Governi mentre sono abilissimi nell’individuare tendenze politiche o rischi
internazionali che potrebbero limitarne le scelte, hanno grande difficoltà a lasciare un sufficiente
margine di libertà alla sfera economica nazionale per timore di ricadere sotto il predominio di forze
straniere o anche solo dell’altalena del mercato, che considerano un pericolo per la loro
indipendenza. Questo è sicuramente vero per l’Uzbekistan, che dopo un periodo di avvicinamento
politico all’America, ha avviato un riavvicinamento anche alla Russia (prima esecrata) dove
lavorano migliaia di Uzbeki, mantenendo un asfissiante controllo dell’economia nazionale.
E’ anche vero che aprire ai grandi gruppi industriali consente anche una più facile supervisione
sul potere progressivamente da essi acquisito nella società e nell’economia, che può eventualmente
essere bloccato. Più difficile controllare tante piccole imprese eventualmente distribuite sul
territorio.
Un altro tratto comune è la sfiducia reciproca. Malgrado le manifestazioni di fratellanza tra i
leader, esiste un continuo sospetto non tanto sulle loro intenzioni possibilmente ostili, quanto
sull’incapacità di controllo delle loro istituzioni e quindi il timore di contagi estremisti o malavitosi.
E’ il caso di Uzbekistan e Tajikistan o Uzbekistan e Kyrghyzstan, cui gli Uzbeki rimproverano di
non saper controllare i movimenti estremisti che sconfinano nella valle di Fergana, da sempre molto
irrequieta e filoislamica.
Dunque non è facile superare gli egoismi e i timori reciproci per affrontare insieme progetti che
richiederebbero un atteggiamento compromissorio e misure concertate.
E’ quello che ha rallentato il progresso del programma TRACECA: Transport corridor europecaucasus-asia) creato su impulso dell’UE nel 1993 per stabilire un sistema di trasporto multimodale
nei paesi della regione, con l’intento di sviluppare relazioni economiche e commerciali tra i membri
e con l’Europa.
Se completamente realizzato esso permetterebbe il transito di merci dall’Asia orientale verso
Asia centrale, Caucaso, ed Europa con vantaggio di tutti, ma il superamento di dogane, restrizioni,
visti, pedaggi e controlli, non hanno permesso fino ad ora di far maturare i frutti di questo
lungimirante esperimento, nonché i progetti di sviluppo connessi.
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Obbligati nell’Unione Sovietica ad un solidarismo di facciata, una volta lasciati liberi da quel
giogo, i paesi dell’Asia centrale rifiutano una collaborazione tra loro ed ambiscono a piani
individuali di sviluppo seppure con il concorso delle Organizzazioni internazionali.
Quanto all’allineamento politico o agli interessi di Russia, USA, e Cina, è sicuro che la Cina che
si è avvicinata ai confini con l’Asia centrale già da tempo con autostrade e strade ferrate, per poter
sfruttare il “ land bridge” verso l’Europa riducendo il tempo di percorrenza, è più interessata alle
opportunità offertele dal Kazakhstan, i cui grandi spazi per l’esuberante popolazione cinese
rappresentano una forte attrazione, dopo le risorse energetiche cui già attinge abbondantemente.
Del resto la relativa impermeabilità dell’Uzbekistan lo ha privato di quel ruolo naturale di
crocevia obbligato che deteneva storicamente, lasciando al Kazakhstan la possibilità di diventare la
via di transito tra Cina, Russia ed Europa del nord. Tanto più che Astana mantiene con Mosca un
rapporto disteso, e sembra piuttosto indirizzata a creare una società ricca piuttosto che morale,
mentre l’Uzbekistan insiste sulla costruzione di una società solidale e nazionalista, anche se
purtroppo non scevra da corruzione.
Gli altri tre Paesi, Tajikistan, Khirghizstan, Turkmenistan, hanno popolazioni minori intorno ai
cinque milioni ognuno, ma spesso interessanti risorse naturali.
Il Tajikistan dopo una lunga guerra civile finita nel 1998 è da tempo pacificato, ma risente
dell’andamento del vicino Afghanistan che tra l’altro ospita tra le sue maggioranze un rilevante
contingente Tajiko proprio nella regione confinante. La Russia ha sempre “tutelato” il paese
lasciando anche truppe alla frontiera con l’Afghanistan, che alla fine sono cadute nel vortice del
commercio della droga. E’ un paese tuttora poco sviluppato, ma con una natura montana splendida.
Il Kyrghyzstan è povero, ma ha importanti riserve di acqua che usa come baratto con energia dei
Paesi confinanti e al contrario dei grossi vicini ha avuto molti mutamenti di governo.
Il Turkmenistan, molto conservatore, desertico e isolato, possiede grandi riserve di gas e petrolio,
ma ha da tempo scelto una posizione defilata sottraendosi ad alleanze o organizzazioni
internazionali comuni.
In conclusione, malgrado le ricchezze e le necessità dell’area non si può essere molto ottimisti
sulla velocità di sviluppo dei cinque paesi, per i motivi che sono venuta illustrando. Peraltro gli
Europei hanno sicuramente molte opportunità di trovare interesse e possibili partners in Asia
centrale sia perché la Cina non è ancora penetrata profondamente in quelle società, come invece è
già successo in Asia sudorientale, sia perché la rivalità tra USA e Russia agisce da contenimento
esterno delle loro ambizioni economiche, ma anche perché quei popoli hanno già provato la tutela
di una grande potenza e sono cresciuti nel timore del dominio americano.
Inoltre non va dimenticata la rivalità tra Iran e Turchia, Paesi che entrambi tentano di giocare un
ruolo egemone nella regione, ma dai quali i governi locali si guardano, anche se in misura diversa.
Recentemente è comunque la Cina il fattore più rilevante nei movimenti geopolitici dell’Asia, sia
centrale che del sud-sud est. Con piani di sviluppo strategici per i suoi commerci, Pechino si
propone di ricreare la via della seta (one road one belt) investendo pesantemente in infrastrutture
importanti sia terrestri che marittime, fino all’Oceano Indiano e all’Europa, aprendo la sua parte
continentale verso occidente, con linee di trasporto anche energetico. Così pragmaticamente,
Pechino ha creato la Banca Asiatica per le Infrastrutture, dotata di ampie disponibilità finanziarie e
sta investendo nella sua Marina anche militare per difendere le sue linee di comunicazione con il
mondo, mentre anima la SCO, la Shanghai Cooperation Organization che risponde alla richiesta di
attenzione al fenomeno dell’estremismo islamico, insieme ad altri Paesi asiatici.
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Cina e Asia Centrale
Amb. Alessandro Quaroni
(La Sapienza, 24 ottobre 2016)
L’Asia Centrale è costituita oggi, nella sua accezione più comune dalle cinque repubbliche
(Kazakhstan, Kirghizistan, Uzbekistan, Turkmenistan e Tagikistan) sorte in epoca sovietica con
confini alquanto problematici che solo dopo l’indipendenza hanno subìto un processo di definizione
e di aggiustamento. Si tratta di un immenso territorio che dal punto di vista storico-culturale ha
collegamenti con l’Iran, l’Afghanistan, la Turchia, la Russia e la Cina. Ha avuto per millenni un
ruolo quanto mai importante come via di transito privilegiata dei commerci tra Oriente ed Occidente
lungo la cosiddetta Via della Seta. Quasi completamente islamizzata a partire dal X secolo, abitata
prevalentemente da popolazioni turche, ma con un importante componente iranica, l’Asia Centrale
ha avuto a lungo un posto importante nel mondo musulmano, come testimoniano i magnifici centri
di Samarcanda e Buchara. Ha conosciuto un profondo declino in seguito al mutamento delle rotte
commerciali, ma nel corso della dinastia cinese dei Qing, a partire dalla metà del XVII secolo, è
passata sotto il controllo cinese, con la conquista della vasta regione del Turkestan orientale, parte
vitale della sicurezza dei confini dell’Impero. Solo a metà del XIX secolo, l’Impero russo, seguendo
la sua logica di espansione, penetrò in pochi decenni questa regione che fu incorporata nell’Impero.
Il Trattato di San Pietroburgo del 1881 stabilì la nuova frontiera tra Cina e Russia e nel 1884 il
Xinjiang – immensa regione orientale dell’odierna Cina – fu formalmente confermata come nuova
provincia dell’Impero Cinese.
Per tutto il periodo dell’esistenza dell’Unione Sovietica i rapporti tra le Repubbliche
centroasiatiche e Pechino rimasero assai limitati, passando ufficialmente tramite Mosca. Nel 1991,
al momento dello scioglimento dell’URSS, la Cina non aveva una particolare esperienza per
l’impostazione di tali rapporti e si palesò ben presto il pericolo che si creasse nella regione un
vacuum di sicurezza (temperato da una perdurante presenza militare russa) che avrebbe potuto
minacciare la provincia cinese del Xinjiang. La Cina stabilì rapidamente rapporti con le cinque
nuove repubbliche, con le quali la sua prima e maggiore preoccupazione fu la precisa definizione
delle frontiere, nel quadro della normalizzazione dei confini (più di 2.800 km) della provincia dello
Xinjiang e sollecitando l’impegno delle nuove Repubbliche a non dare appoggio esterno alle
ricorrenti irrequietudini delle etnie turcomanne che potevano ricevere appoggio nella resistenza alla
politica di Pechino che impone alla regione una progressiva “cinesizzazione” con il costante
afflusso dell’etnia cinese preponderante Han, destinata ad assumere anche un sempre maggior peso
nella gestione dell’economia della Provincia. I due sviluppi provocano nello Xinjiang un continuo
ripetersi di resistenze e proteste, spesso represse nel sangue.
Russia e Cina videro presto la necessità di collaborare per il mantenimento dell’equilibrio in
Asia Centrale, un’esigenza che portò alla nascita dell’Organizzazione di Cooperazione di Shanghai,
fondata il 14 giugno 2001, con un segretariato che ha sede a Pechino e con il compito di vigilare
sulla sicurezza e sulle possibili infiltrazioni estremiste islamiche nella regione (un compito nel quale
la Russia mantiene un ruolo importante) ed assicurarne lo sviluppo economico e le infrastrutture,
soprattutto basato sulle ricchezze di materie prime e di idrocarburi (che interessano soprattutto la
Cina che sul piano degli investimenti ha largamente superato, nel corso degli anni, la Russia). Per la
Russia, quello che Mosca definisce ancora il “near abroad” delle repubbliche ex sovietiche
rappresenta tuttora una sfera di interessi vitali con la quale vuole rimanere in stretto rapporto
mantenendo un ruolo determinante attraverso la CIS (di cui le sei repubbliche fanno parte) e il
CSTO (Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva – che non include il Turkmenistan) ma
comprende Russia, Bielorussia ed Armenia. Nel quadro delle organizzazioni per la sicurezza sono
stati creati una struttura regionale per l’antiterrorismo ed un nuovo organismo per combattere i
crimini relativi alla produzione e al commercio della droga con sede a Tashkent.
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Nei suoi tredici anni di vita la Shanghai Cooperation Organization non è mai andata oltre i suoi
sei paesi fondatori (Russia, Cina e le repubbliche centroasiatiche, escluso il Turkmenistan), ma ha
curato un graduale allargamento di paesi osservatori, come India, Pakistan, Iran, Turchia e
Mongolia. Hanno status di partner di dialogo, la Bielorussia e lo Sri Lanka e, dal 2012,
l’Afghanistan. L’ammissione di India e Pakistan, due membri in perenne conflitto tra loro,
rappresenta certo un rischio, ma la presenza di questi due paesi, anche se divisi, nella ricerca di una
prevalente influenza nella più ampia regione asiatica, può dare alla SCO molta più autorità negli
interventi e nelle eventuali azioni che una nuova deriva estremista in Afghanistan, dopo il
sostanziale ritiro degli Stati Uniti, che è al centro delle preoccupazioni dei tre paesi confinanti con
l’Afghanistan (Turkmenistan, Uzbekistan e Tajikistan) che temono l’influenza sovversiva di un
ritorno al potere dei talebani in Afghanistan.
Di fronte alle crescenti minacce di terrorismo fondamentalista e tendenze al separatismo, che
sono alla base difensiva della nascita della SCO, l’Organizzazione ha tenuto negli ultimi anni, a
partire dal 2003, periodiche esercitazioni militari congiunte (la più ampia nel 2007, negli Urali in
Russia) per dimostrare una capacità di intervento anche militare dell’Organizzazione. Di particolare
interesse per la SCO l’inserimento dell’Iran, il cui intervento, sul piano generale, all’ultimo vertice,
ha suscitato molto interesse, affacciando la possibilità che questo paese, come ponte naturale tra
l’Asia Centrale e i mari caldi, possa esercitare un utile ruolo.
Per quanto attiene all’Afghanistan, un intervento militare russo (per passati, specifici motivi) o
della Cina, fedele al principio di non intervento negli affari interni dei Pesi, non sembrano possibili,
ma una qualche attività di contrasto della SCO alle conseguenze di nuovi terrorismi è apparsa
concepibile. La Cina è stata del resto tra i primi paesi ad effettuare missioni politiche di alto livello
per valutare la situazione e le possibilità, con aiuti economici, di portare elementi di stabilità.
Progetti della RPC di creare, attraverso nuovi canali di comunicazione e di interscambio, nuove
possibilità di sviluppo economico commerciale e di prosperità nell’area.
La dirigenza cinese si trova, in queste settimane, in un momento delicato di assestamento del
potere, stabilendo, secondo la prassi confermatasi negli ultimi quattro decenni, la futura
articolazione dei vertici (dominati ancora dal Partito Comunista) ed in particolare la posizione
dell’attuale predominio del Segretario Generale Xi Jinping che dalla sua elezione nel 2012 cumula
questo incarico con gli incarichi (largamente onorifici) di Presidente della Repubblica, di Presidente
della Commissione Militare Centrale (organo di controllo del Partito sulle FFAA), di Presidente del
Consiglio di Sicurezza Nazionale (da lui creato con larghissimi poteri di controllo sulla politica
interna ed esterna della Cina), di Presidente del “Leading Group” che determina gli indirizzi più
importanti della politica economica e finanziaria. In base alla prassi finora confermatasi, la riunione
in corso del Comitato Centrale del Partito dovrebbe confermare un secondo mandato quinquennale
a Xi Jinping, procedere ad un ampio ricambio della Segreteria del Comitato Centrale (sette membri
di cui Xi Jinping cercherà di determinare la scelta con membri a lui favorevoli) e, come si mormora
con insistenza, impostare la possibilità che l’incarico, che lui attualmente detiene, vada oltre i dieci
anni complessivi generalmente osservati.
Questo accenno ai problemi del potere serve a dare una particolare importanza al concetto di
realizzazione del “sogno cinese” con il quale Xi Jinping si sforza di compensare le tensioni
provocate in larga parte dall’opinione cinese (per quanto possa molto limitatamente esprimersi)
dalla sua gestione pesantemente autoritaria del paese, dalla assoluta prevalenza da lui resuscitata del
partito comunista nelle decisioni di fondo (senza pregiudicare naturalmente gli elementi di
economia di mercato acquisiti negli anni) dalla pesantissima campagna anticorruzione, da lui
condotta su vastissima scala, e dalle drastiche misure da lui adottate nei confronti della libertà di
informazione con la realizzazione di grandi obiettivi di espansione della ricerca di ancor più ampia
affermazione della proiezione esterna della potenza economico-commerciale (e anche finanziaria)
esterna della Repubblica Popolare.
Di questa espressione del sogno cinese fa da alcuni anni parte, il progetto lanciato, a partire dal
2013, in alcune visite ufficiali nei paesi vicini (ma anche in Europa nel Vicino Oriente e in Africa)
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di Xi Jinping e che va sotto il nome di “Belt and Road Initiative” e vuole creare, attraverso un
ampio potenziamento delle reti di infrastruttura (soprattutto ferroviaria, stradale e marittima), a
partire dalla Cina e dai paesi dell’Asia Centrale e da e verso l’Europa, il Medio Oriente, seguendo le
vecchie rotte della Via della Seta fino all’Africa Settentrionale e Centrale, potenziando anche le
vecchie rotte marittime della stessa Via della Seta attraverso il Mar Cinese meridionale e l’Oceano
Indiano che sono attualmente il principale percorso delle esportazioni cinesi e delle importazioni,
soprattutto di materie prime, vitali per l’economia cinese.
Nel presentare il progetto ai partner centroasiatici e dell’Asia Meridionale, i cinesi sottolineano
che il suo obiettivo è di portare prosperità ai molti paesi in sviluppo dell’Asia che non hanno la
capacità di sviluppare le infrastrutture di comunicazione e quelle di sfruttamento delle proprie
risorse senza l’aiuto della Cina.
Per quanto riguarda la RPC il progetto contribuirebbe ad attenuare il declino economico cinese
portato dal rallentamento della crescita e dall’impennata del suo debito pubblico. Le iniziative
infrastrutturali potrebbero creare nuovi mercati per le imprese cinesi e dare ossigeno alle banche ed
alle imprese di Stato che si lamentano con l’attuale dirigenza del PCI. La realizzazione dell’OBOR
potrebbe influire positivamente sul futuro dell’Eurasia stabilendo un collegamento più diretto tra il
Pacifico ed il cuore dell’Europa stimolando 4 trilioni di investimenti e coinvolgendo paesi che
rappresentano un 70% delle riserve energetiche mondiali.
L’OBOR comprende due parti: una serie di corridoi terrestri che la Cina indica comunemente
come la Cintura Economica della Via della Seta e la Via della Seta marittima del XXI secolo che
collegherebbe il Mar Cinese meridionale all’Oceano Indiano e al Mar Mediterraneo. L’anello
terrestre della Via della Seta collegherebbe la Cina del Nord Est Mongolia e alla Siberia con una
rete ferroviaria. La cintura marittima, attraverso il corridoio Cina-Pakistan collegherebbe il Xinjiang
al nuovo porto di Gwadar sul Mare Arabico. La Cina aprirebbe le sue regioni sud-occidentali,
attraverso l’India, il Bangladesh e la Birmania. Più a Sud la Cina sta lavorando sul cosiddetto
corridoio Cina-Indonesia che dovrebbe collegare i 600 milioni di abitanti dell’Asia sud-orientale
attraverso la Cina. Inoltre, due grandi progetti ferroviari dovrebbero collegare le provincie cinesi
dello Henan, dello Sichuan e dello Xinjiang all’Europa, attraverso l’Asia Centrale, l’Iran e la
Turchia. Un altro progetto ancora, collegherebbe la Cina all’Europa attraverso la Russia. Finora le
imprese di Stato cinesi di costruzione ed ingegneria hanno assicurato l’esecuzione e, dato
l’appoggio del Governo cinese, si sono rivelate concorrenti imbattibili.
Per i finanziamenti la Cina ha comunque creato degli Istituti finanziari ad hoc come la Banca di
Investimenti Infrastrutturali Asiatica che ha cominciato ad operare in gennaio affiancando lo
specifico Fondo Cinese per la Via della Seta e la New Development Bank, già conosciuta sotto il
nome di Banca dello Sviluppo dei BRICS. La Banca per gli Investimenti Infrastrutturali AIIB
prevede investimenti dell’ordine di 200 miliardi di $ nel prossimo decennio.
E’ forse più importante registrare che la RPC ha inserito il sostegno della iniziativa della cintura
tra gli obiettivi importanti “core projects” della sua politica estera. In questo senso va l’appoggio
all’entrata di India e Pakistan nell’iniziativa SCO e il probabile appoggio all’entrata dell’Iran nella
SCO: la Cina ha, d’altra parte, dato maggiore importanza ai suoi rapporti con la Repubblica Ceca
(che dovrebbe essere al centro del “passaggio europeo” della “strada”) ed ha confermato, con le
visite di Xi in Iran, Egitto ed Arabia Saudita il suo più forte interesse alla stabilità del Medio
Oriente, un'area nella quale, in larga misura, si era finora astenuta dall’intervenire nelle situazioni di
crisi.
Nel complesso le necessità di finanziamenti per investimenti infrastrutturali per lo sviluppo dei
paesi asiatici viene stimato in 800 miliardi di $ nel prossimo decennio, un totale al quale non è
facile vedere che la Cina possa da sola far fronte.
Nell’ottica cinese, la graduale realizzazione dei progetti della Belt and Road Initiative per la
quale è stata resa responsabile la National Development and Reform Commission che ha
predisposto un piano preliminare d’azione all’inizio del 2015. Caratteristica di questo piano
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d’azione è la sua flessibilità per ricevere i più vari contributi di imprese, banche ed istituti finanziari
che, opportunamente coordinati, dovrebbero presentare i singoli progetti.
Il CdS (c.f.: 80055250585) è inserito nell'elenco delle Associazioni culturali che possono
beneficiare del 2 per mille. Saremo grati ai nostri lettori se vorranno ricordarsene al momento
della compilazione della dichiarazione dei redditi e diffondere questa informazione.
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