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B.R.I.C.S.
Il gruppo dei paesi BRICS, nato come conseguenza dei profondi mutamenti in corso nell’economia e nella
politica mondiale, è uscito ormai dai limiti di un forum consultivo dei paesi in via di sviluppo e rappresenta
un’influente struttura internazionale. Esso sta rapidamente acquisendo potere sia come promotore delle
riforme dei meccanismi di regolamentazione nella sfera economico-finanziaria, sia come importante forum
macroeconomico. La maggior parte delle previsioni a lungo termine conferma la crescita del peso del
gruppo BRICS nell’economia mondiale.
Il gruppo dei paesi BRICS, del cui impatto sui processi mondiali e delle cui prospettive oggi si discute tanto,
è nato quale conseguenza di profondi mutamenti in corso nell’economia e nella politica mondiale.
I processi di globalizzazione che hanno investito tutto il mondo alla fine del secolo scorso non solo hanno
esercitato una enorme influenza sull’economia mondiale, ma hanno prodotto cambiamenti radicali nel
clima politico del pianeta, nelle relazioni internazionali, nella sfera politica, militare, dell’informazione,
umanitaria, nella cultura mondiale. Si è fatta sentire sempre più la voce dei paesi in via di sviluppo e dei
paesi ad economia in fase di transizione ai modelli di mercato.
I paesi del “miliardo d’oro” sentono sempre più la pressione dei paesi in via di sviluppo e di quelli poveri.
Tale pressione diventa sempre più tangibile, e viene accentuata da tutta una serie di fattori.
Primo, la limitatezza delle risorse naturali e il loro impoverimento, in particolare di quelle energetiche non
rinnovabili, nonché dell’acqua potabile, dei viveri (proteine vegetali e animali), da un lato, e il pompaggio da
parte dei paesi industrializzati di risorse di ogni genere appartenenti ad altri paesi, mentre il contributo dei
paesi industrialmente sviluppati al PIL mondiale si sta gradualmente riducendo. Si tratta non solo delle
risorse naturali, ma anche di quelle intellettuali e di lavoro. Si capisce che nei paesi in via di sviluppo cresce
il timore di rimanere, in fin dei conti, “con un pugno di mosche”, alla periferia del processo tecnologico
mondiale.
Secondo, la non corrispondenza del sistema internazionale giuridico e di quello economico-finanziario
globale a nuove condizioni di esistenza e di sviluppo della civiltà, ad un nuovo clima delle relazioni
internazionali.
Il terzo fattore è l’ideologia di egemonismo statale cui si ispirano gli Stati Uniti dopo la fine della guerra
fredda, sentendosi l’unica superpotenza al mondo. In realtà hanno scelto la strada diretta all’ottenimento
dell’egemonia a livello mondiale anche se in confezione moderna, camuffata con discorsi sui principi
democratici e i valori umanitari.
Ben presto è divenuto evidente per tanti che la strategia di unilateralismo seguita dagli Usa nella politica
mondiale, rafforzata dalla potenza economica e dalla gigantesca forza militare, può far imboccare al mondo
una strada che non porta da nessuna parte, può trasformarlo in una “fattoria” come quella descritta nel
libro di George Orwell, Animal Farm: A Fairy Story, in cui vige il principale comandamento: ”Tutti gli animali
sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri”. Si trattava, né più né meno, di un’altra rivoluzione a
livello mondiale. “I nostri sforzi si devono estendere oltre ai nostri confini, – diceva il presidente americano
Clinton in uno dei suoi messaggi annuali al congresso, – per guidare la rivoluzione che spazzi via barriere e
formi nuovi legami tra gli stati e tra le persone, tra i sistemi economici e tra le culture”. La stessa idea della
“rivoluzione democratica globale” cercava di realizzarla anche il presidente George W. Bush Junior. Dove ha
portato una tale politica lo hanno mostrato l’Irak, l’Afganistan e le rivolte del 2011 nei paesi dell’Oriente
arabo.
È estremamente pericoloso anche l’orientamento unilaterale dell’economia mondiale al dollaro americano,
qualsiasi oscillazione del quale, dovuta a operazioni speculative, a calamità naturali, a catastrofi
tecnologiche, all’acuirsi della situazione internazionale, in particolare nelle aree del mondo produttrici di
energia, all’interruzione di comunicazioni transcontinentali o perfino ai disguidi nella rete telematica
mondiale, può provocare crolli di portata globale.
Non c’è da meravigliarsi che in varie parti del mondo stiano crescendo forze politiche, movimenti, partiti,
unioni interstatali che cercano di cambiare l’ordine esistente, di renderlo più adeguato alle condizioni
odierne e alle prospettive immediate e, in fin dei conti, di difendere con più efficacia gli interessi nazionali.
Va notato anche che i processi di globalizzazione economica hanno portato alla situazione in cui la crescita
industriale dei paesi sviluppati che dominano finora sul nostro pianeta sta rallentando. Tali processi
diventano irreversibili. Lo sviluppo dei paesi ad economia in crescita accelerata è impedito dai meccanismi
obsoleti di regolamentazione globale e da una certa cristallizzazione delle istituzioni internazionali che
furono create in condizioni del tutto diverse e con finalità, bisogna pur confessarlo, dirette
prevalentemente alla tutela degli interessi dei paesi sviluppati. Ma oggi il paesaggio economico-finanziario
è sostanzialmente cambiato, in particolare grazie alla crescita dei grandi stati ad economia in fase di
transizione verso i modelli di mercato. In tali condizioni lo schema di regolamentazione globale ha
cominciato a manifestare non solo semplici inconvenienti, ma dimostra sempre più spesso l’incapacità di
funzionare debitamente. nel periodo tra il 2000 e il 2008 i quattro paesi in questione hanno contribuito per
il 50% alla crescita economica mondiale; verso il 2014, secondo certe stime, questo indice dovrebbe
aumentare di un altro 10%. D’altra parte, l’avvicinamento dei paesi BRICS – paesi chiave dell’Asia e di tutto
il continente euroasiatico, dell’America Latina, dell’Africa – testimonia del fatto che l’area euroatlantica
(Europa occidentale più America del Nord) sta perdendo gradualmente il suo status informale di “quartier
generale geopolitico” del mondo contemporaneo.
i paesi dei “quattro” hanno vissuto la crisi degli anni 2008-2009 senza particolari sconvolgimenti e con più
successo rispetto ai paesi avanzati, mantenendo abbastanza alti i ritmi di sviluppo economico, che sono
impressionanti sullo sfondo della stagnazione dei centri tradizionali dell’economia mondiale. I paesi del
BRIC hanno cominciato a svolgere un ruolo sempre più marcato nella lotta alle consequenze della crisi
finanziaria nell’ambito del G20, nella politica finanziaria e monetaria globale. Tutto sommato, la crisi ha
dato un nuovo impulso allo sviluppo dei rapporti tra i paesi del BRIC e senza dubbio ha aumentato la forza
d’attrazione del gruppo verso altri paesi in via di sviluppo.
Oggi i paesi del BRICS rappresentano quasi la metà della popolazione del pianeta e occupano un quarto
della terraferma, producono quasi un quarto del totale mondiale del gas e un quinto del totale mondiale
del petrolio, possiedono un terzo delle terre arabili, quasi il 40% delle riserve valutarie e in oro, il loro PIL è
pari al 23% del PIL mondiale e la loro quota nel commercio mondiale costituisce il 16%. Secondo i dati del
WTO nel 2009 la quota dei paesi BRIC nelle esportazioni mondiali era pari al 14,5% (di cui il 9,6% – la Cina) e
all’8,4% nei servizi (di cui il 3,8% – la Cina). [2]
Si tratta di cifre impressionanti. Esse dimostrano che il potenziale del BRIC è enorme, in particolare sul
piano economico. È chiaro che il rafforzamento dei rapporti di associazione tra di loro può cambiare
radicalmente il sistema attuale di relazioni macroeconomiche. Bisogna tener presente che i paesi BRICS
dispongono non solo delle risorse necessarie per sopravvivere indipendentemente dai paesi sviluppati, ma
anche per uno sviluppo attivo. L’insieme delle loro economie garantisce l’autosufficienza nei principali
settori dell’economia mondiale – nelle risorse naturali, comprese le materie prime energetiche (petrolio,
gas, carbone), nel settore agricolo, nella produzione industriale e nelle alte tecnologie. Questi paesi sono
avvantaggiati anche dalla presenza di risorse intellettuali e di lavoro a buon mercato.
Respingendo con la propria politica e col fatto stesso della loro esistenza l’idea di un mondo unipolare, i
paesi del gruppo BRICS, al contempo, non desiderano diventare un nuovo centro di forza globale. Dialogo e
cooperazione con altri stati ed alleanze, ma non confronto; partenariato e concorrenza d’affari, ma non
pressione: ecco la linea principale che essi seguono nell’arena internazionale. Proponendo un proprio
programma di riforma per il FMI e la Banca mondiale, i paesi del gruppo BRICS partono non solo dai propri
interessi, ma tengono anche conto degli interessi di tutti i paesi in via di sviluppo, in fase di transizione
verso le economie di mercatQuesto termine è apparso per la prima volta nel 2001 in una relazione della
banca d'investimento Goldman Sachs, a cura di Jim O’Neill, la quale spiegava che i quattro Paesi
domineranno l’economia mondiale nel prossimo mezzo secolo.[1] La relazione suggeriva che le economie
dei paesi BRIC sarebbero cresciute rapidamente, rendendo il loro PIL nel 2050 paragonabile a quello dei
paesi del G6 (Stati Uniti d'America, Giappone, Regno Unito, Germania, Francia ed Italia).[1]
Nel novembre 2010 il Fondo monetario internazionale ha incluso i Paesi BRIC tra i dieci paesi con il diritto di
voto più elevato, insieme a Stati Uniti d'America, Giappone e i quattro Paesi più popolati dell'Unione
europea (Francia, Germania, Italia e Regno Unito).[3]
A seguito della mancata ripartizione delle quote, giacente presso il Congresso degli Stati Uniti, una cui
redistribuzione era stata avanzata dai paesi del BRICS, questi ultimi hanno dato vita a una propria
strutturazione finanziaria autonoma (New Development Bank), alternativa al FMI durante il loro 6º summit
a Fortaleza, in Brasile, il 15 luglio 2014.o.
Confronto Bric/G7
Alcuni indicatori macroeconomici
Pur se la dimensione delle economie dei Paesi del BRIC è ormai comparabile con quelle dei Paesi del G7, a
livello di PIL pro-capite la distanza è ancora alta. Mentre il reddito pro-capite medio, a parità di potere
d'acquisto, di questi ultimi era nel 2014 di oltre 44.100 $ (dai 32.345 dell'Italia ai 49.875 degli Stati Uniti), i
corrispettivi valori dei Paesi BRIC erano:
Brasile: 16.473 $
Russia: 15.951 $
Cina: 7.870 $
India: 3.880 $
Tuttavia, dal 2000 il PIL pro-capite a parità di potere d'acquisto di questi quattro Paesi è cresciuto del 99%
contro appena il 35% dei sette maggiori Paesi industrializzati.
Anche per quanto riguarda il tasso di inflazione, rimane ancora una forte differenza. Tra il 2000 ed il 2008
l'inflazione media del G7 è stata dell'1,89%, mentre molto più elevata, il 6,43%, per il BRIC. In particolare, il
Paese più colpito è stata la Russia, quello meno colpito la Cina.
Previsioni di crescita del PIL
Secondo un rapporto di Goldman Sachs[1], i Paesi del BRIC, ed in particolare Cina ed India si avviano a
superare gli Stati del G6 (Stati Uniti, Giappone, Germania, Regno Unito, Francia e Italia) in termini di PIL
nominale, riconsegnando all'Asia il primato economico che aveva perso nel XIX secolo. Infatti, se ancora nel
2000 il BRIC produceva solo il 17% della ricchezza del G6, nella prima metà del XXI secolo questo dato è
destinato a cambiare radicalmente. La Cina avrebbe dovuto superare il Giappone nel 2016, ma il sorpasso è
già avvenuto nel tardo 2010. Nel 2023 sarà in grado di produrre più dei quattro paesi europei messi insieme
(obiettivo che l'India raggiungerà qualche anno più tardi, nel 2039, anno nel quale il BRIC avrà un PIL
superiore a quello del G6). Infine, nel 2041 è previsto che la Cina superi gli Stati Uniti per PIL nominale,
divenendo così la prima potenza economica mondiale.
Indebitamento pubblico
A differenza dei Paesi ricchi del G7, indebitati e con scarse riserve internazionali, i paesi del BRIC oltre alle
cospicue riserve di cui sopra hanno anche bassissimi livelli di indebitamento. A parte l’India, con un debito
pubblico al 58% del PIL, in parte eredità dall’Impero britannico, il Brasile ha un debito del 45%, la Cina del
18% e la Russia solamente del 6%.
I Paesi ricchi hanno, invece debiti pubblici altissimi, dovuti alla grande domanda richiesta dalle loro
economie, ovvero altissimi crediti privati o moneta circolante nel sistema, gli USA sono arrivati nel 2011 al
100% del debito pubblico in proporzione al PIL; l’Italia è oltre il 120%; la Germania ha un indebitamento
pari al 77%. Il Giappone, seconda economia del mondo fino a quest'anno, in procinto di essere superata
dalla Cina, ha un debito pubblico del 199%; al mondo, stranamente, solo lo Zimbabwe ha un debito
pubblico più alto, pari al 231% del suo PIL. La massa monetaria circolante è dovuta ai grandi debiti pubblici
e se è vero che dei 7 grandi, a parte il Giappone seconda riserva valutaria al mondo dopo la Cina con poco
più di 1.000 miliardi di dollari, gli altri Paesi del G7 hanno riserve internazionali limitate: la Germania ha 130
miliardi, Italia e Francia circa 100, gli USA e la Gran Bretagna attorno a 70 ed il Canada meno di 50 miliardi.
Dinamica demografica
Sebbene vi siano una bibliografia e/o dei collegamenti esterni, manca la contestualizzazione delle fonti con
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La vera ricchezza dei Paesi del BRIC è la popolazione, infatti, questi quattro Stati rappresentano il 42% della
popolazione mondiale e la popolazione, in una economia capitalistica, rappresenta la principale
determinante della domanda. Questi quattro Paesi facendo leva sull'aumento della domanda interna
determineranno la propria crescita che li condurrà ad essere i paesi economicamente più importanti del
pianeta e soppianteranno gli attuali stati del G7 nella direzione del mondo. Attualmente, il mercato globale
di questi quattro paesi rappresenta il 12,8% del volume totale e la loro quota continua a crescere e crescerà
ulteriormente secondo tutte le previsioni, in particolare quelle della Banca mondiale e del WTO,
l’organizzazione del commercio mondiale.
Fonti. Wikipedia, voce Brics
Eurasia - Brics
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