Rivista mensile di diritto e pratica per la gestione delle

01
Rivista mensile di diritto e pratica
per la gestione delle imprese
GENNAIO
2016
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Tributaria della Guardia di Finanza - Avvocato
Straordinario di Economia aziendale nell’Università di Pescara
Dottore Commercialista e Revisore Legale
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Direttore Responsabile: Alessandro COTTO
Il presente numero è stato chiuso in redazione il 29.1.2016
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01
01 / Diritto societario
6
LE ASSENZE DEI SINDACI ALLE RIUNIONI DEL COLLEGIO, DEL CDA
E ALLE ASSEMBLEE
Luciano DE ANGELIS
17
SOCIETÀ PUBBLICHE E RESPONSABILITÀ DEGLI ORGANI SOCIALI
Francesco FIMMANÒ
02 / Obbligazioni e contratti
43
CRITICITÀ E CONSIGLI NELLA REDAZIONE DEI CONTRATTI:
LA CESSIONE DEL CREDITO
Cristiano BERTAZZONI
03 / La Sentenza del mese
53
PREVISIONE DI UN TERMINE DI DURATA ECCEDENTE LA VITA
MEDIA DI UN ESSERE UMANO E DIRITTO DI RECESSO NELLA SRL
Tribunale di Roma 22.10.2015 n. 21224
Paolo REVIGLIONO
04 / Bilancio
68
LE COSTRUZIONI IN ECONOMIA: PROFILI CIVILISTICI, PRINCIPI
CONTABILI NAZIONALI E RIFLESSI FISCALI
Valerio ANTONELLI
05 / Revisione e vigilanza
79
LA VERIFICA DEI CREDITI COMMERCIALI IN FASE DI FINAL
Ermando BOZZA
06 / Temi professionali
94
DELITTI IN MATERIA DI DOCUMENTI E PAGAMENTO DI IMPOSTE
DISPOSIZIONI COMUNI: LE NOVITÀ DEL DLGS. 158/2015
Stefano COMELLINI
07 / Rassegna di giurisprudenza
113
A cura di Christina FERIOZZI / Maurizio MEOLI
GENNAIO
2016
2015
SOCIETÀ E
CONTRATTI
a cura di
Luciano DE ANGELIS
/ Diritto
societario
01
Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
1. Diritto
societario
6
LE ASSENZE DEI SINDACI
ALLE RIUNIONI
DEL COLLEGIO, DEL CDA
E ALLE ASSEMBLEE
Il tema delle assenze dei sindaci alle riunioni del Collegio sindacale, ai CdA e Comitati
esecutivi ed alle assemblee, è da sempre oggetto di discussioni professionali,
giurisprudenziali ed accademiche. Quando un’assenza può dirsi giustificata? Chi è
tenuto a valutare la validità delle ragioni dell’assenza? Esse devono essere verbalizzate?
Quali sono le conseguenze dell’assenza sulla validità del CdA e dell’assemblea? Quali
quelle sulle assemblee totalitarie? Cosa succede se il Collegio non viene convocato alle
assise? A queste ed altre questioni, alla luce della migliore dottrina e della giurisprudenza
intervenuta si cercherà di dare una risposta ragionata nel presente lavoro.
/ Luciano DE ANGELIS *
Ai sensi dell’art. 2404 c.c.: “Il sindaco che senza giustificato motivo non partecipa durante
ad un esercizio sociale a due riunioni del collegio decade dall’ufficio”.
In virtù del successivo art. 2405 c.c., inoltre,
“I sindaci devono assistere alle adunanze del
consiglio di amministrazione, alle assemblee e
alle riunioni del comitato esecutivo. I sindaci,
che non assistono senza giustificato motivo
alle assemblee o, durante un esercizio sociale, a due adunanze consecutive del consiglio
d’amministrazione o del comitato esecutivo,
decadono dall’ufficio”.
Da ciò consegue, da un lato, che la partecipazione dei singoli componenti alle riunioni
dei vari organi sociali risulta assolutamente
obbligatoria e non facoltativa e dall’altro che
tali assenze, per non determinare la grave
conseguenza sanzionatoria della decadenza,
debbano essere opportunamente giustificate.
Nel presente lavoro, alla luce della più qualificata posizione dottrinale e della (invero rara)
giurisprudenza intervenuta sul tema, cercheremo di esplicitare il concreto significato e gli
aspetti operativi di dette norme, evidenziando
anche gli effetti di tali assenze sulla validità
degli atti collegiali.
LE ASSENZE
DEL SINDACO
ALLE RIUNIONI DEL
COLLEGIO SINDACALE
In primo luogo è da evidenziare che, nonostante il silenzio della legge, perché un sindaco possa definirsi assente ad una riunione del
Collegio, è necessario che esso debba essere
tempestivamente avvisato della stessa (attraverso raccomandata, telegramma, telefax,
* Presidente Commissione sistemi di controllo e collegio sindacale presso il CNDCEC - Dottore Commercialista e Revisore Legale Pubblicista
posta elettronica, ecc., purché vi sia conferma di ricezione documentata). Nell’avviso,
che dovrà essere ricevuto in un tempo ragionevolmente anteriore alla data prevista per la
riunione, devono essere presenti le indicazioni, del luogo, giorno ed ora dell’assise 1.
Ciò premesso andiamo ad analizzare le problematiche che possono manifestarsi in relazione all’assenza del sindaco, a partire dalla
previsioni del comma 2 dell’art. 2404 c.c., che
stabilisce la decadenza dall’incarico per il sindaco che, senza un giustificato motivo risulti assente, durante l’esercizio a due riunioni,
non necessariamente consecutive, del Collegio
sindacale.
Si tratta di una decadenza di tipo sanzionatorio prevista dalla legge che non può essere
ampliata attraverso clausole statutarie 2,
ma neppure eliminata attraverso specifiche
previsioni del contratto sociale.
La prima questione da chiarire riguarda, in
questi casi, il fatto che la decadenza del sindaco avvenga di diritto (ipso jure), come ha
ritenuto la Cassazione 3 e una parte della dottrina 4, o se debba essere accertata dall’assemblea, tesi preferita da altra dottrina e
giurisprudenza 5. Quest’ultima teoria appare
maggiormente convincente in quanto anche
a fronte di una decadenza automatica, un’attività di accertamento, con efficacia dichiarativa, appare nei fatti imprescindibile.
La decadenza, si è detto, si manifesta solo se,
l’assenza del sindaco non avviene per giustificato motivo, dacché deriva l’esigenza operati-
va di circoscrivere ed evidenziare da un lato le
situazioni che configurino o meno il giustificato motivo6, e dall’altro quella di individuare
chi concretamente può essere ritenuto idoneo
a fornirne una oggettiva valutazione sulle ragioni che hanno determinato l’assenza.
Tra i motivi atti a giustificare l’assenza del
sindaco dalle riunioni del Collegio (motivazioni che possono essere addotte anche per
giustificare l’assenza del sindaco alle adunanze delle assemblee o del Consiglio di Amministrazione) deve essere inserita, ad avviso di
chi scrive, oltre alle ovvie cause di forza maggiore (malattia, infortunio del sindaco in costanza delle riunioni, gravi problemi familiari,
convocazioni del tribunale, ecc.), la mancata
convocazione personale. In generale, quindi,
anche se poi la situazione va vagliata caso
per caso, quando un sindaco non è stato avvisato con congruo anticipo delle riunioni del
Collegio (ma la circostanza è sicuramente da
estendersi anche per la partecipazione alle
assemblee, ai CdA ed ai comitati esecutivi), la
sua assenza da dette adunanze appare giustificata7. Ovviamente non giustificabile risulta,
invece, l’assenza in situazioni in cui il sindaco
era a conoscenza delle riunioni a cui avrebbe
dovuto partecipare e senza nessun preavviso
ed idonea motivazione omette di partecipare
all’assise.
Dubbia è la validità di una giustificazione del
sindaco basata su ulteriori impegni di lavoro. Condivisibile, a mio avviso, appare quella
corrente dottrinale secondo cui tali assenze
1 Sul tema sui veda infra multis Ambrosini S., sub art. 2404 c.c., “Il nuovo diritto societario”, Commentario diretto da Cottino
G., Bonfante G., Cagnasso O., Montalenti P., Zanichelli, Bologna, 2004, p. 911; e ancora Cavalli G. “I sindaci”, in “Trattato delle
società per azioni”, diretto da Colombo G.E., Portale G.B., vol. V, UTET, Torino, 1992, p. 73.
2 Sul tema Cavalli G., cit., p. 734.
3 Cass. 1.4.1982 n. 2009, Foro It, 1982, I, c. 1276; conf. Cass. 30.3.1995 n. 3768, Le Società, 1995, p. 906.
4 Galgano F. “Diritto Commerciale. Le società”, Zanichelli, Bologna 2004, p. 337.
5 Per tutti ancora Cavalli G., secondo il quale la soluzione della decadenza ipso jure “non soddisfa in quanto, generalizzando
l’efficacia automatica delle decadenze, non riesce a spiegare in termini convincenti quando e come verrebbe a prodursi la
cessazione dall’ufficio quanto meno nei casi in cui l’evento estintivo si ricollega ad una condotta qualificata dall’elemento della
colpevolezza” (“I sindaci”, cit. p. 62); Ghini A. “La decadenza dalla carica del sindaco assente o assenteista”, Il controllo
soc. enti, 4/5, 2005, p. 520); in senso conforme in giur. Trib. Genova 19.7.1993, Giur. It., 1994, I, c. 327.
6 Ambrosini S. “L’amministrazione ed i controlli nella società per azioni”, Giur. comm, 2003, I, p. 319.
7 Riguardo alle assemblee, seppure in costanza delle norme previgenti rileva il Tedeschi G.U. “l’art. 2366 del codice civile prevede che l’ordine del giorno debba essere pubblicato sulla G.U., ma non si può pretendere che il sindaco debba esaminare la G.U.
per essere informato della riunione assembleare, quindi anche per la partecipazione all’assemblea appare necessario che il
sindaco venga preventivamente informato della convocazione” (“Il collegio sindacale”, in “Il Codice Civile”, Commentario diretto
da Schlesinger P., Giuffrè, Milano,1992, p. 249).
7
Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
non siano da valutare con troppa indulgenza,
poiché in tal modo si finirebbe per accentuare
il carattere secondario che spesso viene attribuito all’ufficio, favorendo il fenomeno della
moltiplicazione degli incarichi a discapito della effettività e della serietà dei controlli8. Due
le motivazioni che mi spingono verso tale interpretazione. La prima e che, essendo la riunione sindacale da indirsi entro 90 giorni dalla
precedente, il presidente ha un lasso di giorni
considerevole (almeno fra l’80° ed il 90° direi)
per trovarne uno che possa essere congeniale
alla presenza dell’intero Collegio. Ciò senza
considerare che qualora le riunioni venissero
fissate annualmente i sindaci dovranno assolutamente evitare di assegnare la data designata alla riunione sindacale, ad altre diverse
attività, rispettando e privilegiando, quindi,
l’impegno sindacale. La seconda motivazione
deriva poi dalle stesse norme di comportamento. In esse si prevede, infatti, che il candidato sindaco sia tenuto ad una congrua valutazione dell’impegno e del tempo richiesto
dall’incarico e ne sconsigliano espressamente
l’accettazione nel caso in cui il controllore in
pectore ritenesse di non essere nella situazione professionale di poter svolgere adeguatamente la funzione a cui sarebbe demandato9.
Ritengo, peraltro, che gli impegni extrasindacali del componente il collegio possano rendere la sua eventuale assenza più facilmente
giustificabile ad un CdA o ad una assemblea,
rispetto alle riunioni del collegio sindacale.
Quest’ultima riunione, infatti, dovrà tenere
conto solo delle esigenze dei tre sindaci mentre in un CdA, ad esempio si terrà conto, in
primis, delle disponibilità dei consiglieri circostanze, queste ultime, che potrebbero rendere
più “plausibile” la giustificazione del sindaco
ad una riunione dell’organo volitivo rispetto a
quella in un collegio sindacale.
Secondo la giurisprudenza di merito e la dottrina prevalente l’onere di giustificare l’assenza
grava sul sindaco e solo in assenza di giustificazione la decadenza andrà a determinarsi
concretamente10. Una idonea cautela, sul tema,
appare in ogni caso opportuna per consentire
al sindaco di addurre le proprie ragioni per
giustificarsi e solo qualora esso non lo faccia,
o evidenzi ragioni pretestuose, potrà valutarsi
l’inesistenza del giustificato motivo. In assenza
di disposizioni sul tema si ritiene che l’organo
deputato ad acclarare la decadenza del sindaco sia lo stesso Collegio sindacale (o meglio
i componenti del Collegio non decaduti) quale
organo immediatamente percettivo dei motivi
della decadenza, motivazioni che evidentemente dovranno poi essere evidenziate all’assemblea. Il Collegio, peraltro, identifica, ad avviso
di chi scrive, anche l’organo dotato di una
maggiore obiettività e serenità nel valutare le
cause di assenza11. Diversamente, la decadenza
8
8 In tal senso, Cavalli G., cit., p. 61. In senso conforme anche recente dottrina secondo la quale “non dovrebbero ritenersi giustificate quelle assenze motivate semplicemente da precedenti impegni di lavoro, poiché così facendo si darebbe per ammesso
il carattere residuale dell’impegno del sindaco”. In tal senso, Franzoni M. “Del collegio sindacale – Della revisione legale dei
conti”, in “Società per azioni. Dell’Amministrazione e del controllo”, t. III, “Commentario del codice civile Scialoja – Branca –
Galgano”, Zanichelli, Bologna, 2015, p. 112.
9 Nei criteri operativi della norma 1.3., rubricata “Nomina, accettazione e cumulo degli incarichi”, si legge a riguardo: “Nel caso
in cui il sindaco, effettuata tale valutazione [che tiene conto anche dell’impegno e del tempo richiesto nell’incarico n.d.a.],
ritenga di non essere in grado di partecipare adeguatamente alle attività proprie dell’incarico, è opportuno che non lo accetti
ovvero vi rinunci, salvo che sia possibile adottare adeguate misure di salvaguardia”.
10 In giurisprudenza si è ritenuto come spetti al sindaco che non possa essere presente fornire le idonee giustificazioni. Trib.
Genova 13.5.1995, Foro Pad., 1995, I, c. 280. Non pare invece assolutamente condivisibile una antecedente sentenza dello
stesso Tribunale secondo il quale, l’assenza ingiustificata “non è tale, di per sé (a seguito della) sua mancata enunciazione nel
verbale, allorché risulti, dalla prassi seguita e dalle formule usate, che vi è stata una valutazione delle assenze del sindaco come
giustificate; né essa può ritenersi verificata quando manchi il benché minimo elemento che consenta di ritenere i sindaci presenti
inadempienti ai loro doveri di obiettiva valutazione della giustificabilità dell’assenza”. Trib. Genova 19.7.1993, cit. In dottrina si
è evidenziato, a riguardo, che “pare ragionevole ritenere che l’obbligo di giustificazione debba rimanere comunque a carico del
sindaco assente, sicché non è richiesto nessun accertamento d’ufficio della sussistenza di una causa di giustificazione, ai fini
della validità della pronuncia. Ciò è tanto più vero se si considera che nel procedimento che culmina nel provvedimento accertativo della decadenza, la partecipazione del sindaco non è affatto necessaria. Di conseguenza l’accertamento del fatto presupposto
dovrebbe limitarsi al dato risultante dai documenti”. Ancora, Franzoni M., cit. p. 112.
11 In tal senso, peraltro, in dottrina anche Tedeschi G.U., cit., p. 252 ss., mentre in giurisprudenza la tesi è stata fatta propria
da Trib. Napoli 16.3.1989, in Banca Dati Eutekne.
potrebbe prestarsi a troppo facili giochi, soprattutto da parte del CdA, per sbarazzarsi di un
sindaco sgradito. Se è vero infatti che, secondo consolidata giurisprudenza di legittimità, la
decadenza dall’ufficio di sindaco per una delle
cause previste dagli artt. 2404 e 2405 c.c. si verifica in modo automatico, come conseguenza
dell’assenza ingiustificata dello stesso dalle riunioni del Collegio sindacale, dalle adunanze del
Consiglio di Amministrazione o dalle assemblee, senza che a tal fine sia necessaria alcuna
deliberazione assembleare che, se intervenuta,
assume valore di accertamento dichiarativo e
non costitutivo della avvenuta decadenza12, è
altrettanto vero che tale causa di decadenza
potrebbe sine die rimanere priva di effetti se
qualcuno non provveda ad accertarla.
Ne consegue che se, come correttamente ritenuto dalla giurisprudenza13, la decadenza in
questi casi è automatica (sottraendola in tal
modo a qualsiasi competenza assembleare, la
quale, sostanzialmente opererebbe una revoca), il Collegio sindacale (o in assenza agli altri
organi sociali) è tenuto alla “dichiarazione di
decadenza”. Perché ciò accada (o non accada),
a livello operativo, si è in accordo con autorevole dottrina14 secondo cui i componenti presenti alla riunione del Collegio dovranno evidenziare nel verbale l’assenza e dare contezza
del giustificato (o ingiustificato) motivo della
stessa. D’altro canto, i sindaci presenti sono
gli unici, nel caso di specie, a poter valutare le
motivazioni dell’assenza e delegati a ricevere
giustificazioni per via orale o eventuale documentazione scritta a suffragio delle ragioni
della stessa (es., certificato medico, convocazioni del Tribunale, ecc.) nonché a valutare, in
relazione ad esse, la plausibile giustificazione o
meno dell’assenza anche ai fini di una paven-
tabile decadenza. Tale tesi è suffragata anche
da più recente dottrina15 e da una giurisprudenza di merito16.
Le norme di comportamento richiedono al
sindaco assente dalla riunione collegiale, di
prendere visione del verbale redatto dagli altri membri del Collegio, al fine di conoscere i
controlli espletati in sua assenza, i rilievi posti
in essere dagli altri membri del Collegio e le
eventuali deliberazioni adottate. Di tale attività di verifica è opportuno che l’assente dia
atto, sottoscrivendo per presa visione, il verbale redatto nella riunione a cui esso non abbia
partecipato17. Tale procedura appare doverosa
per consentire anche al sindaco assente alla
riunione di conservare una “visione d’insieme”,
di tutte le situazioni che nel periodo vive la
società e delle verifiche, osservazioni, ed eventuali poteri di reazione che i sindaci potranno/
dovranno assumere. Ovviamente tale lettura
non equivarrà alla presenza alla riunione, nella
quale il sindaco potrà prendere contezza di informazioni non verbalizzate e soprattutto porre domande al CdA su vicende a lui non chiare.
Si discute, infine, in dottrina su quali siano le
conseguenze per i sindaci che omettano di
riunirsi ogni 90 giorni, situazione, questa che
di certo non può costituire un giustificato motivo d’assenza, in quanto nell’inerzia del presidente appare evidente che l’obbligo di convocazione incomba sugli altri sindaci.
Una preferibile dottrina ritiene ravvisabili in
tale situazione circostanze similari a quelle
che determinano la decadenza sanzionatoria, posto che la mancata convocazione e la
conseguente carenza di qualsiasi riunione si
risolvono necessariamente nella mancata (e
ingiustificata) partecipazione di tutti i sindaci
alle sedute richieste dal codice e conseguente-
12 Cass. n. 3768/1995, cit. Conf. Cass. 1.4.1982 n. 2009, Foro It., 1982, I, c. 1276.
13 Cass. n. 3768/1995, cit.; Trib. Genova 27.4.1995, in Banca Dati Eutekne; Cass. n. 2009/1982, cit.
14In tal senso Salafia V. “Effetti delle cause di decadenza dei sindaci sul funzionamento del collegio sindacale”, Le
Società, 1983, p. 155.
15 Ghini A. “la decadenza dalla carica del sindaco assente o assenteista”, Il controllo soc. enti, 2005, p. 520.
16 In giurisprudenza, sul tema, si è evidenziato come “la tesi giurisprudenziale e dottrinale secondo cui il verificarsi della decadenza produce effetti ipso jure non ne esclude una necessaria attività di accertamento, sia pur dichiarativa, da parte degli
organi sociali. Tale attività è funzionale tra l’altro all’iscrizione e pubblicazione della cessazione dalla carica, da cui discende
la sua opponibilità ai terzi”. Trib. Genova 19.7.1993, cit.
17 Ancora norma di comportamento 2.1. “Funzionamento”, criteri applicativi.
9
Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
10
mente nella loro decadenza globale18. D’altro
canto non si capisce, si è ritenuto, “perché la
totale inattività del Collegio dovrebbe ricevere
un trattamento meno severo rispetto a quello
sancito per le assenze ingiustificate alle riunioni prescritte e formalmente indette”19. È stato
altresì affermato a riguardo come “non si tratta di interpretare analogicamente una norma
eccezionale, ma di applicare direttamente – o
in via estensiva – l’art. 2404, comma 2, dato che
la mancata convocazione e la conseguente carenza di qualsiasi riunione si risolvono necessariamente nella mancata partecipazione di tutti
i sindaci alle riunioni richieste dalla legge”20.
Tale posizione non è tuttavia condivisa dalla
giurisprudenza, da sempre orientata verso una
esegesi letterale e non analogica dell’art. 2404
comma 2 c.c. con conseguente interpretazione tassativa delle cause di decadenza. Essa,
infatti, seppure in epoca non recente ha costantemente affermato che la mancata tenuta
da parte del Collegio sindacale delle prescritte
riunioni trimestrali non comporti la decadenza
ex art. 2404 comma 2 c.c., bensì integri un’ipotesi di revoca degli stessi per giusta causa21.
LA MANCATA
PARTECIPAZIONE
DEI SINDACI
ALLE ASSEMBLEE
ED AI CONSIGLI
DI AMMINISTRAZIONE
Le considerazioni effettuate in merito alla
mancata partecipazione dei sindaci alle riu-
nioni dell’organo di controllo valgono sostanzialmente anche nei casi in cui gli stessi, regolarmente convocati, disertino le assemblee
ed i Consigli di Amministrazione.
Rispetto alle situazioni che determinano la decadenza del sindaco che non partecipi nell’esercizio
a due riunioni del Collegio sindacale, l’art. 2405
c.c. sanziona con la decadenza anche una sola
mancata partecipazione del sindaco all’assemblea, qualora la stessa risulti ingiustificata22.
Il trattamento rigoroso in merito all’assenteismo
alle assemblee trova giustificazione, secondo
una condivisibile dottrina, “nella normale cadenza annuale delle riunioni assembleari e nel fatto
che il legislatore si è preoccupato di assicurare
la partecipazione dei sindaci a quelle assemblee
che deliberano sugli aspetti più importanti e delicati della vita sociale – a cominciare da quella
che approva il bilancio di esercizio – e rispetto
alle quali i sindaci sono spesso tenuti ad una serie di adempimenti”23. Si ritiene che detta norma
valga anche per la mancata partecipazione del
Collegio sindacale alle assemblee straordinarie
dei soci. La grande rilevanza che dette assemblee
rivestono nella vita delle società, infatti (sono
oggetto di delibera delle adunanze in discorso
le modifiche dell’atto costitutivo, l’emissione di
prestiti obbligazionari, la nomina dei liquidatori,
le proposte di assoggettare la società ad alcune procedure concorsuali, ecc.), rappresenta un
rafforzativo ai precetti di cui all’art. 2405 c.c.,
che prescrive per i sindaci che non assistono alle
assemblee, la decadenza dalla carica e non l’invalidità delle delibere.
Meno rigoroso è, invece, il disposto normativo in tema di mancata ingiustificata partecipazione ai consigli di amministrazione
18 In tal senso, Cavalli G., cit., p. 60; conf. Domenichini G. “Il collegio sindacale”, in “Trattato di diritto privato”, diretto da Rescigno
P., vol. XVI, UTET, Torino, 1985, p.553.
19 Ancora Cavalli G., cit., p. 60.
20 In tal senso Tedeschi G.U., cit., ove si legge altresì, “In sostanza, quindi nel caso di mancata convocazione e riunione del collegio
sindacale si ha l’assenza, certamente ingiustificata, di tutti i sindaci, anziché di uno solo di essi, come nel caso espressamente
contemplato nel co. 2 dell’art. 2404 c.c. È così del tutto giustificata l’applicazione della medesima sanzione ad un caso ancora più
grave”, p. 260.
21 Trib. Napoli 16.3.1989, cit.; App. Milano 23.3.1954, Foro It., 1954, I, c. 815 e ss.; conf. Cass. 7.6.1956 n. 1943, Riv. dir. comm.”,
1957, II, p. 118.
22 Dottrina e giurisprudenza risultano a riguardo pacifiche. In dottrina, per tutti, Ferraro P.P. in “La riforma delle società”, a
cura di Sandulli M., Santoro V., Giappichelli, Torino, 2003, p. 577; in giur., App. Milano 22.12.1978, Foro Pad., 78, I, p. 377;
conf. Trib. Milano 9.6.1975, Giur. comm., 1976, II, p. 551.
23 Così Ferraro P.P., cit., p. 577.
ed ai comitati esecutivi. A riguardo, infatti,
probabilmente anche in relazione alla maggior
frequenza con la quale, di norma, tali consessi
vengono indetti, è necessario non solo che il
sindaco non partecipi a due riunioni nel corso
dell’esercizio, ma altresì che tali assenze risultino consecutive (consecutività non richiesta,
ai fini della decadenza, per l’assenza ingiustificata a due riunioni del Collegio).
Va da sé che in caso di assenza del sindaco
alla riunione del CdA o all’assemblea sarà esso
stesso a dover fornire una idonea giustificazione finalizzata ad evitare il determinarsi della causa di decadenza24.
Anche in tali circostanze, in merito all’accertamento della causa della decadenza del sindaco
assenteista, si discute in dottrina se essa operi
ipso iure oppure soltanto quando essa venga
accertata da un organo della società (Collegio sindacale o assemblea dei soci). La prima
tesi, come si è dianzi evidenziato, è pacifica in
giurisprudenza25, ma anche in tali circostanze
non può non evidenziarsi a livello pratico che
fino al momento in cui l’accertamento della
decadenza non sia stato dichiarato da parte di
un organo sociale non possa di fatto operare
il meccanismo della sostituzione contemplato
dall’art. 2401 c.c., e non possa quindi provvedersi alla comunicazione al Registro delle imprese inerente la cessazione della carica ed il
correlativo subentro del supplente26. Per tale
via, come già rilevato in merito all’assenza nei
Collegi sindacali, si potrebbe ragionevolmente
ritenere che l’effetto della decadenza andrà
a determinarsi dal momento dell’assenza ingiustificata alla riunione, con la conseguenza
che quando l’assemblea, presumibilmente su
istanza dei sindaci non assenteisti, dovesse
constatare l’avvenuta decadenza, tale delibera si appalesi di mero accertamento e non di
accertamento costitutivo27.
Da notare, poi, che la norma concernente la
decadenza dalla carica dei sindaci che non
sono intervenuti alle assemblee sociali non
può ritenersi operante quando, come nel caso
delle assemblee (ordinarie e straordinarie) di
prima convocazione andate deserte, un’adunanza dei soci in effetti non vi è stata 28.
Altra questione attiene poi alla validità dell’assemblea nei casi in cui i sindaci, opportunamente convocati, non partecipino alle riunioni
assembleari. Seppur la rara giurisprudenza risulti
a riguardo divisa29, la dottrina prevalente ritiene
che tale assenza non abbia alcun effetto sulla
delibera, in quanto non interferisce con le norme che disciplinano la costituzione, né attiene al
processo formativo della volontà assembleare30.
Una posizione questa, come si dirà in seguito,
probabilmente valida se i sindaci convocati non
partecipano all’assemblea, meno se il Collegio
non viene di fatto convocato, ben potendo ritenere che tale mancata convocazione influenzi la
corretta costituzione dell’assise. Appare, in ogni
caso, difficile poi sostenere che il Collegio non
condizioni, o almeno non possa condizionare con
i propri pareri ed osservazioni, il processo formativo della volontà assembleare. In ogni caso, al di
là del rischio decadenziale per i sindaci ingiusti-
24 In merito alla giustificazione dell’assenza è stato osservato come “in concreto sono due gli elementi che occupano la scena,
cioè la presentazione di una dichiarazione del sindaco che rimane assente mentre dovrebbe essere presente e la validità del
motivo che è alla base dell’assenza. Mentre per la prima esigenza nessun problema si pone (nulla dicendo la legge si può ritenere
che la forma della giustificazione possa essere quella verbale), per la seconda esigenza sorge la necessità di stabilire, avuta la
giustificazione dell’interessato, se la medesima è da ritenersi valida oppure invalida. È un accertamento di notevole rilevanza
poiché dal suo esito dipendono effetti di estesa portata”. In tal senso, Ghini A. “La decadenza dalla carica del sindaco assente
od assenteista”, Il controllo soc. enti, 2005, p. 521.
25 Si veda nota n. 13.
26 Trib. Genova 19.7.1993, cit.
27 In tal senso, Domenichini G., cit., p. 555
28 Cass. 7.3.1992 n. 2764, Giur. comm., 1994, p. 588.
29 In una, invero datata, pronuncia si è infatti ritenuto che: “non possa essere iscritta nel registro delle imprese la deliberazione
assembleare assunta in assenza di due componenti su tre del collegio sindacale per mancanza del quorum necessario per poter
ritenere quest’ultimo regolarmente costituito ed effettivamente presente in assemblea” (Trib. Cosenza 15.4.1988, Le Società, 1988,
p. 861; conf. App. Catanzaro 18.1.1989, Le Società, 1989, p. 300; Trib. Milano 9.6.1975, cit.).
30 Così Tedeschi G.U., cit., p. 284; conf. Niccolini G. “Presunta invalidità della deliberazione di assemblea di società per azioni
regolarmente convocata, adottata in assenza di collegio sindacale”, Foro It., 1989, I, c. 524; conf. Ferraro P.P., cit., p. 575.
11
ficatamente assenti, la communis opinio ritiene
oggi che l’assenza di uno o più componenti del
Collegio sindacale, quando i sindaci sono regolarmente convocati, quand’anche ingiustificata,
non pregiudica la validità del Consiglio di Amministrazione, del Comitato Esecutivo o dell’Assemblea salvo, come è stato giustamente rilevato in dottrina, che si tratti di un’assemblea
totalitaria31.
Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
L’ASSENZA
ALLE ASSEMBLEE
TOTALITARIE
12
Nelle assemblee totalitarie delle spa, l’art.
2366 comma 4 c.c. prevede che “In mancanza
delle formalità previste per la convocazione,
l’assemblea si reputa regolarmente costituita,
quando è rappresentato l’intero capitale sociale e partecipa all’assemblea la maggioranza dei componenti degli organi amministrativi
e di controllo. Tuttavia in tale ipotesi ciascuno
dei partecipanti può opporsi alla discussione
degli argomenti sui quali non si ritenga sufficientemente informato”.
Da ciò deriva che, la mancata partecipazione
della maggioranza dei componenti dell’organo
di controllo, (nella prassi due su tre) rende, almeno nelle spa, irregolarmente costituita e quindi
invalida l’assise.
Ci si deve chiedere, a riguardo, se la mancata
partecipazione del sindaco alle assemblee totalitarie, senza giustificato motivo, possa determinare la decadenza dello stesso. A riguardo
si è correttamente ritenuto che il sindaco abbia
l’obbligo di partecipare alle riunioni regolarmente convocate e non quello, ben più gravoso, di farsi trovare sempre libero e disponibile
quando i soci decidano di riunirsi avvertendosi
per vie brevi ed informali. In questi casi non pare
neppure necessario, per il sindaco che non abbia
partecipato, motivare la propria assenza32.
Circa gli effetti dell’assenza della maggioranza dei sindaci sull’assemblea, non appare dubbio, a riguardo, che tale assemblea sia invalida,
mancando i presupposti di legge per la regolare
costituzione della stessa ai sensi dell’art. 2366
comma 4 c.c. Si discuteva, in epoca anteriore alla
riforma, in merito alla specie di detta invalidità,
qualificabile dalla dottrina e dalla giurisprudenza prevalente in modo spesso contraddittorio.
In relazione al portato delle nuove disposizioni,
che nelle spa da un lato, ammettono la validità
dell’assemblea totalitaria anche in presenza dei
due terzi dei componenti gli organi di controllo
e, dall’altro, ampliano il concetto di annullabilità
(restringendo le ipotesi di nullità), pare di poter
ritenere che l’assenza di due sindaci dall’assemblea, in relazione alla loro mancata convocazione, possa essere causa di annullabilità e non di
nullità delle deliberazioni assembleari33.
Diverso è il discorso inerente le assemblee totalitarie nelle srl. In esse, infatti, l’art. 2479-bis
comma 5 c.c. dispone che: “In ogni caso la deliberazione s’intende adottata quando ad essa
partecipa l’intero capitale sociale e tutti gli amministratori e sindaci sono presenti o informati
della riunione e nessuno si oppone alla trattazione dell’argomento”34. In questo, caso, quindi,
31 In tal senso Aiello M., sub art. 2405 c.c. “Della Società – Dell’Azienda – Della Concorrenza”, a cura di Santosuosso D.U., in
“Commentario del Codice Civile”, diretto da Gabrielli E., vol. II, UTET, Torino, 2015, p. 519.
32 In tal senso, condivisibilmente Busi C.A. “Assemblea e decisione dei soci nelle società per azioni e nelle società a responsabilità limitata”, Cedam, Padova, 2008, p. 475, secondo il quale “Diversamente argomentando, mentre il sindaco di srl non
rischierebbe mai la decadenza dal proprio ufficio, potendo paralizzare con la propria opposizione lo svolgimento della riunione
assembleare, il sindaco della Spa sarebbe nelle mani dei soci maliziosi che, convocando precipitose e difficilmente raggiungibili
riunioni assembleari, potrebbero liberarsi del componente di minoranza dell’organo di controllo”.
33 Ciò d’altro canto appare traibile dalle disposizioni di cui all’art. 2377 c.c., che stabiliscono l’annullabilità di tutte quelle deliberazioni “non conformi alla legge o allo statuto”. È stato osservato, a riguardo, che “quanto alla maggioranza dei componenti degli
organi amministrativi e di controllo, la loro assenza integra una ipotesi di irregolarità nella costituzione dell’assemblea, tenuto
conto che la loro presenza è utile al miglior svolgimento dell’assemblea, della quale però non fanno parte”. Cosi Di Amato S., in
“Società per azioni, azioni, società collegate e controllate, assemblee”, in “La riforma del diritto societario”, a cura di Lo Cascio
G., Giuffrè, Milano, 2003, p. 300.
34 Si ricorda peraltro che secondo la massima I.B.4/2004 del Comitato Notarile del Triveneto rubricata “Assemblea totalitaria”,
la disciplina dell’assemblea totalitaria è inderogabile e quindi trova applicazione anche in presenza di una diversa disposizione statutaria.
da un lato l’assenza del sindaco all’assise non
ne determinerà alcun rischio di decadenza e, in
presenza di adeguata informazione dei componenti l’organo di controllo, l’assemblea sarà
sicuramente valida.
Ci si deve chiedere, tuttavia, a questo punto
cosa significhi, in pratica che i componenti
l’organo di controllo risultino informati della
riunione. Nonostante l’esegesi letterale della
norma possa indurre a diversa interpretazione
(i “sindaci sono presenti o informati della riunione”) non pare a riguardo sufficiente che i
sindaci (o il sindaco unico) siano messi in condizione di conoscere che sta per tenersi un’assemblea, non convocata, ma appare necessario che gli stessi siano edotti attraverso un
mezzo che lasci traccia di tale conoscenza
(come, ad esempio, una PEC o una e-mail con
avviso di ricevimento) degli argomenti all’ordine del giorno35. Solo in tal modo, infatti, l’organo di controllo potrà esercitare quel potere
di opposizione, previsto dall’ultima parte del
citato comma 5, alla trattazione dell’argomento (ma potrebbero indubbiamente essere
più d’uno) posto in discussione e in votazione36. Nel caso in cui i sindaci o il sindaco unico
non fossero informati, essi (e gli altri soggetti
a ciò legittimati) potranno impugnare la delibera assembleare anche se sussistono dubbi, in
questi casi, in relazione, alla natura dell’invalidità, che in prima analisi, parrebbe configurare
nullità per mancanza assoluta di informazione
(art. 2479-ter comma 3 c.c.).
LA MANCATA
CONVOCAZIONE
DEL COLLEGIO
SINDACALE
Diversa situazione si appalesa, invece, qualora
i sindaci non venissero convocati in assemblee
regolarmente indette o ai CdA. In tali situazioni, le riunioni potrebbe dirsi regolari? In merito
alle riunioni assembleari, la dottrina prevalente ritiene oggi che la mancata partecipazione
dei sindaci ad un’assise, anche in assenza di
una loro convocazione, non incida sulla validità della stessa. In altri termini, considerando
che la volontà sociale viene espressa esclusivamente dai soci, amministratori e sindaci
non possono considerarsi elementi costitutivi
ed integrativi dell’assemblea, dacché deriva
che una loro assenza, a fronte di un’assemblea riunitasi a seguito di convocazione, non
potrà produrre alcuna conseguenza sulla validità delle deliberazioni che vengano prese.
Per tale corrente di pensiero, quindi, l’assenza
dei sindaci alle riunioni dell’assemblea, anche
a seguito di una mancata convocazione, non
avrebbe alcun effetto sulla delibera in quanto il loro intervento preordinato ai fini interni
del controllo non andrebbe ad interferire con
le norme che disciplinano la costituzione, né
atterrebbe al processo formativo della volontà
assembleare37. Tali argomentazioni non appaiono convincenti.
35 Si è evidenziato a riguardo come “la necessità che gli organi sociali siano anche solo informati e non anche presenti impone
un vincolo formale nella sola assemblea totalitaria di srl: vale a dire la necessità che la stessa si coaguli su un ordine del giorno
preventivamente articolato e non già pure «improvvisabile», nel corso dei lavori assembleari come può avvenire nelle spa”. Così
Benazzo P. “Codice commentato delle s.r.l.”, diretto da Benazzo P., Patriarca S., UTET, Torino, 2006, p. 435. In senso conforme,
Magliulo F., secondo il quale “non sembra potersi sostenere che l’informativa possa addirittura limitarsi a rendere noto agli
amministratori e sindaci non presenti che si terrà un’assemblea, senza indicare le materie che saranno oggetto di discussione,
atteso che in caso contrario detta informativa avrebbe assai poco significato”, in Caccavale C., Magliulo F., Maltoni M., Tassinari
F. “La riforma delle società a responsabilità limitata”, Ipsoa, Milano, 2007, p. 424.
36 A riguardo si è evidenziato in dottrina: “Circa il contenuto minimo dell’informazione, nel silenzio del legislatore, premesso che è
rispondente ai principi di correttezza e buona fede informare con precisione gli organi sociali circa le materie da trattare, si devono applicare i principi già enunciati circa l’ estensione dell’ informazione che deve essere contenuta nell’ avviso di convocazione
dell’ assemblea ed in particolare si devono informare gli organi di riguardo le materie che verranno trattate” (così Busi C.A., cit.).
37 In tal senso, Tedeschi G.U., cit, p. 287, secondo il quale, “talché essi, per non essere intervenuti all’adunanza per fatto o colpa
degli amministratori, possono dolersi dell’impedimento opposto all’esercizio delle loro funzioni, denunziando all’assemblea tale
operato come fonte di responsabilità interna per gli amministratori, ma non possono da tale circostanza, che non si riferisce ad
un elemento essenziale della manifestazione di volontà del consiglio, far derivare effetti più ampi di quelli che discendono dalle
finalità di ordine interno”. In senso conforme, Magnani P., in “Commentario alla riforma delle società”, coordinato da Marchetti
P., Bianchi L.A., Ghezzi F., Notari M., Egea – Giuffrè, Milano, 2005, p. 238; conf. Busi C.A., cit, p. 471. In senso analogo, Niccolini
G., cit., c. 524.
13
Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
14
Il principio in relazione al quale i sindaci sono
tenuti ad assistere alle riunioni assembleari implica, a mio avviso, il necessario corollario che
essi debbano essere destinatari di una preventiva informazione in relazione a dette assise
mediante apposita formale o informale convocazione. Diversamente non si comprenderebbe
come essi possano assicurare la loro presenza
in assemblea. Come è stato affermato da altra dottrina, sul punto: “il dovere o comunque
il diritto dei sindaci di presenziare alle riunioni
implica la necessità di una loro convocazione”38. Verso tale direzione appare orientata la
invero rara e risalente giurisprudenza che ha
ritenuto invalida l’assemblea a seguito dell’omessa convocazione dei sindaci39. Tale posizione appare, a mio avviso, preferibile anche
alla luce delle disposizioni in tema di assemblea
totalitaria. Se quest’ultima, infatti, a seguito
della mancata presenza di almeno i due terzi
del Collegio è invalida, come peraltro nessuno
ha mai dubitato che sia40, non sarebbe agevole comprendere perché un assise regolarmente
convocata potrebbe indebitamente prescindere
dalla presenza, perlomeno parziale, dei componenti l’organo di controllo. Neppure convincente appare la tesi secondo la quale la presenza
dei sindaci risulti ininfluente al processo formativo della volontà assembleare, ben potendo
(anzi in alcune circostanze dovendo) l’organo di
controllo intervenire, per evitare che l’assemblea possa assumere decisioni in contrasto con
la legge o lo statuto41. Le affermazione di cui
sopra, varranno, ed anzi risultano ulteriormen-
te rafforzate, nei casi in cui le delibere assembleari debbano essere accompagnate per
legge da una relazione obbligatoria dei sindaci (es. assemblea che deliberi l’approvazione
del bilancio), caso in cui, evidentemente, l’assenza, non solo dei sindaci in assemblea, ma del
documento obbligatorio che essi sono chiamati
ad emettere, renderebbe incompleta, e quindi
invalida, anche la delibera assembleare42.
È opportuno evidenziare, peraltro, che quanto
sopra asserito dovrebbe valere in tutte le convocazioni con avviso comunicato ai soci con
mezzi che garantiscano la prova dell’avvenuto
ricevimento di cui all’art. 2366 comma 3 (tipicamente raccomandata AR o PEC); avviso che a
questo punto non può, per le motivazioni di cui
sopra, non essere inviato anche ai sindaci, se
non si vuole porre a rischio l’invalidità dell’assise. Tale obbligo non varrà, invece, nelle convocazioni (tipiche delle società più grandi), con
avviso pubblicato in Gazzetta Ufficiale o su un
quotidiano indicato nello statuto, visto che in
questi casi, previsti dal comma 2 dell’art. 2366
c.c. né ai soci, né ad alcun componente gli organi sociali viene inviato alcun invito personale
ai fini della partecipazione all’assemblea.
Quanto asserito per le riunioni dei soci vale,
ad avviso di chi scrive, per il CdA (ed il Comitato esecutivo) al quale, evidentemente, non
possono esser estese unicamente le norme
in ambito di assemblea totalitaria. Anche su
questo tema, la dottrina maggioritaria ed una
risalente giurisprudenza di legittimità e di merito ritengono che la mancata partecipazione
38 In tal senso, Cavalli G., cit., p. 111.
39 Trib. Cosenza 3.1.1985, Le Società, 1985, p. 419. Sul tema appare, poi, opportuno ricordare che altra giurisprudenza ha
ritenuto irregolarmente costituita l’assemblea dei soci di una società di capitali quando è assente l’intero Collegio sindacale
in quanto dimissionario: Trib. Udine 15.12.1982, Le Società, 1983, p. 641; mentre App. Catanzaro 18.1.1989, Le Società, 1989,
p. 300, a sua volta ha dichiarato che non è omologabile la deliberazione dispositiva di modifiche statutarie adottata da
assemblea di spa regolarmente convocata, alla quale ha partecipato uno soltanto dei tre componenti il Collegio sindacale.
40 Per l’annullabilità di tali deliberazioni, seppur anteriormente alla riforma del diritto societario, ma con motivazioni certamente valide anche post riforma, si evidenziano, infra multis: Trib. Milano 27.1.1986, Dir. fall., 1986, II, p. 623; Trib. Cassino
3.2.1986, Dir. fall, 1987, II, p. 543; ancora Trib. Roma 27.9.1982, Le Società, 1983, p. 45. Addirittura per la nullità della delibera
in dette circostanze si sono pronunciate: Cass. 14.3.1986 n. 1768, Le Società, 1986, p. 850; Trib. Napoli 16.3.1989, cit.
41 Un’apertura sul tema è stata prospettata anche dalla giurisprudenza di merito, secondo la quale, seppur la mancata ammissione di un sindaco alla discussione assembleare, non si tradurrebbe mai in un vizio della relativa deliberazione, poiché
l’opinione espressa in assemblea dai partecipanti costituisce soltanto un atto prodromico alla deliberazione nell’iter di
formazione della volontà della società, ha ritenuto tale delibera invalidabile qualora: “il sindaco sia in grado di prospettare
la portata dell’intervento al quale non è stato ammesso e la sua rilevanza per la partecipazione alla formazione della volontà
collegiale, rispetto a cui egli è in dissenso”. Trib. Roma 27.4.1998, in Banca Dati Eutekne e Le Società, 1998, p. 1442.
42 Trib. Verona 8.4.1989, in Banca Dati Eutekne e Le Società, 1989, p. 1263.
dei sindaci ai CdA nel caso di omessa convocazione non incida sulla validità delle decisioni consiliari, ritenendosi sostanzialmente ininfluente la presenza dell’organo di controllo in
merito alle decisioni del Consiglio43.
Nemmeno dette pur autorevoli posizioni appaiono, invero, persuasive. La partecipazione
dei sindaci ai CdA appare tutt’altro che irrilevante ed anzi essa risulta probabilmente
ancor più incisiva, nella formazione della delibera consiliare, in relazione all’interlocuzione
più immediata e diretta con gli amministratori, di quanto non possa risultare, invece, persuasiva l’influenza dei sindaci nelle decisioni
dei soci in assemblea.
Oltre ai fondamentali doveri di controllo sulla corretta amministrazione (ex art. 2403 c.c.)
anche i previsti poteri di reazione, riconosciuti
ai sindaci nei confronti degli amministratori,
dalla esposizione del loro dissenso nelle delibere consiliari, alla convocazione dell’assemblea nei casi di fatti censurabili o di omissioni
degli amministratori, fino alla richiesta di controllo giudiziale sull’operato dell’organo decisionale, appaiono poteri/doveri “ampliamente
condizionanti” le decisioni gestorie, e quindi
non sembra condivisibile l’assunto che vede
tali partecipazioni sostanzialmente ininfluenti sulla formazione delle decisioni dell’organo
direttivo44.
A prescindere dagli eventuali vizi delle deliberazioni delle assemblee e dei CdA, in assenza di
una regolare convocazione dei sindaci, circo-
stanze come si è visto ancora oggetto di diversificate posizioni dottrinali e giurisprudenziali,
ci si chiede conclusivamente quale risulti, in
dette situazioni, la posizione degli amministratori. A riguardo, non sembra sussistono
dubbi di sorta in relazione al fatto che la mancata convocazione dei sindaci, nelle situazioni
in cui la stessa si renda doverosa, assuma rilevo per chi, dovendo provvedere a detta convocazione, l’abbia artatamente omessa. In questi
casi, infatti, oltre alla doverosa convocazione
dell’assemblea da parte del Collegio sindacale
per (gravi) omissioni degli amministratori (ex
art. 2406 c.c.), da un lato, potrà configurarsi
per questi ultimi una giusta causa di revoca
e dall’altro potrebbe a loro carico determinarsi
una potenziale responsabilità, ex art. 2409
c.c., se le delibere perfezionatesi in assenza dell’organo di controllo possano aver
danneggiato la società45. Ritengo, peraltro,
che in dette circostanze, sugli amministratori
possano addensarsi anche le responsabilità ex
art. 2625 comma 1 c.c. in quanto, attraverso
la mancata convocazione dei sindaci, essi potrebbero ostacolare lo svolgimento delle loro
attività di controllo46. Qualora da tale condotta possano poi derivare danni ai soci (ad
esempio, perché il CdA, la cui riunione resti
per un periodo sconosciuta ai sindaci, assuma
decisioni che si rivelino gravemente lesive per
gli interessi dei soci) l’aggravante potrebbe
comportare l’applicazione dell’art. 2625 comma 2 c.c.
43 È stato rilevato a riguardo come i sindaci “per non essere intervenuti all’adunanza per fatto e colpa degli amministratori, possono dolersi dell’impedimento opposto all’esercizio delle loro funzioni, denunziando alla assemblea tale operato come fonte di
responsabilità interna per gli amministratori, ma non possono in tale circostanza, che non si riferisce ad un elemento essenziale
della manifestazione di volontà del consiglio, far derivare effetti più ampi di quelli che discendono dalle finalità di ordine interno”.
Ancora Tedeschi G.U., cit., p. 288 Frè G. “Società per azioni”, in “Commentario del codice civile”, a cura di Scialoja A., Branca
G., V, Zanichelli, Bologna – Il Foro Italiano, Roma, 1982, p. 562; Moro Visconti R. “Il controllo delle Spa”, Buffetti, Roma, 1975,
p. 86. In giur., Cass. 1.2.1943 n. 252, Dir fall., 1943, II, p. 9 e nel merito Trib. Torino 10.5.1967, Dir. fall., 1967, II, p. 555 e Riv. Not.
1967, II, p. 699; Trib. Napoli 16.3.1989, cit.
44 In dottrina è stato evidenziato sul tema come “anche per i consigli, invero, la presenza dei sindaci è strettamente obbligatoria
ed anche per essi può parlarsi di controllo concomitante sulla legittimità e sulla correttezza delle delibere assunte, visto che lo
scopo della legge è quello di consentire tanto la raccolta di notizie e di informazioni, quanto lo svolgimento di attività «dissuasive»
intese a prevenire, più che a reprimere ex post, eventuali conseguenze dannose” (Cavalli G., cit., p. 112).
45 In tal senso, in merito alla mancata convocazione dei sindaci in sede assembleare, Busi C.A., cit. p. 472.
46 Si è evidenziato a riguardo come “l’illecito si realizza anche quando l’ostacolo non abbia paralizzato l’attività di controllo ma
sia stato superato e il controllo seppur con ritardo o con maggior dispendio di energie sia stato esercitato”. In tal senso, Magro
M.B., sub art. 2625 c.c. “Della Società – Dell’Azienda – Della Concorrenza”, a cura di Santosuosso D.U., in “Commentario del
Codice Civile”, diretto da Gabrielli E., vol. V, 2014, p. 846. Sul tema si veda anche, in relazione al vecchio art. 2623 co. 3 c.c..
Trib. Torino n. 1075/1967, cit. Sul tema, sempre in relazione alle norme antiriforma, Cavalli G., cit., p. 112.
15
CONCLUSIONI
Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
In definitiva la partecipazione dei sindaci alle
riunioni del Collegio a quelle del CdA e delle assemblee è imprescindibile per consentire
agli stessi quelle verifiche antecedenti, concomitanti e successive alle decisioni che connotano l’attività dell’organo di controllo. Ne
deriva che l’assenza ingiustificata del controllore a dette riunioni, la cui valutazione
non può che spettare agli altri membri del
Collegio sindacale, sia sanzionata dal sistema con la decadenza dall’ufficio mentre, di
norma, non infici, salvo situazioni particolari, la validità del CdA o dell’assemblea. Più
16
articolate in dottrina e giurisprudenza risultano invece le conseguenze attinenti la mancata convocazione dei sindaci nelle assemblee e nei CdA. In questi casi, inequivocabili
risultano i rischi civili e penali per gli amministratori inadempienti, mentre dubbia risulta
la validità dei CdA e delle assemblee, orfane
della convocazione degli organi di controllo.
Una interpretazione teleologica del disposto
normativo, che obbliga i sindaci a partecipare,
dovrebbe determinare l’invalidità dei CdA, dei
Comitati esecutivi e delle assemblee a cui l’organo di controllo non è stato messo nelle condizioni di partecipare, ma il tema come detto
risulta ad oggi sostanzialmente inesplorato.
1. Diritto
societario
SOCIETÀ PUBBLICHE
E RESPONSABILITÀ
DEGLI ORGANI SOCIALI
La Cassazione non chiarisce se la giurisdizione della Corte dei Conti in tema di
responsabilità degli organi sociali di società in house providing sia esclusiva o
concorrente. L’azione contabile può in linea di principio concorrere con le altre
azioni poste a garanzia dei soci e dei creditori sociali previste dal codice, senza che
si determini alcun conflitto di giurisdizione, “ma soltanto un’eventuale preclusione
all’esercizio di un’azione quando con l’altra sia già ottenuto il medesimo bene della
vita”. Non vi sono ragioni per escludere la concorrenza di procedimenti civili e
contabili a carico degli organi sociali. E se una delle due azioni avrà bruciato nel
tempo l’altra evidentemente non avrà esito fruttuoso per la sopravvenuta incapienza.
D’altra parte anche l’azione penale può essere una terza incomoda.
/ Francesco FIMMANÒ *
L’USO STRUMENTALE
DEL MODELLO
E GLI EFFETTI
SULLA DISCIPLINA
DELLE SOCIETÀ
La esplosione del fenomeno delle società a
partecipazione pubblica per la gestione dei
servizi locali, soprattutto nel decennio 19992009, non è certo legata a ragioni di efficienza
del modello gestionale, oppure ad altre moti-
*
vazioni aziendalistiche, ma esclusivamente alla
degenerazione di metodi di organizzazione del
comparto1, originata sovente dal mero malcostume “politico” e dal conseguente disastro
della finanza pubblica2. L’opportunità della
segregazione societaria e con essa la possibilità “poco commendevole” di violare i patti di
stabilità, i principi in tema di concorrenza, le
regole sulle procedure ad evidenza pubblica e
le norme in tema di concorsi per l’assunzione
del personale3, è stata troppo attraente per la
politica e si è fatto di tutto per mantenerla.
Ordinario di Diritto Commerciale nell’Università degli Studi del Molise – Direttore Scientifico Universitas Mercatorum ed Università telematica Pegaso
1 Si è rilevato in giurisprudenza che le cause della crisi dell’intervento pubblico nella gestione dei servizi vanno individuate
nell’eccessiva espansione dei settori di intervento, con l’esternalizzazione di attività svolte da apparati amministrativi;
nel graduale abbandono dell’ottica imprenditoriale per il perseguimento di finalità politiche e sociali; nella dipendenza
del sistema del finanziamento gestito dal potere politico; nell’inesistenza della “sanzione economica” a tutela dell’equilibrio finanziario della gestione” (Trib. Palermo 20.10.2014, Dir. fall, 2015, II, p. 259 ss., con nota di Fimmanò F. “L’insolvenza
dell’imprenditore «società pubblica» e la tutela dell’affidamento dei suoi creditori”).
2 In verità già da molti anni abbiamo stigmatizzato questa situazione paradossale (cfr. in particolare F. Fimmanò “Le società
di gestione dei servizi pubblici locali”, Riv. Not., 2009, p. 897 ss.) ed il disastro si sarebbe potuto evitare attraverso il semplice
utilizzo delle vecchie “aziende speciali”, definite un tempo “municipalizzate”.
3 A proposito di responsabilità la Sezione giurisdizionale della Corte dei Conti per la Regione siciliana con sentenza del 1.9.2015
17
Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
18
Nel nostro Paese le pubbliche amministrazioni, favorite dallo stesso legislatore, hanno
mantenuto la “sacca” del privilegio derivante
dall’affidamento diretto della gestione di attività e servizi pubblici a società interamente
partecipate e quindi in deroga ai fondamentali
principi comunitari della concorrenza e della
trasparenza. Negli ultimi 25 anni abbiamo assistito, per queste ragioni, ad un percorso legislativo incoerente, caratterizzato da frequenti
ripensamenti, fatta eccezione per una costante: la crescente e progressiva espansione delle
società a partecipazione pubblica locale, anche
attraverso la trasformazione di aziende speciali, consorzi ed istituzioni.
Da una parte v’è stata la tendenza ad ampliare l’ambito dei servizi pubblici includendo non
solo quelli aventi per oggetto attività economiche incidenti sulla collettività, ma anche
quelli riguardanti attività tendenti a promuovere lo sviluppo socio-economico delle comunità locali, fino ad arrivare ad affidare a società partecipate addirittura funzioni, che lungi
dal rientrare nell’ambito dei servizi pubblici
in senso proprio, costituivano tipiche attività
istituzionali o strumentali dell’ente. Dall’altra
parte è stata incentivata la gestione mediante
società partecipate in un’ottica rivolta (solo)
formalmente alla aziendalizzazione dei servizi e ad una privatizzazione effettiva (come
auspicato dal legislatore sin dal 1942) in realtà sostanzialmente diretta ad eludere procedimenti ad evidenza pubblica e a sottrarre
comparti dell’amministrazione ai vincoli di bilancio, anche in considerazione della mancata
applicazione all’ente-capogruppo dei principi di consolidamento di diritto societario
a partire dall’elisione delle partite reciproche4.
La tendenza espansiva del modello societario ha
subito, negli ultimi anni, almeno da un punto di
vista formale, una inversione5. Tuttavia, nonostante i tanti interventi normativi, è rimasto diffusissimo il modello organizzativo della società
in house, falcidiato più dai fallimenti che dalle
norme sulla spending review. Questo modello
gestorio trova la propria origine normativa in
una rivisitazione strumentale fatta dal legislatore italiano della giurisprudenza comunitaria,
che in particolare nella famosa sentenza Teckal
aveva escluso l’applicabilità delle norme sull’individuazione concorrenziale del concessionario
qualora l’ente “eserciti sulla persona di cui trattasi un controllo analogo a quello da esso esercitato sui propri servizi e questa persona realizzi
la parte più importante della propria attività con
l’ente o con gli enti locali che la controllano”6.
Si noti che si tratta, e non a caso, proprio delle
medesime espressioni “mutuate” poi dal nostro
legislatore per legittimare l’affidamento diretto
ed in deroga.
n. 778 (inedita) dopo aver affermato la propria giurisdizione su una società in house ha stabilito che, essendo le assunzioni di
personale vietate per esigenze di contenimento delle spese, sono di per sé dannose e causa di risarcimento dei danni.
4 L’introduzione del bilancio consolidato civilistico per la holding-ente pubblico poteva rappresentare una scelta funzionale
all’indirizzo ed al coordinamento dell’intero gruppo pubblico locale (cfr. Tredici A. “Il bilancio consolidato del gruppo pubblico locale quale strumento di programmazione e controllo”, Controllo soc. enti, 2006, p. 256 ss.). Solo con il DLgs. 23.6.2011
n. 118, recante disposizioni in materia di armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle Regioni, degli
enti locali e dei loro organismi, si è previsto che tali enti territoriali adottino “comuni schemi di bilancio consolidato con i propri
enti ed organismi strumentali, aziende, società controllate e partecipate e altri organismi controllati” (art. 11 co. 1). Tale importante innovazione che impone (e non facoltizza più) l’adozione di un bilancio preventivo (e non solo un conto consuntivo)
di tipo consolidato, è progressiva nel corso del tempo, mediante la previsione, ai sensi dell’art. 36 del DLgs. 118/2011, di
un periodo di sperimentazione biennale (2012-2013), coinvolgente talune amministrazioni pubbliche territoriali prescelte
in ragione della loro collocazione geografica e densità demografica, per poi entrare a regime dall’anno finanziario 2014. In
tema cfr. già Fimmanò F. “L’ordinamento delle società pubbliche tra natura del soggetto e natura dell’attività”, in “Le società
pubbliche. Ordinamento, crisi ed insolvenza”, a cura di Fimmanò F., Giuffrè, Milano, 2011, p. 12 ss.
5 Alla data di emanazione del decreto Bersani si era calcolato che le partecipazioni, dirette e indirette, detenute dallo
Stato attraverso il Ministero delle Finanze riguardavano circa 400 società, mentre le società partecipate dalle amministrazioni locali (Comuni, Province, Regioni e Comunità montane) erano 4.874, legate ai tradizionali compiti di prestazione
di servizi pubblici negli ambiti territoriali di loro competenza (Rapporto Assonime settembre 2008 “Principi di riordino del
quadro giuridico delle società pubbliche”, www.emagazine.assonime.it).
6 Corte di giustizia 18.11.1999 causa C-107/98 Teckal s.r.l. contro Comune di Viano, in Banca Dati Eutekne e Riv. it. dir. pubbl.
com., 2000, p. 1393 ss. In modo più o meno conforme: Corte di giustizia 10.11.1998 causa C-360/96, Bfi Holding contro G.
Arnhem e G. Rheden; Corte di giustizia 9.9.1999 causa C-108/98, Ri.San srl contro Comune di Ischia; Corte di giustizia
7.12.2000 causa C-94/99, Arge Gewasserschutz contro Bundesministerium fur Land und Forstwirtschaft.
In realtà il legislatore italiano ha usato l’escamotage di far proprie le espressioni usate
nella famosa sentenza della Corte di giustizia
(ed in quelle analoghe successive) riguardanti un consorzio tra Comuni, per applicarle ad
un soggetto giuridico completamente diverso
e cioè ad una società di capitali. Da questa
operazione sono nati anche una serie di equivoci con il “livello comunitario” anche perché
solo gli italiani hanno pensato di utilizzare la
società per ragioni “meramente opportunistiche” e di “retrobottega”. Dell’applicabilità
alle società di capitali del modello c.d. Teckal,
riguardante un soggetto giuridico del tutto
diverso, si era giustamente dubitato. D’altra
parte, la società si distingue dall’azienda speciale e dal consorzio proprio per l’estraneità e
l’autonomia (perfetta sul piano patrimoniale)
rispetto all’apparato amministrativo dell’ente locale, di cui non è certamente organismo
strumentale. L’affidamento in house esige un
rapporto di delegazione interorganica che
da un punto di vista civilistico è assolutamente improponibile tra una società di capitali ed
il suo socio, tra i quali v’è comunque il diaframma della personalità giuridica.
In realtà, secondo l’orientamento della Corte di giustizia, la normativa comunitaria sui
pubblici appalti, ed in particolare la procedura ad evidenza pubblica, non trova applicazione quando tra le due figure interessate
(amministrazione aggiudicatrice e aggiudicatario) non si è in presenza di un vero e proprio rapporto contrattuale, come nel caso di
delegazione interorganica, la quale esclude
tra essi la terzietà e consente l’applicazione
dell’istituto dell’affidamento diretto.
Dalla regola comunitaria riguardante gli effetti generali ed astratti del principio di im-
medesimazione il legislatore italiano ha trovato, invece, abilmente la chiave di lettura
per affidare i servizi pubblici locali a società
che vengono trattate come soggetti privati
quando si tratta di spendere e soggetti pubblici quando si tratta di subirne le conseguenze. Ma è arrivato ad un certo punto il redde
rationem per questa impostazione double
face. Infatti quando la società, in un modo
o nell’altro, viene trattata a guisa di organo
dell’ente, come la Corte di giustizia UE ha ritenuto possibile, ci sono inevitabilmente delle
conseguenze gravi sul piano dell’applicazione delle regole societarie che ne disciplinano
l’organizzazione ed il funzionamento, anche
per quanto concerne ai nostri fini la responsabilità degli organi sociali.
Questa costruzione ha rivelato, evidentemente,
una oggettiva debolezza da due diversi punti
di vista: quello pubblicistico, in quanto la società, specie quella per azioni, non può mai per
sua natura essere idonea alla configurazione di
quel “controllo analogo” che la legge richiede,
se non come vedremo attraverso strumenti
contrattuali che producono effetti sistemici; e
quello privatistico, in quanto la configurazione
della fattispecie, laddove possibile, produce di
per sé il fenomeno di abuso di direzione e coordinamento, in violazione dei criteri di corretta gestione societaria ed imprenditoriale7, con
conseguenze gravi sia per l’ente che per la sua
società. Il tutto è reso ancora più complesso ed
artificioso nel caso in cui gli enti pubblici soci
siano più d’uno, considerato che si è ritenuto
ammissibile anche in questo caso l’esercizio
congiunto del “controllo analogo”8, in virtù di
patti parasociali9.
I giudici europei sono intervenuti ripetutamente sui problemi in esame ed in linea con quanto
7 Sugli effetti del c.d. dominio abusivo, mi permetto di rinviare a Fimmanò F. “La responsabilità da abuso del dominio dell’ente
pubblico in caso di insolvenza della società controllata”, Dir. fall., 2010, p. 724 ss.; cfr. in tema anche Carlizzi M. La direzione
unitaria e le società partecipate dagli enti pubblici”, Riv. dir. comm., 2010, I, p. 1177 ss.
8 Consiglio di Stato, Sez. V, 24.11.2010 n. 7092.
9 La Corte di giustizia UE ha affermato che quando più autorità pubbliche, nella loro veste di amministrazioni aggiudicatrici,
istituiscono in comune un’entità incaricata di adempiere compiti di servizio pubblico ad esse spettanti, oppure quando
un’autorità pubblica aderisce ad un’entità siffatta, la condizione enunciata dalla giurisprudenza della stessa, secondo cui
tali autorità, per essere dispensate dal loro obbligo di avviare una procedura di aggiudicazione di appalto pubblico in conformità alle norme del diritto dell’Unione, debbono esercitare congiuntamente sull’entità in questione un controllo analogo
a quello da esse esercitato sui propri servizi, è soddisfatta qualora ciascuna delle autorità stesse partecipi sia al capitale
19
Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
20
già stabilito nelle sentenze Stadt Halle e Parking Brixen10 affermano ormai che le due condizioni del “controllo analogo” e della realizzazione della “parte più importante della
propria attività” devono essere interpretate in
modo restrittivo, mentre l’onere di dimostrare
l’effettiva sussistenza delle circostanze eccezionali che giustificano la deroga a quelle regole grava su chi intenda avvalersene. La Corte
riconduce la nozione di “controllo” nell’alveo
dell’esercizio da parte dell’ente affidante di
un’influenza determinante sia sugli obiettivi
strategici che sulle decisioni importanti delle
società partecipate11, avendo cura di precisare
che la detenzione in mano pubblica dell’intero
capitale sociale dell’affidataria non è elemento
sufficiente e decisivo ai fini della sussistenza
del requisito in parola.
Quanto alla definizione dell’altro requisito richiesto dalla giurisprudenza comunitaria perché sia possibile l’affidamento diretto del servizio, vale a dire “lo svolgimento della parte più
importante dell’attività a favore dell’ente controllante”, il ragionamento compiuto dalla Corte muove dall’esigenza di tutelare il libero gioco
della concorrenza. Ogni altra diversa attività da
quella principale, svolta dalla affidataria, deve
essere considerata assolutamente marginale. A
tal proposito, la Corte evidenzia come il vincolo
funzionale che lega l’affidataria all’amministrazione aggiudicatrice, in un certo senso, imponga all’impresa di svolgere la propria attività
all’interno del territorio del soggetto pubblico,
pur non considerando l’extraterritorialità elemento decisivo ai fini della verifica della sussistenza del “controllo analogo”.
Va ricordato che le direttive 26.2.2014 sugli
appalti pubblici generali (art. 12 della direttiva
2014/24/UE), sugli appalti nei settori speciali –
acqua, energia, trasporti, servizi postali e difesa – (art. 28 della direttiva 2014/25/UE) e sulle
concessioni (art. 17 della direttiva 2014/23/
UE) hanno preso in considerazione per la prima
volta nella normativa europea l’istituto dell’in
house providing di creazione giurisprudenziale12. L’art. 12, par. l, citato richiede, ai fini
dell’esclusione dei contratti tra soggetti pubblici dall’applicazione della direttiva, che:
1. l’amministrazione aggiudicatrice debba svolgere sull’altro ente pubblico un controllo
analogo a quello che esercita sui propri dipartimenti/servizi;
sia agli organi direttivi dell’entità (Corte giustizia 29.11.2012 cause riunite C-182/11 e C-183/11, Econord) Le Sezioni Unite
della Cassazione nelle sentenze del 2013 e 2014 hanno confermato che è possibile che il capitale sociale faccia capo ad
una pluralità di soci, purché si tratti sempre di enti pubblici, e che occorre pur sempre, comunque, che lo statuto inibisca in
modo assoluto la possibilità di cessione a privati delle partecipazioni societarie di cui gli enti pubblici siano titolari.
10 Corte di giustizia 11.1.2005 causa C-26/03, Stadt Halle e RPL Lochau; Corte di giustizia 13.10.2005 causa C-458/03, Parking
Brixen Gmbh. Da ultimo cfr. Corte di Giustizia C-182/11 e C- 183/11, cit.
11 Uno degli interventi più rilevanti in materia di affidamento in house da parte di enti pubblici italiani è contenuto nella sentenza della Corte di giustizia 11.5.2006 causa C-340/04, Agesp, in Banca Dati Eutekne (in cui i giudici comunitari hanno avuto
modo di affrontare una controversia riguardante la fornitura di combustibili e la manutenzione degli impianti termici a
favore del Comune di Busto Arsizio disciplinata attraverso la stipula di contratti, qualificati come appalti di fornitura, aggiudicati, senza gara, alla società Agesp spa in ragione del controllo esercitato sul soggetto affidatario dal Comune mediante
l’Agesp holding spa, società a capitale interamente pubblico. Nello stesso senso Corte di giustizia 17.7.2008 causa C-371/05
Asi. In tema cfr. pure in argomento, Libertini M. “Le società di autoproduzione in mano pubblica: controllo analogo, destinazione prevalente dell’attività ed autonomia statutaria”, in “Il diritto delle società oggi. Innovazioni e persistenze”, Studi in
onore di Giuseppe Zanarone, a cura di Benazzo P., Cera M., Patriarca S., UTET, Torino, 2011, p 496 ss.
12 Il parere n. 298/2015 reso dal Consiglio di Stato analizza al riguardo la nuova disciplina introdotta dalla direttiva 2014/24/
UE che, nel qualificare in rubrica la materia come quella afferente gli “appalti pubblici tra enti nell’ambito del settore pubblico”, ha definito in modo parzialmente diverso le condizioni di esclusione dalla direttiva stessa. Relativamente al requisito
dello svolgimento dell’attività prevalente nel parere n. 298/2015 citato si precisa che il dato della “prevalenza” dell’attività
trova quindi ormai una compiuta e dettagliata quantificazione nell’art. 12 della direttiva 26.2.2014 n. 2014/ 24/ UE (che ha
abrogato la direttiva 2004/18/CE) secondo cui “oltre l’80% delle attività della persona giuridica controllata sono effettuate nello
svolgimento dei compiti ad essa affidati dall’amministrazione aggiudicatrice controllante o da altre persone giuridiche controllate
dall’amministrazione aggiudicatrice” (art.12 cit., § 1 lett. b). Ancora più in dettaglio, precisa il Consiglio di Stato, il § 5 dell’art.
12 cit. stabilisce che “per determinare la percentuale delle attività di cui al paragrafo 1, primo comma, lettera b), al paragrafo
3, primo comma, lettera b), e al paragrafo 4, lettera c), si prende in considerazione il fatturato totale medio, o una idonea misura
alternativa basata sull’attività, quali i costi sostenuti dalla persona giuridica o amministrazione aggiudicatrice in questione nei
campi dei servizi, delle forniture e dei lavori per i tre anni precedenti l’aggiudicazione dell’appalto”, ponendo quindi disposizioni
di compiutezza tale da farle ritenere “self-executing”, avendo indubbiamente “contenuto incondizionato e preciso” (cosi Cass.
SS.UU. 16.6.2014 n. 13676, in Banca Dati Eutekne).
2.più dell’80% delle prestazioni dell’altro
ente pubblico siano effettuate a favore
dell’amministrazione aggiudicatrice o di un
altro ente pubblico controllato dalla prima;
3. l’altro ente pubblico che riceve l’affidamento dall’amministrazione aggiudicatrice non
sia controllato da capitale privato, a meno
che non si tratti di partecipazione di controllo o di blocco, secondo le disposizioni
nazionali e che in ogni caso tale partecipazione non determini influenza dominante.
Nelle more dell’attuazione interna alle nuove
direttive (che dovrà avvenire entro il termine di legge del 18 aprile 2016), si può solo
ricordare che gli Stati membri hanno la possibilità di adeguarsi con margini di autonomia
piuttosto ampi, scegliendo la linea soft ovvero
imponendo requisiti più stringenti: ad esempio, in riferimento al capitale privato la legge
italiana di recepimento potrebbe richiedere
una percentuale che oscilla dall’1% al 49%;
così come in relazione alla quota di attività
svolta in favore dell’ente partecipante la legge interna potrebbe confermare la soglia UE
dell’80% o innalzarla fino al 99%.
L’ADATTAMENTO
ALLA GIURISPRUDENZA
INTERNA AI FINI
DELLA GIURISDIZIONE
SULLE AZIONI
DI RESPONSABILITÀ
Le Sezioni Unite della Cassazione hanno scelto
di adattare l’impostazione comunitaria al fine di
riconoscere la giurisdizione piena della Corte
dei Conti sulle azioni di responsabilità agli
organi sociali delle “famigerate” società in house13. I giudici del Supremo consesso qualificano,
in modo in verità assai opinabile, questo genere
di società come una mera articolazione interna
della P.A., una sua longa manus, al punto che
l’affidamento diretto neppure consentirebbe di
configurare un rapporto intersoggettivo, di talché l’ente in house “non potrebbe ritenersi terzo
rispetto all’amministrazione controllante ma
dovrebbe considerarsi come uno dei servizi propri dell’amministrazione stessa”.
Le ormai numerose sentenze delle Sezioni Unite si rifanno tutte alla pronuncia del 25.11.2013
n. 2628314, il cui passaggio più forte è quello
secondo cui “il velo che normalmente nasconde
il socio dietro la società è dunque squarciato:
la distinzione tra socio (pubblico) e società (in
house) non si realizza più in termini di alterità
soggettiva”.
L’uso del vocabolo società, quindi, servirebbe solo a significare che, ove manchino più
specifiche disposizioni di segno contrario, il
paradigma organizzativo andrebbe desunto
dal modello societario; ma di una società di
capitali, intesa come persona giuridica autonoma cui corrisponda un autonomo centro
decisionale e di cui sia possibile individuare
un interesse suo proprio, non sarebbe più possibile parlare. Ne consegue che gli organi di
tali società, assoggettati come sono a vincoli
gerarchici facenti capo alla pubblica amministrazione, neppure potrebbero essere considerati (a differenza di quanto accade per gli
13 Cass. SS.UU. 25.11.2013 n. 26283, in Banca Dati Eutekne; Le Società, 2014, p. 55 ss. con nota di Fimmanò F. “La giurisdizione
sulle «società in house providing»”, e Fall., 2014, p. 33 ss., con nota di Salvato L. “Riparto della giurisdizione sulle azioni di
responsabilità nei confronti degli organi sociali delle società in house”; e poi nello stesso senso: Cass. SS.UU. 16.12.2013 n.
27993; Cass. 26.3.2014 n. 7177; Cass. 24.10.2014 n. 22609, tutte in Banca Dati Eutekne. Nello stesso senso, ma con approdo
opposto: Cass. SS.UU. 10.3.2014 n. 5491, ivi e Le Società, 2014, p. 953 ss., con nota di Cerioni F.; Cass. SS.UU. 2.12.2013 n.
26936, in Banca Dati Eutekne, che non riconoscono la giurisdizione contabile per l’inesistenza dei tre requisiti individuati:
la necessaria appartenenza pubblica del capitale della società (con la previsione statutaria del divieto di cedere a soggetti
privati quote della stessa), l’inesistenza di margini di libera agibilità sul mercato (neppure attraverso partecipate e la sottoposizione a controllo analogo (che non può ridursi al potere di nomina degli organi sociali). Cass. SS.UU. 24.3.2015 n. 5848,
in Banca Dati Eutekne, ha statuito che la verifica dei requisiti – la cui esistenza occorre sia consacrata nello statuto sociale
e costituisce il presupposto per l’affermazione della giurisdizione della Corte dei Conti sull’azione di responsabilità – deve
esser svolta avendo riguardo al momento in cui risale la condotta ipotizzata come illecita.
14 Per un commento si rinvia a Iadecola A. “La giurisdizione della Corte dei Conti sulle società in house”, in questa Rivista,
2, 2014, pp. 54-68.
21
Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
22
amministratori delle altre società a partecipazione pubblica), come investiti di un mero munus privato, inerente ad un rapporto di natura
negoziale instaurato con la medesima società. Essi sarebbero preposti ad una struttura
corrispondente ad un’articolazione interna
alla stessa P.A. e quindi personalmente a
questa legati da un vero e proprio rapporto
di servizio, non diversamente da quel che accade per i dirigenti preposti ai servizi erogati
direttamente dall’ente pubblico. D’altro canto,
se non risulta possibile configurare un rapporto di alterità tra l’ente pubblico partecipante
e la società in house, che ad esso fa capo, la
distinzione tra il patrimonio dell’ente e quello
della società si porrebbe in termini di separazione patrimoniale, ma non di distinta titolarità. Dal che discenderebbe che, in questo caso,
il danno eventualmente inferto al patrimonio
della società da atti illegittimi degli amministratori, cui possa aver contribuito un colpevole difetto di vigilanza imputabile agli organi
di controllo, sarebbe arrecato ad un patrimonio (separato, ma pur sempre) riconducibile
all’ente pubblico: è quindi un danno erariale,
che giustificherebbe l’attribuzione alla Corte dei Conti della giurisdizione sulla relativa
azione di responsabilità.
La ragione per cui la Cassazione adatta (in
modo forzoso) la costruzione giuspubblicistica e comunitaria Teckal al diritto interno delle
società, con i notevoli rischi sistemici conseguenti, nasce, a nostro avviso, dalla consapevolezza che ancora più ardita sarebbe stata la
riqualificazione delle società in house in enti
pubblici in assenza di norme espresse, come
si è tentato in passato (e che infatti viene
esclusa). Le Sezioni Unite cercano di rimanere
nel solco tracciato dagli stessi giudici di legittimità tentando di limitare, per quanto possibile, di contraddire il quadro delineato con
riferimento più generale alle società pubbliche. Infatti la stessa Cassazione, nell’arresto
dell’ottobre 2013 in tema di insolvenza 15, era
pervenuta ad una serie di conclusioni siste-
matiche assolutamente rilevanti rispetto al
tema che ci occupa. Innanzitutto, si è affermato che una società non muta la sua
natura di soggetto privato solo perché un
ente pubblico ne possiede, in tutto o in parte, il capitale. Peraltro proprio dall’esistenza
di specifiche normative di settore (anche di
matrice comunitaria e giuspubblicistica) che
– negli ambiti da esse delimitati attraggono nella sfera del diritto pubblico anche
soggetti di diritto privato – può ricavarsi
a contrario, che, ad ogni altro effetto, tali
soggetti continuano a soggiacere alla disciplina privatistica. I giudici hanno richiamato
l’art. 4 della L. 20.3.1975 n. 70 che, nel prevedere che nessun nuovo ente pubblico può essere istituito o riconosciuto se non per legge,
evidentemente richiede che la qualità di ente
pubblico, se non attribuita da una espressa disposizione di legge, debba quantomeno
potersi desumere da un quadro normativo di
riferimento chiaro ed inequivoco. Eventuali
norme speciali che siano volte a regolare la
costituzione della società, la partecipazione
pubblica al suo capitale e la designazione dei
suoi organi, non incidono sul modo in cui essa
opera nel mercato né possono comportare il
venir meno delle ragioni di tutela dell’affidamento dei terzi contraenti contemplate dalla
disciplina privatistica. L’eventuale divergenza
causale rispetto allo scopo lucrativo, si legge
sempre nella sentenza, non appare sufficiente
ad escludere che, laddove sia stato adottato
il modello societario, la natura giuridica e le
regole di organizzazione della partecipata restino quelle proprie di una società di capitali
disciplinata in via generale dal codice civile.
Insomma ciò che rileva nel nostro ordinamento ai fini dell’applicazione dello statuto dell’imprenditore commerciale non è il
tipo dell’attività esercitata, ma la natura
del soggetto. Se così non fosse si dovrebbe
giungere alla conclusione che anche le società a capitale interamente privato cui sia
affidata in concessione la gestione di un ser-
15 Cass. 27.9.2013 n. 22209, Il Caso.it (al riguardo cfr. Fimmanò F. “Il fallimento delle società pubbliche”, Gazzetta forense,
11/12, 2013, p. 13 ss.).
vizio pubblico ritenuto essenziale sarebbero
esentate dal fallimento. Viceversa, una volta
che il legislatore ha permesso di perseguire
l’interesse pubblico attraverso lo strumento
privatistico, da ciò consegue l’assunzione dei
rischi connessi, pena la violazione dei principi
di uguaglianza e di affidamento dei soggetti
che con esse entrano in rapporto ed attesa la
necessità del rispetto delle regole della concorrenza 16.
Sempre la Cassazione, in una sentenza della
fine del 201217, aveva fissato un altro importante principio che in qualche modo chiudeva il
cerchio e cioè che le società a partecipazione
pubblica costituite nelle forme previste dal
codice civile ed aventi ad oggetto un’attività
commerciale sono imprenditori commerciali,
indipendentemente dall’effettivo esercizio di
una siffatta attività, in quanto esse acquistano tale qualità dal momento della loro costituzione, non dall’inizio del concreto esercizio
dell’attività d’impresa, al contrario di quanto
avviene per l’imprenditore individuale. Sicché,
mentre quest’ultimo è identificato dall’esercizio effettivo dell’attività, relativamente alle società commerciali è lo statuto a compiere tale
identificazione, realizzandosi l’assunzione della
qualità in un momento anteriore a quello in cui
è possibile, per l’impresa non collettiva, stabilire
che la persona fisica abbia scelto tra i molteplici fini potenzialmente raggiungibili quello con-
nesso alla dimensione imprenditoriale. Il controllo totale di una pubblica amministrazione
su una società di capitali partecipata non può
dar vita a un “tipo” di diritto speciale sulla
base di un supposto (ma inesistente) principio
di neutralità della forma giuridica rispetto alla
natura dello scopo, né ad una sua connotazione pubblicistica18, frutto di una sorta di mutazione genetica nel senso di una riqualificazione
del soggetto19.
Si può parlare di società di diritto speciale soltanto laddove una espressa disposizione legislativa introduca deroghe alle statuizioni del
codice civile, nel senso di attuare un fine pubblico incompatibile con la causa lucrativa prevista dall’art. 2247 c.c.20, con la conseguente
emersione normativa di un tipo con causa pubblica non lucrativa21. Viceversa, a parte i casi
di società c.d. “legali” (istituite, trasformate o
comunque disciplinate con apposita legge speciale), ci troviamo sempre di fronte a società di
diritto comune, in cui pubblico non è l’ente partecipato bensì il soggetto, o alcuni dei soggetti,
che vi partecipano e nella quale, perciò, la disciplina pubblicistica che regola il contegno del
socio pubblico e quella privatistica che regola il
funzionamento della società convivono. In particolare, con riferimento ad una ipotesi di società legale si sono recentemente pronunciate
le Sezioni Unite, in tema di giurisdizione, marcandone la differenza con le società in house22.
23
16 Qualche mese prima una certa giurisprudenza di merito aveva affrontato, e risolto in modo assai simile, con diverse sentenze “sistematiche” e “complementari” il tema della insolvenza delle c.d. società pubbliche, sviluppando in modo analitico
tutte le questioni poste dalla evoluzione normativa, giurisprudenziale e dottrinale (App. Napoli 24.4.2013 n. 57 e App. Napoli
27.5.2013 n. 346, Fall., 2013, p. 1296 es. con nota di Fimmanò F. “La società pubblica, anche se in house, non è un ente
pubblico ma un imprenditore commerciale e quindi è soggetta a fallimento”; App. Napoli 27.6.2013 n. 84, (inedita) sempre
nel senso della fallibilità, con il quale dopo aver richiamato il DLgs. 165/2001 – che individua le amministrazioni pubbliche
– afferma che “il rilievo pubblico di alcuni organismi strutturati in forma civilistica consente l’applicazione di determinati istituti
di natura pubblicistica, ma non consente di qualificare l’ente come pubblico e di sottrarlo alla ordinaria disciplina codicistica”).
17 Cass. 6.12.2012 n. 21991, in Banca Dati Eutekne e Fall., 2013, p. 1273, con nota di Balestra L. “Concordato di società a partecipazione pubblica e profili di inammissibilità della domanda”.
18 Cfr. in particolare Consiglio di Stato sentenze: 2.3.2001 n. 1206, Foro amm., 2001, II, p. 614; 17.9.2002 n. 4711, Foro It., 2003,
III; 5.3.2002 n. 1303, Foro It., 2003, III, c. 238.
19 Nel senso della riqualificazione cfr. tra gli altri: Consiglio di Stato n. 1206/2001, cit.; n. 4711/2002, cit.; n. 1303/2002, cit.
20 Al riguardo: Visentini G. “Partecipazioni pubbliche in società di diritto comune e di diritto speciale”, Giuffrè, Milano, 1979, p. 4
ss.; Mazzarelli M. “La società per azioni con partecipazione comunale”, Giuffrè, Milano, 1987, p. 117; Marasà G. “Le «società»
senza scopo di lucro”, Giuffrè, Milano, 1984, p. 353; Spada P. “La Monte Titoli S.p.a. tra legge ed autonomia statutaria”, Riv.
dir. civ., 1987, II, p. 552.
21 Al riguardo Guarino R. “La causa pubblica nel contratto di società”, in “Le società pubbliche. Ordinamento, crisi ed insolvenza”, cit., p. 131 ss.
22 Cass. SS.UU. 9.7.2014 n. 15594, (al riguardo cfr. Valaguzza S. “Le società a partecipazione pubblica e la vana ricerca della
coerenza nell’argomentazione giuridica”, Dir. proc. amm., 2014, p. 862 ss.).
Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
24
La strada dell’affermazione della giurisdizione
contabile attraverso la riqualificazione soggettiva è insomma sbarrata, in quanto solo una
legge può riqualificare una società a partecipazione pubblica come ente pubblico e quando
ha ritenuto di farlo lo ha fatto. E ciò trova conferma nel divieto di cui all’art. 4 della L. 70/75,
che per porre un freno all’incontrollata proliferazione di enti pubblici, dispose la soppressione
di tutti quelli esistenti alla data della sua entrata in vigore, fatte salve le sole eccezioni dalla
stessa specificamente indicate, al contempo
vietandone l’istituzione o il riconoscimento di
nuovi mediante atti non aventi forza di legge23.
La riqualificazione di una società di capitali in
ente sostanzialmente pubblico affermata da un
diritto pretorio, è una operazione interpretativa non consentita in base alla predetta riserva
di legge, ed in virtù del principio di cui all’art.
101 Cost., che impedisce di negare l’efficacia
precettiva delle norme oltre i limiti consentiti
dall’interpretazione, la quale non può mai porsi
contra legem.
NATURA
DEL SOGGETTO
GIURIDICO
E DELL’ATTIVITÀ
ECONOMICA SVOLTA
Discorso affatto diverso riguarda l’attività
economica svolta dalle società in esame. Ad
esempio, la normativa comunitaria e nazionale
in tema di appalti pubblici comprende tra le
pubbliche amministrazioni, assoggettate alle
norme che impongono il rispetto dell’evidenza
pubblica e delle procedure concorrenziali trasparenti conformi ai principi comunitari, non
solo i soggetti formalmente pubblici, ma anche
quelli con veste privata, ma sottoposti ad un
controllo pubblico, al fine di evitare l’elusione
dei vincoli procedimentali24.
Nello stesso senso va la legislazione in tema
di “criteri e modalità per il reclutamento del
personale e per il conferimento degli incarichi”.
Naturale conseguenza è che le relative controversie sono attribuite alla giurisdizione del
giudice amministrativo alla luce dell’art. 103
Cost. Sulla base della medesima impostazione
si è registrato un ampliamento della giurisdizione della Corte dei Conti sulla responsabilità
amministrativa nei confronti di amministratori
e dipendenti non solo degli enti pubblici economici ma anche di soggetti formalmente privati,
essendo sufficiente la natura oggettivamente pubblica del danno e cioè il collegamento
anche indiretto con la finanza pubblica25, a
prescindere dalla natura giuridica del soggetto
o dalla veste utilizzata26. Si è sostituito ad un
criterio eminentemente soggettivo, che identificava l’elemento fondante della giurisdizione
della Corte dei Conti nella condizione giuridica pubblica dell’agente, un criterio oggettivo
che fa leva sulla natura pubblica delle funzioni
espletate e delle risorse finanziarie a tal fine
adoperate. Pertanto, quando si discute del riparto della giurisdizione tra Corte dei Conti e
giudice ordinario, occorre aver riguardo al rapporto di servizio tra l’agente e la pubblica amministrazione tenendo conto che per tale può
intendersi anche una relazione con la pubblica
amministrazione caratterizzata dal fatto di investire un soggetto, altrimenti estraneo all’amministrazione medesima, del compito di porre
23 In questo senso da ultime, App. Napoli 24.4.2013 e App. Napoli 27.5.2013, cit.
24 Il codice degli appalti, di cui al DLgs. 163/2006, impone il rispetto delle regole di evidenza pubblica ad una serie di soggetti
(comprese società per azioni miste o totalmente private) solo al fine dello specifico settore degli appalti.
25 L’organo a cui compete il controllo contabile e di legalità degli enti pubblici è, ai sensi dell’art. 100 Cost., la Corte dei Conti
e ai fini del controllo contabile e della responsabilità contabile rileva il dato sostanziale della permanenza dell’ente nella
sfera delle finanze pubbliche. La qual cosa conseguentemente rende necessari controlli finalizzati a verificare la corretta
gestione del denaro pubblico; al contrario risulta irrilevante ai detti fini il dato formale della veste societaria, sotto questo
profilo neutra e irrilevante (Corte Cost. 23.12.1993 n. 446).
26 Sul tema più in generale cfr. Buccarelli A. “Il sistema della responsabilità amministrativa e civile nelle società di capitale
pubbliche”, in “Le società pubbliche. Ordinamento, crisi ed insolvenza”, cit., 2011, p. 403 ss.; Miele T “La responsabilità contabile concorrente degli amministratori delle società partecipate in caso di insolvenza”, ivi, 2011, p. 450 ss.
in essere in sua vece un’attività, senza che rilevi
né la natura giuridica dell’atto di investitura –
provvedimento, convenzione o contratto – né
quella del soggetto che la riceve, sia essa una
persona giuridica o fisica, privata o pubblica27.
L’affidamento da parte di un ente pubblico ad
un soggetto esterno, da esso controllato, della
gestione di un servizio pubblico integra una
relazione funzionale incentrata sull’inserimento del soggetto medesimo nell’organizzazione funzionale dell’ente pubblico e ne implica, conseguentemente, l’assoggettamento alla
giurisdizione della Corte dei Conti per danno
erariale, a prescindere dalla natura privatistica dello stesso soggetto e dello strumento
contrattuale con il quale si sia costituito ed
attuato il rapporto, anche se l’estraneo venga
investito solo di fatto dello svolgimento di una
data attività in favore della pubblica amministrazione ed anche se difetti una gestione del
danaro secondo moduli contabili di tipo pubblico o secondo procedure di rendicontazione
proprie della giurisdizione contabile in senso
stretto. Lo stesso dicasi per l’accertamento della responsabilità erariale conseguente
all’illecito o indebito utilizzo, da parte di una
società privata, di finanziamenti pubblici; o
per la responsabilità in cui può incorrere il
concessionario privato di un pubblico servizio
o di un’opera pubblica, quando la concessione investe il privato dell’esercizio di funzioni
obiettivamente pubbliche, attribuendogli la
qualifica di organo indiretto dell’amministrazione, onde egli agisce per le finalità proprie
di quest’ultima28. Nella medesima logica la
Cassazione ha riconosciuto per anni la giurisdizione della magistratura contabile sugli
organi delle società a partecipazione pubblica
solo là dove ed in quanto si arrechi un danno erariale all’azionista pubblico. Il risarcimento va dunque all’erario poiché il danno è
direttamente alle casse pubbliche e in via mediata alla partecipazione del socio pubblico29.
Dunque tali società sono assoggettate a regole analoghe a quelle applicabili ai soggetti
pubblici nei settori di attività in cui assume
rilievo preminente rispettivamente la natura sostanziale degli interessi pubblici coinvolti e le finanze; saranno invece assoggettate alle normali regole privatistiche ai fini
dell’organizzazione e del funzionamento. E
ciò vale anche per l’istituzione, la modificazione e l’estinzione, ove gli atti propedeutici alla
formazione della volontà negoziale dell’ente
sono soggetti alla giurisdizione amministrativa, ma gli atti societari rientrano certamente
nella giurisdizione del giudice ordinario.
Così per le controversie riguardanti l’organizzazione societaria, la giurisprudenza ha affermato che non è sufficiente il mero coinvolgimento dell’interesse pubblico per giustificare
l’attrazione in capo al giudice amministrativo.
In questo senso è stato ad esempio risolto il
caso della nomina o della revoca degli amministratori30 da parte di un ente pubblico: l’atto
persegue un fine pubblico ma rimane un atto
societario in quanto espressione di una prerogativa squisitamente privatistica e non certo
di un potere pubblicistico31. Né la partecipazione dell’ente giustifica valutazioni diverse
27 Cass. SS.UU. 3.7.2009 n. 15599, Mass. Giur. It., 2009; Cass. SS.UU. 31.1.2008 n. 2289, Mass. Giur. It., 2008; Cass. SS.UU. 22.2.2007
n. 4112, Mass. Giur. It., 2007; Cass. SS.UU. 20.10.2006 n. 22513, Foro It., 2007, c. 2483; Cass. SS.UU. 5.6.2000 n. 400, Mass. Giur.
It., 2000; Cass. SS.UU. 30.3.1990 n. 2611, Giust. Civ., 1990, I, p. 1726.
28 Cass. SS.UU. 5.6.2008 n. 14825, Mass. Giur. It., 2008.
29 Corte dei Conti, Sez. giur. Reg. Friuli Venezia-Giulia, 18.6.2009 n. 203; Corte dei Conti, Sez. I giur. Centr. App., 5.8.2008 n.
361/A; Sez. giur. Reg. Sardegna 16.5.2008 n. 1181. Sul tema cfr. anche Imparato L. “L’amministrazione straordinaria delle
società di riscossione degli enti locali. Il caso Tributi Italia s.p.a.” in “Le società pubbliche. Ordinamento, crisi ed insolvenza”,
cit., 2011, p. 687; Id. “Il rapporto tra provvedimenti cautelari contabili e le procedure concorsuali”, in “Diritto delle imprese in
crisi e tutela cautelare”, a cura di Fimmanò F., Giuffrè, Milano, 2012, p. 281.
30 Imparato L. “La revoca degli amministratori pubblici. Nota a sentenza n. 7063/2013 resa dal Tribunale di Napoli”, Gazzetta
Forense, 11/12, 2013, p. 37 ss.
31 In ordine al dibattito sulla natura della nomina e della revoca (e dei relativi effetti) cfr. da ultimo Trib. Palermo 13.2.2013,
in Banca Dati Eutekne, con nota di Meoli M. “Anche per i sindaci di nomina pubblica revoca al Tribunale”, Il Quotidiano del
Commercialista, www.eutekne.info, 28.3.2013 e Le Società, 2013, p. 1036 ss., con nota di Caprara A. In tema cfr. anche Cass.
15.10.2013 n. 23381, in Banca Dati Eutekne; Di Marzio F. “Insolvenza di società pubbliche e responsabilità degli amministratori. Qualche nota preliminare”, in “Le società pubbliche. Ordinamento, crisi ed insolvenza”, cit., p. 377 ss.
25
Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
26
della condotta degli organi sociali ai fini delle
loro responsabilità gestionali o di controllo32.
Il sistema delineato, in cui il soggetto giuridico
e la sua organizzazione sono disciplinati dalle
regole civilistiche e la relativa attività può essere disciplinata da regole giuspubblicistiche,
in sé abbastanza chiaro, è stato “confuso” dalla
sovrapposizione di norme e definizioni aventi
ad oggetto l’attività e dalla conseguente giurisprudenza amministrativa, a principi e norme di diritto civile e fallimentare. L’esempio
più eclatante è stato l’uso improprio (frutto di
una mancata visione interdisciplinare) dell’espressione “organismo di diritto pubblico” che è
stata utilizzata per riqualificare l’imprenditore
commerciale come soggetto di natura pubblica e non semplicemente, come operatore rientrante tra le amministrazioni aggiudicatrici,
che, com’è noto, sono tenute, nella scelta del
contraente, sia al rispetto della normativa comunitaria che al rispetto dei procedimenti di
evidenza pubblica previsti dalla normativa statale o regionale33.
Insomma una cosa è l’imprenditore commerciale (società a partecipazione pubblica o
meno, o concessionaria di servizio beni pubblici) che resta sempre tale ed assoggettato al
relativo statuto ed altra cosa è la sua qualificazione di “organismo pubblico” ai fini delle
norme cui assoggettare la sua particolare attività34. Ed ora anche la giurisprudenza amministrativa ha riconosciuto che la qualificazione
come organismo di diritto pubblico non determina di per sé l’esonero dal rispetto delle
regole civilistiche, se in fatto tale soggetto
abbia agito come operatore economico ben
potendo, sussistendo i requisiti da detta norma previsti, un ente con personalità di diritto
privato essere riconosciuto quale organismo di
diritto pubblico e viceversa. E la suprema Corte
ha confermato questi principi persino per quel
ridotto numero di “società legali” per le quali una ipotetica riqualificazione della natura
troverebbe almeno la sponda normativa cui la
sentenza in epigrafe fa riferimento35.
LA QUESTIONE
DELLA GIURISDIZIONE
SULLA RESPONSABILITÀ
DEGLI ORGANI SOCIALI
La Cassazione, sulla base di questa complessiva impostazione aveva individuato, almeno
fino alla citata sentenza a Sezioni Unite del
novembre del 2013, l’ambito della giurisdizione della Corte dei Conti sulle azioni di respon-
32 La Suprema Corte ha affermato che in una società di capitali a partecipazione pubblica, il venir meno del rapporto fiduciario
tra socio Amministrazione comunale e amministratori è rilevante, ai fini di integrare una giusta causa di revoca del mandato, solo quando i fatti che hanno determinato il venir meno dell’affidamento siano oggettivamente valutabili come idonei
a mettere in forse la correttezza e le attitudini gestionali dell’amministratore (Cass. n. 23381/2013, cit.).
33 Infatti l’art. 3 co. 26 del DLgs. 12.4.2006 n. 163, recante il codice degli appalti pubblici di lavori, servizi e forniture, soltanto “ai
fini del codice” medesimo, definisce “organismo di diritto pubblico [...] qualsiasi organismo, anche in forma societaria: istituito
per soddisfare specificatamente esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale; dotato di personalità giuridica; la cui attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di
diritto pubblico oppure la cui gestione sia soggetta al controllo di questi ultimi oppure il cui organo d’amministrazione, di direzione o di vigilanza sia costituito da membri dei quali più della metà è designata dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri
organismi di diritto pubblico”33. Anzi proprio queste disposizioni legislative di carattere settoriale costituiscono la migliore
dimostrazione dell’esigenza e dell’intento del legislatore di attrarre solo a determinati effetti nella sfera del diritto pubblico
soggetti che generalmente orbitano e che sono dunque destinati, per il resto, a rimanere nella sfera del diritto privato.
34 Chiarissima al riguardo è la Suprema Corte (Cass., SS.UU. 9.3.2012 n. 3692, Foro amm. CDS, 2012, p. 1498, con nota di Nicodemo S. “Società pubbliche e responsabilità amministrativa: le Sezioni Unite della Cassazione ritornano sulla questione
di giurisdizione”, secondo cui la qualificazione della società come organismo di diritto pubblico, rileva solo sul piano della
disciplina di derivazione comunitaria in materia di aggiudicazione degli appalti ad evidenza pubblica). In questo senso
chiaramente anche la Corte di giustizia 24.1.2012 causa C-282/10, in Banca Dati Eutekne e Riv. dir. int., 2012, p. 562, che
distingue chiaramente la forma giuridica del soggetto dalla circostanza che sia stato incaricato, con atto della pubblica
autorità, di prestare, sotto il controllo di quest’ultima, un servizio d’interesse pubblico e che disponga a tal fine di poteri che
oltrepassano quelli risultanti dalle norme che si applicano nei rapporti fra singoli.
35 Cass. SS.UU. 22.12.2011 n. 28329, Giust. civ. Mass., 2011, p. 1827 (secondo cui la Rai-Radiotelevisione spa, pur costituendo
un organismo di diritto pubblico ed essendo soggetta a varie forme di controllo ed indirizzo pubblici, resta pur sempre una
società per azioni, come tale soggetta alle regole privatistiche ove dalla legge non diversamente disposto).
sabilità avverso gli organi sociali di società a
partecipazione pubblica, in una lunga serie di
sentenze a partire dal noto pronunciamento
“spartiacque” n. 26806/2009 36.
La Suprema Corte, in virtù di questo orientamento37, ha risolto per diversi anni il problema
in modi opposti a seconda che l’azione avesse
ad oggetto un danno arrecato direttamente al
socio pubblico o, invece, al patrimonio sociale38.
Nel primo caso sanciva la sussistenza della
giurisdizione della Corte dei Conti e nel secondo, invece, rilevava:
• l’insussistenza di un rapporto di servizio fra
gli amministratori della società e l’ente pubblico socio;
• l’insussistenza di un danno erariale inteso in
senso proprio, essendo il pregiudizio arrecato al patrimonio della società, unico soggetto cui compete il risarcimento;
• l’inconciliabilità dell’ipotizzata azione contabile con le azioni di responsabilità esercitabili dalla società, dai soci e dai creditori
sociali a norma del codice civile.
Nei precedenti citati i giudici precisavano che
solo nel caso in cui l’evento dannoso fosse
prodotto dagli amministratori “direttamente”
a carico del socio-ente pubblico si sarebbe
configurata la responsabilità amministrativa
con sussistenza della giurisdizione del giudice
contabile. In buona sostanza, sulla base di una
peculiare interpretazione dell’art. 16-bis del DL
31.12.2007 n. 24839, veniva stabilito un criterio
generale, superando il carattere di specialità
che connoterebbe la materia, dove, fra le diverse tipologie di società, disciplinate da norme e principi differenti, l’unico denominatore
comune sarebbe la presenza di una pubblica
amministrazione nel capitale sociale. Insomma
secondo il consolidato orientamento, che resiste tuttora – salvo che per le società in house
providing – non v’è giurisdizione diretta della Corte dei Conti sulla responsabilità degli
amministratori e sindaci di questo tipo di
società in quanto non diviene essa stessa un
ente pubblico sol per il fatto di essere partecipata da una pubblica amministrazione.
GLI EFFETTI SISTEMICI
DEL “CONTROLLO
ANALOGO” SULLA
RESPONSABILITÀ
DELL’ENTE HOLDER
La volontà “politica” di porre al centro del si-
36 Cfr. Cass. SS.UU. 19.12.2009 n. 26806, in Banca Dati Eutekne e NDS, 3, 2010, p. 36 ss.; Cass. SS.UU. 15.1.2010 n. 519, Le Società, 2010, p. 803 ss.; Cass. SS.UU. 15.1.2010 nn. 520, 521, 522 e 523 e Cass, SS.UU. 23.2.2010 n. 4309; Cass. SS.UU. 9.4.2010
n. 8429, riferita al direttore generale, Le Società, 2010, p. 1177 ss.; Cass. SS.UU. 9.5.2011 n. 10063, Riv. corte conti, 2011,3-4,
p. 372 e Foro It. 2012, I, c. 832, Cass. SS.UU. 5.7.2011 n. 14655, Resp. civ. e prev.,2011, p. 2596, Giust. civ., 2012,p. 287; Cass.
SS.UU. 7.7.2011 n. 14957, Foro It., 2012, c. 831 (ove il danno era ravvisabile nella perdita di valore di una quota di partecipazione in società poi dichiarata fallita), Cass. SS.UU. 12.10.2011 n. 20941, Foro It., 2012, c. 831; Cass. SS.UU. n. 3692/2012,
cit.; Cass. SS.UU. 23.3.2013 n. 7374, Guida dir., 23, 2013, p. 57; Cass. SS.UU. 5.4.2013 n. 8352, Giust. civ. Mass., 2013. In tema in
precedenza ma di diverso tenore: Cass. SS.UU. 22.12.2003 n. 19667, Giur. It., 2003, p. 1830, Cass. SS.UU. 26.2.2004 n. 3899,
Giur. It., 2004, p. 1946, Cass. SS.UU. 15.2.2007 n. 3367, Mass. Giur. It., 2007, Cass. SS.UU. 27.9.2006 n. 20886, Foro It., 2007, c.
2484, Cass. SS.UU. 1.3.30026 n. 4511, Urb. e appalti, 2006, p. 570.
37 Si vedano in particolare al riguardo Cagnasso O. “La responsabilità degli amministratori di società a partecipazione pubblica secondo una recente e innovativa sentenza della Cassazione”, NDS, 3, 2010, p. 36 ss.; Salvago S. “La giurisdizione della
Corte dei conti in relazione alla posizione dei soggetti responsabili ed a quella degli enti danneggiati”, Giust. civ., 2010, I, p.
2505; Sinisi M. “Responsabilità amministrativa di amministratori e dipendenti di s.p.a. a partecipazione pubblica e riparto
di giurisdizione: l’intervento risolutivo delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione”, Foro amm., 2010, I, p. 77; Tenore V. “La
giurisdizione della Corte dei conti sulle s.p.a. a partecipazione pubblica”, Foro. Amm., p. 92; Patrito P. “Responsabilità degli
amministratori di società a partecipazione pubblica: profili di giurisdizione e diritto sostanziale”, Giur. It., 2010, p. 1709.
38 Un tipico danno diretto è considerato dalla suprema Corte quello all’immagine dell’ente (al riguardo cfr. Caravella L. “La lesione all’immagine dell’ente pubblico ed il risarcimento del danno”, in “Le società pubbliche. Ordinamento, crisi ed insolvenza”,
cit., 2011, p. 541 ss.).
39 Conv. L. 28.2.2008 n. 31. Con la strana norma del c.d. decreto milleproroghe 2008 è stata sancita la devoluzione in via
esclusiva alla giurisdizione del giudice ordinario della materia della responsabilità degli amministratori di società quotate
partecipate da amministrazioni pubbliche, anche in via indiretta, in misura inferiore al cinquanta per cento e delle loro controllate La norma lascia intendere, in realtà, che in tutti gli altri casi vi sia una giurisdizione della magistratura contabile che
non le è propria, ovvero per tutte le azioni di responsabilità riguardanti amministratori e dipendenti di società partecipate.
Se questa fosse stata la lettura, il legislatore avrebbe dato seguito all’orientamento della Corte dei Conti diretto ad allargare
27
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28
stema il modello c.d. in house, ha spesso trasformato l’ente pubblico da soggetto gestore
in una sorta di holding che si occupa dell’attività di direzione e coordinamento delle società strumentali partecipate (artt. 2497 ss. c.c.).
Questa operazione non supportata normativamente dall’emersione di un “tipo” genera tuttavia una confusione che non tiene conto del
fatto che alcune categorie concettuali e sistematiche di diritto pubblico e comunitario non
sono affatto applicabili sic et simpliciter al diritto commerciale. Peraltro intanto si giustifica un
modello privatistico in cui l’ente locale si occupa, in forza della sua autonomia privata, della
governance delle sue partecipate, in quanto i
regimi di responsabilità, gestione e organizzazione siano quelli del diritto societario comune,
seppure con alcuni accorgimenti nei limiti del
principio di tipicità, e non altri. Altrimenti non
avrebbe senso servirsi di una fictio per simulare
istituti di tutt’altra natura quali “l’azienda speciale” oppure “l’ente pubblico economico”.
Le Sezioni Unite della Cassazione, nella citata
sentenza n. 26283/2013, precisano che l’espressione “controllo” non allude all’influenza
dominante che il titolare della partecipazione
maggioritaria (o totalitaria) è di regola in grado di esercitare sull’assemblea della società
e, di riflesso, sulla scelta degli organi sociali; si tratta, invece, di un potere di comando “direttamente esercitato” sulla gestione
dell’ente con modalità e con un’intensità
non riconducibili ai diritti ed alle facoltà
che normalmente spettano al socio (fosse
pure un socio unico) in base alle regole dettate dal codice civile, e sino al punto che agli
organi della società non resta affidata nessuna rilevante autonomia gestionale.
Una lettura conforme ai principi nazionali e
comunitari comporta l’inquadramento della
società in house providing come longa manus
dell’ente, una sua derivazione operativa, formalmente strutturata come società, ma sostanzialmente in tutto e per tutto dipendente
dai soggetti pubblici proprietari del capitale,
a guisa di un’azienda speciale (una quasi immedesimazione tra società ed ente pubblico
proprietario).
Ma questo è l’equivoco di fondo: per configurare il “controllo analogo”, è necessario uno
strumento, di carattere societario, parasociale o
contrattuale, diverso dai normali poteri che un
socio, anche totalitario, esercita in assemblea,
che in ogni momento possa vincolare l’affidataria agli indirizzi dell’affidante. Non può certo
bastare il potere di nomina degli organi perché
questi saranno comunque autonomi nella gestione, salvo la possibilità di revocarli. Quindi
da un lato il controllo partecipativo totalitario
è condizione necessaria (con tutti i relativi
effetti ex art. 2325 comma 2 e 2462 comma
2 c.c.), dall’altro è condizione insufficiente a
legittimare l’affidamento diretto dei servizi.
Infatti, sul piano del diritto societario, il “controllo analogo”, nel senso inteso dalla giurisprudenza comunitaria e nazionale, non è possibile, a nostro avviso, nelle società per azioni
sulla base delle regole civilistiche e neppure
di patti parasociali, in quanto il tipo di società, almeno nel nostro ordinamento, impedisce
per sua natura un controllo invasivo del socio
sull’amministrazione di tal fatta40.
l’ambito della propria giurisdizione (già Corte Conti, Sez. I, App., 3.11.2005 n. 356, Foro amm., 2005, p. 3842; Corte conti, Sez.
Lombardia, 4.3.2008 n. 135; Corte Conti, Sez. Lombardia, 25.1.2005 n. 22, Foro amm., 2005, p. 80; Corte conti, Sez. Trentino
Alto Adige, 1.6.2006; Corte Conti, Sez. Lombardia, 5.9.2007 n. 448. Cfr. al riguardo in modo critico Ibba C. “Azioni ordinarie di
responsabilità e azione di responsabilità amministrativa nelle società a mano pubblica. Il rilievo della disciplina privatistica”,
Riv. dir. civ., 2006, II, p. 145 ss., Romagnoli G. “Le società degli enti pubblici: problemi e giurisdizioni nel tempo delle riforme”,
Giur. comm., 2006, II, p. 478). Si è osservato che l’art. 16-bis del decreto milleproroghe sarebbe illegittimo in primis sotto il
profilo della violazione del principio di uguaglianza poiché, trattandosi di società quotate, anche il c.d. pacchetto di controllo
(cioè quella quota azionaria inferiore al 50%) consente in ipotesi di azionariato diffuso di avere il controllo della società
parimenti al caso di partecipazione pubblica maggioritaria. In entrambi i casi la spa è sostanzialmente gestita da soggetti
pubblici e, pertanto, non appare giustificato il discrimen di competenza giurisprudenziale posto dal decreto milleproroghe (al
riguardo cfr. Santosuosso D. “Società a partecipazione pubblica e responsabilità degli amministratori (contributo in materia
di privatizzazioni e giurisdizione)”, Riv. dir. soc., 2009, p. 47 ss.; Colangelo R. “Nuove questioni in tema di società a partecipazione pubblica”, dircomm.it, 2008, p. 9 ss.).
40 La giurisprudenza di merito ha affermato che sarebbe possibile in linea di principio l’adeguamento degli statuti delle società a capitale pubblico finalizzato a consentire un controllo da parte degli enti pubblici titolari del capitale sociale analogo
In questa logica ci appare del tutto incompatibile la soluzione diffusamente praticata
di istituire nello statuto “comitati di controllo analogo” od organismi del genere. E ciò a
prescindere dalla legittimità nelle spa di patti
che contemplino un potere invasivo diretto
a togliere autonomia agli amministratori in
violazione dei criteri di corretta gestione societaria.
In realtà la riforma del diritto delle società
ha accentuato questa caratteristica inibendo
agli azionisti, o meglio all’assemblea, qualsiasi forma di “intrusione” nell’attività gestoria. Il socio non può neppure monitorare
la gestione, avendo solo il diritto di voto, di
impugnare le delibere, e in caso di partecipazione qualificata, di chiedere la convocazione
dell’assemblea, di denunciare eventuali sospetti di irregolarità al Collegio sindacale e/o
al tribunale.
Per la società per azioni l’unico eventuale
“luogo” per l’esercizio del controllo sui servizi
è appunto il contratto di affidamento dei
servizi, dove l’ente, azionista ed appaltante,
può effettivamente imporre, in via parasociale, modalità, termini e condizioni così stringenti ed unilaterali, da generare la configurazione di un effettivo controllo analogo a
quello effettuato sui propri servizi.
Orbene, l’art. 2497-sexies c.c., sancisce che si
presume la sussistenza di un’attività di direzione e coordinamento di società da parte della
società o dell’ente tenuti al consolidamento
dei bilanci (e non è il nostro caso) o che comunque, ai sensi dell’art. 2359 c.c., le controlla
disponendo “della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria”, o “di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante
nell’assemblea ordinaria” o che sono sotto la
sua influenza dominante “in virtù di particolari
vincoli contrattuali”.
Quest’ultima forma di controllo c.d. esterno,
prevista dall’art. 2359 n. 3 c.c., si identifica
con un potere effettivo nei confronti della
società, che prescinde dalle regole organizzative della stessa, di determinare l’attività
dell’impresa controllata. Il carattere esistenziale del rapporto contrattuale configura in
questo caso un’ingerenza nella gestione che
si concretizza attraverso le decisioni degli
organi della controllata. Il contratto peraltro
non ha ad oggetto il controllo, ma la produzione. Il controllo non si realizza attraverso
l’organizzazione societaria, ma attraverso il
risultato dell’esercizio dell’attività economica, cioè la produzione (la gestione dei servizi)
che la controllante indirizza mediante il rapporto contrattuale verso il proprio profitto.
Dal punto di vista invece del c.d. “controllo
interno”, l’unico modello conforme al dettato del legislatore è il tipo della società a
responsabilità limitata41, ammessa ormai
da tempo nella gestione dei servizi pubblici42, dove è concepibile un controllo di tipo
invasivo ed anche asimmetrico. Si pensi innanzitutto al disposto dell’art. 2479 comma
1 c.c., il quale sancisce che “i soci decidono
sulle materie riservate alla loro competenza
dall’atto costitutivo, nonché sugli argomenti
che uno o più amministratori o tanti soci che
rappresentano almeno un terzo del capitale
sociale sottopongono alla loro approvazione”. E di conseguenza, a norma dell’art. 2476
comma 7 c.c., “sono solidalmente responsabili con gli amministratori […] i soci che hanno intenzionalmente deciso o autorizzato il
compimento di atti dannosi per la società, i
soci o i terzi”.
a quello dai medesimi esercitato sui propri servizi se le modificazioni introdotte sono unicamente finalizzate a consentire
agli enti pubblici soci, sia collettivamente che individualmente, un potere di controllo concreto circa l’organizzazione delle
attività e le erogazioni dei servizi affidati alla società, come consentito dall’art. 2364 n. 5 c.c., rimanendo attribuiti al Consiglio di Amministrazione tutti i poteri di amministrazione e gestione della società, in conformità con la previsione dell’art.
2380-bis c.c., ed al Collegio sindacale le prerogative di cui agli artt. 2403 e 2403- bis c.c. (Trib. Mantova 8.5.2007, Il Caso.it).
Tuttavia a nostro avviso questo controllo sarebbe insufficiente ad integrare il requisito della delegazione interorganica.
41 In questo senso anche Occhilupo R. “L’ordinamento comunitario, gli affidamenti in house e il nuovo diritto societario”,
Giur. comm., 2006, II, p. 63 ss.; Demuro I. “La compatibilità del diritto societario con il c.d. modello in house providing per
la gestione dei servizi pubblici locali”, ivi, p. 780 ss.
42 Ibba C. “Le società a partecipazione pubblica locale fra diritto comune e diritto speciale”, Riv. dir. priv., 1999, p. 36.
29
Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
ABUSO DEL DOMINIO
E RESPONSABILITÀ
DI CHI PRENDE PARTE
AL FATTO LESIVO
30
L’attività di dominio da parte dell’ente pubblico è di per sé lecita e configura una situazione soggettiva attiva di cui può, e talora deve,
farsi uso 43: non contrasta con i principi inderogabili dell’ordinamento giuridico il fatto
che il centro decisionale delle strategie venga
posto al di fuori delle singole società controllate 44. Ciò può valere a maggior ragione
quando la società è a partecipazione pubblica
ed il dominio può essere finalizzato ad evitare
pregiudizi alla collettività45.
L’art. 2497 comma 1 c.c. sancisce che “Le
società o gli enti 46 che, esercitando attività
di direzione e coordinamento di società, agiscono nell’interesse imprenditoriale proprio o
altrui in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società medesime, sono direttamente responsabili
nei confronti dei soci di queste per il pregiudizio arrecato alla redditività ed al valore della
partecipazione sociale, nonché nei confronti
dei creditori sociali per la lesione cagionata
all’integrità del patrimonio della società. Non
vi è responsabilità quando il danno risulta
mancante alla luce del risultato complessivo
dell’attività di direzione e coordinamento ovvero integralmente eliminato anche a seguito
di operazioni a ciò dirette”.
Il legislatore ha poi chiarito che “per enti si
intendono i soggetti giuridici collettivi, diversi
dallo Stato, che detengono la partecipazione
sociale nell’ambito della propria attività imprenditoriale ovvero per finalità di natura economica o finanziaria” 47.
L’attività di dominio diviene fonte di responsabilità diretta verso soci e creditori se abusiva,
43 Sul dovere di esercizio della direzione unitaria in particolare L. Rovelli L. “La responsabilità della capogruppo”, Fall., 2000,
p. 1098 ss.; Libonati B. “Responsabilità del e nel gruppo”, in AA.VV. “I gruppi di società”, Atti del convegno internazionale di
studi, Venezia 16-17-18 novembre 1995, vol. II, Giuffrè, Milano, 1996, p. 1489; Marchetti P.G. “Controllo e poteri della controllante”, ivi, p. 1556 s; Fimmanò F. “I «Gruppi» nel convegno internazionale di studi per i quarant’anni della Rivista delle
Società”, Riv. Not., 1996, p. 522 ss.
44 Al riguardo Blatti C., Minutoli G. “Il fallimento della holding personale tra nuovo diritto societario e riforma della legge
fallimentare”, Fall., 2006, p. 428.
45 In questa stessa logica già vent’anni fa il legislatore, nell’ambito della disciplina dei gruppi bancari, aveva espressamente
sancito che la capogruppo, nell’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento, emana le direttive, riconoscendo una
vera e propria espressione di supremazia gerarchica meritevole di tutela. Nelle norme “per la ristrutturazione e per la disciplina dei gruppi bancari” (art. 25 del DLgs. 356/1990) e poi con il Testo unico bancario (art. 61 co. 4 del DLgs. 385/1993).
Anche in quel caso si trattava della tutela dell’interesse, di rilievo pubblicistico, alla stabilità del sistema bancario a seguito
dell’evoluzione del modello del c.d. gruppo polifunzionale composto anche di società esercenti attività strumentali a quella
bancaria e finanziaria, con conseguenti rischi di instabilità ed irregolarità, derivanti dal mancato assoggettamento alla
vigilanza prudenziale delle stesse (Al riguardo Costi R. “Le relazioni di potere nell’ambito del gruppo bancario”, Giur. comm.,
1995, I, p. 885 ss.).
46 La norma si riferisce evidentemente anche ad enti non societari quali associazioni, fondazioni ed appunto enti pubblici (in
tal senso Galgano F. “I gruppi nella riforma delle società di capitali”, in Contr. impr., 2002, p. 1021; Romagnoli G. “ L’esercizio
di direzione e coordinamento di società da parte di enti pubblici”, Nuova giur. civ. comm., 2004, II, p. 216 ss.; Ibba C. “Le società
a partecipazione pubblica: tipologia e discipline”, in “Le società «pubbliche»”, a cura di Ibba C., Malaguti M.C., Mazzoni A.,
Giappichelli, Torino, 2011, p. 7; Portale G.B. “Fondazioni «bancarie» e diritto societario”, Riv. soc., 2005, p. 28 ss.).
47 Il DL 1.7.2009 n. 78, conv. L. 3.8.2009 n. 102 (G.U. 4.8.2009 n. 179), recante “Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini
e della partecipazione italiana a missioni internazionali”, ha previsto all’art. 19 (rubricato “Società pubbliche”) co. da 6 a 13
(concernenti “Partecipazioni in società delle amministrazioni pubbliche”), talune modifiche alla disciplina delle società pubbliche e degli organi di amministrazione delle società controllate direttamente o indirettamente dallo Stato. In particolare, a
fronte dei dubbi interpretativi sorti in relazione a quegli enti che esercitano attività di direzione e coordinamento di società
in ordine al perseguimento di un interesse imprenditoriale di gruppo (quale risultato complessivo dell’attività di dominio),
il co. 6 dell’articolo citato fornisce un’interpretazione autentica dell’art. 2497 co. 1 c.c. Al riguardo ed in particolare sulla
interpretazione autentica, cfr. Eballi I. “Direzione e coordinamento nelle società a partecipazione pubblica alla luce dell’intervento interpretativo fornito dal «Decreto Anticrisi»”, NDS, 10, 2010, p. 44 ss. Il legislatore è intervenuto con la norma assai
discutibile, apparentemente generale, diretta invece ad un caso specifico e cioè alla vicenda della crisi Alitalia, svoltasi in
modo tale da configurare una evidente responsabilità da abuso del dominio da parte del Ministero dell’Economia, esercitato in violazione dei criteri di corretta gestione societaria e imprenditoriale e nell’interesse proprio od altrui. Giustamente
critico Cariello V. “Brevi note critiche sul privilegio dell’esonero dello Stato dall’applicazione dell’art. 2497, comma 1, c.c. (art.
19, comma 6, D.L. n. 78/2009)”, Riv. dir. civ., 2010, p. 343 ss.
ovvero se il dominus-ente pubblico la esercita nell’interesse imprenditoriale proprio
od altrui (e comunque non nell’interesse del
dominato) e se è contraria ai criteri di corretta gestione imprenditoriale e societaria.
La responsabilità dell’ente pubblico-dominus
sorge per effetto della violazione di un dovere
specifico derivante da un preesistente rapporto obbligatorio verso soggetti determinati e
non dal generico dovere del neminem laedere
verso qualsiasi soggetto dell’ordinamento. Ma
c’è di più nel sistema di cui agli artt. 2497 ss.
c.c., la responsabilità contrattuale del dominus
che esercita l’attività di direzione e coordinamento nell’interesse proprio od altrui e violando gli obblighi di corretto perseguimento degli
interessi di gruppo quale risultante dall’equo
contemperamento degli interessi delle società
eterogestite, convive con la responsabilità risarcitoria di “chi abbia comunque preso parte
al fatto lesivo e, nei limiti del vantaggio conseguito, chi ne abbia consapevolmente tratto
beneficio” (art. 2497 comma 2).
È abbastanza evidente che il controllo “analogo”
che legittima l’affidamento diretto del servizio
pubblico viene (nella migliore delle ipotesi) esercitato in funzione degli interessi istituzionali
dell’ente e della collettività cui viene erogato il
pubblico servizio e non dell’interesse (lucrativo)
della controllata, e come tale genera la responsabilità sussidiaria dello stesso ente. Addirittura si badi che per i c.d. servizi senza rilevanza
economica la gestione secondo criteri di economicità, quindi di corretta gestione imprenditoriale, è esclusa addirittura dalla legge. Quindi in
una situazione in cui l’interesse della controllata diverge da quello del soggetto controllante
e sussistono i presupposti previsti dalla legge,
scatterebbe la responsabilità della capogruppo
a prescindere dalla sua natura e dall’interesse in
concreto perseguito.
In ogni caso, laddove si verifichi l’ipotesi di controllo “analogo” contemplata dalla sentenza a
Sezioni Unite in oggetto, ci troviamo di fronte
ad un caso di violazione, in re ipsa, delle regole dettate dal codice civile in tema di eterodirezione e coordinamento (artt. 2497 ss. c.c.).
Anche nel caso di controllo esterno, l’abuso
della dipendenza economica può tradursi di
per sé in abuso dell’attività di direzione e coordinamento con la conseguente responsabilità
riconosciuta dalla giurisprudenza anche prima
delle riforme48.
Peraltro la più attenta dottrina commercialistica già sottolineava questa criticità in relazione agli effetti del vecchio art. 2362 c.c., in
caso di pubblica amministrazione-azionista
unica49, rispetto all’impossibilità di ammettere,
per le regole di contabilità pubblica, una spesa
di ammontare indeterminato come quella derivante dalla responsabilità delle obbligazioni
societarie sorte nel periodo di controllo totalitario. Problema che in verità si pone tuttora, in
aggiunta alle responsabilità da eterodirezione
abusiva, nei casi in cui a norma e per gli effetti
degli artt. 2325 comma 2 c.c. e 2462 comma
2 c.c., non siano state rispettate le cautele in
tema di conferimenti e pubblicità. Quindi l’abuso del dominio finisce con il generare anche la violazione delle regole di contabilità
pubblica, in ordine all’assunzione indiretta di
spese di ammontare indeterminato come quella
derivante dalla responsabilità ex art. 2497 c.c.
Secondo i giudici delle Sezioni Unite “nei gruppi
societari il potere di direzione e coordinamento
spettante all’ente capogruppo attiene all’individuazione delle linee strategiche dell’attività
d’impresa senza mai annullare del tutto l’autonomia gestionale della società controllata.
Gli amministratori di quest’ultima sono perciò
tenuti ad adeguarsi alle direttive loro impartite,
ma conservano nondimeno una propria sfera
di autonomia decisionale (giacché, pur con gli
adattamenti resi necessari dall’esser parte di
un gruppo imprenditoriale più vasto, continua
ad applicarsi alla singola società il disposto
48 Al riguardo Angiolini F. “Abuso di dipendenza economica ed eterodirezione contrattuale”, Milano, 2012, p. 87 ss.
49 Ancora Buonocore V. “Autonomia degli enti locali e autonomia privata: il caso delle società di capitali a partecipazione
comunale”, Giur. comm., 1994, p. 14, il quale evidenziava che “a nulla varrebbe obiettare che per le aziende municipalizzate
è tenuto a pagare le perdite di gestione, perché le aziende sono bracci operativi del comune, mentre le società a partecipazione comunale sono soggetti assolutamente autonomi e organicamente distinti dal comune”.
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Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
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dell’art. 2380 bis c.c., comma 1) né, soprattutto, essi possono prescindere dal valutare se ed
in qual misura quelle direttive eventualmente
comprimano in modo indebito l’interesse della
stessa società controllata: interesse di cui sono
garanti ed in virtù del quale hanno il dovere, se
del caso, di discostarsi da direttive illegittime.
La disciplina della direzione e del coordinamento dettata dai citato art. 2497 e ss., insomma,
è volta a coniugare l’unitarietà imprenditoriale
della grande impresa con la perdurante autonomia giuridica delle singole società agglomerate nel gruppo, che restano comunque entità
giuridiche e centri d’interesse distinti l’una dalle altre”.
Altrettanto non si potrebbe dire invece per
la società in house, sia per la subordinazione
dei suoi gestori all’ente pubblico partecipante, nel quadro di un rapporto gerarchico che
non lascerebbe spazio a possibili aree di autonomia e di eventuale motivato dissenso, sia
per l’impossibilità d’individuare nella società
un centro d’interessi davvero distinto rispetto all’ente pubblico che l’ha costituita e per il
quale essa opera.
Allo stesso modo, sempre secondo le Sezioni
Unite, ove si abbia a che fare con una società
a responsabilità limitata, non sarebbe possibile ricondurre sic et simpliciter il “controllo
analogo”, caratteristico del fenomeno dell’in
house, ad uno dei “particolari diritti riguardanti l’amministra- zione” che l’atto costitutivo può riservare ad un socio (art. 2468
comma 3 c.c.): giacché neppure siffatti diritti
speciali di amministrazione sono equiparabili,
in presenza di un amministratore non socio,
ad un rapporto di natura gerarchica da cui
quest’ultimo sia vincolato, restando comunque intatto il suo primario dovere di perseguire l’interesse sociale, che conserva pur sempre un qualche grado di autonomia rispetto a
quello personale del socio.
La società in house, invece, non sarebbe un’entità posta al di fuori dell’ente pubblico, il quale
ne dispone come di una propria articolazione
interna. Il “velo” che normalmente nasconde il
socio dietro la società sarebbe dunque – nella
fattispecie – squarciato: la distinzione tra socio (pubblico) e società (in house) non si rea-
lizzerebbe più in termini di alterità soggettiva.
In verità questa ricostruzione, pur suggestiva,
non ci pare condivisibile. La situazione della
società in house è esattamente quella di una
società soggetta a direzione e coordinamento.
In caso di società per azioni come visto non
c’è alcuna possibile previsione statutaria o parasociale che possa rendere gli amministratori
degli “automi”. Si tratterebbe in ogni caso di
soggetti che possono gestire la società come
vogliono anche contro le direttive impartite o
contro “improbabili” clausole c.d. “di controllo
analogo”, pena la revoca dalla carica e l’azione risarcitoria. Ma evidentemente il potere di
nomina e revoca (e di deliberare l’eventuale
azione di responsabilità) non è certo eccezionale rispetto a ciò che si verifica nel diritto
comune. Davvero non vediamo nel diritto delle
società per azioni modalità per realizzare nei
confronti degli organi della società partecipata “un rapporto gerarchico che non lascia spazio a possibili aree di autonomia e di eventuale
motivato dissenso” (come testualmente si afferma in sentenza).
Anche laddove il dominio dell’ente-socio, in
linea con quanto da noi rilevato, venga realizzato nella spa attraverso il contratto di servizio, trattandosi peraltro di controllo analogo
a quello realizzato sul proprio servizio (e quindi anche nel nomen più adeguato), questo al
massimo può realizzarsi attraverso una vera e
propria “sostituzione” nella gestione dell’attività, laddove l’amministratore “ribelle” non dia
seguito alle direttive dell’ente-dominus. Ma in
questo caso, tuttavia, non si porrà un problema di “immedesimazione” ma al limite di
una gestione di fatto dell’impresa effettuata
dall’esterno, od in via sostitutiva, che comunque non realizza alcuno squarcio del velo della
personalità giuridica. Ed anche in questo caso,
quindi, non si realizzerà “un rapporto gerarchico che non lascia spazio a possibili aree di
autonomia e di eventuale motivato dissenso”,
in quanto comunque l’amministratore “ammutinato” sarà libero di fare quel che vuole,
pena la revoca e la reazione risarcitoria.
Discorso analogo può essere fatto nella società a responsabilità limitata, dove è possibile
addirittura che il socio in sostanza, come vi-
sto, amministri. Tuttavia anche in questo caso
ciò non comporta alcuna eccezione al diritto
comune. La srl partecipata dalla P.A. che
intervenga direttamente a gestire al posto
degli amministratori non realizza “un rapporto gerarchico che non lascia spazio a possibili
aree di autonomia e di eventuale motivato
dissenso”, ma configura una situazione tipica che l’ordinamento prevede e che in caso di
mala gestio sanziona, come visto, ex art. 2476
comma 7 c.c.
Anche in questo caso non c’è alcuna ipotesi
di piercing the corporate veil. D’altra parte le
tecniche giurisprudenziali di reazione all’abuso della personalità giuridica basate sullo squarcio o sulla confusione patrimoniale,
sono state definitivamente superate dal nuovo impianto normativo (risultante dalle riforme del diritto societario e fallimentare) che
si muove su un doppio binario: l’estensione
della responsabilità derivante dalla eccezione tipologica e la responsabilità derivante
appunto dall’abuso dell’attività di direzione e
coordinamento.
La normativa di cui agli artt. 2497 ss. c.c., unitamente a quella di cui all’art. 147 L. fall., ora
esclude la possibilità dello squarcio della
segregazione mediante la “estensione” della responsabilità o la confusione dei patrimoni, che rimane una tecnica possibile solo
per i tipi che contemplano una connaturata
responsabilità illimitata dei soci o di alcuni
di essi. In ogni caso non si tratterà di squarcio del velo (che resta intangibile ed anzi si
rafforza) ma di responsabilità da abuso del
dominio.
Secondo le Sezioni Unite se non risulta possibile configurare un rapporto di alterità
tra l’ente pubblico partecipante e la società
in house che ad esso fa capo, “è giocoforza
concludere che anche la distinzione tra il patrimonio dell’ente e quello della società si può
porre in termini di separazione patrimoniale,
ma non di distinta titolarità”.
Dal che discende che, in questo caso, il dan-
no eventualmente inferto al patrimonio della
società da atti illegittimi degli amministratori, cui possa aver contribuito un colpevole
difetto di vigilanza imputabile agli organi di
controllo, sarebbe “arrecato ad un patrimonio (separato, ma pur sempre) riconducibile
all’ente pubblico: è quindi un danno erariale, che giustifica l’attribuzione alla Corte dei
conti della giurisdizione sulla relativa azione
di responsabilità” 50.
In realtà la separazione del patrimonio unitario, nel nostro ordinamento, è un fenomeno
caratterizzato dal vincolo di destinazione
specifico, cui una pluralità di rapporti giuridici attivi e passivi, che possono fare capo ad
una o più persone fisiche o giuridiche, è indirizzato. La funzione alla quale detti rapporti
sono chiamati evidenzia come essi debbano
essere costituiti in unità e tenuti distinti dagli
altri rapporti attivi e passivi di cui le stesse
persone siano “domini” e rende il patrimonio
vincolato.
La possibilità convenzionale di creare patrimoni separati è preclusa all’autonomia privata
dal sistema di cui all’art. 2740 c.c., che tuttavia consente la deroga per espressa previsione
legislativa. Il sistema di cui all’art. 2740 c.c.
che nasce, come noto, dalla concezione, di
origine francese, del patrimonio come emanazione della personalità, con i relativi corollari
dell’unicità e della indivisibilità, da un lato,
e dell’impossibilità di individuare l’appartenenza di più patrimoni in capo al medesimo
individuo dall’altro (oltre che, ovviamente,
nelle teorie patrimoniali dell’obbligazione di
matrice tedesca), presidia dall’esterno il buon
funzionamento del rapporto obbligatorio e
ne assicura comunque il risultato utile anche
contro l’inerzia o la cattiva volontà del debitore, esponendo tutti i beni di quest’ultimo
all’azione esecutiva. Tant’è che, in questa medesima prospettiva, la possibilità di destinare
patrimoni ad uno scopo suppone, almeno tendenzialmente, la creazione di un centro autonomo di diritto, dotato di distinta soggettività
50 L’azione del procuratore contabile, stante la mancanza dell’alterità dei soggetti dovrebbe avvantaggiare la società e,
quindi, il risultato eventuale dovrebbe rifluire nel patrimonio della società, costituendo una forma di tutela aggiuntiva.
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Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
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e di un proprio patrimonio diverso da quello
delle persone fisiche partecipanti, come avviene nello schema tipico della società di capitali.
I giudici di legittimità hanno così coniato in via
giurisprudenziale e senza una previsione normativa una sorta di patrimonio separato, destinato ad uno specifico affare (la gestione di un
servizio pubblico), a guisa della fenomenologia
contemplata dall’art. 2447-bis ss. c.c.51.
Ma c’è di più, la Cassazione evoca, con il risultato raggiunto, l’unica norma dell’ordinamento italiano che prevede una forma di squarcio:
l’art. 2447-quinquies comma 3, seconda parte,
c.c. Anche se per le obbligazioni contratte in
relazione allo specifico affare la spa risponde
nei limiti del patrimonio destinato allo stesso,
il legislatore fa salva la responsabilità illimitata del patrimonio generale per le obbligazioni
derivanti da “fatto illecito”, sorte evidentemente dopo la gemmazione. Si è osservato che
si tratta della penetrazione nell’ordinamento
di quella tendenza, sviluppata in altri ordinamenti, che basa sulla distinzione della natura
della fonte dell’obbligazione i limiti del privilegio della limitazione della responsabilità.
Anche se l’impatto sistematico nel nostro
caso è diverso e ben meno rilevante, considerato che una cosa è superare il diaframma
della personalità giuridica in caso di abuso
della stessa e tutt’altra è semplicemente rendere inopponibile ai creditori involontari un
vincolo di destinazione funzionale a scopo di
garanzia, in un contesto in cui manca ogni
alterità soggettiva. Tuttavia ci pare che la
disciplina sia dettata dalle medesime ragioni
economiche poste alla base dell’applicazione
della tecnica giurisprudenziale del c.d. piercing the corporate veil 52.
In realtà, a nostro avviso, non si può ipotizzare, in assenza di norma espressa, che la
società in house sia un patrimonio separato sprovvisto di autonoma personalità e di
alterità soggettiva rispetto al socio. Sarebbe
peraltro operazione ripetibile nei confronti di
qualsiasi soggetto che faccia un uso meramente strumentale del veicolo societario. Pur
condividendo l’obiettivo della Cassazione di
consentire alle Procure della Corte dei Conti di
agire per la mala gestio delle società veicolo
in house, ciò deve e può passare attraverso le
regole e l’ordinamento del diritto delle società, oppure attraverso una norma di legge che
preveda la fattispecie concreta. E si tenga conto che il legislatore si è mosso nella direzione
esattamente opposta laddove all’art. 4 comma
13 del DL 6.7.2012 n. 95 (c.d. spending review),
ha dettato una norma generale di rinvio alla
disciplina codicistica, secondo cui “le disposizioni del presente articolo e le altre disposizioni,
anche di carattere speciale, in materia di società a totale o parziale partecipazione pubblica si
interpretano nel senso che, per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse,
si applica comunque la disciplina dettata dal
codice civile in materia di società di capitali”53.
È vero che una lettura conforme ai principi
51 Al riguardo mi permetto di rinviare a: Fimmanò F. “Patrimoni destinati e tutela dei creditori nella società per azioni”, Giuffrè,
Milano, 2008,
52 Il legislatore italiano, approfittando della sua stessa scelta di non attribuire ai patrimoni destinati a specifici affari di spa
una autonomia esterna ed una assenza di alterità soggettiva (esattamente come ragionano le sezioni unite), ha mutuato
dal sistema americano la tecnica del superamento del diaframma (o meglio di inefficacia dello stesso), traducendola nella
inopponibilità del diaframma della garanzia generica, quando nell’esecuzione dello specifico affare siano sorte obbligazioni derivanti da torts (nel modello anglosassone non si distingue tra illecito contrattuale ed extracontrattuale).
53 Negli atti parlamentari si sottolinea che la norma di interpretazione autentica è volta “ad imprimere un indirizzo (al legislatore e forse più al giudice amministrativo e contabile) di cautela verso un processo di progressiva “entificazione” pubblica di tali
società, valorizzando la forma privata societaria e la disciplina comune dell’attività rispetto alla sostanza pubblica del soggetto
e della funzione” (parere del Comitato per la legislazione del Senato sul Ddl n. 5389 e Servizio Studi della Camera, Osservatorio legislativo e parlamentare, riportato da Codazzi E. “La società in mano pubblica e fallimento: alcune considerazioni
sulla disciplina applicabile tra diritto dell’impresa e diritto delle società”, orizzontideldirittocommerciale.it, Atti dei convegni,
2014, p. 19, che ricorda come proprio Cass. SS.UU. 13.5.2013 n. 11417 – Argomenti, 1, 2014, p. 153 – evidenzia che l’art. 4
co. 13 del DL 95/2012, stante la sua natura di norma di interpretazione autentica, confermerebbe, da un lato, che il socio
pubblico deve rapportarsi con la società di capitali alla stregua di qualsiasi altro socio privato e, dall’altro, che il rapporto
tra ente pubblico e società deve ritenersi di assoluta autonomia, essendo obiettivo del legislatore impedire che gli enti
pubblici, operanti a mezzo di società di diritto privato, agiscano con una razionalità estranea al mercato).
nazionali e comunitari comporta l’inquadramento della società in house providing come
longa manus dell’ente, una sua derivazione
operativa, formalmente strutturata come società, ma sostanzialmente in tutto e per tutto
dipendente dai soggetti pubblici proprietari
del capitale, a guisa di un’azienda speciale.
Tuttavia, laddove si verifichi l’ipotesi di controllo “analogo” contemplato dalle Sezioni
Unite ci troviamo di fronte ad un caso di
violazione, in re ipsa, delle regole dettate dal
codice civile in tema di direzione e coordinamento, fonte di responsabilità diretta verso
soci e creditori ex art. 2497, c.c., di responsabilità risarcitoria “aggiuntiva” degli organi
e di “chi abbia comunque preso parte al fatto
lesivo e, nei limiti del vantaggio conseguito,
chi abbia consapevolmente tratto beneficio”
(art. 2497 comma 2 c.c.). Il tutto con violazione delle regole di contabilità pubblica, in
ordine all’assunzione indiretta di spese di ammontare indeterminato.
Insomma siamo in una situazione in cui c’è la
responsabilità dell’ente pubblico per abuso
del dominio, dei suoi organi per la stessa ragione (e per aver violato le regole di contabilità) esponendo l’ente a spese indiscriminate e degli amministratori e dirigenti della
società partecipata per aver preso parte al
fatto lesivo. Se la responsabilità consiste nel
depauperamento del patrimonio dell’ente generato dal danno al patrimonio della società
partecipata e dominata, gli amministratori di
quest’ultima saranno responsabili in solido
come quelli dell’ente-dominus per aver preso
parte al fatto lesivo54.
L’IMPATTO
DELLA QUESTIONE
DELLA GIURISDIZIONE
SULLA GIURISPRUDENZA
DI MERITO
L’orientamento della Cassazione in tema di
giurisdizione sugli organi sociali delle società
in house, che in un anno ha contato almeno
sei interventi di segno comune, nasce dalla
giusta sollecitazione delle Procure presso la
Corte dei Conti che hanno evidenziato come
condizionamenti di carattere politico finiscano col rendere altamente improbabili iniziative serie da parte degli enti locali dirette
a sanzionare gli organi societari (controllati)
davanti al giudice ordinario, dando luogo ad
un sostanziale esonero da responsabilità di
soggetti che pure arrecano danno a società
sostanzialmente pubbliche, in quanto totalmente partecipate dalla pubblica amministrazione, di cui costituiscono longa manus per
l’attuazione delle relative decisioni strategiche ed operative.
Ciò dovrebbe indurre a ritenere “irragionevole
che siano sottoposti alla giurisdizione contabile gli amministratori di un’azienda speciale,
quelli di una società concessionaria, la giunta
comunale ed i consiglieri comunali che approvano il conto consolidato e controllano la
società partecipata e non anche coloro che
l’hanno gestita causando direttamente un
danno erariale”55.
In questa logica si è fatto appello anche ad
una serie di novità normative che avrebbero
54 Peraltro secondo la suprema Corte in tema di azioni nei confronti dell’amministratore di società, proprio a norma dell’art.
2395 c.c., il socio (nel nostro caso pubblico) è legittimato, anche dopo il fallimento della società, all’esperimento dell’azione
per ottenere il risarcimento dei danni subiti nella propria sfera individuale, in conseguenza di atti dolosi o colposi compiuti
dall’amministratore, solo se questi siano conseguenza immediata e diretta del comportamento denunciato e non il mero
riflesso del pregiudizio che abbia colpito l’ente, ovvero il ceto creditorio per effetto della cattiva gestione, essendo altrimenti
proponibile la diversa azione (di natura contrattuale) prevista dall’art. 2394 c.c., esperibile, in caso di fallimento della società, dal curatore , ai sensi dell’art. 146 L. fall. (Cass. 22.3.2010 n. 6870, in Banca Dati Eutekne e Giust. civ. Mass., 2010, p. 417).
55 In questo senso si veda in particolare Cass. SS.UU. 3.5.2013 n. 10299, Le Società, 2013, p. 974 ss., con nota di Fimmanò F.
“La giurisdizione sulle «società pubbliche»”. Infatti, La Corte dei Conti ha spesso continuato a radicare la propria giurisdizione con riguardo a queste società, affermando che costituiscano un modello organizzatorio della stessa P.A., sia pure per
certi versi atipico, con la conseguenza che il danno prodotto dagli amministratori va qualificato come erariale (Corte dei
Conti, Sez. I, App., 22.7.2013 n. 568; Corte dei Conti, sez. III, App., 19.7.2011 n. 582; v. anche Corte dei Conti, Sez. giur. Reg.
Campania, 19.10.2012 n. 1626.); reputando tale soluzione coerente con i principi costituzionali e del diritto comunitario,
dato che quest’ultimo valorizza l’interesse dei cittadini e delle imprese contribuenti ad una gestione delle risorse pubbliche
35
Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
36
aperto, almeno sul piano sistematico, la strada alla giurisdizione contabile almeno per le
società in house. Il riferimento è: all’art. 25
comma 1 nn. 5 e 6 del DL 24.1.2012 n. 1 56,
che prevede la responsabilità amministrativa in caso di stipulazione, da parte di talune
società a totale partecipazione pubblica, di
contratti conclusi in violazione delle previste
modalità di approvvigionamento; all’art. 4
comma 12 del DL 6.7.2012 n. 95 57, laddove
stabilisce che “le amministrazioni vigilanti verificano sul rispetto dei vincoli di cui ai
commi precedenti; in caso di violazione dei
suddetti vincoli gli amministratori esecutivi e
i dirigenti responsabili della società rispondono, a titolo di danno erariale, per le retribuzioni ed i compensi erogati in virtù dei
contratti stipulati”; all’art. 6 comma 3 del
DL 95/2012, che estende alle società a totale
partecipazione pubblica il potere ispettivo attribuito agli organi statali nei confronti delle
amministrazioni pubbliche 58 ed, infine, all’art.
3 del DL 10.10.2012 n. 174 59, che ha inserito
l’art. 147-quater nel testo unico degli enti locali, prevedendo penetranti controlli da parte
dell’ente pubblico partecipante ed un bilancio
consolidato riguardante le “aziende non quotate partecipate”.
Abbiamo avuto modo, già da anni, di segnalare
che le esigenze socio-economiche e politiche
dovevano trovare risposta nella emanazione di
“norme efficienti” ovvero nella interpretazione
giurisprudenziale efficace, capace di sanzionare l’abuso del modello societario, utilizzato
per soddisfare obiettivi “impropri” attraverso
la segregazione patrimoniale. In particolare si
era rappresentato che la società partecipata
da un socio pubblico, rimane un contratto tipico con comunione di scopo lucrativo, soggetto al diritto comune, che non può
essere “storpiato o manipolato” per finalità
abusive dirette a creare in vitro una sorta di
azienda speciale, organica all’ente per alcuni
fini e separata per altri, solo per ottenere una
autonomia formale e la conseguente disapplicazione delle regole pubblicistiche60.
La strada più semplice sarebbe stata l’emersione di un tipo di società pubblica “legale”
cioè individuata e disciplinata dalla legge cui
applicare regole in deroga al diritto comune,
analoghe a quelle vigenti per le aziende speciali. Ma visto il silenzio del legislatore, che
nonostante i buoni propositi “dichiarati” non
è intervenuto espressamente a riconoscere la
più efficace giurisdizione della Corte dei Conti
(ed a porre un argine effettivo al disastrato
mondo delle società in house), le Sezioni Unite non hanno potuto far altro che sostituirsi
(come troppo spesso sta accadendo negli ultimi tempi) al fine di raggiungere il risultato
più efficiente, in un momento tanto delicato
per la finanza pubblica 61.
Tuttavia, oltre a tutti i problemi sistemici che
il percorso seguito comporta sul piano dei
principi fondamentali del diritto delle società,
l’impostazione impone una considerazione ancora più rilevante: le Sezioni Unite propongono una soluzione tipologica che in realtà
trasparente, efficiente ed economica (Corte dei Conti, Sez. giur. Reg. veneto, 28.9.2012 n. 749; Corte dei Conti, Sez. giur. Reg.
Trentino Alto Adige, 6.9.2011 n. 28.) e valorizzando i citati interventi normativi (Corte dei Conti, Sez. giur. Reg. Campania,
7.1.2011 n. 1; Corte dei Conti, Sez. giur. Reg. Campania, 23.10.2012 n. 1629; Corte dei Conti, Sez. giur. Reg. Marche, 15.7.2013
n. 80; Corte dei Conti, Sez. giur. Reg. Lazio, 24.2.2011 n. 339; Corte dei Conti, Sez. giur. Reg. Lazio, 23.2.2011 n. 327).
56 Conv. L. 24.3.2012 n. 27.
57 Conv. L. 7.8.2012 n. 135.
58 Si segnala che il co. 4 del medesimo art. 6, ora abrogato dall’art. 77 co. 1 lett. e) del DLgs. 118/2011, a decorrere
dall’1.1.2015, prevedeva inoltre che Comuni e Province allegassero al rendiconto della gestione una nota informativa
contenente la verifica dei crediti e dei debiti reciproci tra ente e società partecipate e, in caso di discordanze, adottassero
senza indugio i provvedimenti necessari ai fini della riconciliazione delle partite debitorie e creditorie.
59 Conv. L. 7.12.2012 n. 213.
60 Fimmanò F. “Le società di gestione dei servizi pubblici locali”, Riv. Not., 2009, p. 897 ss.
61 Non a caso il Presidente Rordorf, estensore della prima sentenza pilota del 2013, ha avuto modo di rilevare che occorre
“affrontare i problemi che abbiamo dinanzi senza fermarci a profili meramente formali, ma dando invece prevalenza ai dati
sostanziali, anche perché è questo che c’impone l’inquadramento nel sistema giuridico europeo” (Rordorf R. “Le società partecipate fra pubblico e privato”, Le Società, 2013, p. 1326).
riguarda una fattispecie che deve essere oggetto di una valutazione caso per caso62. In
questo modo la Cassazione lega la giurisdizione sulle società in house, individuando un tipo
sulla base di alcune caratteristiche concrete,
neppure solo statutarie, ma in parte addirittura
fattuali. Per stabilire se c’è (oppure no) giurisdizione contabile occorrerà stabilire se in una
determinata società pubblica esista o meno
“un rapporto gerarchico che non lascia spazio a
possibili aree di autonomia e di eventuale motivato dissenso”.
Nelle fattispecie concrete valutate nelle sentenze emesse tra il novembre del 2013 ed il
dicembre 2014, la Cassazione premette che il
giudice di primo grado ha fatto questa valutazione rimasta incontestata, e quindi la considera cosa accertata e giudicata. Tuttavia si
sta verificando, come prevedibile, nella prassi
dei processi un florilegio di eccezioni, perché
non c’è una esatta qualificazione tipologica
normativa. E le criticità aumentano quando
l’accertamento di questo presunto controllo
analogo riguarda più enti soci della medesima
società, che devono averlo esercitato congiuntamente63. Sarebbe stato diverso se una volta
introdotto un tipo di società legale, appunto in
house (costituita come tale fin dalla denominazione), si fosse conseguentemente affermata la
giurisdizione della Corte dei Conti. Insomma ci
troveremo di fronte a innumerevoli fattispecie
diverse in cui i giudici dei diversi gradi di giudi-
zio dovranno valutare in un alveo molto ampio
caratteri non codificati.
L’impatto poi sui principi di diritto societario,
sui regimi di responsabilità e sull’applicazione o
meno dello statuto dell’imprenditore commerciale alla società in house64, al di là dei profili
della giurisdizione, è stato ancora più negativo,
nel senso dell’aumento dell’incertezza.
Subito dopo le prime sentenze delle Sezioni
Unite una certa giurisprudenza ha, infatti, sancito l’assoggettabilità alle procedure concorsuali delle società in house65 anche se dotate
dei famosi tre requisiti, rilevando che comunque non mutano la loro natura di soggetto di
diritto privato solo perché gli enti pubblici ne
posseggono le azioni, in tutto o in parte, non
assumendo rilievo alcuno, per le vicende della
medesima, la persona dell’azionista, dato che
tale società privata, opera “nell’esercizio della
propria autonomia negoziale, senza alcun collegamento con l’ente pubblico” e gli strumenti
utilizzati per regolare il rapporto tra società
ed ente locale non possono essere quelli autoritativi di diritto pubblico spendibili nell’organizzazione diretta dell’ente, ma l’ente può
avvalersi unicamente degli strumenti propri
del diritto societario, da esercitare per il tramite dei membri di nomina pubblica presenti
negli organi sociali. Sempre secondo questa
giurisprudenza di merito la legge non prevede
“alcuna apprezzabile deviazione, rispetto alla
comune disciplina privatistica delle società di
37
62 Si tratta di una prospettiva dai “profili problematici, soprattutto derivanti dall’assenza di una precisa definizione legislativa del
fenomeno dello in house providing e di sicuri indici normativi circa la natura pubblica degli enti in veste societaria […] potendo
eventualmente siffatti indici esser ricercati, ma non senza difficoltà, nel ginepraio delle frammentarie disposizioni speciali che
talvolta menzionano a vari fini dette società in house, al di fuori però di un quadro coerente di sistema” (Rordorf R., cit., p. 1332).
63 Cass. SS.UU. n. 27993/2013, cit., che in ordine al primo requisito ha rammentato come già la giurisprudenza europea abbia
ammesso la possibilità che il capitale sociale faccia capo ad una pluralità di soci, purché si tratti sempre di enti pubblici
(Corte di giustizia 10.9.2009 causa C-573/07, Sea, e 13.11.2008 causa C-324/07, Coditel Brabant) e come nel medesimo
senso si sia espresso, del tutto persuasivamente, anche il Consiglio di Stato (n. 7092/2010 ed 8970/2009), e che occorrerà
pur sempre, comunque, che lo statuto inibisca in modo assoluto la possibilità di cessione a privati delle partecipazioni
societarie di cui gli enti pubblici siano titolari.
64 D’altra parte proprio il Presidente Rordorf ha avuto modo di evidenziare a proposito delle società pubbliche che non
possiamo dimenticare “come certe affermazioni, magari anche molto suggestive su questo specifico terreno, hanno molteplici riflessi - per esempio nella materia del diritto concorsuale ed in quella del diritto del lavoro - dei quali è doveroso farsi
carico. Pur se si voglia predicare un approccio eclettico, o meramente funzionale, non si può ignorare che con larghissima
probabilità l’affermazione di un determinato principio ad opera delle sezioni unite della Cassazione, benché magari formulata
solo per decidere un regolamento di giurisdizione, è suscettibile di avere un’eco in ambiti diversi, se in quegli ambiti ugualmente ci si trovi poi a discutere della natura giuridica di tali società ed argomentare sull’applicabilità a dette società or
di questa or di quella disciplina giuridica generale o di settore” (Rordorf R., cit., 2013, p. 1327).
65 Si veda sul tema anche Andrea Ziruolo A., Barbiero A. “L’assoggettamento alle procedure concorsuali delle società pubbliche”, in questa Rivista, 11, 2014, pp. 130-138.
Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
38
capitali, per le società miste incaricate della
gestione di servizi pubblici istituiti dall’ente locale… La posizione del Comune all’interno della
società è unicamente quella di socio di maggioranza, derivante dalla «prevalenza» del capitale
da esso conferito; e soltanto in tale veste l’ente
pubblico potrà influire sul funzionamento della
società... avvalendosi non già dei poteri pubblicistici che non gli spettano, ma dei soli strumenti previsti dal diritto societario, da esercitare a mezzo dei membri di nomina comunale
presenti negli organi della società”66. Quindi il
contemperamento fra tutela dei creditori e necessità di efficiente gestione del servizio non
va cercato nell’applicazione di istituti di privilegio, tipicamente previsti per enti pubblici,
che operano sul piano dell’attività (come l’esenzione dal fallimento).
In senso diametralmente opposto, tuttavia, altri tribunali hanno affermato che l’esenzione
dalle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo prevista per gli enti pubblici
dall’art. 1 comma 1 della L. fall. deve essere
applicata anche alle società in house, così
come sancito dalle Sezioni Unite, non essendo
configurabile un rapporto di alterità tra l’ente
pubblico partecipante e la società67.
Secondo altra giurisprudenza più accorta, in-
fine, le società in house non vanno esonerate
dal fallimento visto che, in difetto di diversa qualificazione legislativa, rimane valido il
principio generale della assoggettabilità alle
procedure concorsuali delle imprese che abbiano assunto la forma societaria iscrivendosi
nell’apposito registro e quindi volontariamente assoggettandosi alla disciplina privatistica.
I giudici hanno opportunamente attribuito
alle sentenze delle Sezioni Unite una valenza
meramente “settoriale” (in tema di giurisdizione), escludendo qualunque altro profilo
che non attenga al rapporto tra partecipante e
partecipato68, negando recisamente la validità di ricostruzioni panpubblicistiche, fondate
su interpretazioni riqualificatorie della natura
giuridica, prive di base normativa ed in contrasto con i principi costituzionali di cui all’art.
101 comma 2 Cost. ed all’art. 97 Cost.69.
Come si può vedere, dunque, si sono immediatamente realizzate le preoccupazioni da
noi espresse già all’indomani della sentenza
n. 26283/2013 70. L’orientamento delle Sezioni
Unite è stato talora riprodotto acriticamente
in ambiti completamente diversi da quello
della giurisdizione che richiederebbero invece
una vera e propria riqualificazione dell’ente 71.
Condividiamo in pieno quanto affermato dal-
66 Trib. Pescara 14.1.2014 (che richiama Cass. SS.UU. 15.4.2005 n. 7799, Foro Amm., CDS, 2005, p. 1045), in Banca Dati Eutekne.
67 Trib. Verona 19.12.2013, in Banca Dati Eutekne. Nello stesso senso Trib. Nola 30.1.2014, ivi). Il Tribunale di Napoli, invece,
ribaltando il suo precedente orientamento, ha affermato che se è vero che gli enti pubblici sono sottratti al fallimento, anche
la società in house integralmente partecipata dagli stessi, non potrà essere soggetta alla liquidazione fallimentare, in quanto
costituisce un mero patrimonio separato dell’ente pubblico, centro decisionale autonomo e distinto dal socio pubblico titolare
della partecipazione, che esercita sullo stesso un potere di governo del tutto corrispondente a quello esercitato sui propri
organi interni (Trib. Napoli 9.1.2014, in Banca Dati Eutekne. Nello stesso senso Trib. Napoli 29.5.2014, che nel caso di Bagnoli
Futura spa dopo un’ampia ricostruzione del fenomeno della società in house, ne ha dichiarato il fallimento sul presupposto
dell’assenza dei requisiti individuati dalle Sezioni Unite (Dir. fall, II, 2015, p. 328 ss., con nota di Macchiarulo L. “Il fallimento
di una società pubblica di trasformazione urbana: il caso Bagnoli Futura”). In tema cfr. anche: Ibba C. “Il falso problema della
fallibilità delle società a partecipazione pubblica”, Riv. dir. civ., 2015, p. 1051; Codazzi E. “Società in mano pubblica e fallimento”, Giur. comm., 2015, p. 74; Vessia F. “Società in house providing e procedure concorsuali”, Dir. fall., 2015, I, p. 142 ss.; M. Di
Fabio, Sull’assoggettabilità a procedure concorsuali delle società in house providing, Dir. fall., II, p. 300 ss.; Pagano G. “Società
in house ed ammissione delle stesse alle procedure concorsuali”, Banca, borsa, tit., cred., 2014, II, p. 466 ss.
68 Trib. Modena 10.1.2014, in Banca Dati Eutekne (i giudici modenesi hanno correttamente rilevato che anche la circostanza
che siano stati conferiti nella società gli impianti necessari per l’erogazione dei servizi, utilizzando una opportunità prevista
dall’art. 113 del DLgs 267/2000, rileva in relazione ai limiti ed alle modalità dell’eventuale liquidazione ma non incide sulla
natura della società).
69 Trib. Palermo 20.10.2014, cit. Sul tema della fallibilità dopo le Sezioni Unite, cfr. pure D’Attorre G. “La fallibilità delle società in
mano pubblica”, Fall., 2014, p. 493 ss.
70 F. Fimmanò “La giurisdizione sulle «società in house providing»”, cit., p. 60 ss.
71 Si è peraltro giustamente sottolineato che l’esonerare da fallimento le società a partecipazione pubblica insolventi potrebbe
determinare una grave alterazione del mercato e della concorrenza, nonché una disparità di trattamento tra imprese pubbliche e private, in violazione dell’art. 106 co. 1 e 2 del Trattato UE, proprio perché, in tal modo, potrebbero continuare ad operare
in perdita sul mercato, perlomeno fino a che i soci non decidano autonomamente di porle in stato di liquidazione o gli am-
la migliore dottrina e cioè che i giudici della Cassazione pur radicando la giurisdizione
della Corte dei Conti avevano posto un insuperabile argine alla c.d. riqualificazione,
ossia all’attribuzione alla società partecipata
della qualifica di “ente pubblico” “per contrastare erronee derive interpretative inclini, con
eccessivo semplicismo, alla qualificazione
della società partecipata da soggetti pubblici
come ente pubblico”72. Ma al tempo stesso
dobbiamo registrare che ciò invece, come
volevasi dimostrare, è avvenuto. Difatti una
certa giurisprudenza di merito ha interpretato l’impostazione delle Sezioni Unite proprio
come una riqualificazione, altrimenti non si
spiega l’affermazione che la società in house rientra tra i soggetti non assoggettabili
alle procedure concorsuali a norma dell’art.
1 della legge fallimentare, ossia tra gli enti
pubblici73.
Affermare che la mancanza di alterità soggettiva genera ai fini fallimentari l’esenzione;
equivale a dire che la società coincide con
l’ente pubblico, ed il passaggio successivo
naturale è che la responsabilità delle obbligazioni sociali è dell’ente pubblico, almeno in
via sussidiaria. Portando alle estreme conseguenze questo ragionamento si arriva al risultato clamoroso e devastante per la finanza
pubblica (ed in particolare per i bilanci degli
enti locali) che i creditori sociali della società in house divengono tutti creditori dell’ente
pubblico, verso cui possono agire in via diretta74. L’orientamento della suprema Corte,
frutto di un intento diretto a salvaguardare
l’erario dalla diffusa mala gestio degli organi sociali di società strumentali, raggiungerebbe così, il risultato esattamente opposto
cioè quello di aprire una voragine nei conti
pubblici derivante dalla responsabilità diretta delle pubbliche amministrazioni per tutti
i debiti contratti dalle famigerate società in
house providing.
I REGIMI
CONCORRENTI
E SETTORIALI IN TEMA
DI RESPONSABILITÀ
DEGLI ORGANI
Per concludere va evidenziato come al di là
delle riserve espresse, la giurisprudenza di legittimità non chiarisce se la giurisdizione sugli
organi sociali delle società in house “per tipo”
sia esclusiva o concorrente, coesista cioè con
quella del giudice ordinario, avendo due legittimati attivi e due beneficiari diversi, oppure
la escluda.
L’azione contabile può in linea di principio
concorrere con le altre azioni poste a garanzia dei soci e dei creditori sociali previste dal
codice civile, come avviene per gli altri casi di
responsabilità devolute alla giurisdizione contabile, senza che si determini alcun conflitto
di giurisdizione, “ma soltanto un’eventuale
preclusione all’esercizio di un’azione quando
ministratori non accertino l’esistenza di una causa di liquidazione ovvero non venga loro revocato l’affidamento del servizio
pubblico. Secondo il trattato, infatti, “le disposizioni in materia di concorrenza si applicano nei confronti di quelle imprese cui gli
Stati attribuiscano diritti speciali o esclusivi, anche nel caso in cui siano incaricate della gestione di servizi di interesse economico
generale o abbiano carattere di monopolio fiscale, nei limiti in cui l’applicazione di tali norme non osti all’adempimento, in linea di
diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata” (Codazzi E. “La società in mano pubblica e fallimento”, cit., p. 9; in tema
cfr. pure Goisis F. “Il problema della natura e della lucratività delle società in mano pubblica alla luce dei più recenti sviluppi
dell’ordinamento nazionale ed europeo”, Dir.ec., 2013, p. 42 ss.).
72 Salvato L. “Riparto della giurisdizione sulle azioni di responsabilità nei confronti degli organi sociali delle società in house”, cit., p. 43.
73 Non è bastata dunque quella che è stata definita la cura di confinare “il principio entro i limiti nei quali è stato imposto dall’involuzione (perché è tale) normativa del fenomeno” delle società in house (Salvato L. cit., p. 47).
74 Eppure (come ricorda sempre Salvato L., cit., p. 47) la Corte costituzionale ha affermato che, in relazione a tali società, resta
ferma la competenza dello Stato per “gli aspetti che ineriscono a rapporti di natura privatistica [non] esclusa dalla presenza di
aspetti di specialità rispetto alle previsioni codicistiche [che] comprende la disciplina delle persone giuridiche di diritto privato
[e include] istituti caratterizzati da elementi di matrice pubblicistica, ma che conservano natura privatistica”, applicando in tal
modo segmenti di discipline pubblicistiche, senza procedere alla riqualificazione del soggetto come ente pubblico.
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Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
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con l’altra sia già ottenuto il medesimo bene
della vita”75.
Orbene gran parte dei giudici ordinari di merito,
dopo aver accertato la sussistenza o meno delle
condizioni contemplate dalla Suprema Corte,
affermano o negano la propria giurisdizione76.
Eppure non vi sono ragioni per escludere la
concorrenza di procedimenti, civili, contabili
e penali a carico degli organi sociali.
Prendiamo il caso di una società in house
fallita, orbene l’azione di responsabilità promossa dal curatore, diretta al risarcimento del
danno provocato ai creditori non può essere
certo esclusa a vantaggio dell’azione contabile promossa dal procuratore della Corte dei
Conti che non potrà mai essere finalizzata ad
aumentare la massa attiva nell’interesse del
ceto creditorio 77.
Le due azioni a nostro avviso potranno convivere e nessuna prevarrà sull’altra. Laddove
nel tempo si formino due diversi titoli esecutivi sui beni dei componenti degli organi sociali, questi seguiranno le normali dinamiche
del processo di esecuzione. E se una delle due
azioni avrà bruciato nel tempo, l’altra evidentemente non avrà esito fruttuoso per la sopravvenuta incapienza.
D’altra parte anche l’azione penale può essere
una terza incomoda. Ipotizziamo che il curatore preferisca l’azione civile alla costituzione
di parte civile per un processo di bancarotta
impropria ad opera degli organi sociali della
società in house, ed al contempo il procuratore
della Corte dei Conti eserciti l’azione erariale;
ciò non toglie che l’eventuale sequestro penale
ad esempio per fatti distrattivi si converta in
una confisca a favore dello Stato, di beni degli
amministratori altrimenti destinati alla massa
attiva della procedura concorsuale.
Ecco che il modello da noi proposto sarebbe
stato ben più conforme al sistema: alla responsabilità degli organi sociali di società
soggette a controllo analogo doveva arrivarsi
attraverso il diritto comune e non l’affermazione della giurisdizione contabile per ragioni
di immedesimazione organica. Il procuratore
della Corte dei Conti avrebbe potuto agire verso gli organi utilizzando il comma 2 dell’art.
2497 c.c., essendo gli amministratori e i sindaci della partecipata responsabili in quanto
prendono parte al fatto lesivo in solido ed unitamente all’ente pubblico che ha abusato del
dominio sul quale esiste già la giurisdizione
contabile senza necessità di costruire in vitro
una delegazione organica virtuale tra ente e
società in house. In questo modo si sarebbe
ricondotto a sistema il funzionamento dei diversi regimi che come visto ora, al di là delle
incertezze, crea una sovrapposizione disordinata ed incontrollata.
75 Cass. SS.UU. 17.4.2014 n. 8927, richiamata in Cerioni F., cit., p. 969, che rileva come la legittimazione straordinaria del pubblico ministero contabile, garantita dalle diverse disposizioni succedutesi nel tempo in tema di contabilità pubblica, non ha mai
precluso alle pubbliche amministrazioni, danneggiate da atti e comportamenti dei propri dipendenti, di agire in sede civile
per il risarcimento dei danni ovvero, nei casi di commissione di reati, di costituirsi parte civile nei relativi procedimenti penali.
In argomento cfr. pure Miele T., cit., 2011, p. 450 ss.
76 Trib. Nocera Inferiore 30.7.2015, in Banca Dati Eutekne (ha rilevato che è possibile che un rapporto di servizio, inteso nella
sua moderna accezione di svolgimento di un’opera per il perseguimento di scopi pubblici e con denaro pubblico, si incardini tra un soggetto che svolge attività di gestione di società privata, il cui scopo sociale sia l’erogazione di servizi pubblici,
con dotazione di patrimonio da parte dell’ente locale, senza peraltro che questa incida sulla natura di persona giuridica
autonoma della società in house, purché tale rapporto sia individuato in concreto senza apodittiche conclusioni circa la
partecipazione totale o parziale del soggetto pubblico. In proposito è opportuno precisare che questa impostazione non incide sulla autonomia privatistica della persona giuridica della società in house, la quale altro non costituisce che un organo
indiretto dell’amministrazione pubblica, il quale agisce per le finalità proprie di quest’ultima. In base alle considerazioni che
precedono il danno lamentato da un Comune al proprio patrimonio nei confronti degli amministratori e sindaci di società in
house costituisce danno erariale devoluto alla giurisdizione contabile).
77 Peraltro secondo la Suprema Corte in tema di azioni nei confronti dell’amministratore di società, proprio a norma dell’art.
2395 c.c., il socio (nel nostro caso pubblico) è legittimato, anche dopo il fallimento della società, all’esperimento dell’azione
per ottenere il risarcimento dei danni subiti nella propria sfera individuale, in conseguenza di atti dolosi o colposi compiuti
dall’amministratore, solo se questi siano conseguenza immediata e diretta del comportamento denunciato e non il mero
riflesso del pregiudizio che abbia colpito l’ente, ovvero il ceto creditorio per effetto della cattiva gestione, essendo altrimenti
proponibile la diversa azione (di natura contrattuale) prevista dall’art. 2394 c.c., esperibile, in caso di fallimento della società, dal curatore , ai sensi dell’art. 146 L. fall. (Cass. n. 6870/2010, cit.).
Insomma, allo stato esistono, al di là di
quella penalistica, due forme di responsabilità degli organi amministrativi e di
controllo, concorrenti 78 e settoriali 79, quella civilistica comune per danni, secondo le
regole ex artt. 2393 ss. c.c., e quella erariale
nei confronti del socio pubblico, da far valere con l’azione ordinaria per le società in
house e con quella individuale del socio ex
art. 2395 c.c.80 e peraltro non preclusiva della
stessa 81, esattamente come accadrebbe per
qualsiasi altra società di diritto comune 82.
78 Cfr. in tema Ibba C. “Forma societaria e diritto pubblico”, Riv. dir. civ., 2010, I, p. 365 ss.; Id. “Azioni ordinarie di responsabilità
a azione di responsabilità amministrativa nelle società in mano pubblica, il rilievo della disciplina privatistica”, Riv. dir. civ.,
2006, II, p. 145 ss.; Id. “Sistema dualistico e società a partecipazione pubblica”, Riv. dir. civ., 2008, I, p. 584. Per la responsabilità concorrente propende Rordorf R. “Le società pubbliche nel codice civile”, Le Società, 2005, p. 424; per quella alternativa Venturini L. “L’azione di responsabilità amministrativa nell’ambito delle società per azioni in mano pubblica. La tutela
dell’interesse pubblico”, Foro amm., Cons. Stato, 2005, p. 3442 ss.; incerto Romagnoli G. “La responsabilità degli amministratori di società pubbliche fra diritto amministrativo e diritto commerciale”, Le Società, 2008, p. 441 (secondo cui tuttavia
la non coincidenza degli interessi tutelati dalle due azioni emerge dalla distinta natura rispettivamente compensativa di
quella civile e sanzionatoria di quella contabile. Nella seconda è peraltro prevista la possibilità di attenuare la condanna
rispetto all’entità del danno accertato ex art. 1 co. 1- bis della L. 20/1994, e di concordare per l’appellante il pagamento di
una somma non superiore al terzo della condanna di primo grado ex art. 1 co. 231 della L. 266/2006, a conferma della inidoneità del processo erariale ad appagare le esigenze di reintegrazione del patrimonio sociale tutelate dal diritto societario).
Sul tema cfr. pure Corte Conti, Sez. Molise, 11.1.2001 n. 157, secondo cui nel giudizio contabile ed in quello civile non viene
fatta valere la tutela dello stesso bene per la diversità di causa pretendi.
79 L’estensione della giurisdizione contabile in assenza di una espressa previsione contrasta, peraltro, con l’art. 103 Cost.,
nella parte in cui impone una chiara delimitazione dei giudici speciali, visto che il concetto stesso di materia presuppone
una precisa definizione dei suoi confini atteso il suo ruolo discriminante rispetto alla sfera d’azione riservata all’autorità
giudiziaria ordinaria (Corte Cost. 6.7.2004 n. 204, Foro It., I, c. 2594 ss.).
80 Ex adverso l’azione individuale ex art. 2395 c.c., è stata ritenuta dalla magistratura contabile fuori dall’ambito della
propria giurisdizione (Corte dei Conti n. 356/2005, cit.).
81 Questo pare essere il risultato cui perviene la Cassazione che ha affermato che la Corte dei Conti può pronunciarsi solo sul
danno erariale, cioè quello subito dal socio pubblico al suo patrimonio, risarcibile in sede civile, ai sensi dell’art. 2395 c.c.,
potendosi qualificare erariali tali pregiudizi direttamente incidenti sul patrimonio del socio pubblico e fonte di responsabilità da accertare con lo speciale procedimento, su iniziativa del procuratore della Corte dei Conti (Cass. SS.UU. n. 4309/2010,
cit.). Da questo punto di vista l’azione contabile esperita dal procuratore della Corte non dovrebbe comunque precludere
l’azione ex art. 2395 c.c. esperita dal socio innanzi al giudice ordinario, vista la diversità dei presupposti e dei risultati
perseguibili (contra, Corso S. “La responsabilità societaria ed amministrativa degli amministratori di società a prevalente
partecipazione pubblica”, Riv. arb., 2008, p. 570).
82 Per Corte dei Conti, Sez. giur. Reg. Friuli Venezia-Giulia 18.3.2009 n. 98, l’azione di responsabilità amministrativa concorre
con le azioni civili di responsabilità sociale degli amministratori e sindaci della società, e non si sostituisce ad esse, costituendo una forma di tutela aggiuntiva, giustificata dall’esigenza di salvaguardia delle funzioni e dei servizi pubblici ai quali
la società stessa è preordinata, anche al fine di evitare le conseguenze pregiudizievoli derivanti dall’eventuale inerzia dei
soggetti legittimati dinanzi al giudice ordinario.
41
/ Obbligazioni
e contratti
02
2. Obbligazioni
e contratti
CRITICITÀ E CONSIGLI
NELLA REDAZIONE
DEI CONTRATTI:
LA CESSIONE DEL CREDITO
La cessione del credito, disciplinata dagli artt. 1260 c.c. ss., è il negozio mediante il
quale il creditore (cedente) trasferisce un diritto di credito a un terzo (cessionario):
un contratto che si perfeziona con il consenso del cedente e del cessionario,
senza necessità di quello del debitore ceduto, e si caratterizza per l’oggetto (il
trasferimento di un diritto di credito), a prescindere dalla causa. Nella redazione
del contratto, quindi, oltre alle obbligazioni a carico dell’una e dell’altra parte, è
opportuno disciplinare, o quanto meno richiamare, gli elementi essenziali del
negozio giuridico da cui il credito ceduto deriva, senza dimenticare il regolamento
delle vicende legate alla vita e alla cessazione del rapporto.
/ Cristiano BERTAZZONI *
IL CONTRATTO
DI CESSIONE
DEL CREDITO
Il termine cessione indica sia il fatto traslativo
del credito sia l’effetto prodotto da questo. La
disciplina che il codice civile (artt. 1260 c.c.
ss.) dedica all’istituto1 attiene ora all’uno ora
all’altro aspetto. Secondo i principi generali del
sistema, il trasferimento del diritto si realizza
solo se nella fattispecie concreta è presente
una causa idonea a produrlo, che non può
sussistere nel nudo atto traslativo del credito
per sé considerato. Per questo motivo, il fatto
traslativo del credito viene a trovarsi in un
certo senso assorbito nei vari tipi negoziali
mediante i quali è possibile realizzare l’effet-
*
to traslativo del credito (vendita, donazione,
cessione in luogo di adempimento, cessione
d’azienda, ecc.). La disciplina della cessione
del credito, infatti, detta uno schema unitario
e generale ma incompleto, che si pone quale
correttivo e/o integrazione nei confronti dei
singoli negozi causali traslativi.
In altri termini, nella redazione del contratto
in oggetto è sempre opportuno considerare
il tipo contrattuale cui il trasferimento del
credito si riferisce. In sostanza, se si tratta
di compravendita, oltre agli elementi tipici
della cessione del credito, dovranno essere
disciplinati anche quelli della compravendita stessa. Se, invece, per esempio, il trasferimento del credito avviene a titolo gratuito,
sarà opportuno applicare le norme relative
alla donazione. E così via.
Avvocato in Verona
1 Per l’approfondimento del quale si rinvia a Bertazzoni C. “La cessione del credito”, in questa Rivista, 12, 2015, pp. 38-53.
43
Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
Si osserva, infine, che con la L. 52/1991 è
stata prevista una serie di deroghe rispetto
ad alcuni punti della disciplina del codice civile, destinate a operare nei confronti delle
c.d. “cessioni di crediti d’impresa” (c.d. factoring).
44
CLAUSOLE SENSIBILI PER IL CEDENTE
Le clausole che contengono elementi sensibili per il cedente si riferiscono, in particolare,
agli obblighi che questi assume nei confronti
del cessionario, riconducibili alle seguenti categorie:
• obblighi di cooperazione (es. notifica al debitore ceduto, consegna dei documenti probatori, informazioni sul debitore);
• garanzie (garanzia per l’esistenza del credito; garanzia per la solvenza del debitore);
• ogni altra obbligazione a carico del cedente
derivante dal tipo contrattuale cui si riferisce
la cessione (es. garanzia della titolarità del
credito, garanzia per la mancanza di qualità
ex art. 1497 c.c.).
CLAUSOLE SENSIBILI PER IL CESSIONARIO
Gli elementi di criticità del cedente si riflettono nelle clausole sensibili del cessionario,
quale beneficiario delle obbligazioni (es. obblighi di cooperazione e garanzie). In più, anche al cessionario sono applicabili le norme
che regolano il tipo contrattuale cui la cessione del credito di riferisce (es. compravendita,
donazione, permuta ecc.). Oltre a ciò, vi sono
alcuni elementi cui il cessionario, nella redazione del contratto, deve prestare particolare
attenzione e sono riferibili a:
• previsione e tipologia del corrispettivo (es.
prezzo, datio in solutum, assenza di corrispettivo ecc.);
• oggetto della cessione (es. verifica della cedibilità del credito e divieti di cessione);
• forma del contratto e opponibilità al debitore ceduto;
• trasferimento degli accessori del credito (es.
garanzie reali o personali del ceduto o di
terzi);
• efficacia della cessione nei confronti dei
terzi.
A seguito del trasferimento del credito, il
cessionario acquista tutte le facoltà inerenti alla posizione di titolare del diritto
(es. novare, rimettere, concedere dilazioni) e può esercitare i poteri strumentali al
soddisfacimento delle ragioni creditorie (es.
azioni revocatoria e surrogatoria, sequestro
conservativo, fallimento, ecc.). Tuttavia, la
cessione non modifica né il titolo del credito, né in genere la posizione del debitore
e, quindi, il ceduto può opporre al cessionario tutti i vizi inerenti al negozio costitutivo
(nullità, annullabilità, risoluzione, rescissione). Per le eccezioni che incidono sull’esistenza del rapporto ceduto, ma traggono
origine da altri rapporti intercorrenti tra gli
stessi soggetti (es. le eccezioni di compensazione, di novazione) bisogna far riferimento
al soggetto che è creditore al tempo in cui
si verifica il fatto costitutivo l’eccezione. Il
codice stabilisce che, riguardo a tali eccezioni, il trasferimento del diritto dal cedente al
cessionario è rilevante per il ceduto solo dal
momento in cui è eseguita la notifica (art.
1248 c.c.): il ceduto può opporre al cessionario le eccezioni relative a rapporti personali
col cedente, anche se il fatto costitutivo è
posteriore alla cessione, ma anteriore alla
reazione della notifica.
Si propone di seguito uno schema contrattuale limitato, per definizione, ma che può
costituire una solida base per la redazione
di un contratto che recepisca, grazie alle
necessarie e opportune integrazioni del professionista, le circostanze, i termini, le condizioni e, in generale, le caratteristiche del
singolo caso di specie.
CESSIONE DEL CREDITO
Forma. In assenza di una specifica previsione di legge, alla cessione del credito è applicabile il
principio della libertà di forma, salvo le prescrizioni del negozio la cui funzione integra la causa
variabile della fattispecie (es. la forma solenne richiesta per la donazione ex art. 782 c.c.) o quelle
previste per soddisfare esigenze di pubblicità (es. cessione di un credito assistito da garanzia ipotecaria ex art. 2843 c.c.) o quelle derivanti dalla soggettività di una delle parti (es. atto pubblico
o scrittura privata autenticata per la cessione di crediti vantati nei confronti della pubblica amministrazione ex art. art. 69 comma 3 del RD 18.11.1923 n. 2440). In ogni caso, anche se le parti
sono libere di convenire una particolare forma per il negozio di cessione del credito, è sempre
preferibile, almeno, la forma scritta.
Tra
la società Alfa srl avente sede legale in _______ via _______, P. IVA e iscrizione al Reg.
Imp. di _______ n. _______, in persona del suo legale rappresentante Sig. _______
(di seguito, per brevità, “Cedente”)
e
la società Beta srl avente sede legale in _______ via _______, P. IVA e iscrizione al Reg.
Imp. di _______ n. _______, in persona del suo legale rappresentante Sig. _______
(di seguito, per brevità, “Cessionario”)
premesse
A.il Cedente è creditore della società Gamma S.p.A., avente sede legale in _______ via
_______, P. IVA e iscrizione al Reg. Imp. di _______ n. _______, (di seguito, per brevità, il “Debitore Ceduto”), della somma di Euro _______ in ragione di _______, in
relazione al quale sono stati emessi i seguenti documenti:
a. _______________;
b. _______________;
c. _______________;
che in copia si allegano al presente contratto rispettivamente sotto le lettere A, B e C;
Documenti probatori del credito. L’art. 1262 c.c. impone al cedente di consegnare al cessionario i documenti probatori del credito in suo possesso. La consegna attiene all’esecuzione
e costituisce un obbligo del cedente solo eventuale che, vista la natura non imperativa della
norma, può essere convenzionalmente escluso. Salvi i documenti che costituiscono normale
strumento di esercizio del credito ceduto, il cedente non è obbligato a procurare al cessionario
i documenti di cui non abbia la disponibilità. Se il cedente non adempie spontaneamente, il
cessionario può ottenere giudizialmente ex art. 2930 c.c. la consegna dei documenti probatori.
B. il Cedente intende cedere il predetto credito al Cessionario affinché ne diventi unico ed
esclusivo titolare;
Tutto ciò premesso, si conviene e stipula quanto segue.
45
Art. 1 – Premesse e Allegati
Le Premesse e gli Allegati costituiscono parte integrante del presente contratto.
Art. 2 – Oggetto
L’oggetto della cessione è il trasferimento, a titolo oneroso o gratuito, a un terzo (cessionario), anche senza il consenso del debitore (ceduto), di un diritto di credito, un diritto
potestativo o personale di godimento, un’aspettativa e, in generale, di qualsiasi situazione
giuridica soggettiva, cui sia connesso il diritto di ricevere una determinata prestazione di
dare, fare o non fare, da parte del creditore (cedente).
Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
2.1. Il Cedente cede e vende al Cessionario, che accetta, il credito di Euro _______ che
a lui compete in virtù del contratto di _______, stipulato il _______, nei confronti del
Debitore Ceduto, con i privilegi e le garanzie a esso inerenti e con ogni accessorio, come
risultante dai documenti di cui alle premesse e allegati sub A, B e C al presente contratto.
46
Cedibilità dei crediti. È liberamente trasferibile il credito:
-- derivante da promessa unilaterale o avente fonte in un’obbligazione naturale;
-- derivante da contratto o da atto illecito;
-- non ancora determinato, ma determinabile con riferimento al rapporto da cui deriva, ovvero non determinato nell’ammontare o non esigibile;
-- giudizialmente contestato, nei limiti di cui all’art. 1261 c.c.;
-- con adempimento previsto in un determinato termine, ovvero sottoposto a termine iniziale o a condizione sospensiva;
-- non ancora esistente.
Cessione di credito futuro. Si perfeziona con la manifestazione del consenso da parte del
cedente e del cessionario, ma produce l’effetto traslativo solo nel momento in cui il credito
viene a esistenza nel patrimonio del cedente. Fino a quel momento, il contratto produce tra le
parti effetti meramente obbligatori (obbligazione del cedente di comunicare al cessionario il
sorgere del credito).
Art. 3 – Corrispettivo
3.1. Il corrispettivo pattuito per la cessione è pari a Euro _______ e verrà corrisposto entro dieci giorni solari dalla stipulazione del presente Contratto mediante bonifico bancario
da accreditare su _______ IBAN _______.
[Oppure - Caso specifico cessione in luogo di adempimento]
3.1. Le Parti dichiarano che la presente cessione ha luogo a titolo di pagamento del debito di
Euro _______ che il Cedente ha nei confronti del Cessionario, derivante da _______, come
risulta da _______ che si allega al presente contratto sub lett. _______.
3.2. La presente cessione produce effetti immediatamente liberatori nei confronti del
Cedente che, in deroga a quanto disposto dall’art. 1198 c.c., non assume alcuna responsabilità relativamente alla solvenza del debitore ceduto.
Datio in solutum. Si tratta di un’ipotesi particolare di cessione pro solvendo. Infatti, ex art.
1198 c.c., quando in luogo dell’adempimento è ceduto un credito, l’obbligazione si estingue
con la riscossione del credito, se non risulta una diversa volontà delle parti (cessione pro soluto). Pertanto, la cessione non estingue il credito originario, ma si affianca a quello ceduto.
Il cedente è liberato in caso di realizzazione del credito ceduto ovvero quando vi sia stato un
comportamento negligente del cessionario ai fini del conseguimento del credito.
Art. 4. – Garanzie
4.1. Cessione pro soluto. Il cedente garantisce la sussistenza del credito al tempo della
cessione ma non la solvenza del debitore ceduto.
Cessione pro soluto. A norma dell’art. 1266 c.c., quando la cessione è a titolo oneroso, il
cedente è tenuto a garantire l’esistenza del credito al tempo della cessione. La garanzia può
essere pattiziamente esclusa, ma il cedente resta sempre obbligato per il fatto proprio. Se la
cessione è a titolo gratuito, la garanzia è dovuta solo nei casi e nei limiti in cui la legge pone a
carico del donante la garanzia per l’evizione. La garanzia dell’esistenza del credito ha natura
di obbligazione accessoria e trova fondamento nella tutela del cessionario il quale, non potendo accertare l’effettiva esistenza del diritto oggetto di cessione, si troverebbe esposto al
rischio di incorrere in possibili manovre in suo danno poste in essere dal cedente. La garanzia
dell’esistenza del credito non opera in caso di cessione di credito futuro. Nel caso di cessione
di un credito derivante da titolo soggetto a condizione sospensiva, invece, il cessionario può
invocare la garanzia fino al momento dell’eventuale avveramento della condizione.
[Oppure]
4.1 Cessione del credito con esclusione della garanzia. Il Cedente non garantisce la sussistenza del credito, ferma la responsabilità per fatto proprio.
Esclusione della garanzia. In presenza di un patto di esclusione o di limitazione della garanzia ex art. 1266 c.c., il cedente risponde comunque nei confronti del cessionario ex art. 1229
c.c., sia nel caso in cui il cessionario non acquisti la titolarità del diritto di credito ceduto per
fatto proprio del cedente, sia nel caso in cui il cessionario perda la titolarità del credito già
acquisito per fatto imputabile al cedente. In questo ultimo caso (estinzione del credito successiva alla cessione per fatto imputabile al cedente), il cedente è obbligato al risarcimento
del danno, secondo le norme comuni, ma non ex art. 1266 c.c., in quanto la garanzia prevista
dalla norma è riferita unicamente al momento di conclusione del negozio di cessione. Non vi
è responsabilità ex art. 1266 c.c. in capo cedente se l’estinzione del credito ceduto, successiva
alla conclusione della fattispecie traslativa, è conseguenza di fatti non imputabili al cedente.
Cessione di credito inesistente. Per credito inesistente, deve intendersi il credito mai venuto a esistenza; il credito altrui; il credito che, benché esistente prima della cessione, risulti estinto al momento della conclusione della fattispecie traslativa; il credito derivante
da titolo inesistente o nullo e il credito prescritto. La cessione di credito inesistente non è
nulla (ex art. 1418 c.c.), ma il cedente deve risarcire al cessionario l’interesse positivo, ossia
il valore del credito, gli interessi e le spese eventualmente sostenute dal cessionario per
infruttuose escussioni del debitore. Se, invece, le parti hanno convenzionalmente escluso la
garanzia, la cessione di credito inesistente è nulla. Il credito si considera retroattivamente
47
inesistente nel caso di avveramento della condizione risolutiva cui era soggetto il titolo del
credito e nel caso in cui il debitore opponga al cessionario l’avvenuta compensazione ex art.
1248 c.c.
[Oppure]
4.1 Cessione pro solvendo. Il cedente assume la responsabilità della solvenza del Debitore
Ceduto nei limiti di quanto ha ricevuto, oltre agli interessi, alle spese della cessione e
dell’escussione del debitore, e al risarcimento del danno.
Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
Cessione pro solvendo. L’assunzione, da parte del cedente della garanzia della solvenza è
soggetta a un espresso patto, che può essere concluso dalle parti anche successivamente
al perfezionamento del negozio traslativo (art. 1267 c.c.). La garanzia della solvenza del
debitore ceduto è prevista a carico del cedente in tema di cessione dei crediti d’impresa
(c.d. factoring – art. 4, L. 21.2.1991 n. 52); sconto di cambiali (art. 1859 c.c.); cessione di
un credito in luogo dell’adempimento (art. 1198 c.c.); conferimento di un credito in società (art. 2255 c.c.) e assegnazione di crediti e rendite nella divisione ereditaria, nei limiti
dell’art. 760 c.c.
48
Limiti. Le parti possono convenzionalmente stabilire particolari limiti e condizioni alla responsabilità del cedente. Per esempio, è possibile convenire che il cedente non sia tenuto,
in tutto o in parte, alla restituzione di quanto ricevuto e/o al pagamento degli interessi
e/o delle spese e/o del risarcimento dei danni. In nessun caso, invece, (ivi compresa la previsione di una clausola penale) le parti possono convenire che, in caso di insolvenza, il
cedente debba corrispondere al cessionario un importo superiore al corrispettivo del trasferimento del credito. La violazione di tale divieto, previsto dall’art. 1267 comma 1 ultima
parte c.c., comporta la nullità del patto.
Insolvenza del ceduto. Ai fini della garanzia pro solvendo, rileva l’insolvenza che può determinare l’impossibilità per il cessionario di realizzare, direttamente o indirettamente, la propria pretesa creditoria nei confronti dell’obbligato a causa della mancanza di un patrimonio
personale del ceduto e della sussistenza di impedimenti alla proposizione dell’azione esecutiva nei confronti di questi. Invocando la garanzia, il cessionario risolve il negozio di cessione
e il cedente, una volta corrisposto al cessionario, non l’importo del credito oggetto di trasferimento, ma il prezzo della cessione e le spese, ritorna titolare dell’intero credito insoluto.
Preventiva escussione. Per potersi avvalere della garanzia pro solvendo il cessionario deve
preventivamente escutere il debitore, sino a esaurire tutti i possibili tentativi di realizzazione del credito, salvo che non provi che le istanze nei confronti del ceduto sarebbero rimaste
comunque infruttuose a causa della sua insolvenza. La garanzia del cedente per mancata
realizzazione del credito è condizionata alla dimostrazione, da parte del cessionario, della
richiesta di pagamento di quanto dovuto al debitore ceduto, o quantomeno, dimostrazione
della totale inutilità delle istanze di pagamento, attesa la notoria insolvenza del debitore al
momento della cessione. Le parti, però, possono escludere l’onere di agire preventivamente
in via esecutiva nei confronti del debitore ceduto.
Inadempimento del debitore ceduto. La garanzia della solvenza ex art. 1267 c.c. deve essere distinta dalla garanzia dell’adempimento del debitore. Nel primo caso, infatti, il cedente si
obbliga a restituire, in caso d’inadempimento del ceduto, il corrispettivo della cessione, oltre
alle spese, ai danni e agli interessi, mentre nel secondo caso, il cedente garantisce il cessionario in ordine all’adempimento dell’obbligato e si obbliga a corrispondere al cessionario
l’equivalente patrimoniale della prestazione inadempiuta.
4.2. Il Cedente dichiara e garantisce di essere pieno ed esclusivo titolare del credito ceduto con il presente contratto e che lo stesso non è assistito da alcuna garanzia reale o
personale.
Le garanzie del credito ceduto. Alla cessione del credito consegue l’automatico trasferimento
al cessionario dei privilegi e delle garanzie (personali e reali) che assistono il credito ceduto,
nonché degli accessori. La norma è derogabile, e se le parti convengono di escludere il trasferimento delle garanzie del credito ceduto, le stesse garanzie, in quanto accessorie, si estinguono.
[Oppure]
4.2. Il Cedente dichiara e garantisce di essere pieno ed esclusivo titolare del credito ceduto
con il presente contratto e che lo stesso è garantito da ipoteca iscritta presso la Conservatoria dei Registri immobiliari di _______ in data _______ al n. _______.
Garanzie reali. Se il credito ceduto è assistito da ipoteca, è necessaria l’annotazione della cessione in margine all’iscrizione ipotecaria prevista dall’art. 2843 c.c., a seguito della
quale il cessionario acquista lo stesso grado e gli stessi diritti dell’originario creditore ipotecario. Se l’annotazione non viene eseguita, l’ipoteca si estingue. In caso di pegno, l’art.
1263 comma 2 c.c. vieta il trasferimento del possesso della cosa ricevuta in pegno senza
il consenso del “costituente”, ossia del debitore ceduto. Se questi non presta il consenso, il
cedente assume la custodia della cosa data in pegno ex art. 2786 comma 2 c.c.
[Oppure]
4.2. Il Cedente dichiara e garantisce di essere pieno ed esclusivo titolare del credito ceduto con il presente contratto e che lo stesso è garantito da fideiussione rilasciata da
_______, che in originale si allega al presente atto sotto sub lett. _______.
Garanzie personali. Accessorie per definizione, si trasferiscono automaticamente insieme
al credito (es. garanzia fideiussoria prestata dal ceduto o da un terzo in relazione al credito
oggetto di cessione, mandato di credito, avallo). È escluso il trasferimento automatico del
c.d. contratto autonomo di garanzia, in quanto privo del carattere di accessorietà.
Art. 5 – Notificazione/Accettazione
5.1. Il Cedente si obbliga a notificare il presente contratto al Debitore Ceduto, con raccomandata a.r., entro _______ giorni dalla sottoscrizione dello stesso.
La notifica della cessione. La notificazione può essere eseguita indifferentemente dal cedente o dal cessionario ma deve obbligatoriamente contenere o una copia integrale dell’atto di cessione o l’indicazione di tutti gli elementi essenziali della cessione (rapporto obbli-
49
gatorio tra cedente e ceduto; ammontare del credito oggetto di trasferimento; indicazione
del titolo da cui il credito deriva; data dell’atto di cessione; indicazione del cessionario e
dell’eventuale notaio rogante; data di registrazione ecc.).
Forma e termine della notifica. Non è necessario che la notificazione avvenga con l’osservanza delle prescrizioni previste dall’ordinamento per gli atti processuali e, in particolare, a
mezzo di ufficiale giudiziario, né è previsto alcun termine perentorio e deve essere eseguita
a cura della parte interessata secondo i canoni della normale diligenza. Per ovviare, quindi,
a eventuali controversie, è sempre preferibile stabilire nel contratto di cessione il soggetto
obbligato, la forma e il termine della notifica.
[Oppure]
Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
5.1. Il Debitore Ceduto ha già accettato prima d’ora la cessione del credito, come risulta dal
_______ allegato al presente contratto sub lett. _______.
50
Accettazione della cessione da parte del debitore. L’accettazione del debitore ceduto non è
una manifestazione di volontà idonea a concorrere alla formazione della fattispecie contrattuale, ma ha natura di mera dichiarazione di scienza, con lo scopo di attestare la conoscenza
da parte del debitore dell’avvenuto trasferimento del diritto di credito, pur essendo priva di
valore confessorio o ricognitivo del debito nei confronti del cessionario. L’accettazione del
debitore può essere:
-- preventiva, ossia anteriore al perfezionamento di un atto traslativo già programmato;
-- richiesta al debitore, indifferentemente, dal cedente o dal cessionario;
-- indirizzata dal debitore al cedente o al cessionario.
L’accettazione non deve necessariamente avere data certa e può essere provata con ogni
mezzo, anche se è sempre preferibile che avvenga in forma scritta.
Art. 6 – Spese
Le spese relative al presente contratto, comprese quelle di notifica, sono interamente a
carico del Cessionario.
Art. 7 – Legge applicabile
Il presente contratto sarà retto e interpretato in base alla legge italiana.
Art. 8 – Controversie
Ogni controversia che dovesse sorgere dal presente contratto, o comunque a esso relativa,
sarà di esclusiva competenza del Foro di _______.
Art. 9 – Clausole finali
9.1. Il presente contratto annulla e sostituisce ogni intesa o accordo anteriormente intercorso tra le parti.
9.2. Ogni modifica al presente contratto, compresi gli Allegati, dovrà rivestire forma scritta
e dovrà essere sottoscritta dai rappresentanti di entrambe le parti debitamente autorizzati.
9.3. Ogni comunicazione da farsi secondo il presente contratto deve effettuarsi a mezzo
raccomandata con ricevuta di ritorno o a mezzo PEC o fax agli indirizzi delle parti come sopra indicati o ad altri indirizzi che ciascuna parte abbia comunicato all’altra in forma scritta.
9.4. Per quanto non espressamente previsto dal presente contratto, si fa espresso riferimento alle leggi speciali in materia e al codice civile.
Letto, confermato e sottoscritto a _______, il _______
Il Cedente
____________________________
Il Cessionario
___________________________
51
/ La sentenza
del mese
03
3. La sentenza
del mese
PREVISIONE DI UN TERMINE
DI DURATA ECCEDENTE
LA VITA MEDIA DI UN ESSERE
UMANO E DIRITTO
DI RECESSO NELLA SRL
Il Tribunale di Roma, con la sentenza del 22 ottobre 2015 n. 21224, si è pronunciato
sulla questione dell’applicabilità del recesso all’ipotesi in cui l’atto costitutivo della
srl preveda un termine di durata della società tale da eccedere la vita media di un
essere umano, pervenendo alla soluzione affermativa, in conformità all’orientamento
sostenuto dalla Suprema Corte.
Trib. Roma 22.10.2015 n. 21224
/ Paolo REVIGLIONO *
LA SENTENZA IN BREVE
Un imprenditore aveva donato alla figlia una
quota del capitale sociale della società Alfa
srl, proprietaria di alcuni immobili, di cui uno
adibito a sala cinematografica; la figlia aveva
successivamente inviato al padre, quale amministratore unico della società, una lettera
contenente gravi critiche in ordine alla gestione della società nonché la manifestazione di recedere dalla società e la richiesta di
liquidazione della quota, ai sensi della norma
statutaria che prevedeva, essendo la società
contratta a tempo indeterminato, il recesso
dei soci con un preavviso di almeno sei mesi.
Il padre aveva quindi convenuto in giudizio la
figlia, al fine di ottenere la revocazione della donazione per ingratitudine, ai sensi dell’art. 801
c.c., adducendo la gravità e l’infondatezza delle accuse mossegli dalla figlia stessa e, quindi,
*
stigmatizzando la volontà di quest’ultima di determinare lo scioglimento della società, la cessazione dell’attività e il conseguente dissolvimento
del patrimonio familiare. La convenuta, oltre che
contestare la fondatezza della domanda attorea, aveva, a sua volta, convenuto in giudizio la
società al fine di far accertare la legittimità del
recesso e la correlata pretesa liquidatoria della
quota, sulla base della considerazione che la modifica dello statuto con cui era stato introdotto
il termine di durata del 31 dicembre 2050, per
quanto avvenuta anteriormente al momento in
cui il recesso era stato da essa esercitato, fosse
da reputarsi illegittima, essendo il risultato di un
atto unilaterale compiuto dell’amministratore al
di fuori dell’assemblea, peraltro qualificato dalla
società come atto ricognitivo del contenuto di
un precedente deliberato.
Ordinario di Diritto Commerciale nell’Università “Universitas Mercatorum” – Notaio
53
Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
54
Il Tribunale1, nel disporre la riunione della trattazione delle due cause, esclude, innanzitutto,
la sussistenza dei presupposti per la revocazione della donazione; in primo luogo perché il
grave pregiudizio al patrimonio del donante è
escluso dal fatto che il danno cagionato dalla
figlia, ammesso che si sia effettivamente verificato, ha avuto come termine diretto il patrimonio della società e non quello dei singoli
soci, sia perché le affermazioni contenute nella lettera inviata all’attore non costituiscono
un’ingiuria grave: le mere critiche, alla luce
dell’orientamento consolidato in giurisprudenza, sono, per quanto aspre, espressione della
libertà personale e non raggiungono, come
tali, quel livello di astiosità o avversità verso
il donante, richiesto dalla legge ai fini dell’ottenimento della revocazione della donazione.
Il Tribunale, quindi, passa ad esaminare il profilo relativo al recesso, affermando l’inutilità
di procedere alla valutazione del significato e
del valore giuridico dell’atto con cui l’amministratore aveva introdotto il termine di durata;
secondo i giudici romani, anche ammettendo
la legittimità di tale determinazione dell’amministratore (e quindi che la società avesse
una durata fissata sino al 31 dicembre 2050),
non per questo la legittimità del recesso
potrebbe essere messa in dubbio, stante la
necessità di estendere l’applicazione del recesso anche alla previsione di una durata
della società che ecceda la vita media di un
essere umano (nel caso concreto, la convenuta nel 2050 avrebbe avuto 85 anni).
Nel breve commento ci si soffermerà esclusivamente su questo secondo profilo, pur dovendosi riconoscere l’interesse che rivestono
le considerazioni svolte dal Tribunale in ordine al profilo della revocazione della donazione per ingratitudine.
Tribunale di Roma 22.10.2015 n. 21224
Pres. Mannino - Est. Scerrato
Società a responsabilità limitata – Termine di durata eccedente la vita media umana –
Diritto di recesso – Ammissibilità
Svolgimento del processo
Con atto di citazione (prima causa: n. [Omissis] RG)
l’attore D.L. Ettore, premesso che con atto notaio
dott. Poalo S. del 2.12.2010 aveva donato alla figlia
Isabella una quota, pari a nominali 3.300,00 euro,
del capitale sociale della Alfa srl, allegava che il
patrimonio della predetta società consisteva in
un immobile adibito a sala cinematografica con
terreno limitrofo, area e terreno con progetto di
edificabilità, nonché in tre appartamenti, il tutto
al centro di Ladispoli; che la convenuta rivestiva
la qualifica di direttore di sala cinematografica,
con ampi poteri di gestione dell’attività commerciale in parola, che costituiva la fonte principale
dei guadagni della società; che in 12.3.2012 la
convenuta aveva inviato ad esso attore, donante
ed amministratore unico della società, una lettera contenente gravi ed infondate accuse in ordine
alla non corretta gestione della società, oltre che
la formalizzazione della domanda di recesso dalla
carica di socio con conseguente richiesta di liquidazione della quota; che con successiva raccomandata dell’11.12.2012 era stato invitato a convocare
un’assemblea per deliberare sull’accettazione del
recesso, già discusso nella precedente assemblea
del 20.10.2012; che sempre con la medesima
raccomandata la convenuta aveva espresso disaccordo sulla proposta, formulata dagli altri soci,
di aumentare il costo dei biglietti degli spettacoli
cinematografici, aumento cui la convenuta, quale
direttrice di sala, non aveva inteso dare seguito,
1 Trib. Roma 22.10.2015 n. 21224, riportata in stralcio di seguito e disponibile in Banca Dati Eutekne.
nonostante la passività della società registrata
dall’esercizio 2009; che detto atteggiamento di
forte ed ingiustificato astio della donataria nei
confronti del donante era poi sfociato nella successiva autoconvocazione dell’assemblea per il giorno
7.2.2013, avente all’ordine del giorno la presa d’atto del recesso del socio Isabella D.L. e modifica dello
statuto da parte dell’amministratore unico ed azioni conseguenti’; che aveva replicato prontamente
alle accuse rivoltegli di aver modificato lo statuto
in tema di durata e di recesso, in quanto si trattava di modifiche intervenuto all’atto della scissione
parziale nel 2008, prima della donazione; che la
reale finalità della convenuta era quella di provocare lo scioglimento della società per ottenere la
sala cinematografica, ossia l’unità immobiliare più
consistente ed importante, a livello commerciale,
del patrimonio sociale, con inevitabile dissoluzione
del patrimonio familiare; che un siffatto comportamento costituiva una ingiuria grave nei confronti
di esso donante, con danno al patrimonio morale e
pregiudizio economico determinato dolosamente
dalla donataria, che ben rientrava nel genus della
revocazione per ingratitudine ex art. 801 c.c.; che
la figlia inoltre, non solo non gli aveva consentito
di mettere la propria esperienza a servizio della società, anche al fine di ridurre le passività, ma aveva
anche messo in discussione le sue capacità, con le
accuse rivoltegli nelle citate raccomandate, e gli
aveva così causato un profondo senso di frustrazione. Tanto premesso, l’attore concludeva come in
epigrafe riportato.
Si costituita in giudizio la convenuta D.L. Isabella, che, impugnando e contestando le allegazioni
e deduzioni dell’attore, concludeva per l’accoglimento delle conclusioni rassegnate in epigrafe. Faceva in ogni caso presente che aveva già proposto
separata domanda nei confronti della Alfa srl, di
cui l’attore era il legale rappresentante, per l’accertamento del diritto di recesso dalla società e per
la liquidazione della quota.
La causa era assegnata alla 8^ Sezione Civile.
Con atto di citazione (seconda causa: n. [Omissis]
Rg) l’attrice D.L. Isabella, richiamate le vicende di
cui sopra, aveva appunto instato per l’accertamento
della legittimità del recesso dalla Alfa srl e per la liquidazione della quota di partecipazione al capitale
sociale, chiedendo l’accoglimento delle rassegnate
conclusioni.
Si costituiva in giudizio la convenuta Alfa srl, la
quale concludeva come in epigrafe riportato.
A seguito di provvedimento presidenziale del
7.1.2014 entrambe le cause erano rimesse alla Sezione Specializzata Tribunale delle Imprese, attesa
la competenza per materia, anche in ordine alla donazione avente ad oggetto il trasferimento di quote
del capitale sociale di una società di capitali.
Le cause, così riunite, erano istruite con produzione
di documentazione e veniva ammessa CTU per la
determinazione del valore della quota di spettanza
della socia receduta D.L. Isabella.
All’udienza del 23.3.2015 le cause erano trattenute
in decisione con assegnazione dei termini di legge
per il deposito di comparse conclusionali (60 giorni) e di memorie di replica (ulteriore 20 giorni): i
termini ex art. 190 c.p.c. sono scaduti l’11.6.2015.
Motivi della decisione
In punto di rito va ribadito che l’odierna controversia è di competenza della Sezione Specializzata Tribunale delle Imprese ai sensi dell’art. 3, 2° e 3° comma, del DLgs 168/03, come modificato dal DL 1/12,
convertito con modificazioni nella L. 27/12; infatti
tanto la prima quanto la seconda causa hanno ad
oggetto la costituzione e l’estinzione del rapporto
sociale fra socio e società a responsabilità limitata.
Per quanto riguarda l’istanza della società convenuta (seconda causa) di sospensione – ex art. 295 c.p.c.
– del giudizio di liquidazione della quota sul presupposto che la controversia relativa alla revoca della
donazione delle quote sociali in favore dell’attrice
rivestiva il carattere della pregiudizialità, si osserva
che la disposta riunione dei due giudizi consente, a
prescindere da ogni approfondimento sulla sussistenza di pregiudizialità giuridica e non solo logica,
di superare ogni pericolo di giudicati contraddittori,
nell’ottica della celere definizione della complessiva
controversia (cfr. Cass. 1653/05: “La sospensione del
processo per pregiudizialità non è ammissibile allorché sia possibile la riunione e la decisione congiunta
dei giudizi davanti al giudice della causa pregiudiziale o a quello della causa dipendente attraverso gli
strumenti offerti dagli artt. 34, 40, 274 c.p.c., atteso
che il processo simultaneo è il mezzo più efficace
per perseguire la speditezza e il coordinamento delle decisioni. …”).
Richiamato quanto esposto in precedenza, appare
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Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
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opportuno esaminare la domanda di revocazione
della donazione di quota del capitale sociale della
Alfa srl, donazione del 2.12.2010 a rogito del notato dott. Paolo S. in forza della quale D.L. Isabella
era divenuta socia della predetta società, quale
titolare della quota del 33% del capitale sociale
della Alfa srl per nominali 3.300,00 euro, La domanda, oggetto della prima causa, è chiaramente infondata e va rigettata. [Omissis]
Nel caso che qui ci occupa, ritiene il Collegio che
non ricorra l’ipotesi della ingiuria grave, tale da
legittimare l’invocata revocazione della donazione
per ingratitudine.
Nella citata raccomandata del 12.3.2012, redatta
da un legale e sottoscritta anche dalla D.L., dopo
la comunicazione del recesso e della richiesta di liquidazione della quota, si erano sottolineanti “[…]
alcuni aspetti non certamente piacevoli che hanno
interessato i socio della Alfa srl considerato non da
ultimo i rapporti familiari […] che dovrebbero servire
ad appianare le difficoltà nella gestione del patrimonio comune e non certamente ad amplificarle,
come nel concreto, invece accade. Mi riferisce infatti la mia assistita che la gestione sociale negli
ultimi tempi non è stata concordata, ma è stata oggetto di imposizioni ed inutili impuntature da parte
dell’amministratore unico e/o dei soci Valeriano D.L.
e Alessandra D.L., attività che ha reso difficile se non
impossibile i rapporto fra i soci. La suddetta gestione - a detta della mia patrocinata - è risultata rigida
ed obsoleta, al punto da ingenerare uno stallo nella
gestione del patrimonio sociale il quale non è stato
messo a frutto, producendo ben pochi utili, tra l’altro mal divisi e/o concordemente investiti. È pur vero
che l’amministratore unico è insignito dei più ampi
poteri per la gestione della società, con facoltà dello
stesso di compiere tutti gli atti necessari od utili per
il raggiungimento dello scopo sociale, ma è altrettanto vero che questi, incurante della esistenza di
una assemblea, non provvede ad effettuare la sua
convocazione, intraprenda discutibili e temerarie
azioni giudiziarie senza coinvolgere nella decisione i
soci, non considera interessanti offerte economiche
circa la compravendita dei beni sociali, oltre a non
tenere indebito conto l’attività lavorativa svolta in
ambito sociale dalla mia cliente […]”.
Al riguardo, ricordato che la D.L. era socia della
società di famiglia (gli altri soci sono genitori e
fratelli) e svolgeva altresì le mansioni di direttore
di sala presso il cinema Beta di Ladispoli, cinema
appunto di proprietà della Alfa srl, risulta evidente
che quanto riportato nella citata raccomandata
del 12.3.2012 non appare per nulla offensivo ed
è espressione del diritto di critica, da parte di un
socio, alla gestione dell’amministratore unico in
relazione alla politica aziendale ritenuta non consona all’andamento del mercato ed alle tendenze ed
ai gusti del pubblico.
Le critiche avanzate dalla D.L. sulla gestione “rigida” ed “obsoleta” non appaiono, viepiù in quanto provenienti da chi era socia ed anche direttore
di sala del cinema, gratuite e fini a sé stesse, ma
esprimono un reale disagio nella verifica in concreto della gestione della società e non sono neanche estemporanee, atteso che si ricollegano ad
una serie di proposte che nel corso degli anni la
D.L. aveva presentato per tentare di migliorare la
situazione economica della società riducendo le
spese, incrementando le entrate e aggiornando i
supporti tecnici per lo svolgimento dell’attività cinematografica (cfr. doc. 4, allegato alla comparsa
di risposta: prima causa, a proposito della questione del riallineamento del prezzo dei biglietti).
Anche la critica per una gestione dirigistica ed
accentratrice, senza coinvolgimento dei soci, non
configura ipotesi di ingiuria grave, in quanto, a
prescindere da ogni disquisizione sul reale livello
di coinvolgimento dei soci, si è oggettivamente
fuori da quel livello di astiosità e di avversione che
richiede la legge per la revocatoria.
Si è in presenza di un legittimo esercizio del diritto
di critica, senza neanche ricorrere ad espressioni
offensive.
Alla luce delle superiori osservazioni è infondata, sia
in fatto che in diritto, la domanda dell’attore D.L. Ettore di revocazione della donazione per ingratitudine, non sussistendo i presupposti di legge Risultano
così assorbite le altre questioni (irrevocabilità della
donazione rimuneratoria ed intervenuta decadenza
dell’azione di revocazione) sollevate dalla convenuta D.L. Isabella.
Per quanto riguarda le prove costituende, articolate dall’attore D.L. Ettore nella memoria ex art.
183/6 n. 2 c.p.c. e della cui mancata ammissione si
duole l’attore (cfr. comparsa conclusionale), si osserva che le stesse si riferiscono a fatti non allegati
in citazione, ove invero si è fatto riferimento solo
al contenuto della raccomandata del 12.3.2012 ed
alle successive assemblee per la formalizzazione
del recesso; quindi le predette prove correttamente non sono state ammesse, in quanto non si può
chiedere di provare fatti non oggetto di conferente
allegazione.
Per quanto riguarda il mancato ordine di produzione documentale richiesto nei confronti della convenuta D.L. Isabella in ordine alla eccezione di decadenza dalla revocazione, le considerazioni sopra
svolte hanno reso non necessaria l’effettuazione
di ulteriore attività istruttoria.
In conclusione D.L. Isabella a tutti gli effetti è e
deve essere considerata socia della Alfa srl per la
quota di nominali 3.300,00 euro.
A questo punto si deve passare all’esame della domanda di liquidazione della quota (seconda causa), previo accertamento della validità ed efficacia
dell’esercitato recesso dalla compagine sociale.
Poiché vi è stata contestazione da parte della società in ordine all’an, ossia alla legittimità stessa
del recesso, correttamente è stato introdotto un
giudizio di accertamento nelle forme del giudizio
ordinario, dovendosi invero ritenere che il ricorso
all’arbitratore, di cui al secondo capoverso del terzo comma dell’art. 2473 c.c., sia ipotizzabile solo
nel caso di mero disaccordo sul quantum.
Orbene, premesso che è pacifico il fatto storico
della comunicazione della volontà di recesso (cfr.
raccomandata del 12.3.2012), va ricordato che nel
caso delle società a responsabilità limitata, come
quella che qui ci occupa, e a differenza di quanto
previsto per le società di persona in cui assoluto
è il carattere personale della partecipazione, il
legislatore ha previsto una disciplina speciale per
quanto riguarda il recesso dei soci di srl.
Al riguardo osserva il Collegio che il recesso può
avvenire solo nelle ipotesi espressamente previste
dall’atto costitutivo o, in ogni caso, in quelle previste dalla legge (art. 2473 c.c.): il legislatore della riforma ha dato rilievo all’autonomia privata, individuando peraltro delle fattispecie tipiche di recesso.
L’atto costitutivo nulla dispone in ordine a specifiche ipotesi di recesso ed alle modalità del relativo
esercizio, per cui deve farsi riferimento alla legge.
In punto di fatto si osserva che la D.L. ha comunicato
la propria volontà di recedere con raccomandata del
12.3.2012 (cfr. raccomandata in atti a firma dell’avv.
to C., con sottoscrizione in calce della stessa socia),
in cui la stessa rendeva “[…] nota la volontà […] di
esercitare il diritto di recesso dalla Alfa srl per l’intera partecipazione sociale posseduta pari al 33%
dell’intero, ai sensi e per gli effetti del combinato
disposto degli artt. 2285 c.c. e 15 del vigente Statuto Sociale, ed in virtù di ciò questa missiva assume
valore di notifica di preavviso […]”; che pertanto ha
ricollegato l’esercizio del diritto di recesso all’art.
2285 c.c., in tema di recesso del socio da società costituite a tempo indeterminato o per tutta la durata
della vita dei soci, ed all’art. 15 dello Statuto, vigente all’epoca dei fatti (“essendo la società contratta
a tempo indeterminato, i soci hanno diritto di recedere in qualsiasi momento dando un preavviso di almeno 6 mesi”) e che, nonostante la comunicazione
della volontà di recedere, la società non ha adottato
alcun provvedimento sulla liquidazione della quota.
Da parte sua la società ha eccepito che, contrariamente a quanto dedotto dall’attrice, lo statuto
non prevedeva una durata a tempo indeterminato,
emergendo dall’art. 3 St. che la durata era stata
fissata fino al 31/12/50 e che pertanto non trovava più previsione il richiamato diritto di recesso ad
nutum.
L’attrice D.L. Isabella, a sua volta, ha eccepito l’invalidità della disposta modifica dello Statuto in
ordine al riferimento alla durata non più a tempo
indeterminato della società (art. 3) ed alla possibilità del recesso ad nutum con preavviso semestrale (art. 15, u.c.). In particolare ha allegato che
la società era stata costituita per atto di scissione
del 30.6.2005; che successivamente, in occasione
di un’altra scissione, era stato modificato in data
12.11.2008 lo statuto, ma senza alcuna modificazione del citato art. 15, con la conseguenza che
alla data del 2/12/10, data di acquisizione della
qualifica di socia, vi era ancora l’esplicita previsione del diritto di recesso ad nutum; che dopo l’interlocutoria riunione del 20/10/12, in cui era stato
contestato il diritto di recesso, l’amministratore,
senza convocare alcuna assemblea né straordinaria né ordinaria, si era recato dal notaio Paolo S.
di Roma e con atto unilaterale aveva modificato
proprio l’art. 15 dello statuto con un preteso mero
“atto ricognitivo” (cfr. doc. 10 di parte attrice: seconda causa: atto ricognitivo del 5.11.2012).
Da parte sua la società ha ulteriormente dedotto
che non vi era stata alcuna arbitraria ed illegittima
modifica dello statuto in ordine alla durata della
società; che infatti vi era stato un semplice atto
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Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
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pubblico di ricognizione a rogito del notaio S., in cui
erano state semplicemente richiamate la delibera
di scissione parziale del 30.6.2005 (notaio Nicola
Ci.) e quella di scissione parziale del 25.6.2008 (notaio Paolo S.), con la quale – tra l’altro – era stato
modificato l’art. 3 dello statuto relativamente alla
durata e era stato stabilito che la società avesse
durata fino al 31.12.2050 e non più durata illimitata, e si era dato altresì atto che successivamente
alla delibera del 25.6.2008 non erano intervenute
altre modifiche statutarie in riferimento alla durata della società (punto “C”). Inoltre ha allegato che
nel richiamato atto ricognitivo era stato precisato
che “[…] per mero errore materiale nell’art. 15 dello
statuto sociale, […], risulta invece ancora riportato
all’ultimo capoverso che, essendo la società contratta a tempo indeterminato, i soci hanno diritto
di recedere in qualsiasi momento dando un preavviso di almeno sei mesi” (punto “D”) e che “pertanto
è intenzione della società di eliminare il suddetto
refuso dall’art. 15 dello statuto sociale” (punto “E”).
In conclusione si era trattato – a detta della società – di un mero refuso e che lo Statuto era stato
modificato nel 2008, quando ancora la D.L. non era
ancora diventata socia.
Il Collegio ritiene che non sia necessario accertare
se lo Statuto sia stato o meno modificato legittimamente ovvero se la modifica, contestata dalla D.L.
Isabella, sia o meno il frutto di una mera correzione
formale di un refuso e di un difetto di coordinamento fra la deliberazione assembleare e statuto poi depositato presso l’Ufficio del Registro delle Imprese.
Invero, anche a voler ritenere validamente previsto all’art. 3 St. che la società ha durata fino al
31.12.2050, va ricordato che al 2° comma del citato art. 2473 c.c. è prevista, come specifica fattispecie legale di recesso, l’ipotesi del recesso ad nutum
(con preavviso) da parte dei soci nel caso di società
costituita a tempo indeterminato e che a tale ipotesi, legislativamente codificata, va ricollegata, in
base a condivisa giurisprudenza di legittimità e di
merito, anche l’ipotesi della previsione di una durata della società che ecceda la vita media di un essere umano, tenuto conto dell’età anagrafica di tutti i
soci o, secondo altra tesi, anche di uno solo; quindi
l’ordinamento, ritenendo non tutelabili vincoli contrattuali di durata illimitata ovvero di durata oggettivamente superiore alla vita media dei soci o
del singolo socio, consente in questi casi la libertà
di recesso ad nutum con il solo onere del preavviso.
Nel caso concreto, dovendosi prendere in considerazione il singolo socio, si osserva che la convenuta, nata nel 1965, sarebbe ottantacinquenne nel
2050 e quindi, alla luce di quanto detto, ben poteva
liberamente e del tutto legittimamente recedere
dalla società, anche qualora si volesse prendere in
considerazione il nuovo testo dell’art. 3 e dell’art.
15 St. Non rileva, a confutazione delle superiori
osservazioni, che nella richiamata raccomandata
del 12.3.2012 la socia abbia fatto riferimento, a
giustificazione dell’esercizio del diritto di recesso,
all’art. 2285 c.c., disciplina dettata per le società
semplici, e non invece all’art. 2473 c.c., norma speciale per le Srl, ovvero al vecchio testo dell’art. 15 St.
Ciò che rileva è infatti la volontà di recedere ed il
richiamo alla specifica fattispecie del recesso connesso alla durata della società, spettando poi al
Giudice l’esatto inquadramento normativo o statutario della fattispecie concreta.
Non va peraltro neanche dimenticato che con successiva raccomandata dell’11.12.2012 (cfr. doc. 5 fascicolo della convenuta: prima causa) la socia aveva
meglio argomentato i motivi che giustificavano il
recesso dalla società, fra cui appunto la considerazione che la durata (ex art. 3 dello Statuto) della Società era prevista in un termine tale (31.12.2050) da
essere pari o superiore alla sua vita e tale da rappresentare un vincolo perpetuo ed indeterminato, cui
andava applicato, pertanto, l’art. 2473, 2° comma,
c.c., evidenziando che nel 2050 avrebbe avuto 85
anni e che, al cospetto di un termine di durata ingiustificatamente lungo in relazione al caso concreto,
era oramai pacifico l’orientamento giurisprudenziale secondo cui in questi casi andava riconosciuto il
diritto di recesso.
Alla luce delle risultanze di causa, va pertanto dichiarato che la socia ha validamente ed efficacemente esercitato il proprio diritto di recesso; risultano così assorbite tutte le altre deduzioni della socia
in ordine agli altri motivi che avrebbero ugualmente
legittimato il recesso.
Portando a sintesi le superiori osservazioni in fatto
e in diritto, va evidenziato che D.L. Isabella è socia
della Alfa srl, in quanto legittima titolare di una
quota di partecipazione al capitale sociale pari al
33% per un valore di nominali 3.300,00 euro, e che
la stessa è legittimamente receduta dalla società: il recesso è stato esercitato con raccomandata
del 12.3.2012 e lo stesso è efficace dal 20.3.2012,
giorno di ricezione della comunicazione di recesso;
sul punto non vi sono contestazioni né sulla natura
recettizia del recesso né sulla data di ricezione della
raccomandata in questione.
Orbene, in base all’art. 2473, 3° comma, c.c. è previsto che “i soci che recedono dalla società hanno
diritto di ottenere il rimborso della propria partecipazione in proporzione al patrimonio sociale. Esso
a tal fine è determinato tenendo conto del suo valore di mercato al momento della dichiarazione di
recesso; […]”.
La previsione statutaria (art. 15 St.), non oggetto
di alcuna contestazione in parte qua, prevede una
disciplina analoga, stabilendo, al 3° comma, che “i
soci che recedono hanno diritto al rimborso della
propria partecipazione in proporzione al patrimonio sociale, che viene determinato al valore di
mercato al momento della richiesta di recesso da
parte del socio, ossia il giorno nel quale perviene
la raccomandata con avviso di ricevimento presso
la sede legale societaria […]”.
Nel corso del giudizio è stata ammessa CTU contabile appunto per accertare “[…] il valore di mercato, alla data di ricezione della comunicazione di
recesso (20.3.2012), della quota (pari al 33%) del
capitale sociale […] posseduta dalla socia […]”.
Con valutazione pienamente condivisa dal Collegio,
in quanto esente da vizi di calcolo o di impostazione
metodologica - nella valutazione è stato utilizzato il
metodo misto, con stima autonoma dell’avviamento
-, il CTU nominato, dott. Pietro B., ha precisato che
“[…] Il valore della società alla data del 20 marzo
2012 con la metodologia di stima descritta nei precedenti capitoli è pari ad € 2.919.134,00 […]” (cfr.
CTU in atti).
Non sono condivisibili le parziali contestazioni della
socia receduta in ordine alla valutazione fatta dal
CTU.
Al riguardo è stato dedotto che, pur condividendosi
sostanzialmente l’elaborato del CTU, sarebbero stati
necessari alcuni approfondimenti su taluni profili,
come evidenziato dal proprio CTP, dott.ssa Ca.
In particolare con riguardo alla valutazione del
principale immobile della società, ovvero la sala cinematografica, è stato dedotto che il CTU, pur avendo riconosciuto che lo stesso era sostanzialmente
costituito da due distinti corpi di fabbrica, indicati
invero quali “atrio + sala”, non aveva preso in con-
siderazione il valore che tali due corpi di fabbrica
avrebbero potuto avere qualora fossero stati considerati tra loro separati, anche in considerazione
del fatto che non solo sarebbe stato ammissibile il
cambio di destinazione d’uso dell’atrio da cat. D/3
(cinema, teatri) a cat. C/1 (negozi), ma anche che
sarebbe stata possibile anche la sua divisione dal
cinema tramite piccole opere murarie non strutturali, con una differente utilizzazione e sfruttamento
commerciale; che pertanto il CTU avrebbe dovuto
approfondire l’indagine, valutando autonomamente
i due beni e proiettando tale diversa valutazione sul
valore del patrimonio della società e, di riflesso, sul
valore della quota della socia receduta, che, secondo i calcoli del CTP, sarebbe pertanto ammontata a
complessivi 1.090.716,00 euro, con una differenza
positiva, rispetto ai conteggi del CTU, di 127.401,78
euro.
Altra contestazione si riferisce, con riguardo alla
valutazione degli altri beni, al fatto che il CTU,
pur avendo rappresentato sia i valori medi peritali
(estratti dalle valutazioni fatte effettuare da alcune agenzie immobiliari) sia i valori OMI, aveva inteso assumere a riferimento sempre il minor valore tra
i due, con conseguente riflesso negativo sul valore
della quota della socia D.L.
Ritiene il Collegio che le superiori osservazioni non
siano tali da porre in dubbio la correttezza della metodologia seguita dal CTU.
Per quanto riguarda la questione della divisione e/o
di una diversa destinazione degli immobili facenti parte del complesso immobiliare “cinema”, non
immotivatamente il CTU, nel replicare nel proprio
elaborato alle osservazioni del CTP della socia, ha
dedotto che “[…] In merito al valore della sala cinematografica non si ritiene prudenziale di dover
procedere alla valutazione di vendita disgiunta
perché ciò comporterebbe una serie di ipotesi e di
investimenti, allo stato indefinibili. Inoltre difetta
la concorde comune volontà dei soci, che al momento non si ravvede, essendo gli stessi addirittura
in contrasto giudiziale. Infine le ipotesi prospettate non rispecchiano lo stato dei fatti della attuale
struttura immobiliare - produttiva”.
Del resto l’attività della società è proprio nel campo cinematografico e quindi la valutazione dei beni
è e deve essere coerente con tale attività sociale.
Per quanto poi riguarda la scelta dei valori al minimo, va evidenziato che nelle citate repliche alle
59
Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
60
osservazioni del CTP della socia receduta, vi è il riferimento da parte del CTP ad una stima ispirata a
criteri prudenziali: si tratta di scelta condivisa dal
Collegio.
In conclusione il valore della società Alfa srl, alla
data del 20.3.2012, era pari a 2.919.134,00 euro e
che pertanto, sempre alla data del 20.3.2012, il valore della partecipazione della socia receduta D.L.
Isabella, titolare del 33% del capitale sociale, era
proporzionalmente pari a 963.314,22 euro, somma
che deve essere pagata alla socia receduta.
In base all’art. 2473, 4° comma, c.c. è previsto che
“il rimborso delle partecipazioni per cui è stato
esercitato il diritto di recesso deve essere eseguito
entro centottanta giorni dalla comunicazione del
medesimo fatta alla società. …”.
Lo statuto, sempre al citato art. 15, 3° comma,
prevede una disciplina sostanzialmente analoga,
stabilendo che “[…] Il rimborso della partecipazione deve essere eseguito entro sei mesi dalla data
della comunicazione fatta alla società da parte del
socio […]”.
Dunque D.L. Isabella ha diritto al pagamento, da
parte della società, della complessiva somma
di 963.314,22 euro, oltre agli interessi legali dal
17.9.2012 fino al saldo effettivo.
In relazione al predetto dies a quo si osserva che,
tanto nel codice civile (citato art. 2473 c.c.) quanto
nello statuto (citato art. 15), è previsto un termine
dilatorio entro il quale deve avvenire l’effettivo pagamento del rimborso, termine ritenuto necessario
ma anche adeguato per provvedere alla liquidazione della quota; quindi fino alla scadenza di detto
termine non sono dovuti interessi moratori.
Poiché è utilizzata una terminologia differente
– nel codice civile si parla di centottanta giorni,
mentre nello statuto di sei mesi – e poiché non vi è
coincidenza della scadenza [pacifica la decorrenza
del 20.3.2012, calcolando “a mesi” ex nominatione dierum (come da statuto) il termine scadrebbe
il 20/9/12 – con questa metodologia il decorso del
tempo si ha, indipendentemente dall’effettivo numero dei giorni compresi nel rispettivo periodo,
allo spirare del giorno corrispondente a quello del
mese iniziale (cfr. Cass. 22699/13) -, mentre calcolandolo “a giorni” ex numeratione dierum (come
da codice) il termine scadrebbe il 16/9/12], si deve
verificare quale disciplina applicare.
Ritiene il Collegio che si deve applicare la disposi-
zione del codice, in quanto manca una deroga in
favore della disciplina pattizia, come invece previsto nel caso p.es. del recesso ad nutum, a proposito
del termine di preavviso che, fissato per legge in
180 giorni, potrebbe essere previsto di maggiore
durata nell’atto costitutivo, purché peraltro non
superiore ad un anno (art. 2473, 2° comma, c.c.).
In conclusione, poiché lo scioglimento del vincolo societario è pacificamente avvenuto in data
20.3.2012, è pertanto conseguenziale che fino al
16.9.2012 non sono dovuti interessi di mora.
Per il periodo successivo, essendosi protratto il
mancato pagamento del corrispettivo a titolo di
liquidazione della quota, sono invece dovuti gli interessi moratori in misura legale a decorrere appunto dal 17.9.2012.
Nulla è dovuto a titolo di rivalutazione monetaria, in
quanto, configurandosi l’obbligazione di liquidazione della quota sociale come debito di valuta, manca
la prova da parte dell’attrice, in base a conferente
allegazione, del maggior danno in ipotesi subito
e cioè che il tasso di svalutazione annuo era stato
superiore al tasso degli interessi e che pertanto il’
“maggior” danno non era stato assorbito dalla liquidazione degli interessi stessi (cfr. Cass. 816/09).
Al riguardo va ricordato che “nelle obbligazioni pecuniarie […] il maggiore danno da svalutazione monetaria (rispetto a quello già coperto dagli interessi
legali moratori non convenzionali, che siano comunque dovuti) è in via generale riconoscibile in via presuntiva e per qualunque creditore che ne domandi il
risarcimento, senza necessità di inquadrarlo in un’apposita categoria, nella eventuale differenza, a decorrere dalla data di insorgenza della mora, tra il tasso
del rendimento medio annuo netto dei titoli di Stato
di durata non superiore a dodici mesi ed il saggio degli
interessi legali; […]” (cfr. Cass. SU 19499/08).
Dunque il superamento delle note categorie economiche socialmente significative di creditori è pur
sempre accompagnato dalla necessità della prova
da parte del creditore, in base a conferente allegazione, “[…] dell’eventuale differenza, a decorrere
dalla data di insorgenza della mora, tra il tasso del
rendimento medio annuo netto dei titoli di Stato di
durata non superiore a dodici mesi ed il saggio degli
interessi legali […]” (cfr. citata sentenza); quindi è
sempre onere di chi agisce per il maggior danno allegare e dimostrare per l’appunto l’esistenza di detto
maggior danno, derivante dalla mancata disponibi-
lità della somma durante la mora e non compensato
dalla corresponsione degli interessi legali nella misura predeterminata ex art. 1224, 1° comma, c.c. (cfr.
Cass. 12828/09).
In mancanza di allegazione e prova sulla su richiamata eventuale differenza – in ciò consiste il maggior danno da svalutazione monetaria – nulla può
essere riconosciuto a titolo di maggior danno (cfr.
Cass. 9796/11).
Tanto lo statuto sociale (art. 15) quanto l’art. 2473,
4° comma, c.c., prevedono le modalità per il rimborso in concreto della partecipazione.
L’ultima domanda da esaminare riguarda la richiesta di D.L. Isabella di condanna ex art. 96, 1° e 3°
comma, c.p.c.
Entrambe le domande vanno rigettate in quanto,
in relazione alla prima, manca la prova, in base a
conferente allegazione, dei requisiti soggettivi ed
oggettivi legittimanti una tale condanna, mentre,
in relazione alla seconda, il contrasto fra le parti in
ordine al quantum della liquidazione rendeva necessario ricorrere ad un esperto contabile, per cui
non appare ispirata a condotta dilatoria la posizione processuale della società ovvero del D.L. Ettore.
Atteso l’esito complessivo dei due giudizi riuniti, le
spese di lite vanno compensate per 1/3, mentre il residuo, liquidato in dispositivo, per il grado di soccombenza va posto in solido a carico di D.L. Ettore e della
Alfa srl, attesa la sostanziale identità di posizione
processuale di costoro pur nella diversità delle cause.
Si dà atto che per la liquidazione delle spese deve
essere applicato il Decreto Ministero Giustizia n.
55 del 10.3.2014 (GU n. 77 del 2.4.2014) sui nuovi parametri forensi, entrato in vigore il 3.4.2014,
prima che avesse termine l’attività professionale
dei legali; l’udienza di p.c. si è infatti tenuta il
23.3.2015 e i termini ex art. 190 c.p.c. sono scaduti l’11/6/15 e pertanto deve essere applicato integralmente il nuovo regime, alla luce dell’art. 28
del citato DM 55/14 (arg. ex Cass. SU 17405/12, in
relazione alla precedente riforma ex Decreto Ministero Giustizia 20.7.2012 n. 140).
Si è proceduto alla somma degli importi al minimo
relativi ai giudizi di cognizione innanzi il tribunale
ed allo scaglione di valore “1.000.001-2.000.000”,
tenuto conto della natura e del valore della controversia, della qualità e quantità delle questioni
trattate e dell’attività complessivamente svolta dai
difensori (21.424 euro).
Su detto importo va poi calcolata la compensazione
parziale.
Va nuovamente riconosciuto il rimborso forfettario
(art. 2, 2° comma, citato DM 55/14).
Le spese di CTU, liquidate con separato e contestuale decreto, vengono definitivamente e per l’intero poste a carico della Alfa srl.
P.Q.M.
Definitivamente pronunciando:
- rigetta la domanda di revocazione della donazione, proposta da D.L. Ettore nei confronti di D.L.
Isabella (prima causa);
- in parziale accoglimento della domanda dell’attrice D.L. Isabella (seconda causa), condanna la
convenuta Alfa srl al pagamento, in favore dell’attrice e a titolo di liquidazione della quota sociale
al 20.3.2012, di 963.314,22 euro, oltre agli interessi
moratori al tasso legale dal 17.9.2012 fino al saldo
effettivo;
- rigetta la domanda risarcitoria di D.L. Isabella ex
art. 96, 1° e 3° comma, c.p.c.;
- compensa per 1/3 le spese di lite e, per il grado di
soccombenza, pone in solido a carico di D.L. Ettore
e della Alfa srl il residuo, che liquida in 14.282,50
euro per compensi professionali ed in 2.500,00
euro per spese, oltre rimborso forfettario, CP ed
IVA come per legge;
- pone definitivamente e per intero a carico della
Alfa srl le spese di CTU, liquidate con separato e
contestuale decreto.
61
MASSIMA
La previsione, contenuta nello statuto di una
srl, di un termine di durata della società,
che ecceda la vita media di un essere umano in relazione all’età anagrafica di tutti i soci
od anche di uno solo, comporta la libertà del
socio di recedere ad nutum, con il solo onere
del preavviso.
IL COMMENTO
La pronuncia del Tribunale di Roma si colloca nell’ambito dell’orientamento espresso
Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
62
recentemente dalla Suprema Corte 2, volto
ad estendere l’applicabilità del recesso ad
nutum all’ipotesi in cui l’atto costitutivo di
una società a responsabilità limitata preveda
un termine di durata della società particolarmente lungo, tale da eccedere la vita media
dell’essere umano.
Tale orientamento, sostenuto anche da una
parte della giurisprudenza di merito3 e da
taluni Autori4, viene fondato su due considerazioni: qualora il termine di durata della
società sia eccessivamente lungo, si manifestano quelle medesime ragioni di tutela della
posizione del socio, che stanno alla base della
previsione del recesso per il caso in cui sia del
tutto assente un termine di durata; l’art. 2285
c.c., per quanto dettato in tema di società di
persone, esprime, secondo l’interpretazione
prevalente, una regola di carattere generale,
la quale, al di là dell’espressione letterale della
disposizione, va interpretata nel senso che il
recesso deve essere riconosciuto anche nel
caso in cui sia prevista una durata della società superiore alla vita media dei soci.
Il Tribunale di Roma, nella pronuncia in oggetto, non sviluppa in modo approfondito le
argomentazioni a sostegno della decisione assunta, ma si limita a citare la posizione della
Suprema Corte e ad affermare che il termine
di durata così come stabilito nello statuto della società rappresenta “un vincolo perpetuo ed
indeterminato” e che, alla luce del fatto che
l’ordinamento non tutela “vincoli contrattuali
di durata illimitata ovvero di durata oggettivamente superiore alla vita media dei soci o del
singolo socio”, è necessario riconoscere in
questi casi la libertà di recesso ad nutum
con il solo onere del preavviso.
A tal proposito pare opportuno rammentare
in questa sede le considerazioni che la Corte
di Cassazione ha elaborato a sostegno dell’orientamento sopra esposto e con le quali ha
opportunamente (e correttamente) risolto una
questione che non trovava unanimità di consensi nella giurisprudenza di merito e nemmeno nella dottrina5.
La Corte, dopo aver attribuito un preciso valore sistematico e di carattere generale alla
regola fissata dall’art. 2285 c.c., ha svolto una
valutazione di natura funzionale, osservando,
in particolare che, mentre nel caso in cui vi
sia una determinazione del termine di durata
i soci manifestano l’intenzione di voler optare
per una individuazione dell’aspettativa di vita
della società in funzione della circostanza
che entro quel determinato termine il progetto di attività programmato possa essere
realizzato, nell’ipotesi invece in cui la durata sia indeterminata “prevalgono ragioni di
perpetuità del progetto” imprenditoriale, nel
senso che i soci rinunciano, in questo caso,
all’individuazione prognostica dello spazio
temporale necessario per la realizzazione del
progetto medesimo: in tale ultimo frangente
la previsione legale del recesso ha, appunto,
la funzione di consentire al socio l’uscita da
un organismo tendenzialmente perpetuo.
Osserva quindi la Corte che un termine di
durata eccessivamente lungo “ha l’effetto di
far perdere qualsiasi possibilità di ricostruire l’effettiva volontà delle parti circa l’opzione fra una durata a tempo determinato
2 Cass. 22.4.2013 n. 9662, in Banca Dati Eutekne e Giur. It., 2013, c. 2271, con nota di Revigliono P.
3 App. Milano 21.4.2007, in Banca Dati Eutekne e Le Società, 2008, p. 1121 ss.; Trib. Roma 19.5.2009, in Banca Dati Eutekne; Trib.
Varese 26.11.2004, Giur. comm., 2005, II, p. 473 ss., nonché, pare, App. Trento 22.12.2006, in Banca Dati Eutekne e Le Società,
2007, p. 1478 ss.
4 Revigliono P. “Il recesso nella società a responsabilità limitata”, Giuffrè, Milano, 2008, p. 212 ss.; Annunziata F., sub art. 2473
c.c., in “Commentario – Società a responsabilità limitata”, a cura di Bianchi L.A., Egea, Milano, 2008, p. 494 ss. V. anche Ventoruzzo M. “I criteri di valutazione delle azioni in caso di recesso del socio, Riv. soc., 2005, p. 328 ss.
5 Nel senso che il recesso previsto per la società a tempo indeterminato non potrebbe essere esteso all’ipotesi di una società
con un termine eccessivamente lungo: App. Milano 18.11.2009, inedita; Trib. Terni 28.6.2010, Giur. It., 2010, c. 2551; Trib.
Napoli 10.12.2008, Notariato, 2009, p. 285 ss.; Trib. Forlì 16.5.2007, Giur. comm., 2008, II, p. 256 ss.; Trib. Cagliari 20.4.2007,
Riv. giur. sarda, 2009, p. 375 ss.; Trib. Milano 19.7.2006, inedita; in dottrina, nel medesimo senso, pur se con diverse argomentazioni, Zanarone G. “Della società a responsabilità limitata”, in “Il Codice civile. Commentario”, diretto da Busnelli F.D.,
t. I, 2010, p. 798 ss.; Magliulo F. in “La riforma della società a responsabilità limitata”, a cura di Caccavale C., Magliulo F.,
Maltoni M., Tassinari F., Milano, 2007, p. 254 ss.; Piscitello P. “Riflessioni sulla nuova disciplina del recesso nelle società di
capitali”, Riv. soc., 2005, p. 522.
o indeterminato della società” e manifesta,
in definitiva, l’intento di eludere gli effetti che si realizzerebbero qualora la società
fosse espressamente dichiarata a tempo indeterminato; con la conseguenza che, in tal
caso, si pone “la necessità di un intervento
correttivo dell’interprete che garantisca il
riconoscimento della tutela accordata dal
legislatore al socio in una società che non
preveda una determinazione del tempo della
sua durata”.
Le argomentazioni della Suprema Corte e la
massima in cui si sono tradotte – alla quale
ha espressamente aderito il Tribunale di Roma
nella sentenza in esame – appaiono condivisibili e difficilmente confutabili; d’altra parte le considerazioni svolte dall’orientamento
opposto non paiono fondate né risolutive.
Si è sostenuta, in primo luogo, l’impossibilità
di applicare alle società di capitali le regole
fissate in relazione alle società di persone,
nelle quali sarebbe il ruolo preponderante
riconosciuto alla persona dei soci a giustificare la previsione del recesso quale conseguenza di una durata pari alla vita dei soci6;
a tale considerazione si può obiettare, in primo luogo, che l’applicabilità alla srl di talune
norme dettate in materia di società personali non è affatto escluso, in linea di principio, dagli interpreti, sempreché, come avviene nel caso in esame, sia ravvisabile una
sostanziale analogia tra le situazioni poste
a raffronto; in secondo luogo che, come ha
anche correttamente osservato la Cassazione, non si tratta comunque, nel caso in esame, di applicare analogicamente alla srl la
disposizione contenuta nell’art. 2285 c.c.,
ma di prendere atto che tale disposizione riflette l’esistenza di un principio più
generale, tendenzialmente estensibile ai
rapporti associativi, in base al quale la previsione di un termine di durata dell’ente che
risulti eccedente la vita media dell’individuo
giustifica ed anzi impone l’attribuzione del
recesso ai membri dell’ente medesimo. Né
d’altra parte appare decisiva l’osservazione
per cui nella società a responsabilità limitata, a differenza di quanto avviene nelle associazioni o nelle società di persone, la qualità di socio è liberamente trasmissibile7, dal
momento che tale astratta libertà del socio
di cedere la propria partecipazione non risulta idonea a salvaguardare compiutamente la
posizione del socio medesimo, stante l’oggettiva e peculiare difficoltà di circolazione
delle partecipazioni relative ad un tipo di società strutturalmente chiusa e non aperta al
mercato, della quale il legislatore ha tenuto
puntualmente conto proprio nel prevedere il
recesso nel caso di società contratta a tempo indeterminato.
Si è poi osservato come la previsione di un
termine di durata molto lungo, senza il correttivo del recesso, non contrasterebbe con
alcun principio sostanziale, dal momento che
ad un risultato praticamente analogo sarebbe
possibile giungere, in maniera del tutto legittima, nella spa, mediante la proroga della
società, in un contesto statutario ove viga la
regola dell’esclusione dell’operatività del recesso, ai sensi dell’art. 2437 comma 2 lett. b)
c.c. 8. A questa osservazione si può opporre
– oltre che l’impossibilità di assimilare integralmente, sotto il profilo che ci occupa, la
situazione del socio di srl a quello di spa, se
si considera il diverso significato che assume
la libertà di circolazione delle partecipazioni
nei due tipi sociali – anche la considerazione
per cui la possibilità di sopprimere il recesso in relazione alla deliberazione di proroga
della società nella società per azioni appare,
effettivamente, un dato normativo alquanto
eccentrico nello stesso contesto della società
per azioni, in quanto sicuramente contradditorio con quelle esigenze di tutela del
socio che stanno alla base della previsione
6 Considerazione riportata da Frigeni C. “Le fattispecie legali di recesso”, in “S.r.l. Commentario”, dedicato a Portale G., a cura
di Dolmetta A.A., Presti G.M.G., Giuffrè, Milano, 2011, p. 469.
7 In tal senso Magliulo F., cit., p. 256.
8 Calandra Buonaura V. “Il recesso del socio di società di capitali”, Giur. comm., I, 2005, p. 303.
63
Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
64
(inderogabile) del recesso in caso di società
con durata indeterminata 9.
Si è infine affermato che la necessità di interpretare in modo letterale e restrittivo la
disposizione che circoscrive il recesso alle società a tempo indeterminato deriverebbe dalla
presunta eccezionalità del recesso ad nutum,
in considerazione dell’esigenza dei creditori sociali di conoscere e valutare ex ante “le
occasioni in cui corrono il rischio di vedere
contrarsi, come effetto del rimborso del socio
recedente, l’unica loro garanzia rappresentata
dal patrimonio sociale”10.
Per quanto tale osservazione appaia, a prima
vista, convincente, in realtà non può essere accolta; in primo luogo, perché si fonda su un
assunto – l’eccezionalità del recesso ad nutum
– il cui fondamento andrebbe verificato alla
luce del diverso ruolo che attualmente il recesso riveste rispetto al passato e quindi, soprattutto, della sostanziale idoneità degli strumenti previsti dall’ordinamento a salvaguardare in
modo compiuto ed integrale la posizione dei
creditori sociali in caso di esercizio del recesso
da parte dei soci; in secondo luogo, perché la
previsione di un termine di durata della società particolarmente lungo rappresenta un dato
comunque oggettivamente verificabile da parte dei creditori e, quindi, idoneo a determinare
in questi ultimi la piena consapevolezza della
possibilità di recesso di tutti i soci o, quantomeno, di quelli in relazione ai quali la durata
della società risulti eccedere la durata della
loro esistenza, secondo i consueti criteri statistici relativi alla vita media.
IL CRITERIO DI VALUTAZIONE
DELL’IDONEITÀ DEL TERMINE
DI DURATA A LEGITTIMARE IL RECESSO
Nell’ambito dell’orientamento volto a ricono-
scere la possibilità di estendere il recesso al
caso in cui il termine di durata della società
risulti eccessivamente lungo, mentre alcuni
Autori fanno riferimento ad un “oggettivo criterio di normalità”11, nel senso che la spettanza del recesso andrebbe riconosciuta ai soci
laddove “il termine di durata della società ecceda la durata media normale della vita umana, a prescindere dall’età anagrafica dei singoli
soci”, altri ritengono che si debba procedere
ad una valutazione caso per caso, valutando
l’aspettativa di vita di ciascun socio in relazione al termine di durata della società12.
Il Tribunale di Roma, nella pronuncia in esame,
opta per la seconda delle tesi sopra indicate,
osservando che “nel caso concreto, dovendosi
prendere in considerazione il singolo socio, […]
la convenuta, nata nel 1965, sarebbe ottantacinquenne nel 2050 e quindi, alla luce di quanto
detto, ben poteva liberamente e del tutto legittimamente recedere dalla società”.
La tesi sostenuta dal Tribunale di Roma è
senz’altro condivisibile, anche se, forse, espressa in maniera un po’ apodittica.
In effetti, la fondamentale ragione per cui
l’applicazione del criterio della durata della
vita media dell’individuo deve essere effettuata con riferimento a ciascun singolo socio
è da ricercarsi nella ratio dell’attribuzione del
recesso nel caso della società con un termine
di durata particolarmente lungo, vale a dire
l’esigenza di tutela della posizione del singolo socio, sia sotto il profilo della libertà di
uscire dalla compagine sociale, sia sotto il
profilo della realizzazione del suo investimento mediante la liquidazione del valore della
sua partecipazione 13.
Né potrebbe osservarsi, di contro, che la suesposta tesi, cui il Tribunale ha sostanzialmente
aderito, non sia soddisfacente, in quanto com-
9 Al punto che si potrebbe dubitare della legittimità costituzionale, con riferimento all’art. 3 Cost. dello stesso art. 2437 co.
2 lett. a) c.c., evidenziando una non giustificata disparità di trattamento, con riferimento al profilo della sopprimibilità del
recesso in caso di proroga della società, fra la società per azioni chiusa e non destinata al mercato e la società a responsabilità limitata.
10 Così Zanarone G., cit., p. 799.
11 Annunziata F., cit., 495; per una sintesi delle diverse posizioni v. Frigeni C., cit., p. 468 ss.
12 Revigliono P. “Il recesso nella società a responsabilità limitata”, cit., p. 214 ss.
13 Mi permetto di rinviare, sul punto, a Revigliono P. “Il recesso nella società a responsabilità limitata”, cit., p. 214 ss.
porterebbe l’introduzione di un “forte elemento
di «variabilità» nell’applicazione della disciplina,
in particolare nell’ipotesi di trasferimento della
quota a favore di soggetti con età anagrafiche
diverse”14. Non vi è dubbio che la valutazione
dell’età di ciascun socio in rapporto al termine
di durata della società comporti la necessità di
un’operazione più complessa e con esiti meno
prevedibili rispetto a quello che sarebbe il risultato di una valutazione effettuata in astratto, a
prescindere dall’età anagrafica dei singoli soci,
ma ciò non può costituire un argomento per
negare la fondatezza della tesi sostenuta dal
Tribunale: quest’ultima rappresenta, come si è
sottolineato, un corollario necessario della ratio
che sta alla base della attribuzione del recesso, il quale non potrebbe assolvere la funzione
che l’ordinamento, in generale, tipicamente ed
inderogabilmente gli attribuisce se si dovesse
riconoscere che la sua sfera di applicazione
prescinde dalla valutazione della posizione dei
singoli soci, ma viene ancorata ad un criterio
generale ed astratto di “normalità”.
Resterebbe, per completezza, da chiedersi –
pur trattandosi di un profilo ulteriore rispetto
a quanto deciso dal Tribunale – se, nell’ipotesi
in cui si accerti che il termine di durata della
società è troppo lungo rispetto alla vita di uno
o più soci, la spettanza del recesso riguardi
tutti i soci od esclusivamente quelli in relazione alla vita dei quali il termine di durata
sia stato riconosciuto come eccessivamente lungo; ancora una volta la considerazione
delle ragioni che caratterizzano, in questi casi,
l’attribuzione del recesso, secondo le modalità
che si sono tratteggiate, consente di risolvere
agevolmente la questione posta optando per
la seconda delle soluzioni indicate.
CONCLUSIONI
In conclusione si deve ritenere che la decisione del Tribunale di Roma – che, come si è
osservato, è conforme alla posizione della Suprema Corte – sia condivisibile, sia con riferimento all’individuazione del principio che si è
tradotto nella massima (ovvero la regola per
cui il recesso spetta al socio anche nell’ipotesi
in cui la società, pur se non contratta a tempo
indeterminato, abbia un termine di durata che
risulti eccessivo in relazione ala vita dei soci,
in base al criterio della vita media dell’essere umano) sia per quanto riguarda l’adesione,
anche se forse non sufficientemente esplicitata ed argomentata, alla tesi per cui il criterio
di valutazione, così come configurato in termini generali dallo stesso Tribunale, deve necessariamente essere ancorato all’aspettativa
di vita di ciascun singolo socio.
65
14 Così Annunziata F., cit., p. 495.
BILANCIO E
REVISIONE
a cura di
Ermando BOZZA
/ Bilancio
04
Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
4. Bilancio
68
LE COSTRUZIONI
IN ECONOMIA: PROFILI
CIVILISTICI, PRINCIPI
CONTABILI NAZIONALI
E RIFLESSI FISCALI
L’articolo analizza le costruzioni in economia, soffermandosi sui profili civilistici, i
principi contabili nazionali di riferimento e i riflessi fiscali. Particolare enfasi è data
all’analisi delle disposizioni dell’OIC 16, anche in prospettiva comparativa con la
precedente versione del 2005. Emerge, così, la questione cruciale della congettura
del costo di produzione, basata sull’addensamento dei costi diretti, l’imputazione dei
costi indiretti e l’aggregazione convenzionale degli oneri finanziari. Sono, poi, offerti
casi ed esempi.
/ Valerio ANTONELLI *
Le costruzioni in economia sono un fenomeno di
non poco momento nell’economia delle aziende. Esso si manifesta a causa di una pluralità
di circostanze esterne e di condizioni interne
che rendono conveniente, per l’unità aziendale,
non procurarsi i fattori produttivi sul mercato
di provvista, ma per sviluppo in proprio. Invero,
mentre alcuni fattori produttivi, per la loro natura (come i terreni e la maggioranza dei fabbricati) o per le loro specifiche tecniche, possono
essere soltanto acquistati da fornitori, la produzione in proprio dei fabbricati (specialmente
nelle imprese edili), degli impianti e dei macchinari (nelle aziende industriali), dei mobili e arredi (nei mobilifici), degli automezzi e autoveicoli
(nelle aziende automobilistiche), dei computer
(nelle aziende di informatica) e di molti altri
beni economici, è pratica assai diffusa.
I fattori produttivi poliennali e a fecondità ripetuta possono essere costruiti in economia per
*
numerosi motivi: conservazione del segreto su
alcune tecnologie aziendali, maggiore rapidità
di esecuzione dei lavori, competenze specifiche
non detenute da altre imprese, minori costi di
realizzazione dell’opera e via discorrendo. Tali
aspetti incidono sulla progettazione del bene
economico e, indirettamente, sul suo costo.
Focalizzando l’attenzione sugli aspetti strettamente contabili – e quindi sul profilo di capitalizzazione dei costi d’esercizio sostenuti a
seguito di tali processi di sviluppo interno – nel
seguito consideriamo:
• le norme del codice civile;
• i principi contabili nazionali (OIC 16);
• i riflessi fiscali.
CODICE CIVILE
L’art. 2426 comma 1 n. 1 c.c. stabilisce che il
Professore ordinario di Bilanci e comunicazione economico-finanziaria nell’Università degli studi di Salerno
costo di produzione delle immobilizzazioni materiali comprende tutti i componenti di
costo direttamente imputabili alla commessa.
Può comprendere anche altri costi, per la quota
ragionevolmente imputabile, relativi al periodo
di fabbricazione e fino al momento dal quale il
bene può essere utilizzato; con gli stessi criteri possono essere aggiunti gli oneri relativi al
finanziamento della fabbricazione, interna o
presso terzi.
La Relazione ministeriale al DLgs. 127/1991 precisa che “oltre ai costi direttamente imputabili al prodotto esso [il costo di produzione] può
comprendere anche costi cosiddetti di indiretta
imputazione per la quota che ragionevolmente
possa essere imputata al prodotto: deve trattarsi
naturalmente di costi di competenza del periodo
di fabbricazione, il quale deve essere considerato
concluso dal momento in cui il bene è oggettivamente utilizzabile (ciò ad evitare che vengano
capitalizzate anche quote di costi generali relativi a tempi successivi, con la giustificazione che
il prodotto, di fatto, non è stato ancora utilizzato). La formula «può comprendere» non intende
attribuire ai redattori del bilancio una facoltà di
scelta arbitraria, ma si riferisce alla ragionevole applicazione della discrezionalità tecnica, in
conformità al principio generale della «rappresentazione veritiera e corretta»; naturalmente,
se la capitalizzazione dei costi di indiretta imputazione conducesse a superare il valore di mercato o il valore di utilizzazione, la posta dovrà
essere corrispondentemente svalutata in base al
medesimo principio generale. La regola dettata
per i costi di indiretta imputazione è poi estesa
agli oneri finanziari, compresi quelli sostenuti
per far costruire il prodotto da terzi”.
L’equazione del costo di produzione indicata
dal legislatore civilistico, dunque, include tre
addendi:
• i costi diretti ovvero:
-- i costi relativi alla progettazione delle specifiche tecniche dell’impianto (costo della
consulenza se il progetto è esterno, costo di
sviluppo in proprio se il progetto è interno);
-- i costi sostenuti per l’acquisto delle ma-
terie prime e sussidiarie che entrano a
far parte dell’immobilizzazione;
-- i costi del personale impegnato nella costruzione dell’impianto (opportunamente
identificato sulla base di schede di rilevazione delle presenze e incrociato con
il costo medio orario per qualifica o, meglio, per soggetto);
• i costi indiretti (perciò attribuibili soltanto
adottando opportune basi di riparto) per i
quali valgano il requisito quantitativo della
imputazione ragionevole e quello temporale del nesso funzionale al periodo di fabbricazione, concluso con l’assunzione del carattere di utilizzabilità da parte del fattore
appena completato, tra i quali:
-- i costi per le utenze assorbite dalla produzione dell’immobilizzazione;
-- i costi per la forza motrice degli impianti
impiegati per lo sviluppo dell’immobilizzazione;
-- gli ammortamenti degli impianti impiegati per lo sviluppo dell’immobilizzazione;
-- i costi del personale indiretto e del personale tecnico di stabilimento;
• gli oneri finanziari per i quali valgono il
requisito spaziale della pertinenza al finanziamento della produzione, quello quantitativo della imputazione ragionevole e quello
temporale del nesso funzionale al periodo di
fabbricazione, concluso con l’assunzione del
carattere di utilizzabilità da parte del fattore
appena completato.
La dottrina giuridica ritiene, a tale riguardo, che1:
• i costi indiretti da ripartire non possano includere quelli relativi alla funzione vendita,
alla funzione amministrativa, alle strutture
centrali;
• i costi indiretti debbano essere ripartiti sulla base di una capacità produttiva normale
onde evitare incongrui spostamenti di costo da un esercizio all’altro;
• l’estensione temporale dell’imputazione
giunga fino al momento dal quale il bene
può essere utilizzato a non anche quello,
successivo, del suo effettivo utilizzo;
1 Colombo G.E., G. Olivieri “Bilancio d’esercizio e consolidato”, UTET, Torino, 1994, pp. 231-232.
69
Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
70
• il limite superiore della configurazione di
costo sia rappresentato dal valore attuale
d’uso o di mercato.
La dottrina economico-aziendale concorda sul primo punto, ritenendo che la norma
escluda i costi delle funzioni amministrativa,
marketing, ricerca e sviluppo, sul fondamento
della natura industriale del costo, come avviene con le rimanenze di magazzino2. Invero,
tale qualificativo non è contenuto nella lettera della norma, la quale parla di “altri costi
[rispetto a quelli direttamente imputabili],
per la quota ragionevolmente imputabile al
prodotto, relativi al periodo di fabbricazione e
fino al momento dal quale il bene può essere
utilizzato” né il qualificativo industriale è aggiunto dalla relazione governativa. Il criterio
identificativo degli altri costi sembrerebbe,
invece, sulla base di una interpretazione letterale dell’art. 2426 comma 1 n. 1 c.c., quello
di essere indiretti, e non industriali, fatta eccezione per gli oneri finanziari di cui la norma dispone separatamente. La restrizione
all’area della “fabbricazione” è imposta dai
principi contabili nazionali (OIC 16, par. 25
e par. 31).
In relazione al carattere indiretto dei costi,
la dottrina economico-aziendale sottolinea
i vincoli di comunanza nello spazio e nel
tempo dei costi da imputare: nello spazio in
quanto si possono simultaneamente riferire
alla commessa e ad altre attività di produzione economica; nel tempo in quanto la
commessa può essere iniziata nel corso del
periodo amministrativo e, dunque, i fattori
produttivi a fecondità ripetuta possono aver
trovato impiego sia nelle produzioni precedenti all’apertura di quella sia nella commessa. La nozione di costi indiretti alla quale si
riferisce il legislatore non è, poi, insita soltanto nella natura del fattore produttivo e
nelle relazioni combinatorie che lo legano
agli altri (n – 1), interpretabili alla luce del
principio funzionale, ma anche delle scelte di
configurazione del sistema contabile adotta-
2 Giunta F., Pisani M. “Il bilancio”, Apogeo, Milano, 2005, p. 424.
ta e, dunque, varia anche con esse. Quanto
alla base di riparto il problema ammette molteplici soluzioni in quanto si possono dare le
seguenti situazioni:
1. l’azienda non dispone di un sistema di contabilità analitica;
2. l’azienda dispone di un sistema di contabilità analitica a direct costing;
3. l’azienda dispone di un sistema di contabilità analitica a full costing a base unica;
4.l’azienda dispone di un sistema di contabilità analitica a full costing articolato
per centri di costo;
5. l’azienda dispone di un sistema di contabilità analitica activity-based.
Nel caso sub 1), manca qualsiasi fondamento
razionale alla ripartizione dei costi indiretti e,
dunque, devono essere elaborati calcoli economici di tipo extra-contabile.
Nel caso sub 2), manca la rilevazione e la ripartizione dei costi indiretti e, dunque, devono essere elaborati calcoli economici di tipo
extra-contabile.
Nel caso sub 3), i costi indiretti sono identificati, rilevati e ripartiti su un’unica base
che può essere sensibile o meno al grado di
sfruttamento della capacità produttiva.
Nei casi sub 4) e sub 5), i costi indiretti sono
identificati, rilevati e ripartiti su base multipla; il redattore del bilancio può valutare
gli effetti di oscillazioni nel grado di sfruttamento della capacità produttiva.
PRINCIPI CONTABILI
NAZIONALI
Secondo l’OIC 16, il valore di iscrizione include tutti quei costi, relativi alle costruzioni, che l’impresa deve sostenere affinché
l’immobilizzazione possa essere utilizzata.
L’equazione del costo di fabbricazione si
rifà, evidentemente, all’art. 2426 comma 1
n. 1 c.c.
Le costruzioni in economia secondo l’OIC 16
§25
Il costo di produzione comprende tutti i costi direttamente imputabili all’immobilizzazione materiale.
Può comprendere anche altri costi, per la quota ragionevolmente imputabile all’immobilizzazione,
relativi al periodo di fabbricazione e fino al momento dal quale il bene può essere utilizzato; con gli
stessi criteri possono essere aggiunti gli oneri relativi al finanziamento della fabbricazione, interna
o presso terzi. In generale, sono capitalizzabili solo i costi sostenuti per la costruzione di nuovi
cespiti (costi originari) e per migliorare, modificare, ristrutturare o rinnovare cespiti già esistenti,
purché tali costi producano un incremento significativo e misurabile di capacità, di produttività o di
sicurezza dei cespiti per i quali sono sostenuti ovvero ne prolunghino la vita utile.
§31
Il costo iniziale di un cespite totalmente o parzialmente costruito in economia è il costo di produzione
inclusivo dei costi diretti (materiale e mano d’opera diretta, costi di progettazione, forniture esterne,
ecc.) e dei costi generali di produzione, per la quota ragionevolmente imputabile al cespite per il
periodo della sua fabbricazione fino al momento in cui il cespite è pronto per l’uso; con gli stessi
criteri possono essere aggiunti gli oneri relativi al finanziamento della loro fabbricazione.
§32
I costi di natura straordinaria sostenuti durante la costruzione dei cespiti, (ad esempio: scioperi,
incendi o eventi connessi a calamità naturali, come alluvioni, terremoti, ecc.) non sono capitalizzabili,
e sono addebitati al conto economico dell’esercizio in cui si sostengono.
Si noti che nell’attuale OIC 16 sono scomparsi, rispetto alla versione 2005 del medesimo
principio contabile nazionale, i riferimenti al
criterio della capacità normale, quale criterio
per la ripartizione dei costi indiretti (per rinvio
all’OIC 13 contenuto nel par. D.II.b) in caso di
produzione ordinaria di impianti e alla omissione della quota di costi indiretti nei casi di
occasionalità della costruzione in economia
(sempre nel par. D.II.b). Si deduce, dall’enunciazione generale e generica del par. 31 della versione 2014 dell’OIC 16,, che non vi sia
più una differenza “soggettiva” tra classi
di aziende che procedono alle costruzioni
in economia. Ne consegue che, mentre per
le imprese dedite alla produzione di impianti
– in conseguenza del par. 31 dell’attuale OIC
13 – pare ragionevole ritenere che ancora si
applichi la suddetta base di imputazione,
rispetto alla versione 2005 è solo scomparsa
la facoltà di omettere l’imputazione e il rinvio
al futuro della quota di costi indiretti. L’imputazione dei costi indiretti, quindi, si applica
a tutte le aziende, ma non è evidente quale
sia la base di riparto di tali costi per quelle
unità produttive che procedono – secondo la
semantica del 2005 – a costruzioni in economia occasionali.
ESEMPIO DI VALORIZZAZIONE E RAPPRESENTAZIONE IN BILANCIO
DELLA COSTRUZIONE IN ECONOMIA
71
La A&D spa procede, nell’anno X1, alla costruzione in proprio di un impianto che completa
nell’anno di avvio della commessa. La realizzazione dell’opera richiede quanto segue:
-- materie prime: quantità in kg 3.000; prezzo al kg euro 30;
-- manodopera diretta: ore impiegate pari a 2.000; costo orario complessivo euro 60;
-- costi indiretti di produzione pari a euro 400.000; tali costi si riferiscono, oltre alla realizzazione dell’opera (per le 2.000 ore sopra richiamate), alla produzione di altri beni (per 6.000
ore) mentre per 4.500 ore ci si riferisce a capacità inutilizzata.
Si procede al calcolo del costo di produzione dell’impianto, utilizzando come base di riparto
dei costi indiretti le ore di capacità produttiva totale (= 2.000 + 6.000 + 4.500):
Elementi di costo
Materie prime
Manodopera diretta
Costi indiretti
Totale costo
Calcolo
3.000 × 30 =
2.000 × 60 =
400.000 × 2.000/12.500 =
Importi
90.000
120.000
64.000
274.000
Se, invece, il riparto dei costi indiretti si basa soltanto sulle ore di capacità produttiva effettivamente sfruttata (pari a 2.000 + 6.000), senza tenere conto delle ore di capacità inutilizzata
(pari a 4.500), il calcolo del costo dell’impianto si modifica come segue:
Elementi di costo
Materie prime
Manodopera diretta
Costi indiretti
Totale costo
Calcolo
3.000 × 30 =
2.000 × 60 =
400.000 × 2.000/8.000 =
Importi
90.000
120.000
100.000
310.000
Il costo di euro 274.000 è inferiore al valore recuperabile tramite l’uso (stimato in euro
280.000,00). I riflessi sullo Stato patrimoniale civilistico al 31/12/X1 sono i seguenti:
Stato patrimoniale al 31/12/X1
B.II) Immobilizzazioni materiali
2) Impianti e macchinari
274.000
Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
I riflessi sul Conto economico civilistico dell’esercizio X1 sono i seguenti:
72
Conto economico dell’esercizio X1
A) Valore della produzione
4) Incrementi di immobilizzazioni per lavori interni
COSTRUZIONI IN CORSO
Le costruzioni in economia non portano sempre alla realizzazione immediata del fattore
produttivo a fecondità ripetuta progettato;
esse, piuttosto, domandano tempo e procedono secondo stati di avanzamento che dipendono dalla complessità del fattore produttivo
a fecondità ripetuta da realizzare e dalla struttura operativa e organizzativa dedicata, dando luogo a commesse interne di durata infraannuale o ultra-annuale. Nel secondo caso, al
termine dell’esercizio, in sede di redazione del
bilancio, si dà la circostanza di una commessa
interna avviata, ma non ancora conclusa.
I costi per la progettazione e l’avvio dei lavori, eventualmente quelli per i materiali, i
componenti, gli accessori, il loro montaggio,
sono già stati sostenuti, ma non sono di competenza economica dell’esercizio perché non
sono correlati a ricavi manifestatisi in questo;
d’altra parte, il fattore per il quale quei costi
sono stati sostenuti non è completo e non è
pronto ad entrare in funzione.
A tale proposito, l’OIC 16, par. 24, prevede di
procedere come segue:
• i costi per la costruzione del cespite sono
274.000
rilevati inizialmente alla data in cui sono
sostenuti;
• le immobilizzazioni materiali in corso di realizzazione sono stornate a fine esercizio e
riepilogate nell’apposita voce;
• le immobilizzazioni materiali in corso di
realizzazione rimangono iscritte come
tali fino alla data in cui il bene può essere
effettivamente utilizzato; a tale data, l’immobilizzazione materiale è riclassificata
nella specifica voce della classe B.II) alla
quale sono riconducibili (mediante storno
del saldo del conto acceso alla costruzione
in corso al conto corrispondente).
Il sistema contabile (se non dispone di codici
destinazione o non ha funzionalità gestionali) non rileva nelle scritture continuative tale
destinazione dei costi: in sede di assestamenti
di fine esercizio, dunque, si dovrà procedere alla capitalizzazione indiretta dei costi
sostenuti (rilevati in conti i cui saldi sono riepilogati nella voce A.4) “Incrementi di immobilizzazioni per lavori interni” del Conto economico civilistico) e alla individuazione di un
costo rinviato al futuro che porta il suo saldo
alla voce B.II.5) “Immobilizzazioni in corso e
acconti” dell’attivo dello Stato patrimoniale
civilistico (denominato in termini generici,
cioè senza specificare a quale delle quattro
classi di immobilizzazioni dell’area B.II si riferisce). Opportunamente, nel piano dei conti,
sarà dettagliata la scheda contabile relativa
alla specifica classe d’immobilizzazione in
via di realizzazione. Tale scheda sarà riaperta nell’esercizio successivo. Se al termine
di questo la commessa interna sarà conclusa,
il conto acceso all’immobilizzazione in corso
sarà stornato e, unitamente ai costi capitalizzati nell’esercizio di completamento dell’opera, concorrerà a formare il valore di iscrizione
della immobilizzazione, appostata nella prima
parte dell’area B.II) “Immobilizzazioni materiali” dell’attivo dello Stato patrimoniale civilistico (distinguendo, dunque, se si tratta di
fabbricati, impianti, macchinari, attrezzature
o altri beni). Se, invece, la commessa interna si protrae anche oltre la chiusura del secondo esercizio, ai costi ripresi dall’esercizio
precedente si aggiungeranno quelli capitalizzati nel nuovo esercizio, questi ultimi portati
a rettifica indiretta dei costi di produzione
mediante il ripetersi dell’appostamento della
voce A.4) “Incrementi di immobilizzazioni per
lavori interni” nel Conto economico civilistico.
ESEMPIO DI COSTRUZIONE IN ECONOMIA DI DURATA PLURIENNALE
La A&D spa procede alla costruzione in economia di un impianto industriale secondo i seguenti dati:
-- inizio dei lavori 10/09/X1;
-- costi sostenuti in X1: manodopera 22.000,00 euro; materie prime 12.000,00 euro; altri costi
diretti 3.000,00;
-- costi sostenuti in X2: manodopera 28.000,00 euro; materie prime 4.000,00 euro; altri costi
diretti 1.000 euro;
-- fine dei lavori 20/04/X2.
I riflessi sullo Stato patrimoniale civilistico al 31/12/X1 sono i seguenti:
Stato patrimoniale al 31/12/X1
B.II) Immobilizzazioni materiali
5) Immobilizzazioni in corso e acconti
37.000
I riflessi sul Conto economico civilistico dell’esercizio X1 sono i seguenti:
Conto economico dell’esercizio X1
A) Valore della produzione
4) Incrementi di immobilizzazioni per lavori interni
73
37.000
I riflessi sullo Stato patrimoniale civilistico (prima delle eventuali scritture di ammortamento) al
31/12/X2 sono i seguenti:
Stato patrimoniale al 31/12/X2
B.II) Immobilizzazioni materiali
2) Impianti e macchinari
70.000
I riflessi sul Conto economico (prima delle scritture di assestamento) dell’esercizio X2 sono i seguenti:
Conto economico dell’esercizio X2
A) Valore della produzione
4) Incrementi di immobilizzazioni per lavori interni
33.000
CAPITALIZZAZIONE DEGLI ONERI
FINANZIARI
L’OIC 16 pone le condizioni per la capitalizza-
zione degli oneri finanziari ad incremento
del costo delle immobilizzazioni materiali.
Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
La capitalizzazione degli oneri finanziari secondo l’OIC 16
74
Limiti
alla capitalizzazione
(§35)
La capitalizzazione degli oneri finanziari è ammessa con riguardo ad oneri
effettivamente sostenuti, oggettivamente determinabili, entro il limite del valore
recuperabile del bene. L’ammontare degli oneri finanziari capitalizzati durante
un esercizio non può quindi eccedere l’ammontare degli oneri finanziari, al
netto degli eventuali proventi finanziari derivanti dall’investimento temporaneo
dei fondi presi a prestito, riferibili alla realizzazione del bene e sostenuti con
riferimento allo stesso esercizio. Questo nel presupposto che il fatto di acquisire
il bene dall’esterno piuttosto che realizzarlo internamente, non può portare a
rappresentare in bilancio medesimi beni per valori significativamente differenti.
Calcolo
degli interessi
(§35)
Nella misura in cui i fondi sono presi a prestito specificatamente per finanziare la
costruzione di un bene (c.d. finanziamento di scopo), e quindi costituiscono costi
direttamente imputabili al bene, l’ammontare degli oneri finanziari capitalizzabili
su quel bene deve essere determinato in base agli effettivi oneri finanziari
sostenuti per quel finanziamento durante l’esercizio, dedotto ogni provento
finanziario derivante dall’investimento temporaneo di quei fondi. Nella misura in
cui si renda necessario utilizzare ulteriori fondi presi a prestito genericamente,
l’ammontare degli oneri finanziari maturati su tali fondi è capitalizzabile nei
limiti della quota attribuibile alle immobilizzazioni in corso di costruzione.
Tale ammontare è determinato applicando un tasso di capitalizzazione ai costi
sostenuti corrispondente alla media ponderata degli oneri finanziari netti relativi
ai finanziamenti in essere durante l’esercizio, diversi dai finanziamenti ottenuti
specificatamente allo scopo di acquisire un bene che giustifica una capitalizzazione.
Periodo
di riferimento
(§35)
c) Sono capitalizzabili solo gli interessi maturati su beni che richiedono un periodo
di costruzione significativo. Per periodo di costruzione si intende il periodo che
va dal pagamento ai fornitori di beni e servizi relativi alla immobilizzazione
materiale fino al momento in cui essa è pronta per l’uso, incluso il normale tempo
di montaggio e messa a punto. In sostanza, l’arco temporale di riferimento, ai fini
della capitalizzazione degli oneri finanziari, risulta essere quello strettamente
necessario alle attività tecniche volte a rendere il bene utilizzabile. Infatti, se il
periodo di costruzione si prolunga a causa di scioperi, inefficienze o altre cause
estranee all’attività di costruzione, gli oneri finanziari relativi al maggior tempo
non sono capitalizzati, ma sono considerati come costi del periodo in cui vengono
sostenuti. La capitalizzazione degli oneri finanziari è sospesa durante i periodi,
non brevi, nei quali lo sviluppo del bene è interrotto.
Uniformità dei criteri
di applicazione
(§36)
La scelta di capitalizzare gli oneri finanziari è applicata in modo costante nel
tempo.
Collocazione
in bilancio
(§33)
Gli oneri finanziari sono imputati nella voce C17 “interessi e altri oneri finanziari”
del conto economico dell’esercizio in cui maturano. La voce C17 comprende gli
interessi capitalizzati che trovano per tale importo contropartita nella voce A4
“incrementi di immobilizzazioni per lavori interni”, in linea con le voci previste dal
codice civile e con la previsione di un conto economico per natura disciplinata dal
legislatore.
Anzitutto, la capitalizzazione si deve riferire
a interessi passivi sostenuti per capitali presi
a prestito specificamente per l’acquisizione
delle immobilizzazioni (il che implica un processo di “isolamento” dei finanziamenti attinti
in ragione della loro entità – inferiore, o al più
pari, a quella dei costi di acquisizione delle immobilizzazioni materiali – e dei tempi di accen-
sione, immediatamente precedenti o senz’altro
inclusi nel “periodo di fabbricazione” a cui fa
riferimento l’art. 2426 comma 1 n. 1 c.c.).
Gli interessi passivi capitalizzabili a incremento del costo delle immobilizzazioni materiali sono solo quelli maturati durante il periodo di costruzione. Tale periodo è compreso
tra il momento in cui avvengono le uscite mo-
netarie a favore dei fornitori dei beni e servizi
che entrano nella realizzazione dei cespiti e
il momento in cui l’immobilizzazione è pronta per l’uso (si tratta, in pratica, della durata
dell’investimento prima che inizi il potenziale ricupero mediante realizzo indiretto); tale
periodo si estende fino a includere la durata delle operazioni di montaggio e di messa
a punto (necessarie affinché il fattore possa
essere effettivamente utilizzato), sempre che
l’arco temporale complessivo – precisa l’OIC
– possa considerarsi “normale”. Se scioperi,
inefficienze produttive o altre circostanze
protraggono la costruzione del bene economico oltre il periodo di tempo che può dirsi
normale, gli oneri finanziari relativi ai “tempi
supplementari” non possono essere capitalizzati. Specularmente, la capitalizzazione degli
oneri finanziari è sospesa durante i periodi,
non brevi, nei quali lo sviluppo del bene è
interrotto. Se la produzione dell’impianto si
svolge a stadi di avanzamento, gli interessi
passivi sono capitalizzati in proporzione alle
fasi realizzate, distinguendo entità e durata
di ciascuno stadio, separatamente dagli altri.
L’intervallo di tempo così definito deve es-
sere significativo. Ciò non avviene quando si
procede all’acquisizione ordinaria dei cespiti,
cioè quando il ciclo acquisti è troppo breve
perché si possa computare un’aliquota differenziale di fabbisogno finanziario e addensare
interessi passivi (di importo rilevante).
Nel caso in cui la copertura del fabbisogno
finanziario 3 abbia domandato una pluralità di
prestiti, contratti a tassi differenti, l’OIC 16 dispone che:
• per la porzione di fabbisogno finanziario
coperta da “finanziamenti di scopo”, si applichi il tasso d’interesse convenuto4;
• per la porzione di fabbisogno finanziario
non coperta da prestiti di scopo, si determini convenzionalmente un costo per interessi
ottenuto applicando a tale porzione residua il
saggio medio ponderato delle fonti generiche.
È scomparso nella versione 2014, il vincolo
che la versione 2005 (par. D.II.b.4) imponeva
al costo di produzione, incrementato di un’aliquota a titolo d’interesse passivo, di non superare, ab origine, il prezzo di mercato (rinviando
al complesso meccanismo previsto dall’OIC 9
il controllo sulla recuperabilità economicofinanziaria del valore dell’investimento).
ESEMPIO DI CAPITALIZZAZIONE DEGLI ONERI FINANZIARI
La A&D spa stipula, in data 10/01/X1, un contratto di appalto con la Azzob spa per la realizzazione di un impianto specifico. Le condizioni contrattuali sono riepilogate di seguito.
Data
Stato di avanzamento dei lavori
Importo
31/01/X1
Anticipo a inizio lavori
120.000
31/03/X1
Avanzamento
80.000
30/09/X1
Avanzamento
400.000
31/12/X1
Consegna, collaudo, messa in opera
200.000
Totale
100%
800.000
Poiché l’OIC 16 fa riferimento a un complesso di finanziamenti, per il quale sussistono fonti
diverse a tassi distinti, occorre calcolare il fabbisogno di finanziamento (= costo × velocità di
circolazione dell’investimento) come segue.
3“Per determinare la quota di interessi passivi da capitalizzare l’impresa deve innanzitutto determinare la quota di costo di costruzione
capitalizzabile. A tal proposito, occorre considerare quali siano gli esborsi finanziari sostenuti dall’impresa acquirente per la realizzazione dell’immobilizzazione nel corso dell’esercizio”. Documento CNDCEC maggio 2015 “OIC 16: Immobilizzazioni materiali”, p. 22.
4“Nello specifico, l’OIC 16 prevede che: gli oneri relativi a finanziamenti specificamente contratti per la costruzione (finanziamenti di
scopo) sono da considerarsi «costi di diretta imputazione»; gli oneri inerenti a finanziamenti generici rientrano nella categoria dei
costi indiretti imputabili al prodotto per una «quota ragionevole»”, Documento CNDCEC maggio 2015, cit., p. 21.
75
Data
31/01/X1
31/03/X1
30/09/X1
31/12/X1
Totale
Importo
120.000
80.000
400.000
200.000
800.000
Mesi
11
9
3
0
Numeri/12
110.000
60.000
100.000
0
270.000
Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
A questo punto occorre fare riferimento alle fonti di finanziamento:
-- finanziamento di scopo assunto all’inizio del mese di gennaio a fronte della realizzazione
dell’impianto di importo pari a 150.000 euro, con un tasso pari al 5,00%, presso la banca X;
-- finanziamento ottenuto all’inizio del mese di gennaio per un importo pari a 100.000 euro con
un tasso pari al 6,00%, presso la banca Y;
-- finanziamento ottenuto all’inizio del mese di gennaio per un importo pari a 300.000 euro,
con un tasso pari al 9,00%, presso la banca Z.
Pertanto:
-- fino a capienza del finanziamento X, il saggio d’interesse da applicare è pari al 5,00%;
-- per la porzione residua, occorre fare riferimento agli altri due prestiti, congiuntamente considerati, cioè al loro saggio medio.
Il saggio medio ponderato d’interesse di questi due prestiti è:
76
6,00% × 100.000/400.000 + 9,00% × 300.000/400.000 = 8,25%
Le vie di copertura del fabbisogno finanziario e i loro costi sono così determinate:
Aliquota di fabbisogno finanziario
Prima aliquota
Seconda aliquota
Totale
Importo
150.000
120.000
270.000
Tasso
5,00%
8,25%
Interessi
7.500
9.900
17.400
Tenendo conto tanto del costo di produzione (800.000) quanto degli oneri finanziari (17.400), i
riflessi sullo Stato patrimoniale civilistico al 31/12/X1 sono i seguenti:
Stato patrimoniale al 31/12/X1
B.II) Immobilizzazioni materiali
2) Impianti e macchinari
817.400
I riflessi sul Conto economico civilistico dell’esercizio X1 sono i seguenti:
Conto economico dell’esercizio X1
A) Valore della produzione
4) Incrementi di immobilizzazioni per lavori interni
RIFLESSI FISCALI
La capitalizzazione dei costi per costruzioni
in economia (nella latitudine dei componenti inclusi, compresi gli oneri finanziari) assume rilievo a fini IRES.
A fini IRES, l’art. 110 comma 1 del TUIR stabilisce che il costo dei beni strumentali materiali
per l’esercizio dell’impresa è formato da:
817.400
• il valore al lordo dei fondi ammortamento;
• gli oneri accessori di diretta imputazione;
• gli interessi passivi iscritti in bilancio ad aumento del costo per effetto di disposizioni
di legge. L’art. 110 comma 1 lett. b) del TUIR
stabilisce che nel costo di fabbricazione si
possono aggiungere con gli stessi criteri
anche i costi diversi da quelli direttamente
imputabili al prodotto. Se i beni strumen-
tali materiali sono ottenuti per produzione
interna (e, dunque, si può parlare di costo
di fabbricazione), si aggiungono anche gli
altri costi indiretti (la norma non specifica
quali e con quale driver).
L’art. 110 comma 1 lett. b) del TUIR sancisce
che per i beni materiali strumentali per l’esercizio dell’impresa si comprendono nel costo
gli interessi passivi iscritti in bilancio ad aumento del costo stesso per effetto di disposizioni di legge.
Gli interessi passivi entrano nella formazione
del costo secondo questi criteri:
• si riferiscono alla costruzione in economia
dei beni materiali strumentali per l’esercizio dell’impresa;
• secondo la classificazione civilistica si tratta
di:
-- terreni e fabbricati;
-- impianti e macchinari;
-- attrezzature industriali e commerciali;
-- altri beni;
• sono iscritti ad aumento del costo di acquisizione di quei beni per effetto di disposizioni di legge;
• il costo, maggiorato degli interessi, è il valore originario di iscrizione del bene nello
Stato patrimoniale;
• per gli interessi sussiste l’obbligo di capitalizzazione a fini fiscali, anche se molti
ritengono tale capitalizzazione una facoltà.
A contrario, si desume che gli interessi passivi
non possono essere compresi nel costo se:
• si è in presenza di beni materiali non strumentali (eccezion fatta per gli immobilimerce);
• si è in presenza di beni immateriali non
strumentali;
• gli interessi passivi non sono stati capitalizzati dal redattore del bilancio;
• gli interessi passivi inclusi nel costo fiscale
sono diversi da quelli capitalizzati dal redattore del bilancio;
• gli interessi passivi inclusi nel costo fiscale
sono diversi da quelli capitalizzabili secondo le norme di legge (e i principi contabili).
Gli interessi passivi che non sono compresi
nel costo fiscale dei beni sono attratti alla
disciplina dell’art. 96 del TUIR.
77
/ Revisione
e vigilanza
05
5. Revisione
e vigilanza
LA VERIFICA DEI CREDITI
COMMERCIALI IN FASE
DI FINAL
Dopo aver trattato le attività che caratterizzano la pianificazione della revisione con
riferimento alla voce di bilancio dei crediti commerciali – voce di norma significativa
nel mondo delle società industriali e che, pertanto, richiede molta attenzione da parte
del revisore – nel presente contributo completiamo l’analisi delle tecniche di revisione
applicabili alla voce in esame, andando ad analizzare la fase della “execution”, ossia
delle attività che il revisore pone in essere per dare appropriate risposte ai rischi
identificati e valutati in sede di pianificazione. Ci occuperemo, dunque, con taglio
operativo ed esempi di carte di lavoro, della circolarizzazione dei clienti, dell’analisi
e del controllo del fondo svalutazione crediti, dei test di cut-off, dell’analisi delle note
credito, nonché del controllo della corretta informativa di bilancio.
/ Ermando BOZZA *
Nel work-flow caratterizzante la revisione
contabile di un bilancio di esercizio, il revisore, nella cosiddetta fase di “interim”1, procede
a identificare e valutare quali siano i rischi di
errori significativi che potrebbero annidarsi
nelle singole voci di bilancio e nelle correlate
asserzioni al fine di poter pianificare, in modo
efficiente ed efficace, le appropriate risposte
che possano portare il rischio di revisione ad
un livello accettabilmente basso.
Nella fase di pianificazione il revisore definisce, tra l’altro, anche 2:
• il livello di significatività complessiva, ossia
il livello massimo di errore tollerabile sul bilancio nel suo complesso che, seppur presente, non farebbe modificare le decisioni economiche assunte dagli utilizzatori del bilancio;
*
• il livello di significatività operativa, ossia
quel livello, sempre più basso del valore della
significatività complessiva, che consenta di
ridurre ad un livello accettabilmente basso
il rischio che la somma di errori non corretti in bilancio e non individuati superino
la significatività complessiva e soprattutto
di coniugare il grado di rischio valutato con
l’estensione del lavoro da svolgere. Caratteristica della significatività operativa è, infatti,
che essa va determinata per voce di bilancio,
classe di operazioni e singola asserzione, sulla base dei rischi valutati di errori significativi
in modo tale da determinare l’estensione del
lavoro del revisore. In altri termini: più basso
è il livello della significatività allocata su una
voce di bilancio, maggiore dovrà essere l’e-
Dottore Commercialista e Revisore Legale
1 Fase tipicamente svolta prima della chiusura dell’esercizio.
2 Per approfondimenti si rinvia a Bozza E. “La determinazione e l’utilizzo della significatività nella revisione”, in questa Rivista,
9, 2015, pp. 100-109.
79
stensione del lavoro necessario per verificare
con ragionevole certezza che quella voce non
contenga errori significativi. Come vedremo
nel prosieguo dell’articolo, la significatività
assume un ruolo fondamentale per determinare, ad esempio, quanti clienti selezionare
ai fini della circolarizzazione, quanti elementi indagare da un tabulato di ageing, ecc.
Il revisore, completate le procedure di valutazione del rischio di revisione, procede alla ste-
sura dei programmi dettagliati di revisione che
individuano la natura e l’estensione dei controlli da effettuare per giungere ad esprimere
un giudizio sulle poste di bilancio in esame 3.
Nella cosiddetta fase di “final” il revisore procede, quindi, ad operare i test pianificati per
dare appropriate risposte ai rischi identificati
e valutati e, all’esito, a formarsi un giudizio
circa il corretto trattamento della voce di bilancio analizzata.
Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
RISPOSTA AI RISCHI
LA FASE DELL’EXECUTION
80
Esecuzione delle procedure di revisione appropriate e sufficienti per dare risposta ai rischi identificati
e valutati
Svolgimento delle procedure pianificate
Valutazione dei risultati conseguiti e degli elementi probativi acquisiti
Documentazione dei risultati e delle conclusioni
I TEST DI SOSTANZA
Come per ogni altra voce di bilancio, anche
per i crediti il revisore deve acquisire sufficienti ed appropriati elementi probativi che
lo mettano in grado di concludere che, con
ragionevole certezza, il bilancio non contenga errori significativi. L’acquisizione degli
elementi probativi avviene attraverso lo svolgimento di procedure di revisione che il revisore ritiene idonee per fronteggiare i rischi di
revisione individuati. Procedure di revisione
che dovranno dare risposte ai vari obiettivi
di revisione (asserzioni) e la cui natura ed
estensione sono in funzione del grado di rischio valutato.
Procediamo, quindi, ad affrontare le principali
tecniche di revisione con riguardo alla voce
crediti verso clienti che, di prassi, caratterizzano l’attività di revisione.
LA COSTRUZIONE DELLE CARTE DI LAVORO
La Lead-schedule
Il revisore apre la sezione crediti verso clienti con una carta di lavoro denominata “Lead
Schedule”.
La citata carta di lavoro funge da capo sezione delle successive schede. In tale scheda
vengono, infatti, riportati:
• i saldi del bilancio d’esercizio oggetto di revisione, così come risultanti dalle voci componenti lo stesso, comparati con quelli dell’esercizio precedente;
• le differenze in valore assoluto e percentuale;
• i commenti su eventuali elementi di rilievo
trovati dal revisore nel corso delle verifiche
e le conclusioni a cui è giunto il revisore
sulla voce in esame a seguito dell’acquisizione degli elementi probativi.
Come è evidente, la carta di lavoro in esame è quella che apre la sezione ma di fatto
l’ultima ad essere completata. Infatti solo
quando il revisore ha acquisito il saldo di
bilancio dell’esercizio corrente e operato le
verifiche previste nel piano di revisione sarà
in grado di completare la carta di lavoro in
esame.
Un controllo di cui si dà evidenza nella
“Lead-schedule” è la corrispondenza tra i
saldi riportati nella stessa con quelli esposti in bilancio. Nella prassi l’evidenza viene
data apponendo un tick-mark (ad esempio,
3 Si veda, a tal riguardo, Bozza E. “La pianificazione della revisione dei crediti verso clienti”, in questa Rivista, 11, 2015, pp. 82-100.
apponendo la spunta √ = ok con bilancio al
31.12.20XX).
Nella sezione commenti della carta di lavoro il
revisore evidenzia gli esiti del lavoro comples-
sivamente svolto sulla voce di bilancio, e se i
crediti commerciali siano o meno correttamente esposti in bilancio in conformità alle norme
di legge e ai principi contabili di riferimento.
ESEMPIO DI LEAD-SCHEDULE
wp C-1
ABC SPA
Prep. da: MR gg/mm/aa
31/12/15
Riv. da: AB gg/mm/aa
Riv. da: SG gg/mm/aa
Lead Crediti Verso Clienti
Euro
Riferimento al Bilancio
C . II . 1
√
√
√
Voci come da Bilancio
Saldo 31.12.15
Saldo 31.12.14
Delta
Delta %
esigibili entro es. succ.
2.047.517,98
1.778.573,00
268.944,98
15%
esigibili oltre es. succ.
0,00
0,00
0,00
0%
CREDITI VERSO CLIENTI
2.047.517,98
1.778.573,00
268.944,98
15%
Ok con Bilancio al 31.12.2015
COMMENTI:
Dal lavoro svolto, non sono emersi rilievi significativi.
CONCLUSIONI:
In base al lavoro svolto i crediti verso clienti sono correttamente esposti in bilancio in conformità alle norme di legge e
ai principi contabili di riferimento.
Il programma di revisione (Audit program)
Nelle carte di lavoro relative ad ogni voce
di bilancio viene, abitualmente, inserito il
programma dettagliato di lavoro redatto all’esito delle attività di pianificazione.
In questo modo il revisore ha immediata evidenza delle attività di controllo da svolgere
all’esito della valutazione dei rischi effettuata.
Riportare tali informazioni nel programma di
revisione appare opportuno, in quanto, consente di motivare al meglio l’approccio di revisione prefissato e di verificarne la coerenza
rispetto ai rischi valutati 4.
La Sublead schedule
Il bilancio di verifica viene ricomposto in
schede sommario in forma standard (dette
Sublead-schedule) e per ogni voce di bilancio
ne vengono ricostruiti, in dettaglio, gli elementi costitutivi.
Nella Sublead-schedule vengono inserite note
o tick marks che rimandano alle carte di lavoro di dettaglio nel quale è riportato il lavoro svolto dal revisore e gli elementi probativi
raccolti con riferimento alle singole voci della
Sublead-schedule.
Ogni singolo sottoconto è oggetto di verifiche da
parte del revisore che sono formalizzate in apposite carte di lavoro, a meno di sottoconti ritenuti
assolutamente non significativi per i quali non si
effettua alcuna verifica (unverified items).
Nella Sublead-schedule sono riportate delle
spunte e delle note che danno evidenza dei controlli effettuati.
4 V. l’esempio di programma di revisione contenuto in Bozza E. “La pianificazione della revisione dei crediti verso clienti”, cit.,
p. 96 ss.
81
wp C-2
ABC SPA
31/12/15
Preparato da
Rivisto da:
Rivisto da:
MR
AB
SG
mm/gg/aa
mm/gg/aa
mm/gg/aa
Delta
330.019,51
614,76
4.352,03
-14.167,68
-107,36
-8.361,68
-43.404,61
268.944,98
Delta %
20%
1%
19%
-94%
-100%
26%
-100%
15%
Crediti verso Clienti - Sublead
Euro
Descrizione
CREDITI V/CLIENTI
CREDITI IN CONTENZIOSO
RICEVUTE BANCARIE IN PORTAFOGLIO/S.B.F.
FATTURE DA EMETTERE
CLIENTI C/TRANSITORIO
F/DO RISCHI SU CREDITI V.CLIENTI
NOTE CREDITO DA EMETTERE
TOTALE CREDITI VERSO CLIENTI AL 31/12/2014
(1)
(2)
(1)
(2)
(3)
√
vv
Saldo 31.12.14
2.019.468,61
84.494,09
27.206,30
832,33
0,00
-41.078,73
-43.404,61
2.047.517,98
Saldo 31.12.13
1.689.449,10
83.879,33
22.854,28
15.000,00
107,36
-32.717,06
0,00
1.778.573,00
Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
√ Ok con Bilancio CEE al 31.12.2015
vv Ok con saldi di apertura 2015
(1) Saldi oggetto di conferma saldi da parte della controparte. Vedi wp C-4 e C-5 e segg.
(2) Vedi lavoro svolto in wp C-40 e segg.
(3) Vedi lavoro svolto in wp C-50 e segg.
82
Nell’esempio sopra riportato, la spunta √ apposta dà evidenza del controllo effettuato in
termini di corrispondenza dei saldi esposti
nella sublead con quelli risultanti dal bilancio.
La spunta vv da evidenza dello stesso controllo con riguardo all’esercizio 2014.
Le nota (1) apposta in corrispondenza della
voce crediti v/clienti e Ricevute bancarie in
portafoglio/Sbf, rinvia alle carte di lavoro C-4,
C-5 e segg. dove è stato documentato il lavoro svolto sulla voce e dà evidenza che è stata
effettuata la circolarizzazione.
La nota (2) apposta in corrispondenza del sottoconto Crediti in contenzioso e del fondo svalutazione crediti rinvia alle carte di lavoro C-40 e
segg. dove è stato documentato il lavoro svolto
sulla valutazione dei crediti con approccio mirato.
La nota (3) apposta in corrispondenza del sottoconto Note credito da emettere rinvia alle
carte di lavoro C-50 e segg. dove è documentato il lavoro fatto dal revisore con riferimento
a tale sottoconto specifico.
L’ACCERTAMENTO
DELL’ESISTENZA
DEI CREDITI
Tra i vari controlli da svolgere sulla voce clien-
ti il revisore deve necessariamente includere
quelli tesi ad accertare l’effettiva esistenza dei
crediti iscritti in bilancio.
La principale procedura di revisione utilizzata
per accertare l’esistenza dei crediti è quella della
richiesta di conferma al cliente del saldo risultante dalla contabilità dell’impresa soggetta a
revisione. Tale tecnica di revisione è particolarmente qualificata. Come recita, infatti, il principio di revisione ISA (Italia) n. 505 “Conferme
esterne”, le informazioni acquisite da una fonte
indipendente dall’impresa possono aumentare il
livello di sicurezza che il revisore acquisisce dagli elementi probativi presenti nell’ambito delle
registrazioni contabili ovvero dalle attestazioni
rilasciate dalla direzione aziendale5.
La richiesta di informazione che viene, di prassi, inviata ai clienti è di tipo “positivo”. Occorre, in altri termini, che il cliente risponda direttamente al revisore indicando se concorda
o meno con il saldo indicato nella lettera di
circolarizzazione. In questi casi la mancata o
incompleta risposta, come vedremo, non fornisce alcun elemento probativo al revisore il
quale dovrà attivarsi con “procedure alternative” per giungere alla conclusione che i crediti,
con ragionevole certezza esistono.
A tal scopo, il revisore deve acquisire la scheda
di sintesi dei crediti verso clienti e procedere
5 Per approfondimenti sul tema della circolarizzazione, vedi Bozza E. “Le circolarizzazioni nella revisione legale dei conti”, in
questa Rivista, 12, 2013, pp. 87-106.
ad operare il controllo di “quadratura” con i
conti di dettaglio. Di norma dal tabulato dei
clienti da circolarizzare vengono esclusi i crediti in contenzioso (assoggettati a specifiche
procedure) e i crediti intercompany (anch’essi
oggetto di specifiche procedure).
Dal tabulato dei crediti verso clienti alla data
di riferimento del bilancio il revisore dovrà selezionare alcuni di essi per assoggettarli alla
procedura di circolarizzazione6. L’estensione del
campione è correlata al grado di rischio valutato.
La procedura di selezione del campione di clienti
può essere operata sia con metodo di campionamento statistico che con metodo di campionamento a giudizio del revisore. Di solito viene
preferito il campionamento statistico laddove
la popolazione dei clienti è piuttosto numerosa
e poco concentrata in termini di saldi. Quando,
invece, buona parte del saldo complessivo (70%80%) si concentra in pochi clienti è preferibile
selezionare i maggiori clienti ottenendo una copertura soddisfacente dell’intera popolazione.
In entrambi i casi descritti assume un ruolo determinante il livello di significatività operativa determinato e il grado di rischio associato
all’asserzione dell’esistenza7.
Le metodologie di determinazione del livello
di significatività operativa e di graduazione
dei rischi sono molteplici e dipendono dai manuali operativi adottati dai revisori.
ESEMPIO DI SELEZIONE CLIENTI CON IL METODO DI CAMPIONAMENTO STATISTICO
Ipotizziamo di avere determinato la significatività operativa in base al 2% dell’ammontare dei
ricavi e che il risultato ottenuto sia pari a euro 127.958. Ipotizziamo, altresì, che nella metodologia adottata dal revisore la significatività operativa venga divisa per i seguenti fattori di rischio.
Rischio valutato
Divisore della significatività operativa
Livello di confidenza assicurato
ALTO
3,0
95%
MEDIO
2,0
86%
BASSO
1,1
65%
e che il grado di rischio valutato in merito all’asserzione dell’esistenza sia “Basso”.
L’intervallo di selezione, volendo applicare un campionamento di tipo statistico, sarà, quindi, pari a:
euro 127.958/1,1 = euro 116.325.
Il revisore procede ad elaborare su apposito foglio elettronico il campionamento statistico campionando, con l’intervallo di selezione determinato, i clienti a cui inviare richiesta di conferma
saldo. Nel foglio elettronico è importante partire da un numero casuale tra zero e l’intervallo di
selezione, al fine di attribuire ad ogni cliente una probabilità di essere selezionato.
Nell’esempio, di seguito riportato, il numero casuale estratto ammonta a euro 77.123. Partendo
da tale importo e sommando man mano i saldi di ogni cliente, si procederà a selezionare quel
cliente che porta in positivo la colonna sub-totale.
6 La data di riferimento della circolarizzazione potrebbe, in alcuni casi, essere anticipata rispetto alla data di chiusura dell’esercizio. Tale scelta è opportuna soprattutto laddove sia difficile ottenere le risposte dai clienti in tempo utile. In tali casi è
preferibile, infatti, anticipare la data di riferimento della circolarizzazione ed operare successivamente procedure di “roll
forward” per estendere gli esiti dei risultati della circolarizzazione dalla data di riferimento a quella di chiusura dell’esercizio.
7 Vedi a tal riguardo op. cit. nota 2.
83
Wp
ABC SPA
Preparato da
31/12/2015
Rivisto da:
MR
AB
SG
Rivisto da:
wp C-5
mm/gg/aa
mm/gg/aa
mm/gg/aa
Selezione clienti per circolarizzazione
Descrizione
Saldo 31.12.15
2,019,468.61
CREDITI V/CLIENTI
v
Come da Bilancio di verifica al 31 dicembre 2015
Come da bilancio di verifica al 31 dicembre 2014
Saldo 31.12.14
1,689,449.10
w
Delta
330,019.51
Delta %
20%
4,352.03
19%
27,206.30
v
22,854.28
w
2,046,674.91
v
1,712,303.37
w
RICEVUTE BANCARIE S.B.F.
w
v
Ai fini della circolarizzazione abbiamo tenuto conto dei saldi contabili dei conti "crediti v/ clienti" e ad ogni saldo abbiamo aggiunto il saldo delle RIBA presentate in banca al
31.12.2015 e non ancora scadute. Abbiamo poi effettuato la selezione statistica dei crediti verso clienti, così determinati, tenendo conto del livello della significatività operativa
prescelto e del grado di rischio dell'area.
Significatività operativa
Rischio intrinseco
Rischio controllo
Rischio individuazione
127,958
Basso
(affidamento sulla procedura vendite)
Basso
Basso
Fattore correttivo
1.1
Intervallo di selezione
=-CAUSUALE.TRA(0;116.325)
116,325
Numero voci
Numero di conto
Descrizione
Valore
Sub-Totale
Numero di
selezioni
Intervallo
col. 1
col. 2
col. 3
col. 4
col. 5
col. 6
col. 7
X
Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
col. 8
-
77,123 (1)
6
Cliente A
84,728.40
22,189
1
116,325
11
Cliente B
27,796.64
19,715
1
116,325
-96,610
Cliente C
15,944.19
4,911
1
116,325
-111,414
\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/
Cliente R
123,210.14
107,364
1
116,325
-8,961
17
84
Resto
537
Popolazione
2,046,675
Numero
items
selezionati
17
-94,136
-7,973
(1) Valore iniziale, selezionato casualmente.
Riconciliazione selezione
Valore iniziale casuale
77,123.00
1,977,525.00
Numero items x intervallo di selezione (18 x
232.650)
Resto finale
-
7,973.14
2,046,674.86
2,046,674.86
Popolazione (saldo crediti verso clienti)
Differenza (deve essere pari a zero)
Nell’esempio proposto il numero di clienti selezionati ammonta a 17. Tale risultato scaturisce
dal rapporto tra il saldo complessivo della popolazione dei clienti (euro 2.046.675) e l’intervallo
di selezione determinato (euro 116.325).
Una volta selezionati i clienti il revisore procede a predisporre le lettere di circolarizzazione che
inoltra all’amministratore della società affinché questi le riporti su carta intestata e le sottoscriva.
ESEMPIO DI LETTERA DI CIRCOLARIZZAZIONE CLIENTI
Carta intestata
ABC SPA
Spettabile
Cliente A
Via ..............
Città ...........
Egregi Signori
Ci pregiamo informarVi che alla data del 31 dicembre 2015 il Vostro conto presentava un
saldo a nostro credito di Euro 84.728,40, come risulta dall’estratto conto che alleghiamo.
In relazione al normale controllo della nostra contabilità, Vi saremo grati se vorrete confermarci direttamente al seguente indirizzo:
Dott. AB
Via _____ n. __ cap _____ Città _____
se il suddetto saldo corrisponde a quello a Vostra conoscenza, firmando nello spazio sotto
indicato. Se non fosse esatto Vi preghiamo di scrivere direttamente ai nostri revisori contabili indicando il diverso saldo a Voi risultante.
Vi preghiamo di porre attenzione alla data di conferma. Le operazioni avvenute successivamente a tale data non sono state da noi considerate. Vi preghiamo comunque di elencare la
data e l’importo dei pagamenti da Voi effettuati successivamente alla data della conferma.
Per evitarVi per quanto possibile il disturbo di tale comunicazione, Vi accludiamo altra copia
della presente da ritrasmettere al nostro revisore con l’apposita busta affrancata ed indirizzata, con il Vostro benestare e con le Vostre eventuali osservazioni.
Il completamento della verifica da parte del nostro revisore richiede che la risposta pervenga
al Dott. AB entro il gg/mm/2016.
Ai sensi del DLgs. 196/2003, Vi informiamo che i dati assunti dal revisore, saranno utilizzati
esclusivamente ai fini della revisione contabile del nostro bilancio e saranno conservati a cura
delle stessa in archivi cartacei ed elettronici nel rispetto delle misure di sicurezza previste dal
suddetto decreto. Il conferimento dei dati è necessario per consentire al revisore di verificare
la correttezza e la rispondenza dei dati contabili forniti dalla scrivente società.
I dati acquisiti possono essere oggetto di comunicazione nei limiti previsti dalle normative
vigenti e dai principi di revisione alle seguenti categorie di soggetti: Ispettori della qualità,
Autorità giudiziarie, altri revisori.
Firmato
Il legale rappresentante ABC SPA
_________________________
Il revisore annota in apposita carta di lavoro la data di invio delle lettere di conferma
ai clienti in modo da avere sotto controllo lo
stato delle ricezioni. Laddove necessario, di
prassi, si procede ad un secondo invio.
85
ESEMPIO DI CARTA DI LAVORO DI RIEPILOGO DELLE OPERAZIONI DI CIRCOLARIZZAZIONE
Circolarizzazioni Clienti
Cliente A
Cliente B
Cliente C
Cliente D
Cliente E
Cliente F
Cliente G
Cliente H
Cliente I
Cliente L
Cliente M
Cliente N
Cliente O
Cliente P
Lettera Ricevuta
√
√
√
√
√
√
√
√
√
√
√
√
√
√
Primo Invio
../../2016
../../2016
../../2016
../../2016
../../2016
../../2016
../../2016
../../2016
../../2016
../../2016
../../2016
../../2016
../../2016
../../2016
Secondo Invio Risposta Ricevuta
../../2016
√
√
../../2016
√
../../2016
../../2016
../../2016
√
√
../../2016
√
√
../../2016
√
√
../../2016
../../2016
../../2016
√
Circolarizzazioni Clienti
Cliente Q
Cliente R
Cliente S
Lettera Ricevuta
√
√
√
Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
L’UTILIZZO DELLA PEC
NELL’AMBITO
DEL PROCESSO
DI CIRCOLARIZZAZIONE
86
Assirevi, con il documento del novembre 2014
n. 187, ha fornito alcune indicazioni operative
per l’uso della PEC nell’ambito della procedura
di circolarizzazione.
Il documento ritiene senz’altro applicabile tale
modalità operativa, ma avverte che i registri
conservati dai gestori di posta certificata, pur
rappresentando un ausilio circa la rintracciabilità della documentazione non possono in
alcun modo sostituire la formazione delle
carte di lavoro da parte del revisore ai sensi
del principio di revisione ISA Italia 230.
L’organizzazione del processo di circolarizzazione dovrà, comunque, tener presente i seguenti passi:
• selezione delle controparti da circolarizzare: è una fase sotto l’esclusivo controllo del
revisore, per cui, andranno preventivamente
definite e comunicate al cliente le controparti a cui inviare la lettera di conferma;
• verifica degli indirizzi: gli indirizzi PEC
forniti al revisore, se ritenuto necessario,
potranno dallo stesso essere verificati8, per
quanto attiene l’autenticità e l’accuratezza;
• predisposizione delle lettere di conferma:
il formato della lettera di conferma potrà
essere un formato elettronico non modificabile (ad esempio PDF/A), oppure, sulle
richieste di conferma in formato cartaceo,
potrà essere apposta la firma autografa
del legale rappresentante o del procuratore del cliente, e il documento potrà essere
successivamente trasformato nel suddetto
formato elettronico non modificabile da al-
8 Si può consultare il sito www.inipec.gov.it.
Primo Invio
../../2016
../../2016
../../2016
Secondo Invio Risposta Ricevuta
../../2016
√
√
../../2016
legare ad un messaggio PEC. In alternativa,
le richieste di conferma potranno essere
firmate anche digitalmente dal legale rappresentante o dal procuratore del cliente e
inviate al soggetto da circolarizzare come
allegati ad un messaggio PEC;
• invio ai soggetti circolarizzati delle richieste di conferma: le lettere di circolarizzazione vanno inviate ai soggetti selezionati sotto forma di allegati a messaggi
PEC da parte del revisore.
• ricezione delle risposte: le risposte dovranno pervenire direttamente all’indirizzo di PEC segnalato dal revisore nel corpo
della lettera di conferma. C’è da segnalare
che il principio di revisione ISA Italia 505,
con riferimento alle risposte in formato
elettronico, alla luce del crescente utilizzo della tecnologia, indica che il revisore
debba valutare attentamente la possibilità
di convalidare la fonte delle risposte ricevute in formato elettronico (ad esempio, fax o posta elettronica), poiché con
tali strumenti può essere difficile ottenere
evidenza della provenienza della risposta e
della identificazione della persona che l’ha
inviata, nonché prevenire il rischio di alterazioni. Nella prassi, quando non si usa
la PEC, la risposta ricevuta via fax o posta elettronico deve essere confermata con
l’invio dell’originale in forma cartacea.
IL CONTROLLO
DEGLI ESITI DELLE
CIRCOLARIZZAZIONI
L’esito delle procedure di circolarizzazione può
essere, alternativamente:
a. il cliente ha risposto e il saldo concorda;
b. il cliente ha risposto e il saldo non concorda;
c. il cliente non ha risposto o la risposta non è
valida.
Nel primo caso il revisore avrà acquisito elementi probativi circa l’esistenza del credito e
archivierà la risposta del cliente tra le carte di
lavoro della sezione clienti.
Nel caso in cui la risposta non concordi, il revisore dovrà chiedere alla società soggetta a revisione di effettuare la riconciliazione dei saldi e
all’esito verificare se il saldo esposto in contabilità sia corretto o se, al contrario, il saldo corretto
sia quello risultante dalle scritture contabili del
cliente circolarizzato. In quest’ultimo caso il revisore chiederà di apportare le dovute correzioni
e, in caso di diniego, annoterà l’errore nel foglio
“riepilogo errori” (carta di lavoro dove il revisore
annota tutti gli errori riscontrati al fine di poter
determinare la tipologia di giudizio da emettere).
Qualora, invece, il cliente circolarizzato non risponda o se la risposta non è valida (ad esempio, risposta non recante la firma del legale
rappresentante della società circolarizzata) il
revisore dovrà porre in essere delle “procedure
alternative” tese ad accertare l’esistenza del
credito, quali:
• l’esame dei pagamenti (anche tramite remote banking) ricevuti dall’azienda successivamente alla data di riferimento della
conferma: è chiaro che se il pagamento è
intervenuto integralmente il revisore può
concludere per l’esistenza del credito;
• controllo dei crediti sulla base dei documenti relativi alle operazioni che li hanno
originati. Ad esempio, partendo dalla registrazione contabile si può risalire ai documenti di riferimento quali contratto, ordine,
conferma d’ordine, documento di trasporto,
fattura, corrispondenza, e-mail, ecc.
È importante sottolineare che per tutti i soggetti circolarizzati bisogna dare risposta in termini di test. Completate le verifiche descritte il
revisore procede a riepilogare gli esiti della circolarizzazione in una apposita carta di lavoro.
ESEMPIO DI ESITO CIRCOLARIZZAZIONE CLIENTI
ABC SPA
wp C-4
31-dic-15
Circolarizzazione clienti
Prep. da:
MR
gg/mm/aa
Riv. da:
AB
gg/mm/aa
Riv. da:
SG
gg/mm/aa
Euro
CIRCOLARIZZAZIONE DEI CLIENTI
DATA DI CIRCOLARIZZAZIONE:
31.12.15
Per la selezione dei clienti si rimanda al wp C-5
87
N°
CLIENTE
It/
Saldo
Est
Co.Ge.
Risposte
In accordo
Riconciliate
Proc. Alternat.
Ref.
1
1
Cliente A
It
84.728
v
84.728
C-09
2
1
Cliente B
It
27.797
v
27.797
C-10
3
1
Cliente C
It
15.944
v
15.944
4
1
Cliente D
Est
4.487
v
4.487
5
1
Cliente E
Est
1.743
v
5.385
6
1
Cliente F
It
48.233
v
48.233
C-13
7
1
Cliente G
Est
20.114
v
20.114
C-14
8
1
Cliente H
Est
57.089
v
57.089
C-15
9
1
Cliente I
It
134.311
v
134.311
10
1
Cliente L
Est
77.625
v
11
2
Cliente M
It
118.342
v
12
2
Cliente N
Est
106.528
v
106.528
13
1
Cliente O
Est
32.322
v
32.322
14
Cliente P
Est
66.894
v
15
Cliente Q
It
88.959
16
Cliente R
It
123.210
17
Cliente S
It
177.917,32
C-11
z
z
C-16
C-12
77.625
118.342
C-17
z
z
66.894
C-18
v
88.959
C-19
v
123.210
C-20
v
177.917
1.186.244
963.539
C-21
77.625
148.722
1.189.886
v Come da partitario clienti al 31 dicembre 2015 - vedi wp C-5-2
z Per le procedure alternative vedi wp C-6
SOMMARIO DEI RISULTATI DELLA CIRCOLARIZZAZIONE:
RISPOSTE
in accordo
riconciliate
procedure alternative
Totale circolarizzato
%
81%
7%
13%
100%
Note
15
Cliente Q
It
88.959
v
88.959
C-19
16
Cliente R
It
123.210
v
123.210
C-20
17
Cliente S
It
177.917,32
v
177.917
1.186.244
963.539
C-21
77.625
148.722
1.189.886
v Come da partitario clienti al 31 dicembre 2015 - vedi wp C-5-2
z Per le procedure alternative vedi wp C-6
SOMMARIO DEI RISULTATI DELLA CIRCOLARIZZAZIONE:
RISPOSTE
in accordo
riconciliate
procedure alternative
Totale circolarizzato
%
81%
7%
13%
100%
Conclusioni sui risultati della circolarizzazione : La circolarizzazione ha dato esito positivo, con risposte complessive pari al 88%,
tra risposte in accordo e risposte riconciliate. Dalle procedure alternative effettuate nel caso di mancata risposta (vedi wp C-6 e
segg.) e dall'analisi della riconciliazione dei clienti non in accordo non sono emerse problematiche circa l'esistenza, accuratezza e
competenza dei crediti commerciali verso terzi iscritti nel bilancio 2015.
Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
per presentare una situazione economica
VERIFICA DELLE
migliore.
OPERAZIONI SUCCESSIVE
ALLA CHIUSURA
DI BILANCIO
L’ACCERTAMENTO
DELLA CORRETTA
Altra procedura di verifica dell’esistenza dei
VALUTAZIONE
crediti è quella consistente nella verifica delle
88
operazioni intervenute immediatamente dopo
la chiusura dell’esercizio.
Il revisore dovrà sottoporre a verifica le operazioni di contabilizzazione dei crediti (eventualmente a campione) registrate successivamente alla chiusura dell’esercizio.
In particolare è importante identificare le
note credito emesse, le note debito ricevute e gli abbuoni e premi concessi nel periodo
che intercorre tra la data di chiusura dell’esercizio ed il completamento delle attività
di revisione, al fine di indagare i motivi che
hanno negato o ridotto in tutto o in parte il
credito iscritto in bilancio.
Molte frodi contabili nascono, in periodi di crisi, dall’esigenza di “gonfiare” i ricavi tramite
emissione di fatture anticipate o per forniture
o prestazioni non effettuate. A volte tale procedura viene utilizzata anche per ottenere anticipi bancari su fatture creando disponibilità
finanziarie non giustificate.
A tale ultimo scopo è utile indagare la presenza di eventuali conti transitori che sono
lo strumento contabile utilizzato per ottenere doppie anticipazioni sulla stessa fattura o
doppie emissioni di ricevute bancarie da anticipare in banca.
Occorre fare, inoltre, attenzione alle politiche utilizzate dall’azienda in materia di premi a clienti. Potrebbe, infatti, accadere che a
fronte di premi maturati nell’esercizio sottoposto a revisione l’azienda decida di postergare il minor ricavo all’esercizio successivo
Il conseguimento di tale obiettivo di revisione
comporta lo svolgimento di molteplici procedure tese ad accertare aspetti che influenzano
la valutazione dei crediti o, meglio, del fondo
svalutazione crediti.
Un aspetto critico che spesso contraddistingue le PMI è quello di non avere una procedura formalizzata per la determinazione
del fondo svalutazione crediti. La prassi
invalsa è quella di determinare il fondo svalutazione crediti sulla base della normativa
fiscale.
In queste circostanze il revisore procede, spesso, con approccio di tipo mirato, a rideterminare l’ammontare del fondo svalutazione crediti.
A tale scopo una delle procedure percorribili è
quella di indagare:
• i crediti in contenzioso;
• i crediti scaduti per fascia di anzianità;
• i crediti non scaduti (cosiddetti vivi).
L’ANALISI DEI CREDITI IN CONTENZIOSO
A tale fine, il revisore deve acquisire l’elenco
delle pratiche dei crediti in sofferenza dall’azienda, sia se passati al legale, ad agenzie di
recupero o meno, con l’indicazione delle svalutazioni effettuate dall’azienda.
Il revisore dovrà, quindi, esaminare se la valutazione del presumibile valore di realizzo fatta
dall’azienda sia adeguata o meno.
Una procedura di revisione fondamentale a
tale fine è l’acquisizione diretta dai legali di
informazioni sullo stato del contenzioso.
ESEMPIO DI LETTERA DA INVIARE AI LEGALI SUI CREDITI IN CONTENZIOSO
Carta intestata
(Luogo, data)
Spettabile Studio legale
_______________________
_______________________
Alla c.a. dell’Avvocato ______
PEC: __________________
il nostro revisore legale:
Dott. AB
Indirizzo _______________
Telefono n. _________ Fax n. _________ e mail _________
PEC: __________________
sta effettuando la revisione del nostro bilancio al 31 dicembre 20XX per cui La preghiamo di
fornirgli le seguenti informazioni:
1. un elenco al 31 dicembre 20XX di tutte le controversie e cause in corso, delle controversie
intimate o di imminente inizio, di ogni altra passività potenziale e di qualsiasi evento successivo a tale data che sia connesso a quanto detto, dei quali Lei è a conoscenza in virtù di uno
specifico incarico professionale conferito dalla Società, ovvero in virtù di informativa fornitaLe ai fini del possibile conferimento di un incarico;
2. la preghiamo di indicare per ogni pratica elencata:
- la descrizione della controversia, della situazione attuale e, se relativa a recupero di nostri crediti, la possibilità di recupero del credito. L’evidenziazione delle passività potenziali, ecc., valutando il rischio di soccombenza alla luce della seguente classificazione: rischio probabile, rischio
possibile ovvero rischio remoto;
- la sua opinione riguardo al presunto esito finale, con la quantificazione dell’eventuale onere
per la società (includendo anche le spese processuali, le spese legali, ecc.), nonché l’eventuale
coinvolgimento in giudizio di soggetti con i quali la società ha stipulato una polizza assicurativa;
3. l’importo dei Suoi onorari e delle spese maturate a nostro carico per i quali alla data del 31
dicembre 20… non sia stata ancora emessa fattura o altro documento di addebito.
Il completamento della verifica da parte del nostro revisore richiede che la Sua risposta pervenga al revisore entro il _____.
Ai sensi del d.lgs. 196/2003, Vi informiamo che i dati assunti dal revisore saranno utilizzati
esclusivamente ai fini della revisione contabile del nostro bilancio.
Società
___________________
Legale rappresentante
___________________
Dall’analisi delle risposte fornite dai legali e
dalle altre informazioni reperite il revisore
potrà formarsi un giudizio circa la congruità
degli stanziamenti a fondo svalutazione crediti operati dall’azienda.
89
Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
90
L’ANALISI DELL’AGEING DEI CREDITI
Altro step per la verifica della corretta determinazione del fondo svalutazione crediti e di
conseguenza del valore dei crediti esposto in
bilancio è quello dell’esame dell’anzianità dei
crediti. Di norma il revisore acquisisce un tabulato riportante i crediti per fascia di anzianità, del tipo:
• non scaduti;
• scaduti da 3, 6, 9 mesi;
• scaduti da 1 anno;
• scaduti da più di 1 anno;
• incassi avvenuti nel corso dell’esercizio successivo.
Poiché il tabulato è fornito dalla società, il
revisore dovrà operare appositi test, anche a
campione, per verificare se lo stesso mostri
dati corretti. Tale analisi va effettuata selezionando alcuni clienti e verificando la corretta
esposizione del relativo credito nella pertinente fascia di scaduto.
È evidente che i crediti scaduti da più tempo hanno una maggiore probabilità di insolvenza ma, in periodi di crisi, è bene porre la
dovuta attenzione anche ai crediti non scaduti. Potrebbe, infatti, accadere che l’impresa cliente abbia subito effetti negativi dalla
crisi e sia caduta in situazioni di potenziale
insolvenza.
Il revisore procede, dunque, ad analizzare la
congruità del fondo svalutazione crediti stanziato dalla società rispetto all’analisi dello scaduto, utilizzando, magari, come benchmark le
perdite storiche subite dalla società nel triennio o quinquennio precedente.
L’ANALISI DEI CREDITI VIVI
E LA DETERMINAZIONE
DELLA RISERVA GENERICA
Raramente accade che nelle società, soprattutto di minori dimensioni, si proceda
a stimare una quota di inesigibilità che potrebbe essere insita nei crediti non ancora
scaduti alla chiusura del bilancio. In realtà, il
principio contabile nazionale di riferimento
(OIC 15) richiede anche tale tipo di analisi.
Ragion per cui il revisore di norma procede
a determinare l’eventuale quota di inesigibilità raffrontando le perdite storiche con i
crediti e applicando la percentuale scaturente ai crediti vivi alla chiusura di bilancio
(non incassati successivamente) o tramite
altre tecniche che mettono, ad esempio, a
raffronto con le perdite storiche i ricavi al
posto dei crediti.
L’ACCERTAMENTO
DELLA CORRETTA
COMPETENZA
ECONOMICA
DELLE OPERAZIONI
CHE HANNO GENERATO
I CREDITI (IL TEST
DI CUT OFF)
Le procedure per accertare il rispetto del principio di competenza economica sono del tutto
analoghe a quelle che si applicano per il monitoraggio delle giacenze di magazzino (test di
cut off).
Il revisore dovrà innanzitutto determinare quale periodo temporale prendere a base
per verificare la competenza economica delle
vendite.
Il periodo da assoggettare a verifica dipende, di norma, dalla tipologia di business
aziendale (consegne con tempi lunghi, tipo
export) e dalla contrattualistica usata nelle
spedizioni o consegne (clausole cosiddette
Incoterms: FOB, CIF, Ex Works, ecc.).
Definito l’intervallo temporale da prendere a
base, il revisore dovrà acquisire:
• i documenti di trasporto relativi alle merci spedite immediatamente prima e dopo la
chiusura dell’esercizio;
• le fatture a clienti emesse immediatamente
prima e dopo la chiusura dell’esercizio;
• le condizioni contrattuali di vendita (rilevabili, tra l’altro, da ordini del cliente e conferma d’ordine).
ESEMPIO TEST DI CUT OFF VENDITE
ABC SPA
wp C-33
31-dic-15
Cut-off vendite 2015
Prep. da:
MR
Prep. da:
AB
gg/mm/aa
gg/mm/aa
Prep. da:
SG
gg/mm/aa
Euro
Lavoro svolto: come previsto dal programma di lavoro, abbiamo richiesto alla società il dettaglio delle vendite effettuate nei mesi di
novembre e dicembre 2015 (vedi wp C-34) ed abbiamo selezionato le fatture selezionate negli ultimi due mesi dell'esercizio di
seguito elencate, con l'obiettivo di verificare la rilevazione delle stesse nel 2015, nel rispetto del principio della competenza. Per i
criteri e i metodi di selezione si rinvia a wp C-34. Per le verifiche relative alle registrazioni manuali e/o inusuali ed ai contratti
significativi, si rinvia a wp C-35.
Fattura
Item
Importo
Documento uscita
Controlli
Data
No
Cliente
Numero
1
03/11/15
……..
158.400
……………………
v
x
Data
w
……..
2
08/11/15
……..
172.300
……………………
v
……..
x
z
……..
3
09/11/15
……..
212.400
……………………
……..
v
x
w
……..
4
09/11/15
……..
……..
……..
……………………
v
x
w
……..
5
……..
……..
……..
……..
……………………
v
x
w
……..
6
……..
……..
……..
……..
……………………
v
x
w
……..
7
……..
……..
……..
……..
……………………
v
x
w
……..
……..
8
……..
……..
……..
……………………
v
x
w
……..
……..
9
……..
……..
……..
……………………
v
x
z
……..
……..
10
……..
……..
……..
……………………
v
x
w
……..
……..
11
……..
……..
……..
……………………
v
x
w
……..
……..
12
……..
……..
……..
……………………
v
x
w
……..
……..
13
……..
……..
……..
……………………
v
x
w
……..
……..
14
……..
……..
……..
……………………
v
x
z
……..
……..
v Vista fattura di vendita, in linea con la registrazione contabile selezionata.
x Verificato documento uscita merce. La vendita risulta di competenza 2015.
w Vista conferma d'ordine. Niente da rilevare, la vendita risulta rilevata per competenza.
Visto il contratto con il cliente. La vendita risulta rilevata per competenza, dalla lettura del contratto non
z
sono emerse condizioni o clausole anomale.
Commenti e conclusioni: dalle verifiche effettuate non sono emersi rilievi o anomalie. Le vendite risultano rilevate in bilancio nel
rispetto del principio della competenza.
ANALISI DELLE NOTE DI CREDITO
EMESSE E DELLE NOTE DI DEBITO
RICEVUTE NELL’ESERCIZIO SUCCESSIVO
Un altro importante controllo che deve effettuare il revisore per accertare la competenza economica dei ricavi è quello di
analizzare le note di credito emesse dall’azienda e le note di debito ricevute che fanno riferimento all’esercizio oggetto di revisione.
Tale controllo, utile anche per la posta di bilancio delle rimanenze (resi su vendite; premi ecc.),
consente al revisore di indagare sui motivi che
hanno determinato l’emissione del documento
contabile e sul corretto trattamento contabile
e di bilancio.
Può accadere, soprattutto nei periodi di crisi,
che la società, al fine di migliorare i propri
risultati e lo standing creditizio, abbia contabilizzato ricavi a fronte di consegne non fatte
o per importi superiori a quelli concordati.
Potrebbe anche accadere che la società non
abbia proceduto a contabilizzare il debito per
note credito da emettere a fronte di premi,
sconti e abbuoni maturati dai clienti a fronte
di ricavi contabilizzati nell’esercizio oggetto
di revisione.
Ai fini del controllo dell’asserzione della completezza, il revisore procede anche alla verifica dei contratti dai quali possono scaturire
premi, abbuoni, ecc., per sincerarsi che le obbligazioni scaturenti siano state riflesse correttamente e in modo completo in contabilità
e in bilancio.
91
Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
92
L’ACCERTAMENTO
DELLA CORRETTA
ESPOSIZIONE
IN BILANCIO
• l’evidenziazione di vincoli, garanzie, ecc., sui
crediti;
• l’esistenza di saldi creditori compensati nel
saldo totale.
Il controllo degli obiettivi di esistenza e corretta valutazione dei crediti di norma consente al revisore di raccogliere adeguati e sufficienti elementi probativi anche per l’obiettivo
della corretta esposizione in bilancio, secondo
le norme di legge e gli statuiti principi contabili.
Alcuni elementi sui quali porre particolare attenzione sono:
• la corrispondenza tra la descrizione della
voce di bilancio e i crediti in essa iscritti
(crediti verso clienti, verso società controllate, collegate, ecc.);
L’ACCERTAMENTO
DELL’UNIFORMITÀ
DEI PRINCIPI
CONTABILI
La verifica di questo obiettivo di revisione avviene mediante opportuni raffronti tra:
• contenuto e classificazione delle voci iscritte tra i crediti;
• metodi adottati per la valutazione dei crediti e quindi per la determinazione delle
perdite su crediti e dell’accantonamento al
fondo svalutazione crediti.
/ Temi
professionali
06
Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
6. Temi
professionali
94
DELITTI IN MATERIA
DI DOCUMENTI
E PAGAMENTO DI IMPOSTE
E DISPOSIZIONI COMUNI: LE
NOVITÀ DEL DLGS. 158/2015
Dopo aver dato conto nel precedente articolo di come il DLgs. 24.9.2015 n. 158 ha
significativamente modificato il sistema dei reati fiscali in tema di dichiarazione,
questo intervento illustra la rimodulazione dei delitti in materia di documenti e
pagamento di imposte; il nuovo sistema di incentivazione al pagamento, totale o
parziale del debito tributario; le circostanze del reato, la prescrizione e la confisca.
/ Stefano COMELLINI *
DELITTI IN MATERIA
DI DOCUMENTI
E PAGAMENTO
DI IMPOSTE
I “delitti in materia di documenti e pagamento
di imposte” (Titolo II - Capo II del DLgs. 74/2000)
sono stati oggetto di revisione per una rimodulazione delle fattispecie di cui agli artt. 10 (“Occultamento o distruzione di documenti contabili”), 10-bis (“Omesso versamento di ritenute
dovute o certificate”), 10-ter (“Omesso versamento di IVA”) e 10-quater (“Indebita compensazione”) intervenuta, talora sotto il profilo della
rilevanza penale, per l’innalzamento della soglia
di punibilità; talora sotto il profilo repressivo,
per l’aggravamento della sanzione detentiva.
*
OCCULTAMENTO O DISTRUZIONE
DI DOCUMENTI CONTABILI (ART. 10)
L’art. 10 del DLgs. 74/2000 punisce, salvo che
il fatto costituisca più grave reato, “chiunque,
al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ovvero di consentire l’evasione
a terzi, occulta o distrugge in tutto o in parte le scritture contabili o i documenti di cui è
obbligatoria la conservazione, in modo da non
consentire la ricostruzione dei redditi o del volume di affari”. All’esito della revisione normativa1, la fattispecie ha mantenuto inalterata
la struttura dell’illecito – che risale all’art.
4 lett. b) della previgente L. 516/1982 – con
una condotta punibile, di tipo commissivo, che
consiste ancor oggi nella distruzione o nell’occultamento, totale o parziale, delle scritture e
dei documenti obbligatori.
Avvocato
1 Relazione illustrativa al DLgs. 158/2015, p. 2: “La circostanza che la legge di delegazione parli di «revisione», e non già di «riforma» o di «riscrittura» del diritto penale tributario, lascia intendere come l’intervento debba comunque muoversi entro le coordi-
Sul punto, la Giurisprudenza è costante2 nel
ritenere la portata delle distinte condotte
di distruzione e occultamento, affermando
che, a differenza della “distruzione”, ipotesi di
reato istantaneo che si consuma al momento della soppressione della documentazione,
l’“occultamento” – quale temporanea o definitiva indisponibilità della documentazione da
parte degli organi verificatori – costituisce un
reato permanente che si integra nel momento
dell’ispezione, ovvero finché ne è consentito
il controllo da parte degli organi verificatori, allo spirare dei termini previsti dalle leggi
tributarie per l’accertamento dell’ammontare
dei redditi o del volume d’affari.
Un’isolata, discutibile, pronuncia della Suprema Corte ha ricondotto alla fattispecie in esame anche il mero rifiuto di esibizione3. Non vi
rientra, invece, la mancata tenuta delle scritture contabili obbligatorie che è sanzionata, in
via meramente amministrativa, dall’art. 9 del
DLgs. 471/1997, come modificato dallo stesso
DLgs. 158/20154.
La legge di revisione si è limitata ad un innalzamento della pena, ora da un anno e sei
mesi fino a sei anni di reclusione. La natura permanente del reato di “occultamento”
comporterà l’applicazione della più gravosa
sanzionabilità per tutte quelle condotte in
corso all’entrata in vigore della revisione.
OMESSO VERSAMENTO DI RITENUTE
DOVUTE O CERTIFICATE (ART. 10-BIS)
L’intervento sull’art. 10-bis del DLgs. 74/2000
ha riguardato, da un lato, l’oggetto della
condotta punibile che ora concerne l’omesso
versamento – oltre che delle ritenute certificate ai sostituiti – anche di quelle dovute sulla
base della dichiarazione annuale del sostituto;
dall’altro, l’innalzamento della soglia di punibilità da cinquantamila a centocinquantamila
euro per ciascun periodo di imposta.
La modifica della fattispecie – ripresa anche
nella rubrica dell’articolo – deriva, come è stato correttamente evidenziato 5, dal contrasto
creatosi all’interno della giurisprudenza di
legittimità in ordine alla prova dell’elemento
costitutivo del reato.
Si era, infatti, affermato6 che, per il reato di
omesso versamento di ritenute certificate,
spettasse all’accusa l’onere di provare i due
elementi costitutivi della fattispecie – effettuazione della ritenuta e successiva emissione
della certificazione – senza potersi avvalere
del solo contenuto del Modello 770, idoneo a
provare il mancato versamento delle ritenute ma non il rilascio delle certificazioni. Tale
orientamento si poneva in palese contrasto rispetto a quella consolidata giurisprudenza per
la quale la modalità di prova del rilascio delle
certificazioni poteva essere liberamente fornita dall’accusa, testimonialmente o anche mediante il solo Modello 770, non rispondendo
a criteri logici dichiarare quanto non è stato
corrisposto e, per ciò stesso, certificato7.
La modifica normativa – con l’estendere la
condotta omissiva, oltre che alle ritenute
“certificate”, anche a quelle “dovute” – ha
inteso risolvere il contrasto giurisprudenziale.
Tuttavia, come si è correttamente osservato,
l’intervento di revisione della fattispecie potrebbe ravvivare sul punto la questione del ne
bis in idem in materia penal-tributaria.
Infatti, a fronte dell’illecito penale in esame,
vi è la fattispecie tributaria di cui all’art. 13
comma 1 del DLgs. 471/1997 8, ove si prevede
nate di fondo del sistema vigente, delineate dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, a cominciare da quelle della preminente
focalizzazione della risposta repressiva sul momento dell’«auto-accertamento» del debito di imposta, ossia della dichiarazione”.
2 Da ultimo, Cass. pen. 22.1.2015 n. 2859, in Banca Dati Eutekne.
3 Cass. pen. 28.10.2010 n. 38224, in Banca Dati Eutekne.
4 Cass. pen. 6.7.2015 n. 28581, in Banca Dati Eutekne.
5 Corte di Cassazione, Ufficio del Massimario - Settore penale - Rel. n. III/05/2015 del 28.10.2015, p. 25.
6 Cass. pen. 1.10.2014 n. 40526, in Banca Dati Eutekne.
7 Cass. pen. 11.1.2013 n. 1443, in Banca Dati Eutekne.
8 Come modificato dal DLgs. 158/2015: “Chi non esegue, in tutto o in parte, alle prescritte scadenze, i versamenti in acconto,
i versamenti periodici, il versamento di conguaglio o a saldo dell’imposta risultante dalla dichiarazione, detratto in questi casi
l’ammontare dei versamenti periodici e in acconto, ancorché non effettuati, è soggetto a sanzione amministrativa pari al trenta
95
Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
96
la sanzione amministrativa per l’omissione dei
versamenti dovuti “alle prescritte scadenze”.
La materia era già stata valutata in autorevole
sede9 con la conclusione di una legittima coesistenza, in termini di progressività, tra le due
fattispecie, tributaria e penale, nelle quali – pur
a fronte di una identità parziale dei requisiti
(erogazione di somme comportanti l’obbligo di
effettuazione delle ritenute alla fonte e di versamento delle stesse all’erario con le modalità
stabilite) e della condotta (omissione di uno
o più dei versamenti mensili dovuti) – si ravvisava una divergenza strutturale dovuta, tra
l’altro, al requisito della “certificazione” delle
ritenute, richiesto per il solo illecito penale.
Tuttavia, la Corte europea dei diritti dell’uomo10, considera violato il principio del divieto
di bis in idem, sancito dall’art. 4, Prot. 7, CEDU,
qualora imputato in un procedimento penale
sia un soggetto già sottoposto, per il medesimo fatto, a un procedimento per l’applicazione di una sanzione che, ancorché formalmente
non qualificata come penale dall’ordinamento
interno, abbia “natura” di sanzione penale11.
D’altronde, il primo comma dell’art. 19 (“Principio di specialità”) del DLgs. 74/2000, lasciato immutato dalla revisione normativa in esame, nel
prevedere che se un determinato fatto è idoneo
a configurare la violazione di due disposizio-
ni che prevedono una sanzione amministrativa
ed una penale deve essere applicata quella che
presenta caratteri di specialità rispetto all’altra,
risponde (in linea con il dictum del legislatore
europeo, ma anche dell’art. 649 c.p.p.), alla medesima ratio del principio del ne bis in idem, volendo essa evitare che lo stesso soggetto possa
essere sanzionato due volte per lo stesso fatto.
Da ultimo, si rilevi che il cospicuo innalzamento della soglia di punibilità – da cinquantamila a centocinquantamila euro – comporterà, in pendenza del procedimento penale,
il proscioglimento dell’agente per sopravvenuta irrilevanza penale della condotta 12.
OMESSO VERSAMENTO DI IVA
(ART. 10-TER)
L’art. 10-ter del DLgs. 74/2000 è stato interessato dall’intervento del legislatore delegato,
al di là di una diversa formulazione lessicale
dovuta allo sganciamento sanzionatorio dalla
fattispecie di cui al precedente art. 10-bis, per
il solo innalzamento della soglia di punibilità da cinquantamila a duecentocinquantamila euro per ciascun periodo di imposta.
Il legislatore delegato ha ritenuto, infatti, sufficienti, al di sotto della soglia, le sanzioni amministrative di cui all’art. 13 del DLgs. 471/199713;
“sanzioni che in base al corrente orientamento
per cento di ogni importo non versato, anche quando, in seguito alla correzione di errori materiali o di calcolo rilevati in sede di
controllo della dichiarazione annuale, risulti una maggiore imposta o una minore eccedenza detraibile. Per i versamenti effettuati
con un ritardo non superiore a novanta giorni, la sanzione di cui al primo periodo è ridotta alla metà. Salva l’applicazione dell’articolo 13 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472, per i versamenti effettuati con un ritardo non superiore a quindici giorni,
la sanzione di cui al secondo periodo è ulteriormente ridotta a un importo pari a un quindicesimo per ciascun giorno di ritardo”.
9 Cass. pen. SS.UU. 12.9.2013 n. 37425, in Banca Dati Eutekne.
10 Corte Europea dei diritti dell’uomo 4.3.2014 n. 18640/10, Grande Stevens e altri c. Italia, in Banca Dati Eutekne. Sull’importante pronuncia, cfr. Flick G.M., Napoleoni V. “Cumulo tra sanzioni penali e amministrative: doppio binario o binario morto?
«Materia penale» giusto processo e ne bis in idem nella sentenza della Corte EDU del 4 marzo 2014 sul market abuse”,
www.aic.it, 3, 2014; Desana E. “Procedimento CONSOB e ne bis in idem: respinta l’istanza di rinvio”, Giur. It., 2014, p. 7 ss.;
Allena M. “Il caso Grande Stevens c. Italia: le sanzioni Consob alla prova dei principi Cedu”, Giorn. dir. amm., 2014, p. 1053 ss.;
Galantini N. “Divieto di bis in idem - Il principio del bis in idem tra doppio processo e doppia sanzione”, Giur. It., 2015, p. 215
ss.; Lavarini B. “Corte europea dei diritti umani e ne bis in idem: la crisi del «doppio binario» sanzionatorio”, Dir. pen. e proc.,
Speciale CEDU e ordinamento interno, 2014, p. 82 ss.
11 La questione dei rapporti tra doppio binario sanzionatorio e principio del ne bis in idem, riferibile alla concorrenza delle disposizioni penali e tributarie alla luce della giurisprudenza europea, ha ripetutamente occupato la giurisprudenza interna.
Si vedano, fra tutte, Cass. pen. 15.1.2015 n. 1782, in Banca Dati Eutekne, in tema di abuso di informazioni privilegiate; Cass.
21.1.2015 n. 950 (manipolazione di mercato), ivi; Trib. Torino 27.10.2014 (omesso versamento di ritenute certificate), ivi; Cass.
pen. 20.7.2015 n. 31378, ivi, per cui non viola il divieto di bis in idem la previsione di un doppio binario sanzionatorio per l’omesso versamento di ritenute previdenziali. Da ultimo, Cass. pen. 15.1.2016 n. 1376, di cui dà conto Artusi M.F. “Beni della persona
fisica confiscati per reati tributari nell’interesse dell’ente”, Il Quotidiano del Commercialista, www.eutekne.info, 18.1.2016.
12 Ci sia permesso richiamare più ampie argomentazioni sul punto in Comellini S. “Dichiarazioni infedeli, omesse e fraudolente: le novità apportate al sistema penale tributario dal DLgs. 158/2015”, in questa Rivista, 12, 2015, pp. 102-118.
13 Cfr. nota 8.
della giurisprudenza di legittimità, si cumulano
alla pena prevista dall’articolo 10-ter del decreto legislativo n. 74 del 2000”14.
Parimenti, anche qui l’innalzamento della soglia di punibilità – da cinquantamila a duecentocinquantamila euro – comporterà il proscioglimento dell’imputato per sopravvenuta
irrilevanza penale della condotta.
INDEBITA COMPENSAZIONE
(ART. 10-QUATER)
Nel testo previgente, la fattispecie di “indebita
compensazione” (art. 10-quater) era concepita
mediante un doppio rinvio normativo, prevedendosi che la disposizione di cui al precedente art. 10-bis si applicasse, nei limiti di soglia
di punibilità ivi previsti, anche a chiunque non
versasse le somme dovute, utilizzando in compensazione, ex art. 17 del DLgs. 241/199715,
crediti “non spettanti” o “inesistenti”16.
Il legislatore delegato, pur mantenendo inalterata la soglia di punibilità (euro cinquantamila), ha riformulato l’art. 10-quater, scomponendo la fattispecie con diverse conseguenze
sanzionatorie a seconda che si portino in compensazione crediti “non spettanti” (reclusione
da sei mesi a due anni) ovvero crediti “inesistenti” (reclusione da un anno e sei mesi a sei anni).
L’attuale diversità delle sanzioni detentive comporta, pertanto, la doverosa analisi delle distinte nozioni di credito “non spettante” e credito
“inesistente”, anche con l’ausilio della giurisprudenza formatasi sul testo previgente della
disposizione in esame.
In particolare, si è precisato che per credito
“non spettante” debba intendersi quel credito che, pur certo nella sua esistenza ed esatto
ammontare, sia, per qualsiasi ragione normativa, ancora non utilizzabile, ovvero non più utilizzabile, in operazioni di compensazione fra il
contribuente e l’erario17.
Il credito “inesistente” è, invece, stato riferito al credito del quale non sussistono gli elementi costitutivi e giustificativi18, ivi compreso quello che spetta a soggetto diverso; quello
sottoposto a condizione sospensiva, fintanto
che questa sia pendente; quello venuto meno
per il verificarsi della condizione risolutiva19.
Il DLgs. 158/2015 ha inserito la disciplina tributaria dell’utilizzo in compensazione di un credito inesistente all’interno del già esaminato20
art. 13 del DLgs. 471/1997, ove ora (comma 5
u.p.), con un’indicazione ristretta all’ambito oggettivo, si definisce “inesistente” il credito “in
relazione al quale manca, in tutto o in parte, il
presupposto costitutivo e la cui inesistenza non
sia riscontrabile mediante controlli di cui agli
articoli 36-bis e 36-ter del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600,
e all’articolo 54-bis del decreto del Presidente
della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633”.
LE “DISPOSIZIONI
COMUNI”
Il Titolo III (“Disposizioni comuni”) del D.Lgs
74/2000 è contraddistinto da un’evidente e
diffusa prospettazione di favore per le esigenze
dell’erario rispetto a quelle meramente repressive e sanzionatorie. Ne scaturisce un impianto
normativo per il quale l’estinzione del debito
può consentire di evitare la condanna (art. 13)
o di diminuire la pena (art. 13-bis), e l’impegno
14 Così la Relazione illustrativa del Governo, p. 9.
15“Norme di semplificazione degli adempimenti dei contribuenti in sede di dichiarazione dei redditi e dell’imposta sul valore
aggiunto, nonché di modernizzazione del sistema di gestione delle dichiarazioni”.
16 Per un’analisi generale della compensazione in materia tributaria, si vedano Messina S.M. “La compensazione nel
diritto tributario”, Giuffrè, Milano, 2006; Basilavecchia M. “Applicabilità immediata della compensazione tributaria”, Corr.
Trib., 2007, p. 40 e ss.; Biondo P. “L’istituto della compensazione in ambito tributario e la presunta indisponibilità dell’obbligazione tributaria”, Rass. trib., 2007, p. 958 e ss.; Girelli G. “La compensazione tributaria”, Giuffrè, Milano, 2010.
17 Cass. pen. 9.9.2015 n. 36393, in Banca Dati Eutekne.
18 Cass. pen. 26.6.2014 n. 3367 (in cui è stato ritenuto penalmente rilevante l’utilizzo nella dichiarazione IVA, di un credito
esistente ma detraibile solo nell’anno successivo), in Banca Dati Eutekne, confermata da Cass. n. 36393/2015, cit.
19 Cass. n. 3367/2014, cit.
20 Retro, p. 96.
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Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
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ad estinguere il debito può permettere di evitare la confisca (art. 12-bis comma 2).
L’incentivazione a condotte resipiscenti passa
per un sistema complesso che si può sintetizzare come di seguito.
L’estinzione del complessivo debito tributario,
a seguito di ravvedimento operoso o di presentazione della dichiarazione omessa entro
il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo, e
comunque prima che l’autore del reato abbia
avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività
di accertamento amministrativo o di procedimenti penali, rende non punibili i reati di falsa
e omessa dichiarazione di cui agli artt. 4 e 5
DLgs. 74/2000 (art. 13 comma 2).
Prima dell’apertura del dibattimento di primo
grado, l’integrale estinzione del debito tributario, da un lato, rende non punibili i reati di
cui agli artt. 10-bis, 10-ter e 10-quater comma 1 del DLgs. 74/2000 (art. 13 comma 1);
dall’altro, comporta un’attenuazione di pena
fino alla metà per gli altri reati tributari di
cui allo stesso decreto (art. 13-bis comma 1).
Qualora le pendenze con l’Amministrazione
risultino in fase di estinzione mediante rateizzazione, può richiedere un termine di tre
mesi per il pagamento del debito residuo (art.
13 ultimo comma).
Prima della pronuncia della sentenza definitiva di condanna, l’integrale estinzione del debito tributario permette di evitare la confisca,
mentre la sua parziale estinzione consente di
diminuire proporzionalmente il quantum vincolabile; e tali risultati – ex art. 12-bis comma 2 – sono oggi rispettivamente praticabili
anche a fronte un “impegno” ad estinguere in
tutto o in parte il debito tributario.
IL PAGAMENTO DEL DEBITO TRIBUTARIO
QUALE CAUSA DI NON PUNIBILITÀ (ART. 13)
Uno dei punti qualificanti dell’intervento di
revisione è di certo contenuto nel corpo del
nuovo art. 13 che ora è rubricato “Causa di non
punibilità. Pagamento del debito tributario”.
Il pagamento del debito tributario che nel testo previgente costituiva il presupposto di circostanza attenuante della pena diviene ora, se
integrale e corredato dall’assolvimento delle
sanzioni amministrative e degli interessi, una
speciale causa di non punibilità per alcuni
reati del DLgs. 74/2000.
Si tratta, in primis (art. 13 comma 1), dei reati di
cui agli articoli 10-bis (“Omesso versamento di
ritenute dovute o certificate”), 10-ter (“Omesso versamento di IVA”) e 10-quater, comma
1, (“Indebita compensazione” per crediti “non
spettanti”).
La Relazione governativa spiega la causa di
non punibilità per tali fattispecie in considerazione della loro particolare natura, concernente inadempimenti di debiti tributari preventivamente e correttamente indicati; così che, a
fronte della successiva integrale regolarizzazione nei termini prescritti, è parsa sufficiente
la sola sanzione amministrativa.
Affinché operi la causa di non punibilità per
detti reati è necessario, come supra si è anticipato, che prima della dichiarazione di
apertura del dibattimento di primo grado,
i debiti tributari, comprese le sanzioni amministrative e gli interessi, siano stati estinti
mediante l’integrale pagamento degli importi dovuti, anche utilizzando le speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie, nonché
il ravvedimento operoso.
Invece, per i reati di cui agli artt. 4 (“Dichiarazione infedele”) e 5 (“Omessa dichiarazione”), la
causa di non punibilità richiede, oltre al pagamento integrale del debito tributario, comprese
le sanzioni e gli interessi, che il ravvedimento
operoso o la presentazione della dichiarazione
omessa, entro il termine di presentazione della
dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo, siano frutto di spontanea resipiscenza;
vale a dire, che si realizzino prima che l’autore
del reato abbia avuto formale conoscenza di
accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo
o di procedimenti penali (art. 13, comma 2).
Secondo la nuova formulazione dell’art. 13
del DLgs. 74/2000, il termine prescrizionale è
sospeso, qualora venga concesso, prima della
dichiarazione di apertura del dibattimento di
primo grado, il termine di tre mesi, eventualmente prorogabile per una sola volta, per il
saldo del pagamento, già rateizzato, del debito tributario21.
LE CIRCOSTANZE DEL REATO (ART. 13-BIS)
Il primo comma del nuovo art. 13-bis DLgs.
74/2000 prevede che l’estinzione del debito
tributario intervenuta prima dell’apertura del
dibattimento, mediante integrale pagamento
degli importi dovuti (anche a seguito delle
speciali procedure conciliative e di adesione
previste dalle norme tributarie), fuori dai casi
in cui integra la causa di non punibilità di cui
al precedente art. 13, costituisce una circostanza attenuante ad effetto speciale22 –
con riduzione sino alla metà della sanzione
edittale – ed esclude l’applicazione delle pene
accessorie previste all’art. 12.
Il secondo comma conferma il previgente limite all’istituto dell’applicazione della pena
su richiesta (art. 444 c.p.p., c.d. “patteggiamento”), condizionandolo al pagamento del
debito tributario ovvero al ravvedimento operoso23.
La previsione riguarda solo le fattispecie diverse da quelle di cui agli artt. 10-bis, 10ter e 10- quater, per le quali il pagamento
complessivo del debito tributario intervenuto
prima della dichiarazione di apertura del dibattimento vale già come causa di non punibilità (art. 13 comma 1); nonché per i delitti di
dichiarazione infedele ed omessa dichiarazione, quando il ravvedimento interviene spontaneamente, prima della formale conoscenza
dell’accertamento o del procedimento (art. 13
comma 2).
Non compare più, all’esito della revisione, il
divieto per il giudice di tenere conto della
diminuzione di pena conseguente all’attenuante del pagamento del debito tributario ai fini della sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria, ex art. 53 L.
24.11.1981 n. 689.
LA CIRCOSTANZA AGGRAVANTE
DELL’ELABORAZIONE PROFESSIONALE
DI MODELLI “SERIALI” DI EVASIONE
(ART. 13-BIS COMMA 3)
Il legislatore delegato ha introdotto una specifica circostanza aggravante che aumenta
della metà le pene stabilite per i reati previsti
nel DLgs. n. 74/2000 qualora il reato sia commesso, in concorso con il soggetto agente,
da un professionista o da un intermediario
finanziario o bancario, nell’esercizio dell’attività di consulenza fiscale svolta attraverso
l’elaborazione o la commercializzazione di
modelli di evasione fiscale (art. 13-bis comma 3).
La questione del concorso del professionista
nel reato, tributario ma non solo, del cliente è
stata ampiamente considerata in ambito giurisprudenziale.
La necessità della consulenza in materia fiscale, derivante dalla crescente complessità normativa e dalla continua necessità di aggiornamento tecnico, costringono il contribuente ad
avvalersi dell’opera di un professionista, vuoi
per evitare sanzioni, vuoi per contenere, attraverso operazioni lecite, l’importo del contributo da versare.
Ne deriva che al consulente potrebbe estendersi, a determinate condizioni, l’eventuale responsabilità penale, quale extraneus nel reato
proprio del cliente.
La giurisprudenza, formatasi sotto la vigenza
della L. 516/1982, aveva più volte affermato
che il professionista che si spinge oltre ai suoi
doveri deontologici e giunge a consigliare la
formazione piuttosto che prestarsi personalmente a costruire mezzi fraudolenti finalizzati
ad un abbattimento del reddito imponibile, risponde assieme al contribuente della relativa
fattispecie penale.
Il contributo del consulente può costituire un
apporto materiale qualora consista in un in-
21 Infra, in tema di prescrizione, p. 100 ss.
22 Art. 63 co. 3 u.p. c.p.: “Sono circostanze ad effetto speciale quelle che importano un aumento o una diminuzione della pena superiore ad un terzo”.
23 La Corte Costituzionale (sent. n. 95/2015) ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 13
co. 2-bis del DLgs. 74/2000 nel testo previgente, con riferimento all’applicabilità del “patteggiamento” solo a fronte del
pagamento del complessivo debito tributario.
99
Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
100
tervento empirico che agevoli l’esecuzione del
reato 24.
Nessuna responsabilità può invece essere
imputata al professionista che si limita ad
illustrare al cliente diverse soluzioni possibili, mettendo in evidenza gli effetti positivi
e negativi della scelte affinché il cliente possa autodeterminarsi con consapevolezza. In
quest’ultimo caso, in capo al professionista
sarebbe semmai configurabile una mera connivenza, intesa come conoscenza del consulente della circostanza che il cliente intende
porre in essere un illecito e l’esclusione di responsabilità discende dall’inesistenza in capo
al professionista di una posizione di garanzia25, ossia del dovere di impedire un reato.
La riflessione sulla fattispecie concorsuale
deve riguardare anche la natura dei reati tributari, contraddistinti dal dolo specifico di
evasione.
Sia la Dottrina che la Giurisprudenza di legittimità ritengono concordemente che ai
fini della configurabilità del concorso nei reati tributari (e in generale nei delitti a dolo
specifico) è sufficiente che la finalità specifica
sia perseguita da almeno uno dei concorrenti. Pertanto, nel caso in cui si dimostri che il
cliente abbia agito per un fine di evasione è
ininfluente la finalità che ha animato il consulente nella sua condotta agevolativa rilevando esclusivamente che egli fosse cosciente
del proprio comportamento e di interagire
con la condotta del contribuente.
Pertanto, ai fini della configurazione di un
concorso è necessario non solo che il professionista contribuisca con la propria condotta, materiale o morale, ad agevolare ma
che egli, quale extraneus, abbia la consapevolezza di concorrere in un reato proprio e,
di conseguenza, sia consapevole – come non
può non essere – della qualifica dell’intraneus.
In questo contesto, il legislatore delegato ha
previsto una specifica circostanza aggravante ad effetto speciale per il professionista e
per l’intermediario finanziario o bancario che
concorra nel reato fiscale del cliente.
Per “professionista” devono intendersi tutti
coloro che siano abilitati a fornire consulenza
fiscale: quindi, non solo i dottori commercialisti e gli esperti contabili, ma anche avvocati,
notai, ecc.), ed anche a prescindere all’iscrizione o meno in Albi, associazioni o registri.
L’individuazione dell’intermediario finanziario o bancario non genera, invece, particolari
problematiche. Indeterminata – e in ambito
penalistico è pur sempre ragione di criticità –
rimane, invece, la nozione di “elaborazione o
commercializzazione di modelli di evasione
fiscale” su cui neppure la relazione governativa ha inteso soffermarsi demandandone la
determinazione all’ambito giurisprudenziale. Si può ipotizzare che il riferimento sia, ad
esempio, alla messa a disposizione del cliente di società filtro, missing traders e buffers
nell’ambito delle “frodi carosello”, finalizzate
all’evasione dell’IVA; ovvero, l’attività di creazione e di offerta al cliente di particolari strutture giuridiche, quali trust, società anonime,
ecc., per operazioni simulate o fittizie.
LA PRESCRIZIONE (ART. 17)
La revisione normativa ha lasciato inalterato
il testo dell’art. 17 del DLgs. n. 74/2000, non
intervenendo sul regime della prescrizione
dei reati tributari, come modificato a seguito del DL 13.8.2011 n. 138 26.
Con l’inserimento del comma 1-bis nell’art.
17, il termine di prescrizione dei reati previsti
dal DLgs. n. 74/2000 – con l’eccezione delle
fattispecie di cui agli artt. 10-bis (“Omesso
versamento di ritenute dovute o certificate”),
10-ter (“Omesso versamento IVA”), 10-quater
24 È stato ritenuto, ad esempio che “Ai fini della sussistenza del reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti non è
necessario che sia conseguito il risultato di evasione fiscale, ma è sufficiente che esso costituisca lo scopo della falsità; tale
scopo sussiste anche quando il contribuente si proponga soltanto di ritardare il pagamento della imposta dovuta e concorre
perciò nel reato il commercialista che suggerisca al cliente l’emissione di fatture per operazioni inesistenti e la contemporanea emissione di note di accredito correttive, allo scopo di realizzare una temporanea evasione dell’imposta, differendone
artificiosamente i tempi di versamento” (Cass. pen. 8.3.1991, Comm. Trib. Centr., 1991, II, p. 1921).
25 Art. 40 co. 2 c.p.: “Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”.
26 Conv. L. 14.9.2011 n. 148.
(“Indebita compensazione”) e 11 (“Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte”) era
stato elevato di un terzo rispetto al termine
ordinario, passando da sei anni (art. 157 c.p.)
ad otto anni, con applicazione ai fatti delittuosi “successivi alla data di entrata in vigore della legge di conversione” (art. 2 comma
36-vicies semel lett. m) e quindi per le sole
violazioni penalmente rilevanti poste in essere
dal 18 settembre 2011.
La giurisprudenza ha avuto modo di precisare che il termine di prescrizione del reato di omessa dichiarazione (art. 5 del DLgs.
74/2000) decorre, non dal giorno in cui l’accertamento del debito di imposta diviene definitivo, ma dal novantunesimo giorno successivo alla scadenza del termine ultimo stabilito
dalla legge per la presentazione della dichiarazione annuale27.
Per quanto concerne, invece, il reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti (art.
8 del DLgs. 74/2000), la sua natura di reato
“istantaneo” (di pericolo o di mera condotta)
e il suo perfezionarsi nel momento di emissione della singola fattura, fa sì che ove si abbiano, nel corso del medesimo periodo d’imposta,
plurimi episodi, esso si consumi nel momento
di emissione dell’ultimo di essi 28.
Più articolato il regime prescrizionale riguardo al reato di cui all’art. 10 del DLgs. 74/2000
(“Occultamento o distruzione di documenti
contabili”), per il quale la giurisprudenza di legittimità distingue le due condotte ivi contemplate al fine di determinare il momento consumativo del reato e, conseguentemente, per
l’individuazione del termine iniziale dal quale
decorre il relativo termine di prescrizione: per il
reato di distruzione, la prescrizione decorre dal
momento nel quale i documenti sono distrutti; per il reato di occultamento, essa decorre
dal momento in cui tale condotta è accertata
dai verificatori, ovvero finché ne è consentito il
controllo da parte degli organi verificatori, allo
spirare dei termini previsti dalle leggi tributarie
per l’accertamento dell’ammontare dei redditi
o del volume d’affari29.
Il termine prescrizionale subisce interruzione
in conseguenza di un atto che segnali il concreto e attuale interesse dello Stato al perseguimento di un illecito penale che si assume
commesso. Per il regime ordinario (art. 160
c.p.) si tratta di atti, specificamente individuati30, che manifestano la volontà, da parte
dell’autorità giudiziaria, di rompere l’inerzia,
posta a fondamento dell’istituto della prescrizione. Pertanto, gli atti interruttivi di cui
alla disposizione codicistica in esame possono
provenire esclusivamente dagli organi titolari
della giurisdizione penale31.
In tema di reati tributari, invece, l’art. 17
attribuisce efficacia interruttiva della prescrizione, oltre che agli atti indicati nell’art.
160 c.p., anche al verbale di constatazione
redatto dalla Guardia di Finanza e all’atto di
accertamento delle relative violazioni redatto dagli Uffici finanziari 32.
Così come per gli atti di cui all’art. 160 c.p., la
giurisprudenza ha affermato che è sufficiente
l’emissione del processo verbale di constatazione, a prescindere dalla circostanza che
27 Cass. pen. 24.4.2015 n. 17120, in Banca Dati Eutekne.
28 Cass. pen. 7.3.2013 n. 10558, in Banca Dati Eutekne, ha ribadito che il termine di prescrizione del delitto di emissione di
fatture per operazioni inesistenti inizia a decorrere non dalla emissione di ciascuna fattura, ma dall’ultima emissione. Nello
stesso senso, Cass. pen. 11.3.2014 n. 11538.
29 Cass. pen. 7.2.2013 n. 5974, in Banca Dati Eutekne.
30“[1] Il corso della prescrizione è interrotto dalla sentenza di condanna o dal decreto di condanna. [2] Interrompono pure la
prescrizione l’ordinanza che applica le misure cautelari personali e quella di convalida del fermo o dell’arresto, l’interrogatorio
reso davanti al pubblico ministero o al giudice, l’invito a presentarsi al pubblico ministero per rendere l’interrogatorio, il provvedimento del giudice di fissazione dell’udienza in camera di consiglio per la decisione sulla richiesta di archiviazione, la richiesta
di rinvio a giudizio, il decreto di fissazione della udienza preliminare, l’ordinanza che dispone il giudizio abbreviato, il decreto di
fissazione della udienza per la decisione sulla richiesta di applicazione della pena, la presentazione o la citazione per il giudizio
direttissimo, il decreto che dispone il giudizio immediato, il decreto che dispone il giudizio e il decreto di citazione a giudizio”.
31 Romano M., sub art. 160 c.p., in “Commentario sistematico del codice penale”, a cura di Romano M., Grasso G., Padovani T.,
vol. III, Giuffrè, Milano, 2011.
32 Cass. pen. 9.1.2014 n. 11977, CED Cassazione, 2014.
101
Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
102
l’atto, pur a natura recettizia per altri fini, sia
stato notificato all’interessato o che sia portato a conoscenza dell’autorità giudiziaria. Deve,
in altre parole, trattarsi di un’attività nel corso
della quale gli Uffici finanziari o la Guardia di
finanza prendono cognizione dell’esistenza
del reato, in tal modo manifestandosi la persistenza della volontà punitiva dello Stato33.
Ne consegue, per la giurisprudenza di legittimità, che non può negarsi validità interruttiva
all’accertamento di una determinata ipotesi
di reato, per il solo fatto che essa riguardi un
soggetto diverso da quello nei cui confronti
era stato compilato il processo verbale 34.
A seguito dell’atto o degli atti interruttivi, la
prescrizione ricomincia a decorrere ma il termine massimo non può superare, nel caso dei
reati previsti agli articoli da 2 a 10 del DLgs.
74/2000, gli anni dieci (otto anni più un quarto di tale termine) mentre per le residue fattispecie il termine massimo è di sette anni e sei
mesi (sei anni più il detto quarto).
Secondo la nuova formulazione dell’art. 13
del DLgs. 74/2000, la prescrizione è, invece,
sospesa, qualora venga concesso, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento
di primo grado, il termine, ivi previsto, di tre
mesi, eventualmente prorogabile per una sola
volta, per il saldo del pagamento, già rateizzato, del debito tributario 35.
IL SEQUESTRO, LA CONFISCA E LA CUSTODIA
DEI BENI (ART. 12-BIS E ART. 18-BIS)
La confisca, diretta o per equivalente, del pro-
fitto o del prezzo di molti reati contenuti nel
DLgs. 74/2000, era prevista, ancor prima dell’intervento di revisione, dall’art. 1 comma 143
della L. 24.12.2007 n. 24436 che estendeva alla
materia penal-tributaria l’applicabilità dell’art.
322-ter c.p. (“Confisca”)37.
Il combinato disposto delle due norme prevedeva che, a fronte dell’impossibilità di procedere alla confisca diretta del bene costituente
prezzo o profitto del reato (ad es., in ipotesi
di bene appartenente “a persona estranea”
ad esso), si potesse procedere alla confisca di
beni, nella disponibilità del reo, per un valore
economico corrispondente a tale “prezzo” ovvero, dopo la modifica di cui all’art. 1, comma
75 lett. o) della L. 6.11.2012 n. 190 al “profitto”.
La disposizione è stata ora abrogata dal DLgs.
n. 158/2015 e l’istituto della confisca inserito,
in una più organica collocazione normativa,
nel corpus del DLgs. 74/2000, al nuovo art.
12-bis, ove si prevede, da un lato, l’applicabilità ai reati fiscali della confisca obbligatoria, anche per equivalente (primo comma) e,
dall’altro, se ne dispone l’inoperatività per la
parte che il contribuente s’impegna a versare
all’erario (secondo comma).
L’istituto ablativo è rimasto inalterato nella
struttura, ma è ora applicabile, a differenza della disciplina previgente, a fronte della
condanna o dell’applicazione di pena su richiesta (art. 444 c.p.p., c.d. “patteggiamento”), per tutti i reati tributari previsti dal
DLgs. 74/2000, quindi anche per la fattispe-
33 Da ultimo, Cass. pen. 11.5.2015 n. 19358, in Banca Dati Eutekne.
34 Cass. n. 19358/2015, cit.
35 Supra, p. 98.
36“Nei casi di cui agli articoli 2, 3, 4, 5, 8, 10-bis, 10-ter, 10-quater e 11 del decreto legislativo 10 marzo 2000 n. 74, si osservano,
in quanto applicabili, le disposizioni di cui all’articolo 322-ter del codice penale”.
37“[1] Nel caso di condanna, o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’art. 444 del codice di procedura penale, per uno dei delitti previsti dagli articoli da 314 a 320, anche se commessi dai soggetti indicati nell’articolo 322-bis, primo comma, è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea
al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale
prezzo o profitto. [2] Nel caso di condanna, o di applicazione della pena a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale,
per il delitto previsto dall’articolo 321, anche se commesso ai sensi dell’articolo 322-bis, secondo comma, è sempre ordinata la
confisca dei beni che ne costituiscono il profitto salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è
possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a quello di detto profitto e, comunque,
non inferiore a quello del denaro o delle altre utilità date o promesse al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio o
agli altri soggetti indicati nell’articolo 322-bis, secondo comma. [3] Nei casi di cui ai commi primo e secondo, il giudice, con la
sentenza di condanna, determina le somme di denaro o individua i beni assoggettati a confisca in quanto costituenti il profitto o
il prezzo del reato ovvero in quanto di valore corrispondente al profitto o al prezzo del reato”.
cie di cui all’art. 10, precedentemente non
contemplata38.
Proprio la conformità alla normativa previgente consente di riprendere i costituti giurisprudenziali che, non senza contrasti, hanno
fissato, nella materia penal-tributaria, i necessari requisiti dell’istituto.
Per “profitto”, si deve, quindi, richiamare la
definizione che l’intende quale “vantaggio economico ricavato in via immediata e diretta dal
reato”39.
In particolare, il sequestro, sia quello diretto che
quello finalizzato alla confisca per equivalente,
deve riferirsi all’ammontare dell’imposta evasa,
quale vantaggio patrimoniale direttamente derivante dalla condotta illecita e, in quanto tale,
riconducibile alla nozione di profitto del reato,
costituito dal risparmio economico conseguente alla sottrazione degli importi evasi alla loro
destinazione fiscale, nonché al mancato pagamento degli interessi e delle sanzioni dovute in
seguito all’accertamento del debito tributario40.
Il provvedimento ablatorio sarà poi “per equivalente” quando non sia possibile procedere
alla confisca diretta dei beni che presentano un
nesso di derivazione qualificata con il reato41.
Sul punto, occorre richiamare l’importante
arresto giurisprudenziale 42 per cui la confisca
del profitto, quando si tratta di denaro o di
beni fungibili, non è confisca per equivalente, ma confisca diretta che potrà intervenire
su quanto di provenienza illecita sia stato depositato in banca ovvero investito in titoli 43.
In altre parole, ai fini della confisca diretta,
costituisce “profitto” del reato, non solo la
somma che si identifica proprio in quella che
è stata acquisita attraverso l’attività criminosa, ma anche l’impiego redditizio del denaro di
provenienza delittuosa e i beni in cui questo è
stato trasformato. Altro aspetto di particolare
rilievo giurisprudenziale deriva dalla considerazione che tra i reati presupposto del DLgs.
8.06.2001 n. 23144, in tema di responsabilità
amministrativa degli enti, non sono ricompresi
quelli fiscali. Tuttavia, nella pratica giudiziaria
questi ultimi vengono presi in considerazione
indirettamente, come nel caso di reati transnazionali e di associazione per delinquere. In
questi casi, il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente viene operato sui beni
della società, in relazione alla possibile responsabilità di questa, appunto ex art. 19 del
DLgs. 231/2001.
Sull’ammissibilità di tale provvedimento ablatorio quando si procede per reati tributari commessi dal legale rappresentante della persona
giuridica, la giurisprudenza di legittimità ha
autorevolmente precisato45 che è consentito il
sequestro preventivo finalizzato alla confisca di
denaro o di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al profitto di reato tributario commesso dagli organi di una persona giuridica, quando tale profitto (o beni direttamente
riconducibili al profitto) sia nella disponibilità
dell’ente. Il provvedimento di vincolo reale non
è, invece, consentito nei confronti della persona
giuridica qualora non sia stato reperito il profitto di reato tributario compiuto dai suoi organi,
salvo che, la persona giuridica sia un “apparato
fittizio”, utilizzato dal reo all’esclusivo fine di
farvi confluire i profitti illeciti derivanti dai reati
fiscali.
38 Cfr. Delsignore S., sub art. 12-bis, in “La riforma dei reati tributari. Le novità del d.lgs. n. 158/2015”, a cura di Nocerino C.,
Putinati S., Giappichelli, Torino, 2015, p. 289 ss., ove si avanza che, sul punto, il legislatore delegato abbia ecceduto la delega
legislativa che non disponeva in tal senso.
39 Cass. pen. 26.7.2015 n. 31617, in Banca Dati Eutekne.
40 Così, Cass. pen. 23.11.2012 n. 45849, in Banca Dati Eutekne, ripresa da Cass. pen. 15.7.2015 n. 30484, ivi.
41 Cass. pen. 13.1.2016 n. 891, con nota di Artusi M.F. “Nuova soglia di dichiarazione infedele applicabile anche ai processi
in corso”, Il Quotidiano del Commercialista, www.eutekne.info, 14.1.2016.
42 Cass. n. 31617/2015, cit. Cfr. anche Cass. pen. SS.UU. 5.3.2014 n. 10561, in Banca Dati Eutekne.
43 D’altronde, “la fungibilità del denaro e la sua funzione di mezzo di pagamento non impone che il sequestro debba necessariamente colpire le medesime specie monetarie illegalmente percepite, bensì la somma corrispondente al loro valore nominale”.
Così, Cass. pen. SS.UU. 9.7.2004 n. 29951, in Banca Dati Eutekne.
44“Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di
personalità giuridica, a norma dell’articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300”.
45 Cass. n. 10561/2014, cit.
103
Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
104
Da ultimo, si è affermato come non sia consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti degli organi
dell’ente per reati tributari da costoro commessi, qualora sia possibile il vincolo del denaro o
di altri beni fungibili, o di beni direttamente
riconducibili al profitto di reato tributario compiuto dagli organi della persona giuridica stessa, in capo a questi ultimi o a persona (compresa quella giuridica) non estranea al reato.
Per “prezzo”, invece, si intende il compenso
dato o promesso al soggetto agente quale corrispettivo per l’esecuzione dell’illecito46.
Si è autorevolmente rilevato47 che pare improprio, stante la natura del reato fiscale, il riferimento alla confiscabilità, oltre che del “profitto” anche del “prezzo” dell’illecito. In realtà,
pur se riconducibili a ipotesi di gran lunga residuali, non può escludersi che al soggetto che
ha occultato o distrutto le scritture contabili
(art. 10 del DLgs 74/2000) venga versato un
compenso; ovvero che il “prezzo” venga individuato nel quantum corrisposto all’emittente
di fatture per operazioni.
L’“IMPEGNO A VERSARE” (ART. 12-BIS
COMMA 2)
Al secondo comma del nuovo art. 12-bis si prevede che “la confisca non opera per la parte che
il contribuente si impegna a versare all’erario
anche in presenza di sequestro. Nel caso di mancato versamento la confisca è sempre disposta”.
La norma si colloca, a tutta evidenza, nel sistema predisposto a tutela della soddisfazione
del credito erariale che connota l’intero intervento di revisione: in sostanza, il pagamento
del debito tributario conduce alla non punibilità (art. 13) o alla diminuzione della sanzione
penale (art. 13-bis), mentre l’“impegno” di
estinguerlo permette di evitare, totalmente
o parzialmente, la confisca (art. 12-bis).
La disposizione recepisce alcuni arresti giuri-
sprudenziali, ribaditi anche di recente, per cui
“in tema di reati tributari, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente,
qualora sia stato perfezionato un accordo tra
il contribuente e l’Amministrazione finanziaria
per la rateizzazione del debito tributario, non
può essere mantenuto sull’intero ammontare
del profitto derivante dal mancato pagamento dell’imposta evasa, ma deve essere ridotto
in misura corrispondente ai ratei versati per
effetto della convenzione, poiché, altrimenti, verrebbe a determinarsi una inammissibile
duplicazione sanzionatoria, in contrasto con il
principio secondo il quale l’ablazione definitiva di un bene non può mai essere superiore al
vantaggio economico conseguito dall’azione
delittuosa”48. Inoltre, la disposizione si colloca
sistematicamente in linea con quanto previsto
al citato art. 19 del DLgs. 231/2001, ove, parimenti privilegiandosi la tutela della persona
offesa, si esclude la confisca “per la parte che
può essere restituita al danneggiato”.
Il comma 2 dell’art. 12-bis consente ora di
evitare, o limitare, il provvedimento ablatorio
anche a fronte, come si è detto, del mero “impegno” nei confronti dell’erario.
Tuttavia, la disposizione in esame, dalla formulazione eccessivamente sintetica e su cui
la Relazione governativa poco si sofferma, genera molteplici dubbi interpretativi già opportunamente avanzati dai primi commentatori.
Il punto di maggiore rilevanza riguarda certamente il significato di “impegno a versare”, di
cui non viene data alcuna definizione o indicazione normativa, né vi soccorre la Relazione
governativa. Si può tuttavia ritenere, con tranquillante sicurezza, che debba trattarsi, per la
rilevanza delle conseguenze processuali, di un
vero e proprio accordo formale con l’Amministrazione finanziaria, secondo le specifiche
regole e procedure della normativa tributaria49.
L’“impegno” deve essere formulato dal sog-
46 Cfr. Cass. pen. SS.UU. 6.10.2009 n. 38691, in Banca Dati Eutekne.
47 Cfr. “Riforma dei reati tributari: le note di indirizzo della Procura di Trento”, 8.10.2015, p. 12.
48 Cass. pen. 20.5.2015 n. 20887.
49 Cfr. “Riforma dei reati tributari: le note di indirizzo della Procura di Trento”, cit., p. 14. Nello stesso senso, Finocchiaro S.
“L’impegno a pagare il debito tributario e i suoi effetti su confisca e sequestro. Commento all’art. 12-bis, comma 2, d.lgs. n.
74/2000 (introdotto dal d.lgs. n. 158/2015)”, penalecontemporaneo.it, p. 11.
getto contribuente che può essere diverso
dalla persona fisica sottoposta al procedimento penale, come nel caso di reato fiscale commesso dall’amministratore di società.
Una volta che si sia documentato l’“impegno”,
qualora questo sia di pagamento integrale del
debito tributario, il giudice si asterrà dal disporre la confisca; altrimenti, il provvedimento ablatorio sarà parziale, per il residuo non
considerato dal contribuente.
Qualora dopo la sentenza di condanna (o di
patteggiamento) l’impegno, totale o parziale,
non venga onorato, verrà a evidenza il disposto dell’ultimo periodo della disposizione in
esame: “nel caso di mancato versamento la
confisca è sempre disposta”. In ipotesi di sentenza non definitiva, il provvedimento potrà
essere disposto dal giudice di appello mentre,
in caso di giudicato sarà competente il giudice
dell’esecuzione ai sensi dell’art. 676 comma 1
c.p.p.50.
Tuttavia, il sistema presenta, a fronte della
stringatezza testuale, una certa criticità. Si è,
infatti, correttamente osservato 51 che l’impegno al pagamento integrale del debito erariale e la successiva inapplicabilità della confisca comporta, altresì, la caducazione del
sequestro preventivo finalizzato all’ablazione,
con la conseguenza, a fronte della condanna dell’imputato e del suo mancato rispetto
dell’obbligo assunto, della possibile vanificazione degli effetti della successiva confisca 52.
Altra questione non risolta dal legislatore delegato riguarda l’ipotesi in cui l’imputato intenda avvalersi della causa di non punibilità
(art. 13) o della circostanza attenuante conseguente al pagamento del debito tributario
(art. 13-bis) pur essendo già stato disposto il
sequestro preventivo finalizzato alla confisca
di beni che si vogliono destinare alla soddisfazione del debito tributario.
In tal caso, sembra possibile la proposizione di
un’istanza di dissequestro, totale o parziale,
vincolata al pagamento del debito tributario
e corredata dall’impegno formale di cui al secondo comma della disposizione in esame 53.
CUSTODIA GIUDIZIALE DEI BENI
SEQUESTRATI (ART. 18-BIS)
L’art. 18-bis DLgs. n. 74/2000 prevede che “i
beni sequestrati nell’ambito dei procedimenti
penali relativi ai delitti previsti dal presente
decreto e a ogni altro delitto tributario, diversi dal denaro e dalle disponibilità finanziarie,
possono essere affidati dall’autorità giudiziaria in custodia giudiziale, agli organi dell’amministrazione finanziaria che ne facciano richiesta per le proprie esigenze operative”.
Pur nel silenzio sul punto, si deve ritenere che
l’affidamento in custodia debba essere oggetto di provvedimento dell’autorità giudiziaria,
emesso dietro specifica e motivata richiesta di
organi pubblici, e non impugnabile, in quanto
ha l’esclusivo effetto di individuare il soggetto
cui è rimesso l’ufficio di custode giudiziario54.
CONCLUSIONI
Come si è visto, l’intervento riformatore portato dal DLgs. 158/2015, il più incisivo dalla
entrata in vigore del DLgs. 74/2000, ha modificato profondamente – oltre a diversi ambiti,
estranei alla presente trattazione – la materia
penal-tributaria, interessata in passato da opzioni normative spesso tra loro contraddittorie.
50“Il giudice dell’esecuzione è competente a decidere in ordine […] alla confisca o alla restituzione delle cose sequestrate”. Cfr.
ampiamente sul punto, Finocchiaro S., cit., p. 13.
51 Finocchiaro S., cit., p. 16.
52 Per evitare tale conseguenza, certamente non voluta dal legislatore, si è proposto (Finocchiaro S., cit., p. 18 ss.) che la
disposizione venga interpretata nel senso che “il giudice della condanna dovrebbe comunque disporre la confisca dell’intero
profitto delittuoso accertato, esplicitando però contestualmente che essa non produce effetti («non opera») per quella somma
che il contribuente si è impegnato a versare”. Nello stesso senso, cfr. “Riforma dei reati tributari: le note di indirizzo della
Procura di Trento”, cit., p. 18.
53 Artusi M.F. “Sequestro e confisca problematici nella riforma dei reati tributari”, Il Quotidiano del Commercialista, www.
eutekne.info, 31.10.2015, p. 8.
54 Così Cass. pen. 28.2.2013 n. 9727, CED Cassazione, 2013, in materia di reati relativi alle sostanze stupefacenti.
105
Con l’ultima “revisione”, il legislatore ha recuperato una giusta considerazione per il principio di
sussidiarietà del diritto penale, riducendo l’ambito di intervento della sanzione punitiva per antonomasia alle sole condotte artificiose, fraudolente e simulatorie, ovvero al di sopra di elevate
soglie quantitative, connotate da un particolare
disvalore giuridico, oltre che etico e sociale, con
effetti insidiosi anche per l’attività di controllo.
DLgs. 74/2000
Testo in vigore fino al 21 ottobre 2015
Contestualmente, si è avanzata con decisione
un’opzione normativa che potrebbe, peraltro,
dimostrarsi sterile in un persistente contesto di
difficoltà economica del Paese e, in particolare,
dei contribuenti, chiamati questi, per evitare la
condanna penale, a corrispondere entro precise
deadlines processuali importi che l’innalzamento
delle soglie di punibilità ha reso particolarmente
cospicui.
DLgs. 74/2000
Testo vigente
Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
Capo II
Delitti in materia di documenti e pagamento di imposte
106
Art. 8. Emissione di fatture o altri documenti per
operazioni inesistenti.
1. È punito con la reclusione da un anno e sei mesi
a sei anni chiunque, al fine di consentire a terzi
l’evasione delle imposte sui redditi o sul valore
aggiunto, emette o rilascia fatture o altri documenti
per operazioni inesistenti.
2. Ai fini dell’applicazione della disposizione prevista
dal comma 1, l’emissione o il rilascio di più fatture
o documenti per operazioni inesistenti nel corso del
medesimo periodo di imposta si considera come un
solo reato.
Art. 8. Emissione di fatture o altri documenti per
operazioni inesistenti.
1. È punito con la reclusione da un anno e sei mesi
a sei anni chiunque, al fine di consentire a terzi
l’evasione delle imposte sui redditi o sul valore
aggiunto, emette o rilascia fatture o altri documenti
per operazioni inesistenti.
2. Ai fini dell’applicazione della disposizione prevista
dal comma 1, l’emissione o il rilascio di più fatture
o documenti per operazioni inesistenti nel corso del
medesimo periodo di imposta si considera come un
solo reato.
Art. 9. Concorso di persone nei casi di emissione o
utilizzazione di fatture o altri documenti per operazioni
inesistenti.
1. In deroga all’art. 110 del codice penale:
a) l’emittente di fatture o altri documenti per
operazioni inesistenti e chi concorre con il medesimo
non è punibile a titolo di concorso nel reato previsto
dall’articolo 2;
b) chi si avvale di fatture o altri documenti per
operazioni inesistenti e chi concorre con il medesimo
non è punibile a titolo di concorso nel reato previsto
dall’articolo 8.
Art. 9. Concorso di persone nei casi di emissione o
utilizzazione di fatture o altri documenti per operazioni
inesistenti.
1. In deroga all’art. 110 del codice penale:
a) l’emittente di fatture o altri documenti per
operazioni inesistenti e chi concorre con il medesimo
non è punibile a titolo di concorso nel reato previsto
dall’articolo 2;
b) chi si avvale di fatture o altri documenti per
operazioni inesistenti e chi concorre con il medesimo
non è punibile a titolo di concorso nel reato previsto
dall’articolo 8.
Art. 10. Occultamento o distruzione di documenti
contabili.
1. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è
punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni
chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o
sul valore aggiunto, ovvero di consentire l’evasione
a terzi, occulta o distrugge in tutto o in parte le
scritture contabili o i documenti di cui è obbligatoria
la conservazione, in modo da non consentire la
ricostruzione dei redditi o del volume di affari.
Art. 10. Occultamento o distruzione di documenti
contabili.
1. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è
punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei
anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi
o sul valore aggiunto, ovvero di consentire l’evasione
a terzi, occulta o distrugge in tutto o in parte le
scritture contabili o i documenti di cui è obbligatoria
la conservazione, in modo da non consentire la
ricostruzione dei redditi o del volume di affari.
Art. 10-bis. Omesso versamento di ritenute certificate.
1. È punito con la reclusione da sei mesi a due anni
chiunque non versa entro il termine previsto per la
presentazione della dichiarazione annuale di sostituto
di imposta ritenute risultanti dalla certificazione
rilasciata ai sostituiti, per un ammontare superiore
a cinquantamila euro per ciascun periodo d’imposta.
Art. 10-bis. Omesso versamento di ritenute dovute
o certificate.
1. È punito con la reclusione da sei mesi a due anni
chiunque non versa entro il termine previsto per
la presentazione della dichiarazione annuale di
sostituto di imposta ritenute dovute sulla base della
stessa dichiarazione o risultanti dalla certificazione
rilasciata ai sostituiti, per un ammontare superiore
a centocinquantamila euro per ciascun periodo
d’imposta.
Art. 10-ter. Omesso versamento di IVA.
1. La disposizione di cui all’articolo 10-bis si
applica, nei limiti ivi previsti, anche a chiunque non
versa l’imposta sul valore aggiunto, dovuta in base
alla dichiarazione annuale, entro il termine per
il versamento dell’acconto relativo al periodo di
imposta successivo.
Art. 10-ter. Omesso versamento di IVA.
1. È punito con la reclusione da sei mesi a due
anni chiunque non versa, entro il termine per
il versamento dell’acconto relativo al periodo
d’imposta successivo, l’imposta sul valore aggiunto
dovuta in base alla dichiarazione annuale, per un
ammontare superiore a euro duecentocinquantamila
per ciascun periodo d’imposta.
Art. 10-quater. Indebita compensazione.
1. La disposizione di cui all’articolo 10-bis si applica,
nei limiti ivi previsti, anche a chiunque non versa le
somme dovute, utilizzando in compensazione, ai
sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio
1997, n. 241, crediti non spettanti o inesistenti.
Art. 10-quater. Indebita compensazione.
1. È punito con la reclusione da sei mesi a due anni
chiunque non versa le somme dovute, utilizzando
in compensazione, ai sensi dell’articolo 17 del
decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, crediti
non spettanti, per un importo annuo superiore a
cinquantamila euro.
2. È punito con la reclusione da un anno e sei mesi
a sei anni chiunque non versa le somme dovute,
utilizzando in compensazione, ai sensi dell’articolo
17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241,
crediti inesistenti per un importo annuo superiore
ai cinquantamila euro.
Art. 11. Sottrazione fraudolenta al pagamento di
imposte.
1. È punito con la reclusione da sei mesi a quattro
anni chiunque, al fine di sottrarsi al pagamento di
imposte sui redditi o sul valore aggiunto ovvero di
interessi o sanzioni amministrative relativi a dette
imposte di ammontare complessivo superiore
ad euro cinquantamila, aliena simulatamente o
compie altri atti fraudolenti sui propri o su altrui
beni idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la
procedura di riscossione coattiva. Se l’ammontare
delle imposte, sanzioni ed interessi è superiore ad
euro duecentomila si applica la reclusione da un
anno a sei anni.
2. È punito con la reclusione da sei mesi a quattro
anni chiunque, al fine di ottenere per sé o per altri un
pagamento parziale dei tributi e relativi accessori,
indica nella documentazione presentata ai fini
della procedura di transazione fiscale elementi
attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo
od elementi passivi fittizi per un ammontare
complessivo superiore ad euro cinquantamila. Se
l’ammontare di cui al periodo precedente è superiore
ad euro duecentomila si applica la reclusione da un
anno a sei anni.
Art. 11. Sottrazione fraudolenta al pagamento di
imposte.
1. È punito con la reclusione da sei mesi a quattro
anni chiunque, al fine di sottrarsi al pagamento di
imposte sui redditi o sul valore aggiunto ovvero di
interessi o sanzioni amministrative relativi a dette
imposte di ammontare complessivo superiore
ad euro cinquantamila, aliena simulatamente o
compie altri atti fraudolenti sui propri o su altrui
beni idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la
procedura di riscossione coattiva. Se l’ammontare
delle imposte, sanzioni ed interessi è superiore ad
euro duecentomila si applica la reclusione da un
anno a sei anni.
2. È punito con la reclusione da sei mesi a quattro
anni chiunque, al fine di ottenere per sé o per altri un
pagamento parziale dei tributi e relativi accessori,
indica nella documentazione presentata ai fini
della procedura di transazione fiscale elementi
attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo
od elementi passivi fittizi per un ammontare
complessivo superiore ad euro cinquantamila. Se
l’ammontare di cui al periodo precedente è superiore
ad euro duecentomila si applica la reclusione da un
anno a sei anni.
Titolo III
DISPOSIZIONI COMUNI
Art. 12. Pene accessorie.
Art. 12. Pene accessorie.
1. La condanna per taluno dei delitti previsti dal 1. La condanna per taluno dei delitti previsti dal
presente decreto importa:
presente decreto importa:
a) l’interdizione dagli uffici direttivi delle persone a) l’interdizione dagli uffici direttivi delle persone
giuridiche e delle imprese per un periodo non giuridiche e delle imprese per un periodo non
inferiore a sei mesi e non superiore a tre anni;
inferiore a sei mesi e non superiore a tre anni;
b) l’incapacità di contrattare con la pubblica b) l’incapacità di contrattare con la pubblica
amministrazione per un periodo non inferiore ad amministrazione per un periodo non inferiore ad
un anno e non superiore a tre anni;
un anno e non superiore a tre anni;
c) l’interdizione dalle funzioni di rappresentanza e c) l’interdizione dalle funzioni di rappresentanza e
assistenza in materia tributaria per un periodo non assistenza in materia tributaria per un periodo non
inferiore ad un anno e non superiore a cinque anni; inferiore ad un anno e non superiore a cinque anni;
d) l’interdizione perpetua dall’ufficio di componente d) l’interdizione perpetua dall’ufficio di componente
di commissione tributaria;
di commissione tributaria;
107
Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
e) la pubblicazione della sentenza a norma
dell’articolo 36 del codice penale.
2. La condanna per taluno dei delitti previsti dagli
articoli 2, 3, e 8 importa altresì l’interdizione dai
pubblici uffici per un periodo non inferiore ad un
anno e non superiore a tre anni, salvo che ricorrano
le circostanze previste dagli articoli 2, comma 3, e
8, comma 3.
2-bis. Per i delitti previsti dagli articoli da 2 a 10
del presente decreto l’istituto della sospensione
condizionale della pena di cui all’articolo 163 del
codice penale non trova applicazione nei casi in cui
ricorrano congiuntamente le seguenti condizioni:
a) l’ammontare dell’imposta evasa sia superiore
al 30 per cento del volume d’affari; b) l’ammontare
dell’imposta evasa sia superiore a tre milioni di euro.
108
e) la pubblicazione della sentenza a norma
dell’articolo 36 del codice penale.
2. La condanna per taluno dei delitti previsti dagli
articoli 2, 3, e 8 importa altresì l’interdizione dai
pubblici uffici per un periodo non inferiore ad un
anno e non superiore a tre anni, salvo che ricorrano
le circostanze previste dagli articoli 2, comma 3, e
8, comma 3.
2-bis. Per i delitti previsti dagli articoli da 2 a 10
del presente decreto l’istituto della sospensione
condizionale della pena di cui all’articolo 163 del
codice penale non trova applicazione nei casi in cui
ricorrano congiuntamente le seguenti condizioni:
a) l’ammontare dell’imposta evasa sia superiore
al 30 per cento del volume d’affari; b) l’ammontare
dell’imposta evasa sia superiore a tre milioni di euro.
Art. 12-bis. Confisca.
1. Nel caso di condanna o di applicazione della pena
su richiesta delle parti a norma dell’articolo 444
del codice di procedura penale per uno dei delitti
previsti dal presente decreto, è sempre ordinata la
confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il
prezzo, salvo che appartengano a persona estranea
al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la
confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per
un valore corrispondente a tale prezzo o profitto.
2. La confisca non opera per la parte che il
contribuente si impegna a versare all’erario anche
in presenza di sequestro. Nel caso di mancato
versamento la confisca è sempre disposta.
Art. 13. Circostanza attenuante. Pagamento del
debito tributario.
1. Le pene previste per i delitti di cui al presente
decreto sono diminuite fino ad un terzo e non si
applicano le pene accessorie indicate nell’articolo
12 se, prima della dichiarazione di apertura del
dibattimento di primo grado, i debiti tributari
relativi ai fatti costitutivi dei delitti medesimi sono
stati estinti mediante pagamento, anche a seguito
delle speciali procedure conciliative o di adesione
all’accertamento previste dalle norme tributarie.
2. A tale fine, il pagamento deve riguardare anche le
sanzioni amministrative previste per la violazione
delle norme tributarie, sebbene non applicabili
all’imputato a norma dell’articolo 19, comma 1.
2-bis. Per i delitti di cui al presente decreto
l’applicazione della pena ai sensi dell’articolo 444
del codice di procedura penale può essere chiesta
dalle parti solo qualora ricorra la circostanza
attenuante di cui ai commi 1 e 2.
3. Della diminuzione di pena prevista dal comma 1
non si tiene conto ai fini della sostituzione della pena
detentiva inflitta con la pena pecuniaria a norma
dell’articolo 53 della legge 24 novembre 1981, n. 689.
Art. 13. Causa di non punibilità. Pagamento del
debito tributario.
1. I reati di cui agli articoli 10-bis, 10-ter e
10-quater, comma 1, non sono punibili se, prima
della dichiarazione di apertura del dibattimento di
primo grado, i debiti tributari, comprese sanzioni
amministrative e interessi, sono stati estinti
mediante integrale pagamento degli importi dovuti,
anche a seguito delle speciali procedure conciliative
e di adesione all’accertamento previste dalle norme
tributarie, nonché del ravvedimento operoso.
2. I reati di cui agli articoli 4 e 5 non sono punibili se i
debiti tributari, comprese sanzioni e interessi, sono
stati estinti mediante integrale pagamento degli
importi dovuti, a seguito del ravvedimento operoso
o della presentazione della dichiarazione omessa
entro il termine di presentazione della dichiarazione
relativa al periodo d’imposta successivo,
sempreché il ravvedimento o la presentazione siano
intervenuti prima che l’autore del reato abbia avuto
formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche
o dell’inizio di qualunque attività di accertamento
amministrativo o di procedimenti penali.
3. Qualora, prima della dichiarazione di apertura
del dibattimento di primo grado, il debito tributario
sia in fase di estinzione mediante rateizzazione,
anche ai fini dell’applicabilità dell’articolo 13-bis,
è dato un termine di tre mesi per il pagamento
del debito residuo. In tal caso la prescrizione è
sospesa. Il Giudice ha facoltà di prorogare tale
termine una sola volta per non oltre tre mesi,
qualora lo ritenga necessario, ferma restando la
sospensione della prescrizione.
Art. 13-bis. Circostanze del reato.
1. Fuori dai casi di non punibilità, le pene per i delitti
di cui al presente decreto sono diminuite fino alla
metà e non si applicano le pene accessorie indicate
nell’articolo 12 se, prima della dichiarazione di
apertura del dibattimento di primo grado, i debiti
tributari, comprese sanzioni amministrative e
interessi, sono stati estinti mediante integrale
pagamento degli importi dovuti, anche a seguito
delle speciali procedure conciliative e di adesione
all’accertamento previste dalle norme tributarie.
2. Per i delitti di cui al presente decreto
l’applicazione della pena ai sensi dell’articolo 444
del codice di procedura penale può essere chiesta
dalle parti solo quando ricorra la circostanza di cui
al comma 1, nonché il ravvedimento operoso, fatte
salve le ipotesi di cui all’articolo 13, commi 1 e 2.
3. Le pene stabilite per i delitti di cui al titolo II
sono aumentate della metà se il reato è commesso
dal concorrente nell’esercizio dell’attività di
consulenza fiscale svolta da un professionista o da
un intermediario finanziario o bancario attraverso
l’elaborazione o la commercializzazione di modelli
di evasione fiscale.
Art. 14. Circostanza attenuante. Riparazione dell’offesa
nel caso di estinzione per prescrizione del debito
tributario.
1. Se i debiti indicati nell’articolo 13 risultano
estinti per prescrizione o per decadenza, l’imputato
di taluno dei delitti previsti dal presente decreto
può chiedere di essere ammesso a pagare, prima
della dichiarazione di apertura del dibattimento di
primo grado, una somma, da lui indicata, a titolo
di equa riparazione dell’offesa recata all’interesse
pubblico tutelato dalla norma violata.
2. La somma, commisurata alla gravità dell’offesa, non
può essere comunque inferiore a quella risultante dal
ragguaglio a norma dell’articolo 135 del codice penale
della pena minima prevista per il delitto contestato.
3. Il giudice, sentito il pubblico ministero, se ritiene
congrua la somma, fissa con ordinanza un termine
non superiore a dieci giorni per il pagamento.
4. Se il pagamento è eseguito nel termine, la pena è
diminuita fino alla metà e non si applicano le pene
accessorie indicate nell’articolo 12. Si osserva la
disposizione prevista dal comma 3 dell’articolo 13.
5. Nel caso di assoluzione o di proscioglimento la
somma pagata è restituita.
Art. 14. Circostanza attenuante. Riparazione dell’offesa
nel caso di estinzione per prescrizione del debito
tributario.
1. Se i debiti indicati nell’articolo 13 risultano estinti
per prescrizione o per decadenza, l’imputato di
taluno dei delitti previsti dal presente decreto può
chiedere di essere ammesso a pagare, prima della
dichiarazione di apertura del dibattimento di primo
grado, una somma, da lui indicata, a titolo di equa
riparazione dell’offesa recata all’interesse pubblico
tutelato dalla norma violata.
2. La somma, commisurata alla gravità dell’offesa, non
può essere comunque inferiore a quella risultante dal
ragguaglio a norma dell’articolo 135 del codice penale
della pena minima prevista per il delitto contestato.
3. Il giudice, sentito il pubblico ministero, se ritiene
congrua la somma, fissa con ordinanza un termine
non superiore a dieci giorni per il pagamento.
4. Se il pagamento è eseguito nel termine, la pena è
diminuita fino alla metà e non si applicano le pene
accessorie indicate nell’articolo 12. Si osserva la
disposizione prevista dal comma 3 dell’articolo 13.
5. Nel caso di assoluzione o di proscioglimento la
somma pagata è restituita.
Art. 15. Violazioni dipendenti da interpretazione delle
norme tributarie.
1. Al di fuori dei casi in cui la punibilità è esclusa a
norma dell’articolo 47, terzo comma, del codice
penale, non danno luogo a fatti punibili ai sensi del
presente decreto le violazioni di norme tributarie
dipendenti da obiettive condizioni di incertezza
sulla loro portata e sul loro ambito di applicazione.
Art. 15. Violazioni dipendenti da interpretazione delle
norme tributarie.
1. Al di fuori dei casi in cui la punibilità è esclusa a
norma dell’articolo 47, terzo comma, del codice
penale, non danno luogo a fatti punibili ai sensi del
presente decreto le violazioni di norme tributarie
dipendenti da obiettive condizioni di incertezza
sulla loro portata e sul loro ambito di applicazione.
Art. 16. Adeguamento al parere del Comitato per
l’applicazione delle norme antielusive.
1. Non dà luogo a fatto punibile a norma del presente
decreto la condotta di chi, avvalendosi della procedura
stabilita dall’articolo 21, commi 9 e 10, della legge
30 dicembre 1991, n. 413, si è uniformato ai pareri
[Articolo abrogato]
109
Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
del Ministero delle finanze o del Comitato consultivo
per l’applicazione delle norme antielusive previsti
dalle medesime disposizioni, ovvero ha compiuto
le operazioni esposte nell’istanza sulla quale si è
formato il silenzio-assenso.
Art. 17. Interruzione della prescrizione.
1. Il corso della prescrizione per i delitti previsti dal
presente decreto è interrotto, oltre che dagli atti
indicati nell’articolo 160 del codice penale, dal verbale
di constatazione o dall’atto di accertamento delle
relative violazioni.
1-bis. I termini di prescrizione per i delitti previsti
dagli articoli da 2 a 10 del presente decreto sono
elevati di un terzo.
Art. 17. Interruzione della prescrizione.
1. Il corso della prescrizione per i delitti previsti dal
presente decreto è interrotto, oltre che dagli atti
indicati nell’articolo 160 del codice penale, dal verbale
di constatazione o dall’atto di accertamento delle
relative violazioni.
1-bis. I termini di prescrizione per i delitti previsti
dagli articoli da 2 a 10 del presente decreto sono
elevati di un terzo.
Art. 18. Competenza per territorio.
1. Salvo quanto previsto dai commi 2 e 3, se la
competenza per territorio per i delitti previsti dal
presente decreto non può essere determinata a
norma dell’articolo 8 del codice di procedura penale,
è competente il giudice del luogo di accertamento
del reato.
2. Per i delitti previsti dal capo I del titolo II il reato si
considera consumato nel luogo in cui il contribuente
ha il domicilio fiscale. Se il domicilio fiscale è all’estero
è competente il giudice del luogo di accertamento del
reato.
3. Nel caso previsto dal comma 2 dell’articolo 8,
se le fatture o gli altri documenti per operazioni
inesistenti sono stati emessi o rilasciati in luoghi
rientranti in diversi circondari, è competente il
giudice di uno di tali luoghi in cui ha sede l’ufficio
del pubblico ministero che ha provveduto per
primo a iscrivere la notizia di reato nel registro
previsto dall’articolo 335 del codice di procedura
penale.
Art. 18. Competenza per territorio.
1. Salvo quanto previsto dai commi 2 e 3, se la
competenza per territorio per i delitti previsti dal
presente decreto non può essere determinata a
norma dell’articolo 8 del codice di procedura penale,
è competente il giudice del luogo di accertamento
del reato.
2. Per i delitti previsti dal capo I del titolo II il reato si
considera consumato nel luogo in cui il contribuente
ha il domicilio fiscale. Se il domicilio fiscale è all’estero
è competente il giudice del luogo di accertamento del
reato.
3. Nel caso previsto dal comma 2 dell’articolo 8,
se le fatture o gli altri documenti per operazioni
inesistenti sono stati emessi o rilasciati in luoghi
rientranti in diversi circondari, è competente il
giudice di uno di tali luoghi in cui ha sede l’ufficio
del pubblico ministero che ha provveduto per
primo a iscrivere la notizia di reato nel registro
previsto dall’articolo 335 del codice di procedura
penale.
Art. 18-bis. Custodia giudiziale dei beni sequestrati.
1. I beni sequestrati nell’ambito dei procedimenti
penali relativi ai delitti previsti dal presente decreto
e a ogni altro delitto tributario, diversi dal denaro
e dalle disponibilità finanziarie, possono essere
affidati dall’autorità giudiziaria in custodia giudiziale,
agli organi dell’amministrazione finanziaria che ne
facciano richiesta per le proprie esigenze operative.
2. Restano ferme le disposizioni dell’articolo 61,
comma 23, del decreto-legge 25 giugno 2008, n.
112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6
agosto 2008, n. 133, e dell’articolo 2 del decretolegge 16 settembre 2008 n. 143, convertito, con
modificazioni, dalla legge 13 novembre 2008, n. 181.
110
Titolo IV
RAPPORTI CON IL SISTEMA SANZIONATORIO AMMINISTRATIVO E FRA PROCEDIMENTI
Art. 19. Principio di specialità.
1. Quando uno stesso fatto è punito da una delle
disposizioni del titolo II e da una disposizione che
prevede una sanzione amministrativa, si applica la
disposizione speciale.
2. Permane, in ogni caso, la responsabilità per
la sanzione amministrativa dei soggetti indicati
nell’articolo 11, comma 1, del decreto legislativo 18
dicembre 1997, n. 472, che non siano persone fisiche
concorrenti nel reato.
Art. 19. Principio di specialità.
1. Quando uno stesso fatto è punito da una delle
disposizioni del titolo II e da una disposizione che
prevede una sanzione amministrativa, si applica la
disposizione speciale.
2. Permane, in ogni caso, la responsabilità per
la sanzione amministrativa dei soggetti indicati
nell’articolo 11, comma 1, del decreto legislativo 18
dicembre 1997, n. 472, che non siano persone fisiche
concorrenti nel reato.
Art. 20. Rapporti tra procedimento penale e processo
tributario.
1. Il procedimento amministrativo di accertamento
ed il processo tributario non possono essere sospesi
per la pendenza del procedimento penale avente ad
oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui accertamento
comunque dipende la relativa definizione.
Art. 20. Rapporti tra procedimento penale e processo
tributario.
1. Il procedimento amministrativo di accertamento
ed il processo tributario non possono essere sospesi
per la pendenza del procedimento penale avente ad
oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui accertamento
comunque dipende la relativa definizione.
Art. 21. Sanzioni amministrative per le violazioni
ritenute penalmente rilevanti.
1. L’ufficio competente irroga comunque le sanzioni
amministrative relative alle violazioni tributarie fatte
oggetto di notizia di reato.
2. Tali sanzioni non sono eseguibili nei confronti dei
soggetti diversi da quelli indicati dall’articolo 19,
comma 2, salvo che il procedimento penale sia definito
con provvedimento di archiviazione o sentenza
irrevocabile di assoluzione o di proscioglimento con
formula che esclude la rilevanza penale del fatto.
In quest’ultimo caso, i termini per la riscossione
decorrono dalla data in cui il provvedimento di
archiviazione o la sentenza sono comunicati
all’ufficio competente; alla comunicazione provvede
la cancelleria del giudice che li ha emessi.
3. Nei casi di irrogazione di un’unica sanzione
amministrativa per più violazioni tributarie in concorso
o continuazione fra loro, a norma dell’articolo 12
del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472,
alcune delle quali soltanto penalmente rilevanti, la
disposizione del comma 2 del presente articolo opera
solo per la parte della sanzione eccedente quella che
sarebbe stata applicabile in relazione alle violazioni
non penalmente rilevanti.
Art. 21. Sanzioni amministrative per le violazioni
ritenute penalmente rilevanti.
1. L’ufficio competente irroga comunque le sanzioni
amministrative relative alle violazioni tributarie fatte
oggetto di notizia di reato.
2. Tali sanzioni non sono eseguibili nei confronti dei
soggetti diversi da quelli indicati dall’articolo 19,
comma 2, salvo che il procedimento penale sia definito
con provvedimento di archiviazione o sentenza
irrevocabile di assoluzione o di proscioglimento con
formula che esclude la rilevanza penale del fatto.
In quest’ultimo caso, i termini per la riscossione
decorrono dalla data in cui il provvedimento di
archiviazione o la sentenza sono comunicati
all’ufficio competente; alla comunicazione provvede
la cancelleria del giudice che li ha emessi.
3. Nei casi di irrogazione di un’unica sanzione
amministrativa per più violazioni tributarie in concorso
o continuazione fra loro, a norma dell’articolo 12
del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472,
alcune delle quali soltanto penalmente rilevanti, la
disposizione del comma 2 del presente articolo opera
solo per la parte della sanzione eccedente quella che
sarebbe stata applicabile in relazione alle violazioni
non penalmente rilevanti.
111
/ Rassegna di
giurisprudenza
07
SOCIETÀ
OBBLIGAZIONI
& CONTRATTI
7. Rassegna di
giurisprudenza
/ a cura di Christina FERIOZZI
/ Legittimità
DIRITTO SOCIETARIO
Fallimento
L’estinzione della qualità di imprenditore
individuale non è subordinata
alle formalità per le società.
Può manifestarsi insolvenza anche
se l’attivo supera il passivo
La disciplina di cui all’art. 2495 c.c., secondo la
quale l’iscrizione della cancellazione delle società di capitali e delle cooperative dal Registro
delle imprese, avendo natura costitutiva, estingue le società, anche se sopravvivono rapporti
giuridici dell’ente, non è estensibile alle vicende estintive della qualità di imprenditore individuale, il quale non si distingue dalla persona
fisica che compie l’attività imprenditoriale, sicché l’inizio e la fine della qualità di imprenditore non sono subordinati alla realizzazione
di formalità, ma all’effettivo svolgimento o al
reale venir meno dell’attività imprenditoriale.
Tale diversità di regime esclude anche l’applicabilità, all’accertamento dell’insolvenza dell’imprenditore individuale delle regole enunciate a
proposito delle società poste in liquidazione. Lo
stato di insolvenza richiesto ai fini della pronunzia dichiarativa del fallimento dell’imprenditore
non è escluso dalla circostanza che l’attivo superi il passivo (per le consistenze immobiliari
possedute dall’imprenditore individuale) e che
non esistano conclamati inadempimenti esteriormente apprezzabili (cfr. Cass. n. 7252/2014).
Il significato oggettivo dell’insolvenza, che è
quello rilevante agli effetti dell’art. 5 L. Fall.,
deriva da una valutazione circa le condizioni
economiche necessarie (secondo un criterio di
normalità) all’esercizio di attività economiche,
si identifica con uno stato di impotenza funzionale non transitoria a soddisfare le obbligazioni inerenti all’impresa e si esprime, secondo
una tipicità desumibile dai dati dell’esperienza
economica, nell’incapacità di produrre beni con
margine di redditività da destinare alla copertura delle esigenze di impresa (prima fra tutte l’estinzione dei debiti), nonché nell’impossibilità di
ricorrere al credito a condizioni normali, senza
rovinose decurtazioni del patrimonio. Il convincimento espresso dal giudice di merito circa la
sussistenza dello stato di insolvenza costituisce
113
apprezzamento di fatto, incensurabile in cassazione, ove sorretto da motivazione esauriente e
giuridicamente corretta.
Cass. 7.1.2016 n. 98
Amministratori
Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
Il compenso non può essere approvato
implicitamente in sede di bilancio
114
In merito alla determinazione della misura
del compenso degli amministratori di società di capitali, ai sensi dell’art. 2389 comma 1
c.c. (nel testo vigente prima delle modifiche,
non decisive sul punto, di cui al DLgs. 6/2003),
qualora non sia stabilita nello statuto, è necessaria una esplicita delibera assembleare, che
non può considerarsi implicita in quella di approvazione del bilancio, attesa la natura imperativa e inderogabile della previsione normativa, discendente dall’essere la disciplina del
funzionamento della società dettata, anche,
nell’interesse pubblico al regolare svolgimento dell’attività economica, oltre che dalla previsione come delitto della percezione di compensi non previamente deliberati dall’assemblea
(art. 2630 comma 2 c.c., abrogato dall’art. 1
del DLgs. 61/2002). Ciò senza dimenticare la
distinta previsione della delibera di approvazione del bilancio e di determinazione dei
compensi (art. 2364 nn. 1 e 3 c.c.); la mancata
liberazione degli amministratori dalla responsabilità di gestione, nel caso di approvazione
del bilancio (art. 2434 c.c.) e il diretto contrasto
delle delibere tacite ed implicite con le regole
di formazione della volontà della società (art.
2393 comma 2 c.c.).
Conseguentemente, l’approvazione del bilancio
contenente la posta relativa ai compensi degli
amministratori non è idonea a configurare la
specifica delibera richiesta dall’art. 2389 c.c.,
salvo che un’assemblea convocata solo per
l’approvazione del bilancio, essendo totalitaria,
non abbia espressamente discusso e approvato la proposta di determinazione dei compensi
degli amministratori (cfr. Cass. n. 20265/2013
e n. 17673/2013).
Cass. 4.12.2015 n. 24768
Impresa familiare
Gli utili ricavati vanno reimpiegati
nell’attività e non redistribuiti
tra i partecipanti
La partecipazione ad un’impresa familiare, di
cui all’art. 230-bis c.c., comporta che la stessa
appartiene solo al suo titolare, e ciò anche nel
caso in cui alcuni beni aziendali siano di proprietà di uno dei familiari, a differenza dell’impresa collettiva (come quella coltivatrice), la
quale appartiene per quote, eguali o diverse, a
più persone. Nello schema dell’impresa di cui
all’art. 230-bis, gli utili non sono determinati in
proporzione alla quota di partecipazione (ma
alla quantità e qualità del lavoro prestato) e,
in assenza di un patto di distribuzione periodica, non sono naturalmente destinati ad essere ripartiti tra i partecipanti, ma al reimpiego
nell’azienda o all’acquisto di beni (v. Cass. n.
5448/2011 e n. 16477/2009). Pertanto, l’esclusione di una società (la quale, secondo Cass.
SS.UU. n. 23676/2014, è incompatibile con l’istituto disciplinato dall’art. 230-bis c.c.) implica l’inesistenza di quote e utili da ripartire tra
i pretesi soci.
Cass. 2.12.2015 n. 24560
OBBLIGAZIONI E CONTRATTI
Comunione ereditaria
per i crediti
La ripartizione di crediti e debiti
in materia successoria segue
strade diverse
I crediti del “de cuius”, a differenza dei debiti,
non si ripartiscono tra i coeredi in modo automatico in ragione delle rispettive quote, ma
entrano a far parte della comunione ereditaria,
essendo la regola della ripartizione automatica dell’art. 752 c.c., prevista solo per i debiti,
mentre la diversa disciplina per i crediti risulta dal precedente art. 727 c.c., il quale, stabilendo che le porzioni debbano essere formate
comprendendo anche i crediti, presuppone
che gli stessi facciano parte della comunione,
nonché dal successivo art. 757 c.c., il quale,
prevedendo che il coerede al quale siano stati
assegnati tutti o l’unico credito, succede nel
credito al momento dell’apertura della successione, rivela che i crediti ricadono nella
comunione, ed è, inoltre, confermata dall’art.
760 c.c., che escludendo la garanzia per insolvenza del debitore di un credito assegnato a
un coerede, necessariamente presuppone che
i crediti siano inclusi nella comunione; né, in
contrario, può argomentarsi dagli artt. 1295 e
1314 c.c., concernendo il primo la diversa ipotesi del credito solidale tra il “de cuius” ed altri
soggetti e il secondo la divisibilità del credito
in generale. Conseguentemente, ciascuno dei
partecipanti alla comunione ereditaria può
agire singolarmente per far valere l’intero
credito comune, o la sola parte proporzionale
alla quota ereditaria, senza necessità di integrare il contraddittorio nei confronti di tutti gli
altri coeredi, ferma la possibilità che il convenuto debitore chieda l’intervento di questi ultimi in presenza dell’interesse all’accertamento
nei confronti di tutti della sussistenza o meno
del credito.
tuzione nell’ipotesi di sopravvenienza di un
bisogno, ai sensi dell’art. 1809 comma 2 c.c.
deve risultare contraddistinto dai requisiti
della urgenza e della non previsione. Ed infatti ai sensi dell’art. 1809 comma 2 c.c., consegue che non solo la necessità di un uso diretto
ma anche il sopravvenire d’un imprevisto deterioramento della condizione economica del
comodante – che giustifichi la restituzione del
bene ai fini della sua vendita o di una redditizia locazione – consente di porre fine al comodato, ancorché la sua destinazione sia quella
di casa familiare, ferma, in tal caso, la necessità che il giudice eserciti con massima attenzione il controllo di proporzionalità e adeguatezza nel comparare le particolari esigenze di
tutela della prole e il contrapposto bisogno del
comodante (Cass. SS.UU. n. 20448/2014).
Il contratto di comodato stipulato per esigenze familiari è un contratto a parti soggettivamente complesse e le obbligazioni che sorgono con il contratto sono tante quanti sono
i titolari/destinatari degli effetti del contratto.
Pertanto, la risoluzione di uno solo dei componenti della parte complessa non può realizzare effetti nei confronti di tutti gli altri.
Cass. 1.12.2015 n. 24449
Cass. 3.12.2015 n. 24618
Contratto di comodato
Il comodato a tempo indeterminato
non può essere revocato ad nutum
Ove il comodato di un bene immobile sia stato stipulato senza limiti di durata in favore di
un nucleo familiare (nella specie: dal genitore
di uno dei coniugi) già formato o in via di formazione, si versa nell’ipotesi del comodato a
tempo indeterminato, caratterizzato dalla non
prevedibilità del momento in cui la destinazione del bene verrà a cessare. In tal caso, per
effetto della concorde volontà delle parti, si
è impresso allo stesso un vincolo di destinazione alle esigenze abitative familiari idoneo
a conferire all’uso il carattere implicito della
durata del rapporto, anche oltre la crisi coniugale e senza possibilità di far dipendere la
cessazione del vincolo esclusivamente dalla
volontà, ad nutum, del comodante.
La facoltà del comodante di chiedere la resti-
Contratto di mediazione
Il diritto alla provvigione può essere
posticipato alla sottoscrizione
del contratto definitivo
La conclusione dell’affare, quale fonte del diritto del mediatore alla provvigione, coincide
con il compimento di un’operazione di contenuto economico risolventesi in un’utilità di carattere patrimoniale e, cioè, di un atto in virtù
del quale si costituisca un vincolo che dia diritto di agire per l’adempimento dei patti stipulati
o, in mancanza, per il risarcimento del danno.
Da ciò deriva che è sufficiente la conclusione di
un contratto preliminare a fondare il diritto del
mediatore alla provvigione (ex plurimis Cass.
n. 4111/2001; Cass. n. 6599/2001). È questo il
requisito minimo, essendo nella facoltà delle
parti derogare alla disciplina legale e procrastinare l’acquisto del diritto alla provvigione al
115
momento della sottoscrizione del contratto definitivo (Cass. n. 9676/1997). L’indagine diretta
a stabilire se le parti siano rimaste nell’ambito delle trattative ovvero abbiano concluso un
contratto preliminare è rimessa al giudice di
merito, il cui apprezzamento è insindacabile in
sede di legittimità se sorretto da motivazione
logica, esauriente e non inficiata da violazione
di norme di ermeneutica contrattuale (Cass. n.
2924/1996; Cass. n. 7871/1990).
Cass. 30.11.2015 n. 24397
Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
Limitazione
della responsabilità
professionale
116
Il giudice può ritenere applicabile
l’esimente per problemi di speciale
difficoltà
Il giudice può ritenere applicabile l’art. 2236
c.c., che limita la responsabilità del prestatore
d’opera intellettuale nel caso di risoluzione di
problemi tecnici di speciale difficoltà (nel caso
di specie pur ritenendo sussistente la colpa
del professionista si trattava di un’imperizia di
grado medio, che non assurgeva al rango di
colpa grave, perché la risoluzione del quesito
era stata reputata non semplice per un giovane avvocato). L’individuazione della difficoltà
della prestazione non deve essere oggetto di
eccezione di parte. Ciò in quanto nel nostro
ordinamento le eccezioni in senso stretto,
cioè quelle rilevabili soltanto ad istanza di
parte, si identificano o in quelle per le quali la legge espressamente riservi il potere di
rilevazione alla parte o in quelle in cui il fatto
integratore dell’eccezione corrisponde all’esercizio di un diritto potestativo azionabile in
giudizio da parte del titolare e che, quindi, per
svolgere l’efficacia modificativa, impeditiva od
estintiva di un rapporto giuridico, suppone il
tramite di una manifestazione di volontà della
parte (da sola o realizzabile attraverso un accertamento giudiziale). Non può, dunque, ritenersi eccezione in senso stretto, quella relativa alla “speciale difficoltà” della prestazione,
con l’ulteriore conseguenza che il giudice
ben può accertarne l’esistenza o l’inesistenza
in concreto, ex officio, in base alle risultanze
ritualmente acquisite.
Cass. 22.12.2015 n. 25746
/ Merito
DIRITTO SOCIETARIO
Progetto di bilancio di srl
Deposito presso la sede sociale anche
con termini ridotti senza ledere
il diritto di informazione
Il deposito del progetto di bilancio d’esercizio presso la sede della società, quanto meno
nell’ambito delle srl, può avvenire, senza il rischio di conseguenze, negli otto giorni precedenti l’assemblea e non nel termine normativamente previsto di quindici giorni. L’art. 2429
comma 3 c.c. deve essere coordinato con le
altre disposizioni del codice civile e, in particolare, con quelle che regolano il funzionamento
degli organi deliberativi della società ovvero
con l’art. 2479-bis comma 1 c.c., secondo cui
l’assemblea, in assenza di diverse indicazioni,
deve essere “convocata” almeno otto giorni prima della data dell’adunanza senza prevedere
una diversa regolamentazione per l’ipotesi in
cui l’assemblea sia funzionale all’approvazione
del bilancio di esercizio. Dal combinato disposto di tali norme discende che è sufficiente che
il progetto di bilancio venga depositato presso
la sede sociale negli otto giorni precedenti l’assemblea, dovendosi così ritenere comunque
garantito il diritto di informazione del socio.
Trib. Latina 18.11.2015 n. 2771
Responsabilità
amministratori e sindaci
Il ricorso al credito in situazione
di crisi comporta negligenza
per amministratori e violazione
della diligenza per i sindaci
L’amministratore che, mascherando la situazio-
ne di crisi o di insolvenza della società mediante
alterazione dei documenti contabili, faccia ricorso al credito bancario e determini così un aggravamento del passivo patrimoniale, incorre nella
responsabilità ex artt. 2392-2394 c.c., in quanto
ha attuato una condotta negligente. Parimenti,
detto ricorso abusivo al credito da parte degli
amministratori è titolo di responsabilità anche
per i sindaci ove questi, pur (dovendo essersi)
avveduti dell’insostenibilità finanziaria dell’indebitamento verso terzi, omettano di azionare
gli strumenti di tutela loro consentiti dall’ordinamento (artt. 2403-bis, 2406 e 2409 c.c.) o
quantomeno di sollevare rilievi nelle relazioni
ai bilanci d’esercizio, con ciò contravvenendo ai
propri doveri di controllo contabile e di gestione
(nel caso di specie i sindaci erano temporaneamente rimasti in due, ma a seguito di nomina del
nuovo componente, questi ha prontamente azionato la denuncia al tribunale, essendosi avveduto delle irregolarità. Pur non potendo evitare il
declino finale della società, a seguito della denuncia scaturisce la condanna agli amministratori, ai quali nel frattempo erano subentrati gli
eredi, e dei vecchi membri del Collegio rimasti in
carica, fatto salvo il sindaco denunciante).
Il danno in tal caso dovrà considerare non
solo l’importo complessivo dei finanziamenti ricevuti, ma piuttosto tutte le somme che la
società avrebbe dovuto restituire alle banche
finanziatrici in termini di spese, commissioni e
interessi corrispettivi e di mora.
Trib. Milano 25.9.2015
OBBLIGAZIONI E CONTRATTI
Professionista
Richiesta almeno diligenza media
per l’adempimento di obbligazioni
di mezzi
Le obbligazioni inerenti l’esercizio di un’attività
professionale sono, di regola, obbligazioni di
mezzi e non di risultato, in quanto il professionista si fa carico non già dell’obbligo di realizzare
il risultato (peraltro incerto e aleatorio) che il
cliente desidera, bensì di quello di esercitare diligentemente la propria professione, che a quel
risultato deve pur sempre essere finalizzata.
Pertanto, l’inadempimento del professionista
non può essere senz’altro desunto dal mancato
raggiungimento del risultato utile avuto di mira
dal cliente, ma va valutato alla stregua della
violazione dei doveri inerenti lo svolgimento
dell’attività professionale e, in particolare, del
dovere di diligenza. Quest’ultima, peraltro – trovando applicazione in subiecta materia il parametro della diligenza professionale di cui all’art.
1176 comma 2 c.c., in luogo del criterio generale della diligenza del buon padre di famiglia – va
commisurata alla natura dell’attività esercitata,
sicché la diligenza che il professionista deve
impiegare nello svolgimento dell’attività professionale in favore del cliente è quella media,
cioè la diligenza posta nell’esercizio della propria attività dal professionista di preparazione
professionale e di attenzione media (cfr. Cass.
n. 2466/1995; Cass. n. 3463/1988). La responsabilità del professionista, perciò, può trovare
fondamento in una gamma di atteggiamenti
soggettivi, che vanno dalla colpa lieve al dolo, a
meno che la prestazione professionale da eseguire in concreto involga la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, nel qual caso
la responsabilità è attenuata, configurandosi
solo nel caso di dolo o colpa grave (secondo l’espresso disposto dell’art. 2236 c.c.), ma non ove
nella sua condotta si riscontrino i soli estremi
della colpa lieve (cfr. Cass. n. 4152/1995; Cass.
n. 8470/1994).
In conseguenza dell’inadempimento del professionista, non può trovare accoglimento
neanche la domanda riconvenzionale da esso
proposta tesa ad ottenere il pagamento di
compensi per l’attività professionale risultata
malamente espletata.
Trib. Lecce 6.11.2015
117
DIRITTO PENALE
COMMERCIALE
7. Rassegna di
giurisprudenza
Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
/ a cura di Maurizio MEOLI
118
/ Legittimità
RESPONSABILITÀ 231
Costituzione nel processo
Reati tributari
Rappresentante legale e conflitto
di interessi
Reato associativo transazionale
e profitto confiscabile
In relazione al sequestro finalizzato alla
confisca per equivalente nei confronti di un
ente, a seguito della commissione da parte
dei vertici aziendali di un reato associativo
transnazionale finalizzato alla realizzazione di frodi fiscali, il profitto può consistere
anche nel complesso dei vantaggi direttamente conseguenti dall’insieme dei reati
fine.
Pertanto, il delitto di associazione per delinquere può essere considerato in sé idoneo a
generare un profitto, che è sequestrabile ai
fini della successiva confisca per equivalente, in via del tutto autonoma rispetto a quello
prodotto dai reati tributari commessi (ad oggi
esclusi dal novero dei reati presupposto di cui
al DLgs. 231/2001).
Cass. pen. 23.11.2015 n. 46162
Il legale rappresentante di una società, indagato
o imputato nel medesimo procedimento avverso
l’ente, non è legittimato ad esprimere la volontà di quest’ultimo né a nominare il difensore di
fiducia per lo stesso, ai sensi di quanto previsto
dall’art. 39 del DLgs. 231/2001. Nel caso in cui si
riscontri la sussistenza di un tale conflitto di interessi, deve dichiararsi la nullità assoluta di tutti i
gradi di giudizio; nullità che può estendersi fino a
travolgere l’udienza preliminare e il decreto che
ha disposto il rinvio a giudizio dell’ente.
Cass. pen. 21.12.2015 n. 50102
PENALE FALLIMENTARE
Bancarotta fraudolenta
per distrazione
Presupposti per il concorso del sindaco
In relazione al concorso del sindaco nel rea-
to di bancarotta fraudolenta per distrazione
dell’amministratore, occorre considerare che
le regole ed i principi utilizzabili nell’ambito
della responsabilità contrattuale non possono
essere automaticamente trasferiti nel campo della responsabilità penale. In tale ultimo
contesto, in particolare, occorre che il sindaco
abbia dato un contributo giuridicamente rilevante, sotto l’aspetto causale, alla verificazione dell’evento e che abbia avuto la
coscienza e la volontà di quel contributo, anche se solo a livello di dolo eventuale (a parte
i casi in cui è richiesto l’elemento soggettivo
del dolo specifico). Vale a dire che, in campo
penale, non basta imputare e provare comportamenti di negligenza o imperizia, anche gravi,
del sindaco, ma occorre la prova, anche indiziaria, del fatto che la sua condotta abbia
determinato o favorito, consapevolmente, la
commissione di fatti di bancarotta da parte
dell’amministratore. Si deve, inoltre, considerare, da un lato, che non è necessaria la
prova di un preventivo accordo tra amministratore e sindaco, e, dall’altro, che l’inerzia
di quest’ultimo, quale sinonimo di omissione,
come può essere frutto di mera negligenza,
può anche essere animata dal dolo, in tutte
le sue possibili graduazioni, ed essa, al pari
dell’azione, costituisce una modalità esecutiva
di un reato.
È reputata, quindi, corretta la decisione di merito nella parte in cui apprezza l’inerzia dell’imputato rispetto alla situazione complessiva e
non con riguardo a singole operazioni distrattive. Ciò che viene addebitato al sindaco, cioè,
non è il previo concerto con l’amministratore,
ma l’inerzia (pluriennale), consapevole e voluta, quale “condizione” degli eventi conseguiti
a quelle condotte. Atteggiamento che non può
non avere avuto, come effetto, il rafforzamento
del proposito criminoso dell’amministratore,
rassicurato dalla certezza che non sarebbero
state sollevate questioni dal controllore dinanzi ai soggetti legittimati a reagire (gli altri soci,
i creditori o il Pubblico Ministero). Il tutto integrando una forma di compartecipazione nel
reato rilevante ex art. 110 c.p.
Cass. pen. 16.12.2015 n. 49628
Bancarotta fraudolenta
patrimoniale
Natura di reato di pericolo
La condotta sanzionata dall’art. 216 del RD
267/1942 – e, per le società, dal successivo
art. 223 comma 1 – non è quella di avere cagionato lo stato di insolvenza o di avere provocato il fallimento, bensì – assai prima – quella
di depauperamento dell’impresa, consistente
nell’averne destinato le risorse ad impieghi
estranei all’attività dell’impresa medesima.
La rappresentazione e la volontà dell’agente
debbono perciò inerire alla “deminutio patrimonii” (semmai, occorre la consapevolezza
che quell’impoverimento dipenda da iniziative non giustificabili con il fisiologico esercizio
dell’attività imprenditoriale). Tanto basta per
giungere all’affermazione del rilievo penale
della condotta, per sanzionare la quale è sì
necessario il successivo fallimento, ma non
già che questo sia oggetto di rappresentazione e volontà – sia pure in termini di semplice
accettazione del rischio di una sua verificazione – da parte dell’autore.
È del resto innegabile che ci si trovi dinanzi
ad una fattispecie disegnata come reato di
pericolo. Anzi, la bancarotta fraudolenta patrimoniale è, più propriamente, reato di pericolo concreto, dove la concretezza del pericolo
assume una sua dimensione effettiva soltanto
nel momento in cui interviene la dichiarazione
di fallimento, condizione peraltro neppure indispensabile per l’esercizio dell’azione penale
o per l’adozione di provvedimenti “de libertate”, ai sensi del combinato disposto degli artt.
7 e 238 del RD 267/42. Ecco spiegato perché
rimane esente da pena il soggetto che impoverisca una società di risorse enormi, quando
questa può comunque continuare a disporne
di ben più rilevanti, idonee a fornire garanzia per le possibili pretese creditorie: in quel
caso, a differenza dell’ipotesi dell’imprenditore che si renda responsabile di una distrazione modesta (ma a fronte di un patrimonio
suscettibile di risentirne significativamente),
il pericolo di un pregiudizio per i creditori non
avrà assunto la concretezza richiesta dal dato
normativo.
119
In sostanza, e in definitiva, l’imprenditore deve
considerarsi sempre tenuto ad evitare l’assunzione di condotte tali da esporre a possibile pregiudizio le ragioni dei creditori, non nel
senso di doversi astenere da comportamenti
che abbiano in sé margini di potenziale perdita
economica, ma da quelli che comportino diminuzione patrimoniale senza trovare giustificazione nella fisiologica gestione dell’impresa.
Cass. pen. 16.12.2015 n. 49622
PENALE TRIBUTARIO
Dichiarazione infedele
Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
Effettività del risparmio d’imposta
oggetto di sequestro (e confisca)
per equivalente
120
Il profitto del reato fiscale, oggetto di sequestro preventivo per equivalente, può consistere in un risparmio di imposta, sempre che sia
“effettivo” e non meramente “virtuale”, come
finirebbe per essere una perdita minore rispetto a quella dichiarata in mancanza di elementi che consentano di “tradurre” la stessa in
un risparmio di imposta per gli anni successivi.
Nella specie, in particolare, il Giudice del riesame, nell’annullare il vincolo patrimoniale,
aveva rilevato che, a fronte dei costi fittizi, l’infedele dichiarazione contestata avrebbe comportato, al più, la rettifica di una minor perdita.
Tuttavia, pur dovendosi riconoscere la conseguente possibilità per il contribuente di un
beneficio per gli anni successivi, era in atti del
tutto carente ogni risultanza relativa a questi
ultimi. Nel condividere l’argomentazione, la Suprema Corte adduce anche la nuova formulazione dell’art. 1 comma 1 lett. f) ultima parte del
DLgs. 74/2000, come integrato a seguito della
recente revisione del sistema penale tributario
(DLgs. 158/2015), per il quale, secondo un’accezione ritenuta già implicita nel testo previgente, “non si considera imposta evasa quella
teorica e non effettivamente dovuta collegata ad
una rettifica in diminuzione di perdite dell’esercizio o di perdite pregresse spettanti e utilizzabili”.
Cass. pen. 6.11.2015 n. 44644
Omesso versamento IVA
Elemento soggettivo ed irrilevanza
delle ulteriori motivazioni dell’omesso
versamento
Il reato di cui all’art. 10-ter del DLgs. 74/2000
è una fattispecie a dolo generico e non a dolo
specifico, nel senso che l’elemento soggettivo
da essa richiesto è la coscienza e volontà di
presentare una dichiarazione IVA ed omettere il versamento entro il termine stabilito
delle somme in essa indicate, nella consapevolezza che il tributo evaso supera la soglia di
punibilità individuata dalla disposizione incriminatrice, a nulla rilevando eventuali ulteriori
motivi della scelta dell’agente di non versare
il tributo.
Cass. pen. 10.11.2015 n. 45033
Indebita compensazione
Collocazione della sede legale
della società funzionale
al riconoscimento di crediti d’imposta
Ove una società abbia la sede legale al “sud”
dell’Italia (in Sicilia), ma questa sia priva di uffici amministrativi o di dipendenti, nonché di
unità produttive, stabilimenti o linee di produzione o reparti, mentre, al contempo, sussista
una dichiarazione al Registro delle imprese
circa l’esistenza di una sede operativa in centro Italia, dove si ritrovano anche il domicilio e
la residenza del rappresentante legale, l’utilizzo
dei crediti d’imposta di cui all’art. 1 commi 271 e
279 della L. 296/2006 – discendenti dalla acquisizione di beni strumentali destinati a strutture
produttive ubicate, tra l’altro, nell’isola – può
determinare l’accusa di indebita compensazione ex art. 10- quater del DLgs. 74/2000 e, per
tal via, l’applicazione della misura del sequestro
(anche per equivalente) del relativo profitto. Rispetto a ciò non rileva il fatto che la competente
Commissione tributaria si sia espressa in senso contrario e, quindi, favorevole al diritto ad
usufruire del beneficio fiscale e che i contributi
INPS siano stati versati in Sicilia. Da una parte,
infatti, non esiste una pregiudiziale di natura tributaria nell’ambito del giudizio penale, dall’al-
tra, il versamento dei contributi costituisce
“semplicemente” la logica conseguenza della
collocazione della sede legale.
Cass. pen. 12.11.2015 n. 45279
Omesso versamento
di ritenute certificate
Condizioni per il riconoscimento
della forza maggiore
zione per delinquere se alla commissione
del reato ha contribuito, in tutto o in parte, un gruppo criminale organizzato, impegnato in attività criminali in più di uno
Stato e configurabile anche alla luce delle
indicazioni di cui all’art. 2 punti a) e c) della Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato del 15.11.2000
(c.d. “Convenzione di Palermo).
Il gruppo criminale organizzato è un qualcosa di diverso rispetto al semplice concorso di
persone e si diversifica anche dalla associazione a delinquere, perché può trattarsi di un
insieme di persone legate da rapporti stabili
che abbia costituito un’organizzazione autonoma e distinta da quella alla quale è riferibile
il reato, impegnata in attività illecite in più di
uno Stato, anche minimale e priva di una formale definizione di ruoli, sebbene non occasionale od estemporanea (cfr. Cass. SS.UU.
n. 18374/2013).
L’inadempimento dell’obbligazione tributaria
può essere attribuito a forza maggiore solo
quando derivi da fatti non imputabili all’imprenditore che non abbia potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti
dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico, escludendo che possa essere ascrivibile a forza maggiore la mancanza
della provvista necessaria all’adempimento
dell’obbligazione tributaria per effetto di una
scelta di politica imprenditoriale volta a fronteggiare una crisi di liquidità.
Cass. pen. 19.11.2015 n. 45935
Cass. pen. 18.11.2015 n. 45690
Omessa dichiarazione
Emissione di fatture relative
ad operazioni inesistenti
Prova dell’evasione e del superamento
della soglia, garanzie difensive e delega
ad un professionista
Concorso, elemento soggettivo
e transnazionalità
Il concorso nella emissione di fatture false
comporta l’esistenza “in re ipsa” del dolo specifico del fine di consentire a terzi l’evasione
delle imposte sui redditi o dell’IVA, giacché la
falsa fatturazione è intrinsecamente funzionale all’evasione fiscale.
La transnazionalità di cui all’art. 4 della L.
146/2006:
-- non è un elemento costitutivo di un’autonoma fattispecie, ma una qualità riferibile a
qualsiasi delitto a condizione che sia punito con la reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni e presenti le ulteriori
condizioni previste dalla norma citata;
-- produce gli effetti sostanziali e processuali di cui agli artt. 10, 11, 12 e 13 della
medesima legge;
-- è applicabile anche al delitto di associa-
La prova del reato di omessa presentazione
della dichiarazione (art. 5 del DLgs. 74/2000)
può essere acquisita attraverso l’elenco clienti
e fornitori e le fatture rinvenute presso terzi
in rapporti con l’imputato, se tale attività, ancorché svolta senza le garanzie difensive, sia
avvenuta quando era rilevabile la sola omessa
presentazione e non anche la condotta penalmente rilevante subordinata al superamento
della soglia di punibilità.
In base all’art. 220 disp. att. c.p.p., infatti, quando nel corso di attività ispettive o di vigilanza
previste da leggi o decreti emergano “indizi
di reato”, gli atti necessari per assicurare le
fonti di prova e raccogliere quant’altro possa
servire per l’applicazione della legge penale
sono compiuti con l’osservanza delle disposizioni del codice di procedura penale. La norma
fa riferimento agli “indizi di reato”. E, quindi,
l’obbligo previsto si perfeziona in un momento
121
Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016
122
antecedente al manifestarsi della comunicazione di notizia di reato al PM. Quest’ultimo
si pone in relazione ad una fattispecie criminosa sufficientemente determinata nei suoi
principali elementi oggettivi, anche se non nel
dettaglio; mentre l’indizio di reato presuppone
che, sulla base di uno o più fatti già rilevati, sia
presumibile desumere l’esistenza di un reato (nel caso di specie, peraltro, la Suprema
Corte, pur confermando il principio, respinge il
ricorso dell’imputato rilevando che gli accertamenti compiuti – ricostruzione del volume di
affari sulla base dell’elenco clienti e fornitori
e, successivamente, mediante le fatture della
società rinvenute presso terzi – attenevano
comunque ad un momento in cui era rilevabile solo l’omessa presentazione della dichiarazione annuale, ma non era certo ipotizzabile il superamento della soglia di punibilità).
L’accertamento induttivo compiuto dagli Uffici
finanziari può rappresentare un valido elemento di indagine per stabilire, in sede penale, se vi
sia stata evasione e se questa abbia raggiunto
le soglie di punibilità previste dalla legge, a condizione che il Giudice non si limiti a constatarne
l’esistenza e non faccia apodittico richiamo agli
elementi in esso evidenziati, ma proceda a specifica e autonoma valutazione degli elementi
nello stesso descritti comparandoli con quelli
eventualmente acquisiti “aliunde”.
Colui che abbia affidato ad un professionista
l’incarico di compilare la dichiarazione non può
dirsi, per ciò stesso, esonerato da responsabilità, sia perché la legge tributaria considera
come personale il relativo dovere, sia perché
una diversa interpretazione, che trasferisca il
contenuto dell’obbligo in capo al delegato, finirebbe per modificare l’obbligo originariamente previsto per il delegante in mera attività di
controllo sull’adempimento da parte del soggetto delegato (cfr. Cass. n. 9163/2010).
Occultamento o distruzione
di documenti contabili
Cass. pen. 24.11.2015 n. 46500
Cass. pen. 26.11.2015 n. 46857
Modalità di occultamento
L’occultamento delle scritture contabili che integra gli estremi del delitto può realizzarsi con
qualsivoglia modalità e, quindi, sia con il materiale nascondimento nello stesso posto o in
altro luogo rispetto a quello dove i documenti
devono essere conservati, che con il mero rifiuto di esibirli.
Cass. pen. 26.11.2015 n. 46851
Dichiarazione fraudolenta
mediante uso di fatture false
Rilevanza ai fini IVA delle fatture
soggettivamente false
L’utilizzazione nella dichiarazione fiscale di
fatture per operazioni “soggettivamente” inesistenti integra la fattispecie di cui all’art. 2 del
DLgs. 74/2000 e legittima il sequestro, anche
per equivalente, finalizzato alla confisca del
profitto del reato. L’emissione della fattura da
parte di un soggetto diverso da quello autore
della cessione o prestazione non è collegabile alla nozione di “operazione effettuata” (art.
19 comma 1 del DPR 633/1972) e quindi non
consente la detraibilità dell’IVA difettandone il
presupposto. L’imposta sarà, pertanto, ex art.
21 comma 7 del DPR 633/1972, da considerarsi “fuori conto”, “estraniata” dal meccanismo
di compensazione tra IVA “a valle” ed IVA “a
monte” su cui si fonda la detrazione di imposta. Tuttavia, la detraibilità del tributo rimane
consentita qualora il committente/cessionario
ignori in buona fede di aver partecipato con il
proprio acquisto all’illecito fiscale (cfr. Corte di
Giustizia UE 21.6.2012, relativa alle cause riunite C-80/11 e C-142/11).
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