01 Rivista mensile di diritto e pratica per la gestione delle imprese GENNAIO 2016 COORDINAMENTO E DIREZIONE SCIENTIFICA Luciano DE ANGELIS Ermando BOZZA Dottore Commercialista e Revisore Legale - Presidente Commissione sistemi di controllo e collegio sindacale presso il CNDCEC Dottore Commercialista e Revisore Legale Componente Commissione CNDCEC Principi di revisione Area società e contratti Area bilancio e revisione Niccolò ABRIANI Giovanni Carlo ALLIONE Ordinario di Diritto commerciale nell’Università di Firenze Avvocato Dottore Commercialista e Revisore Legale - Gruppo di Studio Eutekne Giovanni BARBARA Ordinario di Bilanci e comunicazione economico-finanziaria nell’Università di Salerno - Componente Commissione CNDCEC Principi di revisione Docente di Diritto societario e Corporate governance nell’Università LUM Jean Monnet - Avvocato e Revisore Legale, Partner responsabile di KStudio Associato Valerio ANTONELLI Fabrizio BAVA Carlo Alberto BUSI Associato di Economia aziendale nell’Università di Torino Dottore Commercialista e Revisore Legale Notaio - Commissione Società del Comitato dei Notai del Triveneto Raffaele D’ALESSIO Oreste CAGNASSO Ordinario di Diritto commerciale nell’Università di Torino Avvocato Associato in Scienze Aziendali - Management & Innovation System/ DISA-MIS nell’Università di Salerno - Presidente Commissione CNDCEC Principi di revisione Ivo CARACCIOLI Andrea FRADEANI Già Ordinario di Diritto penale nell’Università di Torino - Avvocato Gino CAVALLI Avvocato - Già Ordinario di Diritto commerciale nell’Università di Torino Francesco FIMMANÒ Ordinario di Diritto commerciale nell’Università degli Studi del Molise Avvocato e Revisore Legale Federico MAGLIULO Notaio Marco MACERONI Direttore Div. VI Registro imprese del Ministero dello sviluppo economico - C.M. di Diritto commerciale nell’Università LUISS Roma Docente Master II livello International business law nell’Università La Sapienza Roma - Docente Istituto G. Tagliacarne per la promozione economica, Roma Bartolomeo QUATRARO Magistrato Paolo REVIGLIONO Ordinario di Diritto commerciale nell’Università “Universitas Mercatorum” Notaio Ciro SANTORIELLO Magistrato - Sostituto procuratore presso il Tribunale di Torino Federico TASSINARI Associato di Economia aziendale nell’Università di Macerata Dottore Commercialista e Revisore Legale Gaspare INSAUDO Dottore Commercialista e Revisore Legale Vice Presidente Commissione Controllo Societario ODCEC Milano Roberto JANNELLI Aggregato di Ragioneria pubblica e bancaria nell’Università di Benevento Daniela MANCINI Ordinario di Economia aziendale nell’Università di Napoli “Parthenope“ Presidente AMAC nell’Università di Pisa Raffaele MARCELLO Docente di discipline aziendali nelle Università di Pescara e di Napoli Componente CNDCEC - Membro del Consiglio di Gestione dell’OIC Dottore Commercialista e Revisore Legale Luisa POLIGANO Partner KPMG Milano - Componente ASSIREVI Roberta PROVASI Ricercatrice di Economia aziendale nell’Università di Milano Bicocca Antonio TETI Responsabile Area Servizi Informatici - Docente di IT Governance, IT Security e Cyberspace Science nell’Università “G. D’Annunzio” Marco VENUTI Notaio Dottore Commercialista e Revisore Legale - Titolare di contratto int. in principi contabili e informativa finanziaria nell’Università Roma Tre Alessandro TRAVERSI Andrea ZIRUOLO Docente di Diritto penale tributario presso la Scuola di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza - Avvocato Straordinario di Economia aziendale nell’Università di Pescara Dottore Commercialista e Revisore Legale PERIODICITÀ, CONDIZIONI E MODALITÀ DI ABBONAMENTO Abbonamento annuale € 290,00 Al fine di assicurare la continuità nell’invio della rivista, l’abbonamento si intende rinnovato nel caso in cui non sia pervenuta a Eutekne comunicazione scritta di disdetta 30 giorni prima della scadenza dell’abbonamento. Il prezzo dell’abbonamento è comprensivo di IVA 4%, che viene corrisposta all’editore ai sensi dell’art. 1 DM 29.12.1989. 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Codice Fiscale, Partita I.V.A. e Registro Imprese di Torino 05546030015 01 01 / Diritto societario 6 LE ASSENZE DEI SINDACI ALLE RIUNIONI DEL COLLEGIO, DEL CDA E ALLE ASSEMBLEE Luciano DE ANGELIS 17 SOCIETÀ PUBBLICHE E RESPONSABILITÀ DEGLI ORGANI SOCIALI Francesco FIMMANÒ 02 / Obbligazioni e contratti 43 CRITICITÀ E CONSIGLI NELLA REDAZIONE DEI CONTRATTI: LA CESSIONE DEL CREDITO Cristiano BERTAZZONI 03 / La Sentenza del mese 53 PREVISIONE DI UN TERMINE DI DURATA ECCEDENTE LA VITA MEDIA DI UN ESSERE UMANO E DIRITTO DI RECESSO NELLA SRL Tribunale di Roma 22.10.2015 n. 21224 Paolo REVIGLIONO 04 / Bilancio 68 LE COSTRUZIONI IN ECONOMIA: PROFILI CIVILISTICI, PRINCIPI CONTABILI NAZIONALI E RIFLESSI FISCALI Valerio ANTONELLI 05 / Revisione e vigilanza 79 LA VERIFICA DEI CREDITI COMMERCIALI IN FASE DI FINAL Ermando BOZZA 06 / Temi professionali 94 DELITTI IN MATERIA DI DOCUMENTI E PAGAMENTO DI IMPOSTE DISPOSIZIONI COMUNI: LE NOVITÀ DEL DLGS. 158/2015 Stefano COMELLINI 07 / Rassegna di giurisprudenza 113 A cura di Christina FERIOZZI / Maurizio MEOLI GENNAIO 2016 2015 SOCIETÀ E CONTRATTI a cura di Luciano DE ANGELIS / Diritto societario 01 Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 1. Diritto societario 6 LE ASSENZE DEI SINDACI ALLE RIUNIONI DEL COLLEGIO, DEL CDA E ALLE ASSEMBLEE Il tema delle assenze dei sindaci alle riunioni del Collegio sindacale, ai CdA e Comitati esecutivi ed alle assemblee, è da sempre oggetto di discussioni professionali, giurisprudenziali ed accademiche. Quando un’assenza può dirsi giustificata? Chi è tenuto a valutare la validità delle ragioni dell’assenza? Esse devono essere verbalizzate? Quali sono le conseguenze dell’assenza sulla validità del CdA e dell’assemblea? Quali quelle sulle assemblee totalitarie? Cosa succede se il Collegio non viene convocato alle assise? A queste ed altre questioni, alla luce della migliore dottrina e della giurisprudenza intervenuta si cercherà di dare una risposta ragionata nel presente lavoro. / Luciano DE ANGELIS * Ai sensi dell’art. 2404 c.c.: “Il sindaco che senza giustificato motivo non partecipa durante ad un esercizio sociale a due riunioni del collegio decade dall’ufficio”. In virtù del successivo art. 2405 c.c., inoltre, “I sindaci devono assistere alle adunanze del consiglio di amministrazione, alle assemblee e alle riunioni del comitato esecutivo. I sindaci, che non assistono senza giustificato motivo alle assemblee o, durante un esercizio sociale, a due adunanze consecutive del consiglio d’amministrazione o del comitato esecutivo, decadono dall’ufficio”. Da ciò consegue, da un lato, che la partecipazione dei singoli componenti alle riunioni dei vari organi sociali risulta assolutamente obbligatoria e non facoltativa e dall’altro che tali assenze, per non determinare la grave conseguenza sanzionatoria della decadenza, debbano essere opportunamente giustificate. Nel presente lavoro, alla luce della più qualificata posizione dottrinale e della (invero rara) giurisprudenza intervenuta sul tema, cercheremo di esplicitare il concreto significato e gli aspetti operativi di dette norme, evidenziando anche gli effetti di tali assenze sulla validità degli atti collegiali. LE ASSENZE DEL SINDACO ALLE RIUNIONI DEL COLLEGIO SINDACALE In primo luogo è da evidenziare che, nonostante il silenzio della legge, perché un sindaco possa definirsi assente ad una riunione del Collegio, è necessario che esso debba essere tempestivamente avvisato della stessa (attraverso raccomandata, telegramma, telefax, * Presidente Commissione sistemi di controllo e collegio sindacale presso il CNDCEC - Dottore Commercialista e Revisore Legale Pubblicista posta elettronica, ecc., purché vi sia conferma di ricezione documentata). Nell’avviso, che dovrà essere ricevuto in un tempo ragionevolmente anteriore alla data prevista per la riunione, devono essere presenti le indicazioni, del luogo, giorno ed ora dell’assise 1. Ciò premesso andiamo ad analizzare le problematiche che possono manifestarsi in relazione all’assenza del sindaco, a partire dalla previsioni del comma 2 dell’art. 2404 c.c., che stabilisce la decadenza dall’incarico per il sindaco che, senza un giustificato motivo risulti assente, durante l’esercizio a due riunioni, non necessariamente consecutive, del Collegio sindacale. Si tratta di una decadenza di tipo sanzionatorio prevista dalla legge che non può essere ampliata attraverso clausole statutarie 2, ma neppure eliminata attraverso specifiche previsioni del contratto sociale. La prima questione da chiarire riguarda, in questi casi, il fatto che la decadenza del sindaco avvenga di diritto (ipso jure), come ha ritenuto la Cassazione 3 e una parte della dottrina 4, o se debba essere accertata dall’assemblea, tesi preferita da altra dottrina e giurisprudenza 5. Quest’ultima teoria appare maggiormente convincente in quanto anche a fronte di una decadenza automatica, un’attività di accertamento, con efficacia dichiarativa, appare nei fatti imprescindibile. La decadenza, si è detto, si manifesta solo se, l’assenza del sindaco non avviene per giustificato motivo, dacché deriva l’esigenza operati- va di circoscrivere ed evidenziare da un lato le situazioni che configurino o meno il giustificato motivo6, e dall’altro quella di individuare chi concretamente può essere ritenuto idoneo a fornirne una oggettiva valutazione sulle ragioni che hanno determinato l’assenza. Tra i motivi atti a giustificare l’assenza del sindaco dalle riunioni del Collegio (motivazioni che possono essere addotte anche per giustificare l’assenza del sindaco alle adunanze delle assemblee o del Consiglio di Amministrazione) deve essere inserita, ad avviso di chi scrive, oltre alle ovvie cause di forza maggiore (malattia, infortunio del sindaco in costanza delle riunioni, gravi problemi familiari, convocazioni del tribunale, ecc.), la mancata convocazione personale. In generale, quindi, anche se poi la situazione va vagliata caso per caso, quando un sindaco non è stato avvisato con congruo anticipo delle riunioni del Collegio (ma la circostanza è sicuramente da estendersi anche per la partecipazione alle assemblee, ai CdA ed ai comitati esecutivi), la sua assenza da dette adunanze appare giustificata7. Ovviamente non giustificabile risulta, invece, l’assenza in situazioni in cui il sindaco era a conoscenza delle riunioni a cui avrebbe dovuto partecipare e senza nessun preavviso ed idonea motivazione omette di partecipare all’assise. Dubbia è la validità di una giustificazione del sindaco basata su ulteriori impegni di lavoro. Condivisibile, a mio avviso, appare quella corrente dottrinale secondo cui tali assenze 1 Sul tema sui veda infra multis Ambrosini S., sub art. 2404 c.c., “Il nuovo diritto societario”, Commentario diretto da Cottino G., Bonfante G., Cagnasso O., Montalenti P., Zanichelli, Bologna, 2004, p. 911; e ancora Cavalli G. “I sindaci”, in “Trattato delle società per azioni”, diretto da Colombo G.E., Portale G.B., vol. V, UTET, Torino, 1992, p. 73. 2 Sul tema Cavalli G., cit., p. 734. 3 Cass. 1.4.1982 n. 2009, Foro It, 1982, I, c. 1276; conf. Cass. 30.3.1995 n. 3768, Le Società, 1995, p. 906. 4 Galgano F. “Diritto Commerciale. Le società”, Zanichelli, Bologna 2004, p. 337. 5 Per tutti ancora Cavalli G., secondo il quale la soluzione della decadenza ipso jure “non soddisfa in quanto, generalizzando l’efficacia automatica delle decadenze, non riesce a spiegare in termini convincenti quando e come verrebbe a prodursi la cessazione dall’ufficio quanto meno nei casi in cui l’evento estintivo si ricollega ad una condotta qualificata dall’elemento della colpevolezza” (“I sindaci”, cit. p. 62); Ghini A. “La decadenza dalla carica del sindaco assente o assenteista”, Il controllo soc. enti, 4/5, 2005, p. 520); in senso conforme in giur. Trib. Genova 19.7.1993, Giur. It., 1994, I, c. 327. 6 Ambrosini S. “L’amministrazione ed i controlli nella società per azioni”, Giur. comm, 2003, I, p. 319. 7 Riguardo alle assemblee, seppure in costanza delle norme previgenti rileva il Tedeschi G.U. “l’art. 2366 del codice civile prevede che l’ordine del giorno debba essere pubblicato sulla G.U., ma non si può pretendere che il sindaco debba esaminare la G.U. per essere informato della riunione assembleare, quindi anche per la partecipazione all’assemblea appare necessario che il sindaco venga preventivamente informato della convocazione” (“Il collegio sindacale”, in “Il Codice Civile”, Commentario diretto da Schlesinger P., Giuffrè, Milano,1992, p. 249). 7 Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 non siano da valutare con troppa indulgenza, poiché in tal modo si finirebbe per accentuare il carattere secondario che spesso viene attribuito all’ufficio, favorendo il fenomeno della moltiplicazione degli incarichi a discapito della effettività e della serietà dei controlli8. Due le motivazioni che mi spingono verso tale interpretazione. La prima e che, essendo la riunione sindacale da indirsi entro 90 giorni dalla precedente, il presidente ha un lasso di giorni considerevole (almeno fra l’80° ed il 90° direi) per trovarne uno che possa essere congeniale alla presenza dell’intero Collegio. Ciò senza considerare che qualora le riunioni venissero fissate annualmente i sindaci dovranno assolutamente evitare di assegnare la data designata alla riunione sindacale, ad altre diverse attività, rispettando e privilegiando, quindi, l’impegno sindacale. La seconda motivazione deriva poi dalle stesse norme di comportamento. In esse si prevede, infatti, che il candidato sindaco sia tenuto ad una congrua valutazione dell’impegno e del tempo richiesto dall’incarico e ne sconsigliano espressamente l’accettazione nel caso in cui il controllore in pectore ritenesse di non essere nella situazione professionale di poter svolgere adeguatamente la funzione a cui sarebbe demandato9. Ritengo, peraltro, che gli impegni extrasindacali del componente il collegio possano rendere la sua eventuale assenza più facilmente giustificabile ad un CdA o ad una assemblea, rispetto alle riunioni del collegio sindacale. Quest’ultima riunione, infatti, dovrà tenere conto solo delle esigenze dei tre sindaci mentre in un CdA, ad esempio si terrà conto, in primis, delle disponibilità dei consiglieri circostanze, queste ultime, che potrebbero rendere più “plausibile” la giustificazione del sindaco ad una riunione dell’organo volitivo rispetto a quella in un collegio sindacale. Secondo la giurisprudenza di merito e la dottrina prevalente l’onere di giustificare l’assenza grava sul sindaco e solo in assenza di giustificazione la decadenza andrà a determinarsi concretamente10. Una idonea cautela, sul tema, appare in ogni caso opportuna per consentire al sindaco di addurre le proprie ragioni per giustificarsi e solo qualora esso non lo faccia, o evidenzi ragioni pretestuose, potrà valutarsi l’inesistenza del giustificato motivo. In assenza di disposizioni sul tema si ritiene che l’organo deputato ad acclarare la decadenza del sindaco sia lo stesso Collegio sindacale (o meglio i componenti del Collegio non decaduti) quale organo immediatamente percettivo dei motivi della decadenza, motivazioni che evidentemente dovranno poi essere evidenziate all’assemblea. Il Collegio, peraltro, identifica, ad avviso di chi scrive, anche l’organo dotato di una maggiore obiettività e serenità nel valutare le cause di assenza11. Diversamente, la decadenza 8 8 In tal senso, Cavalli G., cit., p. 61. In senso conforme anche recente dottrina secondo la quale “non dovrebbero ritenersi giustificate quelle assenze motivate semplicemente da precedenti impegni di lavoro, poiché così facendo si darebbe per ammesso il carattere residuale dell’impegno del sindaco”. In tal senso, Franzoni M. “Del collegio sindacale – Della revisione legale dei conti”, in “Società per azioni. Dell’Amministrazione e del controllo”, t. III, “Commentario del codice civile Scialoja – Branca – Galgano”, Zanichelli, Bologna, 2015, p. 112. 9 Nei criteri operativi della norma 1.3., rubricata “Nomina, accettazione e cumulo degli incarichi”, si legge a riguardo: “Nel caso in cui il sindaco, effettuata tale valutazione [che tiene conto anche dell’impegno e del tempo richiesto nell’incarico n.d.a.], ritenga di non essere in grado di partecipare adeguatamente alle attività proprie dell’incarico, è opportuno che non lo accetti ovvero vi rinunci, salvo che sia possibile adottare adeguate misure di salvaguardia”. 10 In giurisprudenza si è ritenuto come spetti al sindaco che non possa essere presente fornire le idonee giustificazioni. Trib. Genova 13.5.1995, Foro Pad., 1995, I, c. 280. Non pare invece assolutamente condivisibile una antecedente sentenza dello stesso Tribunale secondo il quale, l’assenza ingiustificata “non è tale, di per sé (a seguito della) sua mancata enunciazione nel verbale, allorché risulti, dalla prassi seguita e dalle formule usate, che vi è stata una valutazione delle assenze del sindaco come giustificate; né essa può ritenersi verificata quando manchi il benché minimo elemento che consenta di ritenere i sindaci presenti inadempienti ai loro doveri di obiettiva valutazione della giustificabilità dell’assenza”. Trib. Genova 19.7.1993, cit. In dottrina si è evidenziato, a riguardo, che “pare ragionevole ritenere che l’obbligo di giustificazione debba rimanere comunque a carico del sindaco assente, sicché non è richiesto nessun accertamento d’ufficio della sussistenza di una causa di giustificazione, ai fini della validità della pronuncia. Ciò è tanto più vero se si considera che nel procedimento che culmina nel provvedimento accertativo della decadenza, la partecipazione del sindaco non è affatto necessaria. Di conseguenza l’accertamento del fatto presupposto dovrebbe limitarsi al dato risultante dai documenti”. Ancora, Franzoni M., cit. p. 112. 11 In tal senso, peraltro, in dottrina anche Tedeschi G.U., cit., p. 252 ss., mentre in giurisprudenza la tesi è stata fatta propria da Trib. Napoli 16.3.1989, in Banca Dati Eutekne. potrebbe prestarsi a troppo facili giochi, soprattutto da parte del CdA, per sbarazzarsi di un sindaco sgradito. Se è vero infatti che, secondo consolidata giurisprudenza di legittimità, la decadenza dall’ufficio di sindaco per una delle cause previste dagli artt. 2404 e 2405 c.c. si verifica in modo automatico, come conseguenza dell’assenza ingiustificata dello stesso dalle riunioni del Collegio sindacale, dalle adunanze del Consiglio di Amministrazione o dalle assemblee, senza che a tal fine sia necessaria alcuna deliberazione assembleare che, se intervenuta, assume valore di accertamento dichiarativo e non costitutivo della avvenuta decadenza12, è altrettanto vero che tale causa di decadenza potrebbe sine die rimanere priva di effetti se qualcuno non provveda ad accertarla. Ne consegue che se, come correttamente ritenuto dalla giurisprudenza13, la decadenza in questi casi è automatica (sottraendola in tal modo a qualsiasi competenza assembleare, la quale, sostanzialmente opererebbe una revoca), il Collegio sindacale (o in assenza agli altri organi sociali) è tenuto alla “dichiarazione di decadenza”. Perché ciò accada (o non accada), a livello operativo, si è in accordo con autorevole dottrina14 secondo cui i componenti presenti alla riunione del Collegio dovranno evidenziare nel verbale l’assenza e dare contezza del giustificato (o ingiustificato) motivo della stessa. D’altro canto, i sindaci presenti sono gli unici, nel caso di specie, a poter valutare le motivazioni dell’assenza e delegati a ricevere giustificazioni per via orale o eventuale documentazione scritta a suffragio delle ragioni della stessa (es., certificato medico, convocazioni del Tribunale, ecc.) nonché a valutare, in relazione ad esse, la plausibile giustificazione o meno dell’assenza anche ai fini di una paven- tabile decadenza. Tale tesi è suffragata anche da più recente dottrina15 e da una giurisprudenza di merito16. Le norme di comportamento richiedono al sindaco assente dalla riunione collegiale, di prendere visione del verbale redatto dagli altri membri del Collegio, al fine di conoscere i controlli espletati in sua assenza, i rilievi posti in essere dagli altri membri del Collegio e le eventuali deliberazioni adottate. Di tale attività di verifica è opportuno che l’assente dia atto, sottoscrivendo per presa visione, il verbale redatto nella riunione a cui esso non abbia partecipato17. Tale procedura appare doverosa per consentire anche al sindaco assente alla riunione di conservare una “visione d’insieme”, di tutte le situazioni che nel periodo vive la società e delle verifiche, osservazioni, ed eventuali poteri di reazione che i sindaci potranno/ dovranno assumere. Ovviamente tale lettura non equivarrà alla presenza alla riunione, nella quale il sindaco potrà prendere contezza di informazioni non verbalizzate e soprattutto porre domande al CdA su vicende a lui non chiare. Si discute, infine, in dottrina su quali siano le conseguenze per i sindaci che omettano di riunirsi ogni 90 giorni, situazione, questa che di certo non può costituire un giustificato motivo d’assenza, in quanto nell’inerzia del presidente appare evidente che l’obbligo di convocazione incomba sugli altri sindaci. Una preferibile dottrina ritiene ravvisabili in tale situazione circostanze similari a quelle che determinano la decadenza sanzionatoria, posto che la mancata convocazione e la conseguente carenza di qualsiasi riunione si risolvono necessariamente nella mancata (e ingiustificata) partecipazione di tutti i sindaci alle sedute richieste dal codice e conseguente- 12 Cass. n. 3768/1995, cit. Conf. Cass. 1.4.1982 n. 2009, Foro It., 1982, I, c. 1276. 13 Cass. n. 3768/1995, cit.; Trib. Genova 27.4.1995, in Banca Dati Eutekne; Cass. n. 2009/1982, cit. 14In tal senso Salafia V. “Effetti delle cause di decadenza dei sindaci sul funzionamento del collegio sindacale”, Le Società, 1983, p. 155. 15 Ghini A. “la decadenza dalla carica del sindaco assente o assenteista”, Il controllo soc. enti, 2005, p. 520. 16 In giurisprudenza, sul tema, si è evidenziato come “la tesi giurisprudenziale e dottrinale secondo cui il verificarsi della decadenza produce effetti ipso jure non ne esclude una necessaria attività di accertamento, sia pur dichiarativa, da parte degli organi sociali. Tale attività è funzionale tra l’altro all’iscrizione e pubblicazione della cessazione dalla carica, da cui discende la sua opponibilità ai terzi”. Trib. Genova 19.7.1993, cit. 17 Ancora norma di comportamento 2.1. “Funzionamento”, criteri applicativi. 9 Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 10 mente nella loro decadenza globale18. D’altro canto non si capisce, si è ritenuto, “perché la totale inattività del Collegio dovrebbe ricevere un trattamento meno severo rispetto a quello sancito per le assenze ingiustificate alle riunioni prescritte e formalmente indette”19. È stato altresì affermato a riguardo come “non si tratta di interpretare analogicamente una norma eccezionale, ma di applicare direttamente – o in via estensiva – l’art. 2404, comma 2, dato che la mancata convocazione e la conseguente carenza di qualsiasi riunione si risolvono necessariamente nella mancata partecipazione di tutti i sindaci alle riunioni richieste dalla legge”20. Tale posizione non è tuttavia condivisa dalla giurisprudenza, da sempre orientata verso una esegesi letterale e non analogica dell’art. 2404 comma 2 c.c. con conseguente interpretazione tassativa delle cause di decadenza. Essa, infatti, seppure in epoca non recente ha costantemente affermato che la mancata tenuta da parte del Collegio sindacale delle prescritte riunioni trimestrali non comporti la decadenza ex art. 2404 comma 2 c.c., bensì integri un’ipotesi di revoca degli stessi per giusta causa21. LA MANCATA PARTECIPAZIONE DEI SINDACI ALLE ASSEMBLEE ED AI CONSIGLI DI AMMINISTRAZIONE Le considerazioni effettuate in merito alla mancata partecipazione dei sindaci alle riu- nioni dell’organo di controllo valgono sostanzialmente anche nei casi in cui gli stessi, regolarmente convocati, disertino le assemblee ed i Consigli di Amministrazione. Rispetto alle situazioni che determinano la decadenza del sindaco che non partecipi nell’esercizio a due riunioni del Collegio sindacale, l’art. 2405 c.c. sanziona con la decadenza anche una sola mancata partecipazione del sindaco all’assemblea, qualora la stessa risulti ingiustificata22. Il trattamento rigoroso in merito all’assenteismo alle assemblee trova giustificazione, secondo una condivisibile dottrina, “nella normale cadenza annuale delle riunioni assembleari e nel fatto che il legislatore si è preoccupato di assicurare la partecipazione dei sindaci a quelle assemblee che deliberano sugli aspetti più importanti e delicati della vita sociale – a cominciare da quella che approva il bilancio di esercizio – e rispetto alle quali i sindaci sono spesso tenuti ad una serie di adempimenti”23. Si ritiene che detta norma valga anche per la mancata partecipazione del Collegio sindacale alle assemblee straordinarie dei soci. La grande rilevanza che dette assemblee rivestono nella vita delle società, infatti (sono oggetto di delibera delle adunanze in discorso le modifiche dell’atto costitutivo, l’emissione di prestiti obbligazionari, la nomina dei liquidatori, le proposte di assoggettare la società ad alcune procedure concorsuali, ecc.), rappresenta un rafforzativo ai precetti di cui all’art. 2405 c.c., che prescrive per i sindaci che non assistono alle assemblee, la decadenza dalla carica e non l’invalidità delle delibere. Meno rigoroso è, invece, il disposto normativo in tema di mancata ingiustificata partecipazione ai consigli di amministrazione 18 In tal senso, Cavalli G., cit., p. 60; conf. Domenichini G. “Il collegio sindacale”, in “Trattato di diritto privato”, diretto da Rescigno P., vol. XVI, UTET, Torino, 1985, p.553. 19 Ancora Cavalli G., cit., p. 60. 20 In tal senso Tedeschi G.U., cit., ove si legge altresì, “In sostanza, quindi nel caso di mancata convocazione e riunione del collegio sindacale si ha l’assenza, certamente ingiustificata, di tutti i sindaci, anziché di uno solo di essi, come nel caso espressamente contemplato nel co. 2 dell’art. 2404 c.c. È così del tutto giustificata l’applicazione della medesima sanzione ad un caso ancora più grave”, p. 260. 21 Trib. Napoli 16.3.1989, cit.; App. Milano 23.3.1954, Foro It., 1954, I, c. 815 e ss.; conf. Cass. 7.6.1956 n. 1943, Riv. dir. comm.”, 1957, II, p. 118. 22 Dottrina e giurisprudenza risultano a riguardo pacifiche. In dottrina, per tutti, Ferraro P.P. in “La riforma delle società”, a cura di Sandulli M., Santoro V., Giappichelli, Torino, 2003, p. 577; in giur., App. Milano 22.12.1978, Foro Pad., 78, I, p. 377; conf. Trib. Milano 9.6.1975, Giur. comm., 1976, II, p. 551. 23 Così Ferraro P.P., cit., p. 577. ed ai comitati esecutivi. A riguardo, infatti, probabilmente anche in relazione alla maggior frequenza con la quale, di norma, tali consessi vengono indetti, è necessario non solo che il sindaco non partecipi a due riunioni nel corso dell’esercizio, ma altresì che tali assenze risultino consecutive (consecutività non richiesta, ai fini della decadenza, per l’assenza ingiustificata a due riunioni del Collegio). Va da sé che in caso di assenza del sindaco alla riunione del CdA o all’assemblea sarà esso stesso a dover fornire una idonea giustificazione finalizzata ad evitare il determinarsi della causa di decadenza24. Anche in tali circostanze, in merito all’accertamento della causa della decadenza del sindaco assenteista, si discute in dottrina se essa operi ipso iure oppure soltanto quando essa venga accertata da un organo della società (Collegio sindacale o assemblea dei soci). La prima tesi, come si è dianzi evidenziato, è pacifica in giurisprudenza25, ma anche in tali circostanze non può non evidenziarsi a livello pratico che fino al momento in cui l’accertamento della decadenza non sia stato dichiarato da parte di un organo sociale non possa di fatto operare il meccanismo della sostituzione contemplato dall’art. 2401 c.c., e non possa quindi provvedersi alla comunicazione al Registro delle imprese inerente la cessazione della carica ed il correlativo subentro del supplente26. Per tale via, come già rilevato in merito all’assenza nei Collegi sindacali, si potrebbe ragionevolmente ritenere che l’effetto della decadenza andrà a determinarsi dal momento dell’assenza ingiustificata alla riunione, con la conseguenza che quando l’assemblea, presumibilmente su istanza dei sindaci non assenteisti, dovesse constatare l’avvenuta decadenza, tale delibera si appalesi di mero accertamento e non di accertamento costitutivo27. Da notare, poi, che la norma concernente la decadenza dalla carica dei sindaci che non sono intervenuti alle assemblee sociali non può ritenersi operante quando, come nel caso delle assemblee (ordinarie e straordinarie) di prima convocazione andate deserte, un’adunanza dei soci in effetti non vi è stata 28. Altra questione attiene poi alla validità dell’assemblea nei casi in cui i sindaci, opportunamente convocati, non partecipino alle riunioni assembleari. Seppur la rara giurisprudenza risulti a riguardo divisa29, la dottrina prevalente ritiene che tale assenza non abbia alcun effetto sulla delibera, in quanto non interferisce con le norme che disciplinano la costituzione, né attiene al processo formativo della volontà assembleare30. Una posizione questa, come si dirà in seguito, probabilmente valida se i sindaci convocati non partecipano all’assemblea, meno se il Collegio non viene di fatto convocato, ben potendo ritenere che tale mancata convocazione influenzi la corretta costituzione dell’assise. Appare, in ogni caso, difficile poi sostenere che il Collegio non condizioni, o almeno non possa condizionare con i propri pareri ed osservazioni, il processo formativo della volontà assembleare. In ogni caso, al di là del rischio decadenziale per i sindaci ingiusti- 24 In merito alla giustificazione dell’assenza è stato osservato come “in concreto sono due gli elementi che occupano la scena, cioè la presentazione di una dichiarazione del sindaco che rimane assente mentre dovrebbe essere presente e la validità del motivo che è alla base dell’assenza. Mentre per la prima esigenza nessun problema si pone (nulla dicendo la legge si può ritenere che la forma della giustificazione possa essere quella verbale), per la seconda esigenza sorge la necessità di stabilire, avuta la giustificazione dell’interessato, se la medesima è da ritenersi valida oppure invalida. È un accertamento di notevole rilevanza poiché dal suo esito dipendono effetti di estesa portata”. In tal senso, Ghini A. “La decadenza dalla carica del sindaco assente od assenteista”, Il controllo soc. enti, 2005, p. 521. 25 Si veda nota n. 13. 26 Trib. Genova 19.7.1993, cit. 27 In tal senso, Domenichini G., cit., p. 555 28 Cass. 7.3.1992 n. 2764, Giur. comm., 1994, p. 588. 29 In una, invero datata, pronuncia si è infatti ritenuto che: “non possa essere iscritta nel registro delle imprese la deliberazione assembleare assunta in assenza di due componenti su tre del collegio sindacale per mancanza del quorum necessario per poter ritenere quest’ultimo regolarmente costituito ed effettivamente presente in assemblea” (Trib. Cosenza 15.4.1988, Le Società, 1988, p. 861; conf. App. Catanzaro 18.1.1989, Le Società, 1989, p. 300; Trib. Milano 9.6.1975, cit.). 30 Così Tedeschi G.U., cit., p. 284; conf. Niccolini G. “Presunta invalidità della deliberazione di assemblea di società per azioni regolarmente convocata, adottata in assenza di collegio sindacale”, Foro It., 1989, I, c. 524; conf. Ferraro P.P., cit., p. 575. 11 ficatamente assenti, la communis opinio ritiene oggi che l’assenza di uno o più componenti del Collegio sindacale, quando i sindaci sono regolarmente convocati, quand’anche ingiustificata, non pregiudica la validità del Consiglio di Amministrazione, del Comitato Esecutivo o dell’Assemblea salvo, come è stato giustamente rilevato in dottrina, che si tratti di un’assemblea totalitaria31. Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 L’ASSENZA ALLE ASSEMBLEE TOTALITARIE 12 Nelle assemblee totalitarie delle spa, l’art. 2366 comma 4 c.c. prevede che “In mancanza delle formalità previste per la convocazione, l’assemblea si reputa regolarmente costituita, quando è rappresentato l’intero capitale sociale e partecipa all’assemblea la maggioranza dei componenti degli organi amministrativi e di controllo. Tuttavia in tale ipotesi ciascuno dei partecipanti può opporsi alla discussione degli argomenti sui quali non si ritenga sufficientemente informato”. Da ciò deriva che, la mancata partecipazione della maggioranza dei componenti dell’organo di controllo, (nella prassi due su tre) rende, almeno nelle spa, irregolarmente costituita e quindi invalida l’assise. Ci si deve chiedere, a riguardo, se la mancata partecipazione del sindaco alle assemblee totalitarie, senza giustificato motivo, possa determinare la decadenza dello stesso. A riguardo si è correttamente ritenuto che il sindaco abbia l’obbligo di partecipare alle riunioni regolarmente convocate e non quello, ben più gravoso, di farsi trovare sempre libero e disponibile quando i soci decidano di riunirsi avvertendosi per vie brevi ed informali. In questi casi non pare neppure necessario, per il sindaco che non abbia partecipato, motivare la propria assenza32. Circa gli effetti dell’assenza della maggioranza dei sindaci sull’assemblea, non appare dubbio, a riguardo, che tale assemblea sia invalida, mancando i presupposti di legge per la regolare costituzione della stessa ai sensi dell’art. 2366 comma 4 c.c. Si discuteva, in epoca anteriore alla riforma, in merito alla specie di detta invalidità, qualificabile dalla dottrina e dalla giurisprudenza prevalente in modo spesso contraddittorio. In relazione al portato delle nuove disposizioni, che nelle spa da un lato, ammettono la validità dell’assemblea totalitaria anche in presenza dei due terzi dei componenti gli organi di controllo e, dall’altro, ampliano il concetto di annullabilità (restringendo le ipotesi di nullità), pare di poter ritenere che l’assenza di due sindaci dall’assemblea, in relazione alla loro mancata convocazione, possa essere causa di annullabilità e non di nullità delle deliberazioni assembleari33. Diverso è il discorso inerente le assemblee totalitarie nelle srl. In esse, infatti, l’art. 2479-bis comma 5 c.c. dispone che: “In ogni caso la deliberazione s’intende adottata quando ad essa partecipa l’intero capitale sociale e tutti gli amministratori e sindaci sono presenti o informati della riunione e nessuno si oppone alla trattazione dell’argomento”34. In questo, caso, quindi, 31 In tal senso Aiello M., sub art. 2405 c.c. “Della Società – Dell’Azienda – Della Concorrenza”, a cura di Santosuosso D.U., in “Commentario del Codice Civile”, diretto da Gabrielli E., vol. II, UTET, Torino, 2015, p. 519. 32 In tal senso, condivisibilmente Busi C.A. “Assemblea e decisione dei soci nelle società per azioni e nelle società a responsabilità limitata”, Cedam, Padova, 2008, p. 475, secondo il quale “Diversamente argomentando, mentre il sindaco di srl non rischierebbe mai la decadenza dal proprio ufficio, potendo paralizzare con la propria opposizione lo svolgimento della riunione assembleare, il sindaco della Spa sarebbe nelle mani dei soci maliziosi che, convocando precipitose e difficilmente raggiungibili riunioni assembleari, potrebbero liberarsi del componente di minoranza dell’organo di controllo”. 33 Ciò d’altro canto appare traibile dalle disposizioni di cui all’art. 2377 c.c., che stabiliscono l’annullabilità di tutte quelle deliberazioni “non conformi alla legge o allo statuto”. È stato osservato, a riguardo, che “quanto alla maggioranza dei componenti degli organi amministrativi e di controllo, la loro assenza integra una ipotesi di irregolarità nella costituzione dell’assemblea, tenuto conto che la loro presenza è utile al miglior svolgimento dell’assemblea, della quale però non fanno parte”. Cosi Di Amato S., in “Società per azioni, azioni, società collegate e controllate, assemblee”, in “La riforma del diritto societario”, a cura di Lo Cascio G., Giuffrè, Milano, 2003, p. 300. 34 Si ricorda peraltro che secondo la massima I.B.4/2004 del Comitato Notarile del Triveneto rubricata “Assemblea totalitaria”, la disciplina dell’assemblea totalitaria è inderogabile e quindi trova applicazione anche in presenza di una diversa disposizione statutaria. da un lato l’assenza del sindaco all’assise non ne determinerà alcun rischio di decadenza e, in presenza di adeguata informazione dei componenti l’organo di controllo, l’assemblea sarà sicuramente valida. Ci si deve chiedere, tuttavia, a questo punto cosa significhi, in pratica che i componenti l’organo di controllo risultino informati della riunione. Nonostante l’esegesi letterale della norma possa indurre a diversa interpretazione (i “sindaci sono presenti o informati della riunione”) non pare a riguardo sufficiente che i sindaci (o il sindaco unico) siano messi in condizione di conoscere che sta per tenersi un’assemblea, non convocata, ma appare necessario che gli stessi siano edotti attraverso un mezzo che lasci traccia di tale conoscenza (come, ad esempio, una PEC o una e-mail con avviso di ricevimento) degli argomenti all’ordine del giorno35. Solo in tal modo, infatti, l’organo di controllo potrà esercitare quel potere di opposizione, previsto dall’ultima parte del citato comma 5, alla trattazione dell’argomento (ma potrebbero indubbiamente essere più d’uno) posto in discussione e in votazione36. Nel caso in cui i sindaci o il sindaco unico non fossero informati, essi (e gli altri soggetti a ciò legittimati) potranno impugnare la delibera assembleare anche se sussistono dubbi, in questi casi, in relazione, alla natura dell’invalidità, che in prima analisi, parrebbe configurare nullità per mancanza assoluta di informazione (art. 2479-ter comma 3 c.c.). LA MANCATA CONVOCAZIONE DEL COLLEGIO SINDACALE Diversa situazione si appalesa, invece, qualora i sindaci non venissero convocati in assemblee regolarmente indette o ai CdA. In tali situazioni, le riunioni potrebbe dirsi regolari? In merito alle riunioni assembleari, la dottrina prevalente ritiene oggi che la mancata partecipazione dei sindaci ad un’assise, anche in assenza di una loro convocazione, non incida sulla validità della stessa. In altri termini, considerando che la volontà sociale viene espressa esclusivamente dai soci, amministratori e sindaci non possono considerarsi elementi costitutivi ed integrativi dell’assemblea, dacché deriva che una loro assenza, a fronte di un’assemblea riunitasi a seguito di convocazione, non potrà produrre alcuna conseguenza sulla validità delle deliberazioni che vengano prese. Per tale corrente di pensiero, quindi, l’assenza dei sindaci alle riunioni dell’assemblea, anche a seguito di una mancata convocazione, non avrebbe alcun effetto sulla delibera in quanto il loro intervento preordinato ai fini interni del controllo non andrebbe ad interferire con le norme che disciplinano la costituzione, né atterrebbe al processo formativo della volontà assembleare37. Tali argomentazioni non appaiono convincenti. 35 Si è evidenziato a riguardo come “la necessità che gli organi sociali siano anche solo informati e non anche presenti impone un vincolo formale nella sola assemblea totalitaria di srl: vale a dire la necessità che la stessa si coaguli su un ordine del giorno preventivamente articolato e non già pure «improvvisabile», nel corso dei lavori assembleari come può avvenire nelle spa”. Così Benazzo P. “Codice commentato delle s.r.l.”, diretto da Benazzo P., Patriarca S., UTET, Torino, 2006, p. 435. In senso conforme, Magliulo F., secondo il quale “non sembra potersi sostenere che l’informativa possa addirittura limitarsi a rendere noto agli amministratori e sindaci non presenti che si terrà un’assemblea, senza indicare le materie che saranno oggetto di discussione, atteso che in caso contrario detta informativa avrebbe assai poco significato”, in Caccavale C., Magliulo F., Maltoni M., Tassinari F. “La riforma delle società a responsabilità limitata”, Ipsoa, Milano, 2007, p. 424. 36 A riguardo si è evidenziato in dottrina: “Circa il contenuto minimo dell’informazione, nel silenzio del legislatore, premesso che è rispondente ai principi di correttezza e buona fede informare con precisione gli organi sociali circa le materie da trattare, si devono applicare i principi già enunciati circa l’ estensione dell’ informazione che deve essere contenuta nell’ avviso di convocazione dell’ assemblea ed in particolare si devono informare gli organi di riguardo le materie che verranno trattate” (così Busi C.A., cit.). 37 In tal senso, Tedeschi G.U., cit, p. 287, secondo il quale, “talché essi, per non essere intervenuti all’adunanza per fatto o colpa degli amministratori, possono dolersi dell’impedimento opposto all’esercizio delle loro funzioni, denunziando all’assemblea tale operato come fonte di responsabilità interna per gli amministratori, ma non possono da tale circostanza, che non si riferisce ad un elemento essenziale della manifestazione di volontà del consiglio, far derivare effetti più ampi di quelli che discendono dalle finalità di ordine interno”. In senso conforme, Magnani P., in “Commentario alla riforma delle società”, coordinato da Marchetti P., Bianchi L.A., Ghezzi F., Notari M., Egea – Giuffrè, Milano, 2005, p. 238; conf. Busi C.A., cit, p. 471. In senso analogo, Niccolini G., cit., c. 524. 13 Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 14 Il principio in relazione al quale i sindaci sono tenuti ad assistere alle riunioni assembleari implica, a mio avviso, il necessario corollario che essi debbano essere destinatari di una preventiva informazione in relazione a dette assise mediante apposita formale o informale convocazione. Diversamente non si comprenderebbe come essi possano assicurare la loro presenza in assemblea. Come è stato affermato da altra dottrina, sul punto: “il dovere o comunque il diritto dei sindaci di presenziare alle riunioni implica la necessità di una loro convocazione”38. Verso tale direzione appare orientata la invero rara e risalente giurisprudenza che ha ritenuto invalida l’assemblea a seguito dell’omessa convocazione dei sindaci39. Tale posizione appare, a mio avviso, preferibile anche alla luce delle disposizioni in tema di assemblea totalitaria. Se quest’ultima, infatti, a seguito della mancata presenza di almeno i due terzi del Collegio è invalida, come peraltro nessuno ha mai dubitato che sia40, non sarebbe agevole comprendere perché un assise regolarmente convocata potrebbe indebitamente prescindere dalla presenza, perlomeno parziale, dei componenti l’organo di controllo. Neppure convincente appare la tesi secondo la quale la presenza dei sindaci risulti ininfluente al processo formativo della volontà assembleare, ben potendo (anzi in alcune circostanze dovendo) l’organo di controllo intervenire, per evitare che l’assemblea possa assumere decisioni in contrasto con la legge o lo statuto41. Le affermazione di cui sopra, varranno, ed anzi risultano ulteriormen- te rafforzate, nei casi in cui le delibere assembleari debbano essere accompagnate per legge da una relazione obbligatoria dei sindaci (es. assemblea che deliberi l’approvazione del bilancio), caso in cui, evidentemente, l’assenza, non solo dei sindaci in assemblea, ma del documento obbligatorio che essi sono chiamati ad emettere, renderebbe incompleta, e quindi invalida, anche la delibera assembleare42. È opportuno evidenziare, peraltro, che quanto sopra asserito dovrebbe valere in tutte le convocazioni con avviso comunicato ai soci con mezzi che garantiscano la prova dell’avvenuto ricevimento di cui all’art. 2366 comma 3 (tipicamente raccomandata AR o PEC); avviso che a questo punto non può, per le motivazioni di cui sopra, non essere inviato anche ai sindaci, se non si vuole porre a rischio l’invalidità dell’assise. Tale obbligo non varrà, invece, nelle convocazioni (tipiche delle società più grandi), con avviso pubblicato in Gazzetta Ufficiale o su un quotidiano indicato nello statuto, visto che in questi casi, previsti dal comma 2 dell’art. 2366 c.c. né ai soci, né ad alcun componente gli organi sociali viene inviato alcun invito personale ai fini della partecipazione all’assemblea. Quanto asserito per le riunioni dei soci vale, ad avviso di chi scrive, per il CdA (ed il Comitato esecutivo) al quale, evidentemente, non possono esser estese unicamente le norme in ambito di assemblea totalitaria. Anche su questo tema, la dottrina maggioritaria ed una risalente giurisprudenza di legittimità e di merito ritengono che la mancata partecipazione 38 In tal senso, Cavalli G., cit., p. 111. 39 Trib. Cosenza 3.1.1985, Le Società, 1985, p. 419. Sul tema appare, poi, opportuno ricordare che altra giurisprudenza ha ritenuto irregolarmente costituita l’assemblea dei soci di una società di capitali quando è assente l’intero Collegio sindacale in quanto dimissionario: Trib. Udine 15.12.1982, Le Società, 1983, p. 641; mentre App. Catanzaro 18.1.1989, Le Società, 1989, p. 300, a sua volta ha dichiarato che non è omologabile la deliberazione dispositiva di modifiche statutarie adottata da assemblea di spa regolarmente convocata, alla quale ha partecipato uno soltanto dei tre componenti il Collegio sindacale. 40 Per l’annullabilità di tali deliberazioni, seppur anteriormente alla riforma del diritto societario, ma con motivazioni certamente valide anche post riforma, si evidenziano, infra multis: Trib. Milano 27.1.1986, Dir. fall., 1986, II, p. 623; Trib. Cassino 3.2.1986, Dir. fall, 1987, II, p. 543; ancora Trib. Roma 27.9.1982, Le Società, 1983, p. 45. Addirittura per la nullità della delibera in dette circostanze si sono pronunciate: Cass. 14.3.1986 n. 1768, Le Società, 1986, p. 850; Trib. Napoli 16.3.1989, cit. 41 Un’apertura sul tema è stata prospettata anche dalla giurisprudenza di merito, secondo la quale, seppur la mancata ammissione di un sindaco alla discussione assembleare, non si tradurrebbe mai in un vizio della relativa deliberazione, poiché l’opinione espressa in assemblea dai partecipanti costituisce soltanto un atto prodromico alla deliberazione nell’iter di formazione della volontà della società, ha ritenuto tale delibera invalidabile qualora: “il sindaco sia in grado di prospettare la portata dell’intervento al quale non è stato ammesso e la sua rilevanza per la partecipazione alla formazione della volontà collegiale, rispetto a cui egli è in dissenso”. Trib. Roma 27.4.1998, in Banca Dati Eutekne e Le Società, 1998, p. 1442. 42 Trib. Verona 8.4.1989, in Banca Dati Eutekne e Le Società, 1989, p. 1263. dei sindaci ai CdA nel caso di omessa convocazione non incida sulla validità delle decisioni consiliari, ritenendosi sostanzialmente ininfluente la presenza dell’organo di controllo in merito alle decisioni del Consiglio43. Nemmeno dette pur autorevoli posizioni appaiono, invero, persuasive. La partecipazione dei sindaci ai CdA appare tutt’altro che irrilevante ed anzi essa risulta probabilmente ancor più incisiva, nella formazione della delibera consiliare, in relazione all’interlocuzione più immediata e diretta con gli amministratori, di quanto non possa risultare, invece, persuasiva l’influenza dei sindaci nelle decisioni dei soci in assemblea. Oltre ai fondamentali doveri di controllo sulla corretta amministrazione (ex art. 2403 c.c.) anche i previsti poteri di reazione, riconosciuti ai sindaci nei confronti degli amministratori, dalla esposizione del loro dissenso nelle delibere consiliari, alla convocazione dell’assemblea nei casi di fatti censurabili o di omissioni degli amministratori, fino alla richiesta di controllo giudiziale sull’operato dell’organo decisionale, appaiono poteri/doveri “ampliamente condizionanti” le decisioni gestorie, e quindi non sembra condivisibile l’assunto che vede tali partecipazioni sostanzialmente ininfluenti sulla formazione delle decisioni dell’organo direttivo44. A prescindere dagli eventuali vizi delle deliberazioni delle assemblee e dei CdA, in assenza di una regolare convocazione dei sindaci, circo- stanze come si è visto ancora oggetto di diversificate posizioni dottrinali e giurisprudenziali, ci si chiede conclusivamente quale risulti, in dette situazioni, la posizione degli amministratori. A riguardo, non sembra sussistono dubbi di sorta in relazione al fatto che la mancata convocazione dei sindaci, nelle situazioni in cui la stessa si renda doverosa, assuma rilevo per chi, dovendo provvedere a detta convocazione, l’abbia artatamente omessa. In questi casi, infatti, oltre alla doverosa convocazione dell’assemblea da parte del Collegio sindacale per (gravi) omissioni degli amministratori (ex art. 2406 c.c.), da un lato, potrà configurarsi per questi ultimi una giusta causa di revoca e dall’altro potrebbe a loro carico determinarsi una potenziale responsabilità, ex art. 2409 c.c., se le delibere perfezionatesi in assenza dell’organo di controllo possano aver danneggiato la società45. Ritengo, peraltro, che in dette circostanze, sugli amministratori possano addensarsi anche le responsabilità ex art. 2625 comma 1 c.c. in quanto, attraverso la mancata convocazione dei sindaci, essi potrebbero ostacolare lo svolgimento delle loro attività di controllo46. Qualora da tale condotta possano poi derivare danni ai soci (ad esempio, perché il CdA, la cui riunione resti per un periodo sconosciuta ai sindaci, assuma decisioni che si rivelino gravemente lesive per gli interessi dei soci) l’aggravante potrebbe comportare l’applicazione dell’art. 2625 comma 2 c.c. 43 È stato rilevato a riguardo come i sindaci “per non essere intervenuti all’adunanza per fatto e colpa degli amministratori, possono dolersi dell’impedimento opposto all’esercizio delle loro funzioni, denunziando alla assemblea tale operato come fonte di responsabilità interna per gli amministratori, ma non possono in tale circostanza, che non si riferisce ad un elemento essenziale della manifestazione di volontà del consiglio, far derivare effetti più ampi di quelli che discendono dalle finalità di ordine interno”. Ancora Tedeschi G.U., cit., p. 288 Frè G. “Società per azioni”, in “Commentario del codice civile”, a cura di Scialoja A., Branca G., V, Zanichelli, Bologna – Il Foro Italiano, Roma, 1982, p. 562; Moro Visconti R. “Il controllo delle Spa”, Buffetti, Roma, 1975, p. 86. In giur., Cass. 1.2.1943 n. 252, Dir fall., 1943, II, p. 9 e nel merito Trib. Torino 10.5.1967, Dir. fall., 1967, II, p. 555 e Riv. Not. 1967, II, p. 699; Trib. Napoli 16.3.1989, cit. 44 In dottrina è stato evidenziato sul tema come “anche per i consigli, invero, la presenza dei sindaci è strettamente obbligatoria ed anche per essi può parlarsi di controllo concomitante sulla legittimità e sulla correttezza delle delibere assunte, visto che lo scopo della legge è quello di consentire tanto la raccolta di notizie e di informazioni, quanto lo svolgimento di attività «dissuasive» intese a prevenire, più che a reprimere ex post, eventuali conseguenze dannose” (Cavalli G., cit., p. 112). 45 In tal senso, in merito alla mancata convocazione dei sindaci in sede assembleare, Busi C.A., cit. p. 472. 46 Si è evidenziato a riguardo come “l’illecito si realizza anche quando l’ostacolo non abbia paralizzato l’attività di controllo ma sia stato superato e il controllo seppur con ritardo o con maggior dispendio di energie sia stato esercitato”. In tal senso, Magro M.B., sub art. 2625 c.c. “Della Società – Dell’Azienda – Della Concorrenza”, a cura di Santosuosso D.U., in “Commentario del Codice Civile”, diretto da Gabrielli E., vol. V, 2014, p. 846. Sul tema si veda anche, in relazione al vecchio art. 2623 co. 3 c.c.. Trib. Torino n. 1075/1967, cit. Sul tema, sempre in relazione alle norme antiriforma, Cavalli G., cit., p. 112. 15 CONCLUSIONI Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 In definitiva la partecipazione dei sindaci alle riunioni del Collegio a quelle del CdA e delle assemblee è imprescindibile per consentire agli stessi quelle verifiche antecedenti, concomitanti e successive alle decisioni che connotano l’attività dell’organo di controllo. Ne deriva che l’assenza ingiustificata del controllore a dette riunioni, la cui valutazione non può che spettare agli altri membri del Collegio sindacale, sia sanzionata dal sistema con la decadenza dall’ufficio mentre, di norma, non infici, salvo situazioni particolari, la validità del CdA o dell’assemblea. Più 16 articolate in dottrina e giurisprudenza risultano invece le conseguenze attinenti la mancata convocazione dei sindaci nelle assemblee e nei CdA. In questi casi, inequivocabili risultano i rischi civili e penali per gli amministratori inadempienti, mentre dubbia risulta la validità dei CdA e delle assemblee, orfane della convocazione degli organi di controllo. Una interpretazione teleologica del disposto normativo, che obbliga i sindaci a partecipare, dovrebbe determinare l’invalidità dei CdA, dei Comitati esecutivi e delle assemblee a cui l’organo di controllo non è stato messo nelle condizioni di partecipare, ma il tema come detto risulta ad oggi sostanzialmente inesplorato. 1. Diritto societario SOCIETÀ PUBBLICHE E RESPONSABILITÀ DEGLI ORGANI SOCIALI La Cassazione non chiarisce se la giurisdizione della Corte dei Conti in tema di responsabilità degli organi sociali di società in house providing sia esclusiva o concorrente. L’azione contabile può in linea di principio concorrere con le altre azioni poste a garanzia dei soci e dei creditori sociali previste dal codice, senza che si determini alcun conflitto di giurisdizione, “ma soltanto un’eventuale preclusione all’esercizio di un’azione quando con l’altra sia già ottenuto il medesimo bene della vita”. Non vi sono ragioni per escludere la concorrenza di procedimenti civili e contabili a carico degli organi sociali. E se una delle due azioni avrà bruciato nel tempo l’altra evidentemente non avrà esito fruttuoso per la sopravvenuta incapienza. D’altra parte anche l’azione penale può essere una terza incomoda. / Francesco FIMMANÒ * L’USO STRUMENTALE DEL MODELLO E GLI EFFETTI SULLA DISCIPLINA DELLE SOCIETÀ La esplosione del fenomeno delle società a partecipazione pubblica per la gestione dei servizi locali, soprattutto nel decennio 19992009, non è certo legata a ragioni di efficienza del modello gestionale, oppure ad altre moti- * vazioni aziendalistiche, ma esclusivamente alla degenerazione di metodi di organizzazione del comparto1, originata sovente dal mero malcostume “politico” e dal conseguente disastro della finanza pubblica2. L’opportunità della segregazione societaria e con essa la possibilità “poco commendevole” di violare i patti di stabilità, i principi in tema di concorrenza, le regole sulle procedure ad evidenza pubblica e le norme in tema di concorsi per l’assunzione del personale3, è stata troppo attraente per la politica e si è fatto di tutto per mantenerla. Ordinario di Diritto Commerciale nell’Università degli Studi del Molise – Direttore Scientifico Universitas Mercatorum ed Università telematica Pegaso 1 Si è rilevato in giurisprudenza che le cause della crisi dell’intervento pubblico nella gestione dei servizi vanno individuate nell’eccessiva espansione dei settori di intervento, con l’esternalizzazione di attività svolte da apparati amministrativi; nel graduale abbandono dell’ottica imprenditoriale per il perseguimento di finalità politiche e sociali; nella dipendenza del sistema del finanziamento gestito dal potere politico; nell’inesistenza della “sanzione economica” a tutela dell’equilibrio finanziario della gestione” (Trib. Palermo 20.10.2014, Dir. fall, 2015, II, p. 259 ss., con nota di Fimmanò F. “L’insolvenza dell’imprenditore «società pubblica» e la tutela dell’affidamento dei suoi creditori”). 2 In verità già da molti anni abbiamo stigmatizzato questa situazione paradossale (cfr. in particolare F. Fimmanò “Le società di gestione dei servizi pubblici locali”, Riv. Not., 2009, p. 897 ss.) ed il disastro si sarebbe potuto evitare attraverso il semplice utilizzo delle vecchie “aziende speciali”, definite un tempo “municipalizzate”. 3 A proposito di responsabilità la Sezione giurisdizionale della Corte dei Conti per la Regione siciliana con sentenza del 1.9.2015 17 Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 18 Nel nostro Paese le pubbliche amministrazioni, favorite dallo stesso legislatore, hanno mantenuto la “sacca” del privilegio derivante dall’affidamento diretto della gestione di attività e servizi pubblici a società interamente partecipate e quindi in deroga ai fondamentali principi comunitari della concorrenza e della trasparenza. Negli ultimi 25 anni abbiamo assistito, per queste ragioni, ad un percorso legislativo incoerente, caratterizzato da frequenti ripensamenti, fatta eccezione per una costante: la crescente e progressiva espansione delle società a partecipazione pubblica locale, anche attraverso la trasformazione di aziende speciali, consorzi ed istituzioni. Da una parte v’è stata la tendenza ad ampliare l’ambito dei servizi pubblici includendo non solo quelli aventi per oggetto attività economiche incidenti sulla collettività, ma anche quelli riguardanti attività tendenti a promuovere lo sviluppo socio-economico delle comunità locali, fino ad arrivare ad affidare a società partecipate addirittura funzioni, che lungi dal rientrare nell’ambito dei servizi pubblici in senso proprio, costituivano tipiche attività istituzionali o strumentali dell’ente. Dall’altra parte è stata incentivata la gestione mediante società partecipate in un’ottica rivolta (solo) formalmente alla aziendalizzazione dei servizi e ad una privatizzazione effettiva (come auspicato dal legislatore sin dal 1942) in realtà sostanzialmente diretta ad eludere procedimenti ad evidenza pubblica e a sottrarre comparti dell’amministrazione ai vincoli di bilancio, anche in considerazione della mancata applicazione all’ente-capogruppo dei principi di consolidamento di diritto societario a partire dall’elisione delle partite reciproche4. La tendenza espansiva del modello societario ha subito, negli ultimi anni, almeno da un punto di vista formale, una inversione5. Tuttavia, nonostante i tanti interventi normativi, è rimasto diffusissimo il modello organizzativo della società in house, falcidiato più dai fallimenti che dalle norme sulla spending review. Questo modello gestorio trova la propria origine normativa in una rivisitazione strumentale fatta dal legislatore italiano della giurisprudenza comunitaria, che in particolare nella famosa sentenza Teckal aveva escluso l’applicabilità delle norme sull’individuazione concorrenziale del concessionario qualora l’ente “eserciti sulla persona di cui trattasi un controllo analogo a quello da esso esercitato sui propri servizi e questa persona realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti locali che la controllano”6. Si noti che si tratta, e non a caso, proprio delle medesime espressioni “mutuate” poi dal nostro legislatore per legittimare l’affidamento diretto ed in deroga. n. 778 (inedita) dopo aver affermato la propria giurisdizione su una società in house ha stabilito che, essendo le assunzioni di personale vietate per esigenze di contenimento delle spese, sono di per sé dannose e causa di risarcimento dei danni. 4 L’introduzione del bilancio consolidato civilistico per la holding-ente pubblico poteva rappresentare una scelta funzionale all’indirizzo ed al coordinamento dell’intero gruppo pubblico locale (cfr. Tredici A. “Il bilancio consolidato del gruppo pubblico locale quale strumento di programmazione e controllo”, Controllo soc. enti, 2006, p. 256 ss.). Solo con il DLgs. 23.6.2011 n. 118, recante disposizioni in materia di armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle Regioni, degli enti locali e dei loro organismi, si è previsto che tali enti territoriali adottino “comuni schemi di bilancio consolidato con i propri enti ed organismi strumentali, aziende, società controllate e partecipate e altri organismi controllati” (art. 11 co. 1). Tale importante innovazione che impone (e non facoltizza più) l’adozione di un bilancio preventivo (e non solo un conto consuntivo) di tipo consolidato, è progressiva nel corso del tempo, mediante la previsione, ai sensi dell’art. 36 del DLgs. 118/2011, di un periodo di sperimentazione biennale (2012-2013), coinvolgente talune amministrazioni pubbliche territoriali prescelte in ragione della loro collocazione geografica e densità demografica, per poi entrare a regime dall’anno finanziario 2014. In tema cfr. già Fimmanò F. “L’ordinamento delle società pubbliche tra natura del soggetto e natura dell’attività”, in “Le società pubbliche. Ordinamento, crisi ed insolvenza”, a cura di Fimmanò F., Giuffrè, Milano, 2011, p. 12 ss. 5 Alla data di emanazione del decreto Bersani si era calcolato che le partecipazioni, dirette e indirette, detenute dallo Stato attraverso il Ministero delle Finanze riguardavano circa 400 società, mentre le società partecipate dalle amministrazioni locali (Comuni, Province, Regioni e Comunità montane) erano 4.874, legate ai tradizionali compiti di prestazione di servizi pubblici negli ambiti territoriali di loro competenza (Rapporto Assonime settembre 2008 “Principi di riordino del quadro giuridico delle società pubbliche”, www.emagazine.assonime.it). 6 Corte di giustizia 18.11.1999 causa C-107/98 Teckal s.r.l. contro Comune di Viano, in Banca Dati Eutekne e Riv. it. dir. pubbl. com., 2000, p. 1393 ss. In modo più o meno conforme: Corte di giustizia 10.11.1998 causa C-360/96, Bfi Holding contro G. Arnhem e G. Rheden; Corte di giustizia 9.9.1999 causa C-108/98, Ri.San srl contro Comune di Ischia; Corte di giustizia 7.12.2000 causa C-94/99, Arge Gewasserschutz contro Bundesministerium fur Land und Forstwirtschaft. In realtà il legislatore italiano ha usato l’escamotage di far proprie le espressioni usate nella famosa sentenza della Corte di giustizia (ed in quelle analoghe successive) riguardanti un consorzio tra Comuni, per applicarle ad un soggetto giuridico completamente diverso e cioè ad una società di capitali. Da questa operazione sono nati anche una serie di equivoci con il “livello comunitario” anche perché solo gli italiani hanno pensato di utilizzare la società per ragioni “meramente opportunistiche” e di “retrobottega”. Dell’applicabilità alle società di capitali del modello c.d. Teckal, riguardante un soggetto giuridico del tutto diverso, si era giustamente dubitato. D’altra parte, la società si distingue dall’azienda speciale e dal consorzio proprio per l’estraneità e l’autonomia (perfetta sul piano patrimoniale) rispetto all’apparato amministrativo dell’ente locale, di cui non è certamente organismo strumentale. L’affidamento in house esige un rapporto di delegazione interorganica che da un punto di vista civilistico è assolutamente improponibile tra una società di capitali ed il suo socio, tra i quali v’è comunque il diaframma della personalità giuridica. In realtà, secondo l’orientamento della Corte di giustizia, la normativa comunitaria sui pubblici appalti, ed in particolare la procedura ad evidenza pubblica, non trova applicazione quando tra le due figure interessate (amministrazione aggiudicatrice e aggiudicatario) non si è in presenza di un vero e proprio rapporto contrattuale, come nel caso di delegazione interorganica, la quale esclude tra essi la terzietà e consente l’applicazione dell’istituto dell’affidamento diretto. Dalla regola comunitaria riguardante gli effetti generali ed astratti del principio di im- medesimazione il legislatore italiano ha trovato, invece, abilmente la chiave di lettura per affidare i servizi pubblici locali a società che vengono trattate come soggetti privati quando si tratta di spendere e soggetti pubblici quando si tratta di subirne le conseguenze. Ma è arrivato ad un certo punto il redde rationem per questa impostazione double face. Infatti quando la società, in un modo o nell’altro, viene trattata a guisa di organo dell’ente, come la Corte di giustizia UE ha ritenuto possibile, ci sono inevitabilmente delle conseguenze gravi sul piano dell’applicazione delle regole societarie che ne disciplinano l’organizzazione ed il funzionamento, anche per quanto concerne ai nostri fini la responsabilità degli organi sociali. Questa costruzione ha rivelato, evidentemente, una oggettiva debolezza da due diversi punti di vista: quello pubblicistico, in quanto la società, specie quella per azioni, non può mai per sua natura essere idonea alla configurazione di quel “controllo analogo” che la legge richiede, se non come vedremo attraverso strumenti contrattuali che producono effetti sistemici; e quello privatistico, in quanto la configurazione della fattispecie, laddove possibile, produce di per sé il fenomeno di abuso di direzione e coordinamento, in violazione dei criteri di corretta gestione societaria ed imprenditoriale7, con conseguenze gravi sia per l’ente che per la sua società. Il tutto è reso ancora più complesso ed artificioso nel caso in cui gli enti pubblici soci siano più d’uno, considerato che si è ritenuto ammissibile anche in questo caso l’esercizio congiunto del “controllo analogo”8, in virtù di patti parasociali9. I giudici europei sono intervenuti ripetutamente sui problemi in esame ed in linea con quanto 7 Sugli effetti del c.d. dominio abusivo, mi permetto di rinviare a Fimmanò F. “La responsabilità da abuso del dominio dell’ente pubblico in caso di insolvenza della società controllata”, Dir. fall., 2010, p. 724 ss.; cfr. in tema anche Carlizzi M. La direzione unitaria e le società partecipate dagli enti pubblici”, Riv. dir. comm., 2010, I, p. 1177 ss. 8 Consiglio di Stato, Sez. V, 24.11.2010 n. 7092. 9 La Corte di giustizia UE ha affermato che quando più autorità pubbliche, nella loro veste di amministrazioni aggiudicatrici, istituiscono in comune un’entità incaricata di adempiere compiti di servizio pubblico ad esse spettanti, oppure quando un’autorità pubblica aderisce ad un’entità siffatta, la condizione enunciata dalla giurisprudenza della stessa, secondo cui tali autorità, per essere dispensate dal loro obbligo di avviare una procedura di aggiudicazione di appalto pubblico in conformità alle norme del diritto dell’Unione, debbono esercitare congiuntamente sull’entità in questione un controllo analogo a quello da esse esercitato sui propri servizi, è soddisfatta qualora ciascuna delle autorità stesse partecipi sia al capitale 19 Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 20 già stabilito nelle sentenze Stadt Halle e Parking Brixen10 affermano ormai che le due condizioni del “controllo analogo” e della realizzazione della “parte più importante della propria attività” devono essere interpretate in modo restrittivo, mentre l’onere di dimostrare l’effettiva sussistenza delle circostanze eccezionali che giustificano la deroga a quelle regole grava su chi intenda avvalersene. La Corte riconduce la nozione di “controllo” nell’alveo dell’esercizio da parte dell’ente affidante di un’influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni importanti delle società partecipate11, avendo cura di precisare che la detenzione in mano pubblica dell’intero capitale sociale dell’affidataria non è elemento sufficiente e decisivo ai fini della sussistenza del requisito in parola. Quanto alla definizione dell’altro requisito richiesto dalla giurisprudenza comunitaria perché sia possibile l’affidamento diretto del servizio, vale a dire “lo svolgimento della parte più importante dell’attività a favore dell’ente controllante”, il ragionamento compiuto dalla Corte muove dall’esigenza di tutelare il libero gioco della concorrenza. Ogni altra diversa attività da quella principale, svolta dalla affidataria, deve essere considerata assolutamente marginale. A tal proposito, la Corte evidenzia come il vincolo funzionale che lega l’affidataria all’amministrazione aggiudicatrice, in un certo senso, imponga all’impresa di svolgere la propria attività all’interno del territorio del soggetto pubblico, pur non considerando l’extraterritorialità elemento decisivo ai fini della verifica della sussistenza del “controllo analogo”. Va ricordato che le direttive 26.2.2014 sugli appalti pubblici generali (art. 12 della direttiva 2014/24/UE), sugli appalti nei settori speciali – acqua, energia, trasporti, servizi postali e difesa – (art. 28 della direttiva 2014/25/UE) e sulle concessioni (art. 17 della direttiva 2014/23/ UE) hanno preso in considerazione per la prima volta nella normativa europea l’istituto dell’in house providing di creazione giurisprudenziale12. L’art. 12, par. l, citato richiede, ai fini dell’esclusione dei contratti tra soggetti pubblici dall’applicazione della direttiva, che: 1. l’amministrazione aggiudicatrice debba svolgere sull’altro ente pubblico un controllo analogo a quello che esercita sui propri dipartimenti/servizi; sia agli organi direttivi dell’entità (Corte giustizia 29.11.2012 cause riunite C-182/11 e C-183/11, Econord) Le Sezioni Unite della Cassazione nelle sentenze del 2013 e 2014 hanno confermato che è possibile che il capitale sociale faccia capo ad una pluralità di soci, purché si tratti sempre di enti pubblici, e che occorre pur sempre, comunque, che lo statuto inibisca in modo assoluto la possibilità di cessione a privati delle partecipazioni societarie di cui gli enti pubblici siano titolari. 10 Corte di giustizia 11.1.2005 causa C-26/03, Stadt Halle e RPL Lochau; Corte di giustizia 13.10.2005 causa C-458/03, Parking Brixen Gmbh. Da ultimo cfr. Corte di Giustizia C-182/11 e C- 183/11, cit. 11 Uno degli interventi più rilevanti in materia di affidamento in house da parte di enti pubblici italiani è contenuto nella sentenza della Corte di giustizia 11.5.2006 causa C-340/04, Agesp, in Banca Dati Eutekne (in cui i giudici comunitari hanno avuto modo di affrontare una controversia riguardante la fornitura di combustibili e la manutenzione degli impianti termici a favore del Comune di Busto Arsizio disciplinata attraverso la stipula di contratti, qualificati come appalti di fornitura, aggiudicati, senza gara, alla società Agesp spa in ragione del controllo esercitato sul soggetto affidatario dal Comune mediante l’Agesp holding spa, società a capitale interamente pubblico. Nello stesso senso Corte di giustizia 17.7.2008 causa C-371/05 Asi. In tema cfr. pure in argomento, Libertini M. “Le società di autoproduzione in mano pubblica: controllo analogo, destinazione prevalente dell’attività ed autonomia statutaria”, in “Il diritto delle società oggi. Innovazioni e persistenze”, Studi in onore di Giuseppe Zanarone, a cura di Benazzo P., Cera M., Patriarca S., UTET, Torino, 2011, p 496 ss. 12 Il parere n. 298/2015 reso dal Consiglio di Stato analizza al riguardo la nuova disciplina introdotta dalla direttiva 2014/24/ UE che, nel qualificare in rubrica la materia come quella afferente gli “appalti pubblici tra enti nell’ambito del settore pubblico”, ha definito in modo parzialmente diverso le condizioni di esclusione dalla direttiva stessa. Relativamente al requisito dello svolgimento dell’attività prevalente nel parere n. 298/2015 citato si precisa che il dato della “prevalenza” dell’attività trova quindi ormai una compiuta e dettagliata quantificazione nell’art. 12 della direttiva 26.2.2014 n. 2014/ 24/ UE (che ha abrogato la direttiva 2004/18/CE) secondo cui “oltre l’80% delle attività della persona giuridica controllata sono effettuate nello svolgimento dei compiti ad essa affidati dall’amministrazione aggiudicatrice controllante o da altre persone giuridiche controllate dall’amministrazione aggiudicatrice” (art.12 cit., § 1 lett. b). Ancora più in dettaglio, precisa il Consiglio di Stato, il § 5 dell’art. 12 cit. stabilisce che “per determinare la percentuale delle attività di cui al paragrafo 1, primo comma, lettera b), al paragrafo 3, primo comma, lettera b), e al paragrafo 4, lettera c), si prende in considerazione il fatturato totale medio, o una idonea misura alternativa basata sull’attività, quali i costi sostenuti dalla persona giuridica o amministrazione aggiudicatrice in questione nei campi dei servizi, delle forniture e dei lavori per i tre anni precedenti l’aggiudicazione dell’appalto”, ponendo quindi disposizioni di compiutezza tale da farle ritenere “self-executing”, avendo indubbiamente “contenuto incondizionato e preciso” (cosi Cass. SS.UU. 16.6.2014 n. 13676, in Banca Dati Eutekne). 2.più dell’80% delle prestazioni dell’altro ente pubblico siano effettuate a favore dell’amministrazione aggiudicatrice o di un altro ente pubblico controllato dalla prima; 3. l’altro ente pubblico che riceve l’affidamento dall’amministrazione aggiudicatrice non sia controllato da capitale privato, a meno che non si tratti di partecipazione di controllo o di blocco, secondo le disposizioni nazionali e che in ogni caso tale partecipazione non determini influenza dominante. Nelle more dell’attuazione interna alle nuove direttive (che dovrà avvenire entro il termine di legge del 18 aprile 2016), si può solo ricordare che gli Stati membri hanno la possibilità di adeguarsi con margini di autonomia piuttosto ampi, scegliendo la linea soft ovvero imponendo requisiti più stringenti: ad esempio, in riferimento al capitale privato la legge italiana di recepimento potrebbe richiedere una percentuale che oscilla dall’1% al 49%; così come in relazione alla quota di attività svolta in favore dell’ente partecipante la legge interna potrebbe confermare la soglia UE dell’80% o innalzarla fino al 99%. L’ADATTAMENTO ALLA GIURISPRUDENZA INTERNA AI FINI DELLA GIURISDIZIONE SULLE AZIONI DI RESPONSABILITÀ Le Sezioni Unite della Cassazione hanno scelto di adattare l’impostazione comunitaria al fine di riconoscere la giurisdizione piena della Corte dei Conti sulle azioni di responsabilità agli organi sociali delle “famigerate” società in house13. I giudici del Supremo consesso qualificano, in modo in verità assai opinabile, questo genere di società come una mera articolazione interna della P.A., una sua longa manus, al punto che l’affidamento diretto neppure consentirebbe di configurare un rapporto intersoggettivo, di talché l’ente in house “non potrebbe ritenersi terzo rispetto all’amministrazione controllante ma dovrebbe considerarsi come uno dei servizi propri dell’amministrazione stessa”. Le ormai numerose sentenze delle Sezioni Unite si rifanno tutte alla pronuncia del 25.11.2013 n. 2628314, il cui passaggio più forte è quello secondo cui “il velo che normalmente nasconde il socio dietro la società è dunque squarciato: la distinzione tra socio (pubblico) e società (in house) non si realizza più in termini di alterità soggettiva”. L’uso del vocabolo società, quindi, servirebbe solo a significare che, ove manchino più specifiche disposizioni di segno contrario, il paradigma organizzativo andrebbe desunto dal modello societario; ma di una società di capitali, intesa come persona giuridica autonoma cui corrisponda un autonomo centro decisionale e di cui sia possibile individuare un interesse suo proprio, non sarebbe più possibile parlare. Ne consegue che gli organi di tali società, assoggettati come sono a vincoli gerarchici facenti capo alla pubblica amministrazione, neppure potrebbero essere considerati (a differenza di quanto accade per gli 13 Cass. SS.UU. 25.11.2013 n. 26283, in Banca Dati Eutekne; Le Società, 2014, p. 55 ss. con nota di Fimmanò F. “La giurisdizione sulle «società in house providing»”, e Fall., 2014, p. 33 ss., con nota di Salvato L. “Riparto della giurisdizione sulle azioni di responsabilità nei confronti degli organi sociali delle società in house”; e poi nello stesso senso: Cass. SS.UU. 16.12.2013 n. 27993; Cass. 26.3.2014 n. 7177; Cass. 24.10.2014 n. 22609, tutte in Banca Dati Eutekne. Nello stesso senso, ma con approdo opposto: Cass. SS.UU. 10.3.2014 n. 5491, ivi e Le Società, 2014, p. 953 ss., con nota di Cerioni F.; Cass. SS.UU. 2.12.2013 n. 26936, in Banca Dati Eutekne, che non riconoscono la giurisdizione contabile per l’inesistenza dei tre requisiti individuati: la necessaria appartenenza pubblica del capitale della società (con la previsione statutaria del divieto di cedere a soggetti privati quote della stessa), l’inesistenza di margini di libera agibilità sul mercato (neppure attraverso partecipate e la sottoposizione a controllo analogo (che non può ridursi al potere di nomina degli organi sociali). Cass. SS.UU. 24.3.2015 n. 5848, in Banca Dati Eutekne, ha statuito che la verifica dei requisiti – la cui esistenza occorre sia consacrata nello statuto sociale e costituisce il presupposto per l’affermazione della giurisdizione della Corte dei Conti sull’azione di responsabilità – deve esser svolta avendo riguardo al momento in cui risale la condotta ipotizzata come illecita. 14 Per un commento si rinvia a Iadecola A. “La giurisdizione della Corte dei Conti sulle società in house”, in questa Rivista, 2, 2014, pp. 54-68. 21 Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 22 amministratori delle altre società a partecipazione pubblica), come investiti di un mero munus privato, inerente ad un rapporto di natura negoziale instaurato con la medesima società. Essi sarebbero preposti ad una struttura corrispondente ad un’articolazione interna alla stessa P.A. e quindi personalmente a questa legati da un vero e proprio rapporto di servizio, non diversamente da quel che accade per i dirigenti preposti ai servizi erogati direttamente dall’ente pubblico. D’altro canto, se non risulta possibile configurare un rapporto di alterità tra l’ente pubblico partecipante e la società in house, che ad esso fa capo, la distinzione tra il patrimonio dell’ente e quello della società si porrebbe in termini di separazione patrimoniale, ma non di distinta titolarità. Dal che discenderebbe che, in questo caso, il danno eventualmente inferto al patrimonio della società da atti illegittimi degli amministratori, cui possa aver contribuito un colpevole difetto di vigilanza imputabile agli organi di controllo, sarebbe arrecato ad un patrimonio (separato, ma pur sempre) riconducibile all’ente pubblico: è quindi un danno erariale, che giustificherebbe l’attribuzione alla Corte dei Conti della giurisdizione sulla relativa azione di responsabilità. La ragione per cui la Cassazione adatta (in modo forzoso) la costruzione giuspubblicistica e comunitaria Teckal al diritto interno delle società, con i notevoli rischi sistemici conseguenti, nasce, a nostro avviso, dalla consapevolezza che ancora più ardita sarebbe stata la riqualificazione delle società in house in enti pubblici in assenza di norme espresse, come si è tentato in passato (e che infatti viene esclusa). Le Sezioni Unite cercano di rimanere nel solco tracciato dagli stessi giudici di legittimità tentando di limitare, per quanto possibile, di contraddire il quadro delineato con riferimento più generale alle società pubbliche. Infatti la stessa Cassazione, nell’arresto dell’ottobre 2013 in tema di insolvenza 15, era pervenuta ad una serie di conclusioni siste- matiche assolutamente rilevanti rispetto al tema che ci occupa. Innanzitutto, si è affermato che una società non muta la sua natura di soggetto privato solo perché un ente pubblico ne possiede, in tutto o in parte, il capitale. Peraltro proprio dall’esistenza di specifiche normative di settore (anche di matrice comunitaria e giuspubblicistica) che – negli ambiti da esse delimitati attraggono nella sfera del diritto pubblico anche soggetti di diritto privato – può ricavarsi a contrario, che, ad ogni altro effetto, tali soggetti continuano a soggiacere alla disciplina privatistica. I giudici hanno richiamato l’art. 4 della L. 20.3.1975 n. 70 che, nel prevedere che nessun nuovo ente pubblico può essere istituito o riconosciuto se non per legge, evidentemente richiede che la qualità di ente pubblico, se non attribuita da una espressa disposizione di legge, debba quantomeno potersi desumere da un quadro normativo di riferimento chiaro ed inequivoco. Eventuali norme speciali che siano volte a regolare la costituzione della società, la partecipazione pubblica al suo capitale e la designazione dei suoi organi, non incidono sul modo in cui essa opera nel mercato né possono comportare il venir meno delle ragioni di tutela dell’affidamento dei terzi contraenti contemplate dalla disciplina privatistica. L’eventuale divergenza causale rispetto allo scopo lucrativo, si legge sempre nella sentenza, non appare sufficiente ad escludere che, laddove sia stato adottato il modello societario, la natura giuridica e le regole di organizzazione della partecipata restino quelle proprie di una società di capitali disciplinata in via generale dal codice civile. Insomma ciò che rileva nel nostro ordinamento ai fini dell’applicazione dello statuto dell’imprenditore commerciale non è il tipo dell’attività esercitata, ma la natura del soggetto. Se così non fosse si dovrebbe giungere alla conclusione che anche le società a capitale interamente privato cui sia affidata in concessione la gestione di un ser- 15 Cass. 27.9.2013 n. 22209, Il Caso.it (al riguardo cfr. Fimmanò F. “Il fallimento delle società pubbliche”, Gazzetta forense, 11/12, 2013, p. 13 ss.). vizio pubblico ritenuto essenziale sarebbero esentate dal fallimento. Viceversa, una volta che il legislatore ha permesso di perseguire l’interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico, da ciò consegue l’assunzione dei rischi connessi, pena la violazione dei principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto ed attesa la necessità del rispetto delle regole della concorrenza 16. Sempre la Cassazione, in una sentenza della fine del 201217, aveva fissato un altro importante principio che in qualche modo chiudeva il cerchio e cioè che le società a partecipazione pubblica costituite nelle forme previste dal codice civile ed aventi ad oggetto un’attività commerciale sono imprenditori commerciali, indipendentemente dall’effettivo esercizio di una siffatta attività, in quanto esse acquistano tale qualità dal momento della loro costituzione, non dall’inizio del concreto esercizio dell’attività d’impresa, al contrario di quanto avviene per l’imprenditore individuale. Sicché, mentre quest’ultimo è identificato dall’esercizio effettivo dell’attività, relativamente alle società commerciali è lo statuto a compiere tale identificazione, realizzandosi l’assunzione della qualità in un momento anteriore a quello in cui è possibile, per l’impresa non collettiva, stabilire che la persona fisica abbia scelto tra i molteplici fini potenzialmente raggiungibili quello con- nesso alla dimensione imprenditoriale. Il controllo totale di una pubblica amministrazione su una società di capitali partecipata non può dar vita a un “tipo” di diritto speciale sulla base di un supposto (ma inesistente) principio di neutralità della forma giuridica rispetto alla natura dello scopo, né ad una sua connotazione pubblicistica18, frutto di una sorta di mutazione genetica nel senso di una riqualificazione del soggetto19. Si può parlare di società di diritto speciale soltanto laddove una espressa disposizione legislativa introduca deroghe alle statuizioni del codice civile, nel senso di attuare un fine pubblico incompatibile con la causa lucrativa prevista dall’art. 2247 c.c.20, con la conseguente emersione normativa di un tipo con causa pubblica non lucrativa21. Viceversa, a parte i casi di società c.d. “legali” (istituite, trasformate o comunque disciplinate con apposita legge speciale), ci troviamo sempre di fronte a società di diritto comune, in cui pubblico non è l’ente partecipato bensì il soggetto, o alcuni dei soggetti, che vi partecipano e nella quale, perciò, la disciplina pubblicistica che regola il contegno del socio pubblico e quella privatistica che regola il funzionamento della società convivono. In particolare, con riferimento ad una ipotesi di società legale si sono recentemente pronunciate le Sezioni Unite, in tema di giurisdizione, marcandone la differenza con le società in house22. 23 16 Qualche mese prima una certa giurisprudenza di merito aveva affrontato, e risolto in modo assai simile, con diverse sentenze “sistematiche” e “complementari” il tema della insolvenza delle c.d. società pubbliche, sviluppando in modo analitico tutte le questioni poste dalla evoluzione normativa, giurisprudenziale e dottrinale (App. Napoli 24.4.2013 n. 57 e App. Napoli 27.5.2013 n. 346, Fall., 2013, p. 1296 es. con nota di Fimmanò F. “La società pubblica, anche se in house, non è un ente pubblico ma un imprenditore commerciale e quindi è soggetta a fallimento”; App. Napoli 27.6.2013 n. 84, (inedita) sempre nel senso della fallibilità, con il quale dopo aver richiamato il DLgs. 165/2001 – che individua le amministrazioni pubbliche – afferma che “il rilievo pubblico di alcuni organismi strutturati in forma civilistica consente l’applicazione di determinati istituti di natura pubblicistica, ma non consente di qualificare l’ente come pubblico e di sottrarlo alla ordinaria disciplina codicistica”). 17 Cass. 6.12.2012 n. 21991, in Banca Dati Eutekne e Fall., 2013, p. 1273, con nota di Balestra L. “Concordato di società a partecipazione pubblica e profili di inammissibilità della domanda”. 18 Cfr. in particolare Consiglio di Stato sentenze: 2.3.2001 n. 1206, Foro amm., 2001, II, p. 614; 17.9.2002 n. 4711, Foro It., 2003, III; 5.3.2002 n. 1303, Foro It., 2003, III, c. 238. 19 Nel senso della riqualificazione cfr. tra gli altri: Consiglio di Stato n. 1206/2001, cit.; n. 4711/2002, cit.; n. 1303/2002, cit. 20 Al riguardo: Visentini G. “Partecipazioni pubbliche in società di diritto comune e di diritto speciale”, Giuffrè, Milano, 1979, p. 4 ss.; Mazzarelli M. “La società per azioni con partecipazione comunale”, Giuffrè, Milano, 1987, p. 117; Marasà G. “Le «società» senza scopo di lucro”, Giuffrè, Milano, 1984, p. 353; Spada P. “La Monte Titoli S.p.a. tra legge ed autonomia statutaria”, Riv. dir. civ., 1987, II, p. 552. 21 Al riguardo Guarino R. “La causa pubblica nel contratto di società”, in “Le società pubbliche. Ordinamento, crisi ed insolvenza”, cit., p. 131 ss. 22 Cass. SS.UU. 9.7.2014 n. 15594, (al riguardo cfr. Valaguzza S. “Le società a partecipazione pubblica e la vana ricerca della coerenza nell’argomentazione giuridica”, Dir. proc. amm., 2014, p. 862 ss.). Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 24 La strada dell’affermazione della giurisdizione contabile attraverso la riqualificazione soggettiva è insomma sbarrata, in quanto solo una legge può riqualificare una società a partecipazione pubblica come ente pubblico e quando ha ritenuto di farlo lo ha fatto. E ciò trova conferma nel divieto di cui all’art. 4 della L. 70/75, che per porre un freno all’incontrollata proliferazione di enti pubblici, dispose la soppressione di tutti quelli esistenti alla data della sua entrata in vigore, fatte salve le sole eccezioni dalla stessa specificamente indicate, al contempo vietandone l’istituzione o il riconoscimento di nuovi mediante atti non aventi forza di legge23. La riqualificazione di una società di capitali in ente sostanzialmente pubblico affermata da un diritto pretorio, è una operazione interpretativa non consentita in base alla predetta riserva di legge, ed in virtù del principio di cui all’art. 101 Cost., che impedisce di negare l’efficacia precettiva delle norme oltre i limiti consentiti dall’interpretazione, la quale non può mai porsi contra legem. NATURA DEL SOGGETTO GIURIDICO E DELL’ATTIVITÀ ECONOMICA SVOLTA Discorso affatto diverso riguarda l’attività economica svolta dalle società in esame. Ad esempio, la normativa comunitaria e nazionale in tema di appalti pubblici comprende tra le pubbliche amministrazioni, assoggettate alle norme che impongono il rispetto dell’evidenza pubblica e delle procedure concorrenziali trasparenti conformi ai principi comunitari, non solo i soggetti formalmente pubblici, ma anche quelli con veste privata, ma sottoposti ad un controllo pubblico, al fine di evitare l’elusione dei vincoli procedimentali24. Nello stesso senso va la legislazione in tema di “criteri e modalità per il reclutamento del personale e per il conferimento degli incarichi”. Naturale conseguenza è che le relative controversie sono attribuite alla giurisdizione del giudice amministrativo alla luce dell’art. 103 Cost. Sulla base della medesima impostazione si è registrato un ampliamento della giurisdizione della Corte dei Conti sulla responsabilità amministrativa nei confronti di amministratori e dipendenti non solo degli enti pubblici economici ma anche di soggetti formalmente privati, essendo sufficiente la natura oggettivamente pubblica del danno e cioè il collegamento anche indiretto con la finanza pubblica25, a prescindere dalla natura giuridica del soggetto o dalla veste utilizzata26. Si è sostituito ad un criterio eminentemente soggettivo, che identificava l’elemento fondante della giurisdizione della Corte dei Conti nella condizione giuridica pubblica dell’agente, un criterio oggettivo che fa leva sulla natura pubblica delle funzioni espletate e delle risorse finanziarie a tal fine adoperate. Pertanto, quando si discute del riparto della giurisdizione tra Corte dei Conti e giudice ordinario, occorre aver riguardo al rapporto di servizio tra l’agente e la pubblica amministrazione tenendo conto che per tale può intendersi anche una relazione con la pubblica amministrazione caratterizzata dal fatto di investire un soggetto, altrimenti estraneo all’amministrazione medesima, del compito di porre 23 In questo senso da ultime, App. Napoli 24.4.2013 e App. Napoli 27.5.2013, cit. 24 Il codice degli appalti, di cui al DLgs. 163/2006, impone il rispetto delle regole di evidenza pubblica ad una serie di soggetti (comprese società per azioni miste o totalmente private) solo al fine dello specifico settore degli appalti. 25 L’organo a cui compete il controllo contabile e di legalità degli enti pubblici è, ai sensi dell’art. 100 Cost., la Corte dei Conti e ai fini del controllo contabile e della responsabilità contabile rileva il dato sostanziale della permanenza dell’ente nella sfera delle finanze pubbliche. La qual cosa conseguentemente rende necessari controlli finalizzati a verificare la corretta gestione del denaro pubblico; al contrario risulta irrilevante ai detti fini il dato formale della veste societaria, sotto questo profilo neutra e irrilevante (Corte Cost. 23.12.1993 n. 446). 26 Sul tema più in generale cfr. Buccarelli A. “Il sistema della responsabilità amministrativa e civile nelle società di capitale pubbliche”, in “Le società pubbliche. Ordinamento, crisi ed insolvenza”, cit., 2011, p. 403 ss.; Miele T “La responsabilità contabile concorrente degli amministratori delle società partecipate in caso di insolvenza”, ivi, 2011, p. 450 ss. in essere in sua vece un’attività, senza che rilevi né la natura giuridica dell’atto di investitura – provvedimento, convenzione o contratto – né quella del soggetto che la riceve, sia essa una persona giuridica o fisica, privata o pubblica27. L’affidamento da parte di un ente pubblico ad un soggetto esterno, da esso controllato, della gestione di un servizio pubblico integra una relazione funzionale incentrata sull’inserimento del soggetto medesimo nell’organizzazione funzionale dell’ente pubblico e ne implica, conseguentemente, l’assoggettamento alla giurisdizione della Corte dei Conti per danno erariale, a prescindere dalla natura privatistica dello stesso soggetto e dello strumento contrattuale con il quale si sia costituito ed attuato il rapporto, anche se l’estraneo venga investito solo di fatto dello svolgimento di una data attività in favore della pubblica amministrazione ed anche se difetti una gestione del danaro secondo moduli contabili di tipo pubblico o secondo procedure di rendicontazione proprie della giurisdizione contabile in senso stretto. Lo stesso dicasi per l’accertamento della responsabilità erariale conseguente all’illecito o indebito utilizzo, da parte di una società privata, di finanziamenti pubblici; o per la responsabilità in cui può incorrere il concessionario privato di un pubblico servizio o di un’opera pubblica, quando la concessione investe il privato dell’esercizio di funzioni obiettivamente pubbliche, attribuendogli la qualifica di organo indiretto dell’amministrazione, onde egli agisce per le finalità proprie di quest’ultima28. Nella medesima logica la Cassazione ha riconosciuto per anni la giurisdizione della magistratura contabile sugli organi delle società a partecipazione pubblica solo là dove ed in quanto si arrechi un danno erariale all’azionista pubblico. Il risarcimento va dunque all’erario poiché il danno è direttamente alle casse pubbliche e in via mediata alla partecipazione del socio pubblico29. Dunque tali società sono assoggettate a regole analoghe a quelle applicabili ai soggetti pubblici nei settori di attività in cui assume rilievo preminente rispettivamente la natura sostanziale degli interessi pubblici coinvolti e le finanze; saranno invece assoggettate alle normali regole privatistiche ai fini dell’organizzazione e del funzionamento. E ciò vale anche per l’istituzione, la modificazione e l’estinzione, ove gli atti propedeutici alla formazione della volontà negoziale dell’ente sono soggetti alla giurisdizione amministrativa, ma gli atti societari rientrano certamente nella giurisdizione del giudice ordinario. Così per le controversie riguardanti l’organizzazione societaria, la giurisprudenza ha affermato che non è sufficiente il mero coinvolgimento dell’interesse pubblico per giustificare l’attrazione in capo al giudice amministrativo. In questo senso è stato ad esempio risolto il caso della nomina o della revoca degli amministratori30 da parte di un ente pubblico: l’atto persegue un fine pubblico ma rimane un atto societario in quanto espressione di una prerogativa squisitamente privatistica e non certo di un potere pubblicistico31. Né la partecipazione dell’ente giustifica valutazioni diverse 27 Cass. SS.UU. 3.7.2009 n. 15599, Mass. Giur. It., 2009; Cass. SS.UU. 31.1.2008 n. 2289, Mass. Giur. It., 2008; Cass. SS.UU. 22.2.2007 n. 4112, Mass. Giur. It., 2007; Cass. SS.UU. 20.10.2006 n. 22513, Foro It., 2007, c. 2483; Cass. SS.UU. 5.6.2000 n. 400, Mass. Giur. It., 2000; Cass. SS.UU. 30.3.1990 n. 2611, Giust. Civ., 1990, I, p. 1726. 28 Cass. SS.UU. 5.6.2008 n. 14825, Mass. Giur. It., 2008. 29 Corte dei Conti, Sez. giur. Reg. Friuli Venezia-Giulia, 18.6.2009 n. 203; Corte dei Conti, Sez. I giur. Centr. App., 5.8.2008 n. 361/A; Sez. giur. Reg. Sardegna 16.5.2008 n. 1181. Sul tema cfr. anche Imparato L. “L’amministrazione straordinaria delle società di riscossione degli enti locali. Il caso Tributi Italia s.p.a.” in “Le società pubbliche. Ordinamento, crisi ed insolvenza”, cit., 2011, p. 687; Id. “Il rapporto tra provvedimenti cautelari contabili e le procedure concorsuali”, in “Diritto delle imprese in crisi e tutela cautelare”, a cura di Fimmanò F., Giuffrè, Milano, 2012, p. 281. 30 Imparato L. “La revoca degli amministratori pubblici. Nota a sentenza n. 7063/2013 resa dal Tribunale di Napoli”, Gazzetta Forense, 11/12, 2013, p. 37 ss. 31 In ordine al dibattito sulla natura della nomina e della revoca (e dei relativi effetti) cfr. da ultimo Trib. Palermo 13.2.2013, in Banca Dati Eutekne, con nota di Meoli M. “Anche per i sindaci di nomina pubblica revoca al Tribunale”, Il Quotidiano del Commercialista, www.eutekne.info, 28.3.2013 e Le Società, 2013, p. 1036 ss., con nota di Caprara A. In tema cfr. anche Cass. 15.10.2013 n. 23381, in Banca Dati Eutekne; Di Marzio F. “Insolvenza di società pubbliche e responsabilità degli amministratori. Qualche nota preliminare”, in “Le società pubbliche. Ordinamento, crisi ed insolvenza”, cit., p. 377 ss. 25 Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 26 della condotta degli organi sociali ai fini delle loro responsabilità gestionali o di controllo32. Il sistema delineato, in cui il soggetto giuridico e la sua organizzazione sono disciplinati dalle regole civilistiche e la relativa attività può essere disciplinata da regole giuspubblicistiche, in sé abbastanza chiaro, è stato “confuso” dalla sovrapposizione di norme e definizioni aventi ad oggetto l’attività e dalla conseguente giurisprudenza amministrativa, a principi e norme di diritto civile e fallimentare. L’esempio più eclatante è stato l’uso improprio (frutto di una mancata visione interdisciplinare) dell’espressione “organismo di diritto pubblico” che è stata utilizzata per riqualificare l’imprenditore commerciale come soggetto di natura pubblica e non semplicemente, come operatore rientrante tra le amministrazioni aggiudicatrici, che, com’è noto, sono tenute, nella scelta del contraente, sia al rispetto della normativa comunitaria che al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica previsti dalla normativa statale o regionale33. Insomma una cosa è l’imprenditore commerciale (società a partecipazione pubblica o meno, o concessionaria di servizio beni pubblici) che resta sempre tale ed assoggettato al relativo statuto ed altra cosa è la sua qualificazione di “organismo pubblico” ai fini delle norme cui assoggettare la sua particolare attività34. Ed ora anche la giurisprudenza amministrativa ha riconosciuto che la qualificazione come organismo di diritto pubblico non determina di per sé l’esonero dal rispetto delle regole civilistiche, se in fatto tale soggetto abbia agito come operatore economico ben potendo, sussistendo i requisiti da detta norma previsti, un ente con personalità di diritto privato essere riconosciuto quale organismo di diritto pubblico e viceversa. E la suprema Corte ha confermato questi principi persino per quel ridotto numero di “società legali” per le quali una ipotetica riqualificazione della natura troverebbe almeno la sponda normativa cui la sentenza in epigrafe fa riferimento35. LA QUESTIONE DELLA GIURISDIZIONE SULLA RESPONSABILITÀ DEGLI ORGANI SOCIALI La Cassazione, sulla base di questa complessiva impostazione aveva individuato, almeno fino alla citata sentenza a Sezioni Unite del novembre del 2013, l’ambito della giurisdizione della Corte dei Conti sulle azioni di respon- 32 La Suprema Corte ha affermato che in una società di capitali a partecipazione pubblica, il venir meno del rapporto fiduciario tra socio Amministrazione comunale e amministratori è rilevante, ai fini di integrare una giusta causa di revoca del mandato, solo quando i fatti che hanno determinato il venir meno dell’affidamento siano oggettivamente valutabili come idonei a mettere in forse la correttezza e le attitudini gestionali dell’amministratore (Cass. n. 23381/2013, cit.). 33 Infatti l’art. 3 co. 26 del DLgs. 12.4.2006 n. 163, recante il codice degli appalti pubblici di lavori, servizi e forniture, soltanto “ai fini del codice” medesimo, definisce “organismo di diritto pubblico [...] qualsiasi organismo, anche in forma societaria: istituito per soddisfare specificatamente esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale; dotato di personalità giuridica; la cui attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico oppure la cui gestione sia soggetta al controllo di questi ultimi oppure il cui organo d’amministrazione, di direzione o di vigilanza sia costituito da membri dei quali più della metà è designata dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico”33. Anzi proprio queste disposizioni legislative di carattere settoriale costituiscono la migliore dimostrazione dell’esigenza e dell’intento del legislatore di attrarre solo a determinati effetti nella sfera del diritto pubblico soggetti che generalmente orbitano e che sono dunque destinati, per il resto, a rimanere nella sfera del diritto privato. 34 Chiarissima al riguardo è la Suprema Corte (Cass., SS.UU. 9.3.2012 n. 3692, Foro amm. CDS, 2012, p. 1498, con nota di Nicodemo S. “Società pubbliche e responsabilità amministrativa: le Sezioni Unite della Cassazione ritornano sulla questione di giurisdizione”, secondo cui la qualificazione della società come organismo di diritto pubblico, rileva solo sul piano della disciplina di derivazione comunitaria in materia di aggiudicazione degli appalti ad evidenza pubblica). In questo senso chiaramente anche la Corte di giustizia 24.1.2012 causa C-282/10, in Banca Dati Eutekne e Riv. dir. int., 2012, p. 562, che distingue chiaramente la forma giuridica del soggetto dalla circostanza che sia stato incaricato, con atto della pubblica autorità, di prestare, sotto il controllo di quest’ultima, un servizio d’interesse pubblico e che disponga a tal fine di poteri che oltrepassano quelli risultanti dalle norme che si applicano nei rapporti fra singoli. 35 Cass. SS.UU. 22.12.2011 n. 28329, Giust. civ. Mass., 2011, p. 1827 (secondo cui la Rai-Radiotelevisione spa, pur costituendo un organismo di diritto pubblico ed essendo soggetta a varie forme di controllo ed indirizzo pubblici, resta pur sempre una società per azioni, come tale soggetta alle regole privatistiche ove dalla legge non diversamente disposto). sabilità avverso gli organi sociali di società a partecipazione pubblica, in una lunga serie di sentenze a partire dal noto pronunciamento “spartiacque” n. 26806/2009 36. La Suprema Corte, in virtù di questo orientamento37, ha risolto per diversi anni il problema in modi opposti a seconda che l’azione avesse ad oggetto un danno arrecato direttamente al socio pubblico o, invece, al patrimonio sociale38. Nel primo caso sanciva la sussistenza della giurisdizione della Corte dei Conti e nel secondo, invece, rilevava: • l’insussistenza di un rapporto di servizio fra gli amministratori della società e l’ente pubblico socio; • l’insussistenza di un danno erariale inteso in senso proprio, essendo il pregiudizio arrecato al patrimonio della società, unico soggetto cui compete il risarcimento; • l’inconciliabilità dell’ipotizzata azione contabile con le azioni di responsabilità esercitabili dalla società, dai soci e dai creditori sociali a norma del codice civile. Nei precedenti citati i giudici precisavano che solo nel caso in cui l’evento dannoso fosse prodotto dagli amministratori “direttamente” a carico del socio-ente pubblico si sarebbe configurata la responsabilità amministrativa con sussistenza della giurisdizione del giudice contabile. In buona sostanza, sulla base di una peculiare interpretazione dell’art. 16-bis del DL 31.12.2007 n. 24839, veniva stabilito un criterio generale, superando il carattere di specialità che connoterebbe la materia, dove, fra le diverse tipologie di società, disciplinate da norme e principi differenti, l’unico denominatore comune sarebbe la presenza di una pubblica amministrazione nel capitale sociale. Insomma secondo il consolidato orientamento, che resiste tuttora – salvo che per le società in house providing – non v’è giurisdizione diretta della Corte dei Conti sulla responsabilità degli amministratori e sindaci di questo tipo di società in quanto non diviene essa stessa un ente pubblico sol per il fatto di essere partecipata da una pubblica amministrazione. GLI EFFETTI SISTEMICI DEL “CONTROLLO ANALOGO” SULLA RESPONSABILITÀ DELL’ENTE HOLDER La volontà “politica” di porre al centro del si- 36 Cfr. Cass. SS.UU. 19.12.2009 n. 26806, in Banca Dati Eutekne e NDS, 3, 2010, p. 36 ss.; Cass. SS.UU. 15.1.2010 n. 519, Le Società, 2010, p. 803 ss.; Cass. SS.UU. 15.1.2010 nn. 520, 521, 522 e 523 e Cass, SS.UU. 23.2.2010 n. 4309; Cass. SS.UU. 9.4.2010 n. 8429, riferita al direttore generale, Le Società, 2010, p. 1177 ss.; Cass. SS.UU. 9.5.2011 n. 10063, Riv. corte conti, 2011,3-4, p. 372 e Foro It. 2012, I, c. 832, Cass. SS.UU. 5.7.2011 n. 14655, Resp. civ. e prev.,2011, p. 2596, Giust. civ., 2012,p. 287; Cass. SS.UU. 7.7.2011 n. 14957, Foro It., 2012, c. 831 (ove il danno era ravvisabile nella perdita di valore di una quota di partecipazione in società poi dichiarata fallita), Cass. SS.UU. 12.10.2011 n. 20941, Foro It., 2012, c. 831; Cass. SS.UU. n. 3692/2012, cit.; Cass. SS.UU. 23.3.2013 n. 7374, Guida dir., 23, 2013, p. 57; Cass. SS.UU. 5.4.2013 n. 8352, Giust. civ. Mass., 2013. In tema in precedenza ma di diverso tenore: Cass. SS.UU. 22.12.2003 n. 19667, Giur. It., 2003, p. 1830, Cass. SS.UU. 26.2.2004 n. 3899, Giur. It., 2004, p. 1946, Cass. SS.UU. 15.2.2007 n. 3367, Mass. Giur. It., 2007, Cass. SS.UU. 27.9.2006 n. 20886, Foro It., 2007, c. 2484, Cass. SS.UU. 1.3.30026 n. 4511, Urb. e appalti, 2006, p. 570. 37 Si vedano in particolare al riguardo Cagnasso O. “La responsabilità degli amministratori di società a partecipazione pubblica secondo una recente e innovativa sentenza della Cassazione”, NDS, 3, 2010, p. 36 ss.; Salvago S. “La giurisdizione della Corte dei conti in relazione alla posizione dei soggetti responsabili ed a quella degli enti danneggiati”, Giust. civ., 2010, I, p. 2505; Sinisi M. “Responsabilità amministrativa di amministratori e dipendenti di s.p.a. a partecipazione pubblica e riparto di giurisdizione: l’intervento risolutivo delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione”, Foro amm., 2010, I, p. 77; Tenore V. “La giurisdizione della Corte dei conti sulle s.p.a. a partecipazione pubblica”, Foro. Amm., p. 92; Patrito P. “Responsabilità degli amministratori di società a partecipazione pubblica: profili di giurisdizione e diritto sostanziale”, Giur. It., 2010, p. 1709. 38 Un tipico danno diretto è considerato dalla suprema Corte quello all’immagine dell’ente (al riguardo cfr. Caravella L. “La lesione all’immagine dell’ente pubblico ed il risarcimento del danno”, in “Le società pubbliche. Ordinamento, crisi ed insolvenza”, cit., 2011, p. 541 ss.). 39 Conv. L. 28.2.2008 n. 31. Con la strana norma del c.d. decreto milleproroghe 2008 è stata sancita la devoluzione in via esclusiva alla giurisdizione del giudice ordinario della materia della responsabilità degli amministratori di società quotate partecipate da amministrazioni pubbliche, anche in via indiretta, in misura inferiore al cinquanta per cento e delle loro controllate La norma lascia intendere, in realtà, che in tutti gli altri casi vi sia una giurisdizione della magistratura contabile che non le è propria, ovvero per tutte le azioni di responsabilità riguardanti amministratori e dipendenti di società partecipate. Se questa fosse stata la lettura, il legislatore avrebbe dato seguito all’orientamento della Corte dei Conti diretto ad allargare 27 Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 28 stema il modello c.d. in house, ha spesso trasformato l’ente pubblico da soggetto gestore in una sorta di holding che si occupa dell’attività di direzione e coordinamento delle società strumentali partecipate (artt. 2497 ss. c.c.). Questa operazione non supportata normativamente dall’emersione di un “tipo” genera tuttavia una confusione che non tiene conto del fatto che alcune categorie concettuali e sistematiche di diritto pubblico e comunitario non sono affatto applicabili sic et simpliciter al diritto commerciale. Peraltro intanto si giustifica un modello privatistico in cui l’ente locale si occupa, in forza della sua autonomia privata, della governance delle sue partecipate, in quanto i regimi di responsabilità, gestione e organizzazione siano quelli del diritto societario comune, seppure con alcuni accorgimenti nei limiti del principio di tipicità, e non altri. Altrimenti non avrebbe senso servirsi di una fictio per simulare istituti di tutt’altra natura quali “l’azienda speciale” oppure “l’ente pubblico economico”. Le Sezioni Unite della Cassazione, nella citata sentenza n. 26283/2013, precisano che l’espressione “controllo” non allude all’influenza dominante che il titolare della partecipazione maggioritaria (o totalitaria) è di regola in grado di esercitare sull’assemblea della società e, di riflesso, sulla scelta degli organi sociali; si tratta, invece, di un potere di comando “direttamente esercitato” sulla gestione dell’ente con modalità e con un’intensità non riconducibili ai diritti ed alle facoltà che normalmente spettano al socio (fosse pure un socio unico) in base alle regole dettate dal codice civile, e sino al punto che agli organi della società non resta affidata nessuna rilevante autonomia gestionale. Una lettura conforme ai principi nazionali e comunitari comporta l’inquadramento della società in house providing come longa manus dell’ente, una sua derivazione operativa, formalmente strutturata come società, ma sostanzialmente in tutto e per tutto dipendente dai soggetti pubblici proprietari del capitale, a guisa di un’azienda speciale (una quasi immedesimazione tra società ed ente pubblico proprietario). Ma questo è l’equivoco di fondo: per configurare il “controllo analogo”, è necessario uno strumento, di carattere societario, parasociale o contrattuale, diverso dai normali poteri che un socio, anche totalitario, esercita in assemblea, che in ogni momento possa vincolare l’affidataria agli indirizzi dell’affidante. Non può certo bastare il potere di nomina degli organi perché questi saranno comunque autonomi nella gestione, salvo la possibilità di revocarli. Quindi da un lato il controllo partecipativo totalitario è condizione necessaria (con tutti i relativi effetti ex art. 2325 comma 2 e 2462 comma 2 c.c.), dall’altro è condizione insufficiente a legittimare l’affidamento diretto dei servizi. Infatti, sul piano del diritto societario, il “controllo analogo”, nel senso inteso dalla giurisprudenza comunitaria e nazionale, non è possibile, a nostro avviso, nelle società per azioni sulla base delle regole civilistiche e neppure di patti parasociali, in quanto il tipo di società, almeno nel nostro ordinamento, impedisce per sua natura un controllo invasivo del socio sull’amministrazione di tal fatta40. l’ambito della propria giurisdizione (già Corte Conti, Sez. I, App., 3.11.2005 n. 356, Foro amm., 2005, p. 3842; Corte conti, Sez. Lombardia, 4.3.2008 n. 135; Corte Conti, Sez. Lombardia, 25.1.2005 n. 22, Foro amm., 2005, p. 80; Corte conti, Sez. Trentino Alto Adige, 1.6.2006; Corte Conti, Sez. Lombardia, 5.9.2007 n. 448. Cfr. al riguardo in modo critico Ibba C. “Azioni ordinarie di responsabilità e azione di responsabilità amministrativa nelle società a mano pubblica. Il rilievo della disciplina privatistica”, Riv. dir. civ., 2006, II, p. 145 ss., Romagnoli G. “Le società degli enti pubblici: problemi e giurisdizioni nel tempo delle riforme”, Giur. comm., 2006, II, p. 478). Si è osservato che l’art. 16-bis del decreto milleproroghe sarebbe illegittimo in primis sotto il profilo della violazione del principio di uguaglianza poiché, trattandosi di società quotate, anche il c.d. pacchetto di controllo (cioè quella quota azionaria inferiore al 50%) consente in ipotesi di azionariato diffuso di avere il controllo della società parimenti al caso di partecipazione pubblica maggioritaria. In entrambi i casi la spa è sostanzialmente gestita da soggetti pubblici e, pertanto, non appare giustificato il discrimen di competenza giurisprudenziale posto dal decreto milleproroghe (al riguardo cfr. Santosuosso D. “Società a partecipazione pubblica e responsabilità degli amministratori (contributo in materia di privatizzazioni e giurisdizione)”, Riv. dir. soc., 2009, p. 47 ss.; Colangelo R. “Nuove questioni in tema di società a partecipazione pubblica”, dircomm.it, 2008, p. 9 ss.). 40 La giurisprudenza di merito ha affermato che sarebbe possibile in linea di principio l’adeguamento degli statuti delle società a capitale pubblico finalizzato a consentire un controllo da parte degli enti pubblici titolari del capitale sociale analogo In questa logica ci appare del tutto incompatibile la soluzione diffusamente praticata di istituire nello statuto “comitati di controllo analogo” od organismi del genere. E ciò a prescindere dalla legittimità nelle spa di patti che contemplino un potere invasivo diretto a togliere autonomia agli amministratori in violazione dei criteri di corretta gestione societaria. In realtà la riforma del diritto delle società ha accentuato questa caratteristica inibendo agli azionisti, o meglio all’assemblea, qualsiasi forma di “intrusione” nell’attività gestoria. Il socio non può neppure monitorare la gestione, avendo solo il diritto di voto, di impugnare le delibere, e in caso di partecipazione qualificata, di chiedere la convocazione dell’assemblea, di denunciare eventuali sospetti di irregolarità al Collegio sindacale e/o al tribunale. Per la società per azioni l’unico eventuale “luogo” per l’esercizio del controllo sui servizi è appunto il contratto di affidamento dei servizi, dove l’ente, azionista ed appaltante, può effettivamente imporre, in via parasociale, modalità, termini e condizioni così stringenti ed unilaterali, da generare la configurazione di un effettivo controllo analogo a quello effettuato sui propri servizi. Orbene, l’art. 2497-sexies c.c., sancisce che si presume la sussistenza di un’attività di direzione e coordinamento di società da parte della società o dell’ente tenuti al consolidamento dei bilanci (e non è il nostro caso) o che comunque, ai sensi dell’art. 2359 c.c., le controlla disponendo “della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria”, o “di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria” o che sono sotto la sua influenza dominante “in virtù di particolari vincoli contrattuali”. Quest’ultima forma di controllo c.d. esterno, prevista dall’art. 2359 n. 3 c.c., si identifica con un potere effettivo nei confronti della società, che prescinde dalle regole organizzative della stessa, di determinare l’attività dell’impresa controllata. Il carattere esistenziale del rapporto contrattuale configura in questo caso un’ingerenza nella gestione che si concretizza attraverso le decisioni degli organi della controllata. Il contratto peraltro non ha ad oggetto il controllo, ma la produzione. Il controllo non si realizza attraverso l’organizzazione societaria, ma attraverso il risultato dell’esercizio dell’attività economica, cioè la produzione (la gestione dei servizi) che la controllante indirizza mediante il rapporto contrattuale verso il proprio profitto. Dal punto di vista invece del c.d. “controllo interno”, l’unico modello conforme al dettato del legislatore è il tipo della società a responsabilità limitata41, ammessa ormai da tempo nella gestione dei servizi pubblici42, dove è concepibile un controllo di tipo invasivo ed anche asimmetrico. Si pensi innanzitutto al disposto dell’art. 2479 comma 1 c.c., il quale sancisce che “i soci decidono sulle materie riservate alla loro competenza dall’atto costitutivo, nonché sugli argomenti che uno o più amministratori o tanti soci che rappresentano almeno un terzo del capitale sociale sottopongono alla loro approvazione”. E di conseguenza, a norma dell’art. 2476 comma 7 c.c., “sono solidalmente responsabili con gli amministratori […] i soci che hanno intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi per la società, i soci o i terzi”. a quello dai medesimi esercitato sui propri servizi se le modificazioni introdotte sono unicamente finalizzate a consentire agli enti pubblici soci, sia collettivamente che individualmente, un potere di controllo concreto circa l’organizzazione delle attività e le erogazioni dei servizi affidati alla società, come consentito dall’art. 2364 n. 5 c.c., rimanendo attribuiti al Consiglio di Amministrazione tutti i poteri di amministrazione e gestione della società, in conformità con la previsione dell’art. 2380-bis c.c., ed al Collegio sindacale le prerogative di cui agli artt. 2403 e 2403- bis c.c. (Trib. Mantova 8.5.2007, Il Caso.it). Tuttavia a nostro avviso questo controllo sarebbe insufficiente ad integrare il requisito della delegazione interorganica. 41 In questo senso anche Occhilupo R. “L’ordinamento comunitario, gli affidamenti in house e il nuovo diritto societario”, Giur. comm., 2006, II, p. 63 ss.; Demuro I. “La compatibilità del diritto societario con il c.d. modello in house providing per la gestione dei servizi pubblici locali”, ivi, p. 780 ss. 42 Ibba C. “Le società a partecipazione pubblica locale fra diritto comune e diritto speciale”, Riv. dir. priv., 1999, p. 36. 29 Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 ABUSO DEL DOMINIO E RESPONSABILITÀ DI CHI PRENDE PARTE AL FATTO LESIVO 30 L’attività di dominio da parte dell’ente pubblico è di per sé lecita e configura una situazione soggettiva attiva di cui può, e talora deve, farsi uso 43: non contrasta con i principi inderogabili dell’ordinamento giuridico il fatto che il centro decisionale delle strategie venga posto al di fuori delle singole società controllate 44. Ciò può valere a maggior ragione quando la società è a partecipazione pubblica ed il dominio può essere finalizzato ad evitare pregiudizi alla collettività45. L’art. 2497 comma 1 c.c. sancisce che “Le società o gli enti 46 che, esercitando attività di direzione e coordinamento di società, agiscono nell’interesse imprenditoriale proprio o altrui in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società medesime, sono direttamente responsabili nei confronti dei soci di queste per il pregiudizio arrecato alla redditività ed al valore della partecipazione sociale, nonché nei confronti dei creditori sociali per la lesione cagionata all’integrità del patrimonio della società. Non vi è responsabilità quando il danno risulta mancante alla luce del risultato complessivo dell’attività di direzione e coordinamento ovvero integralmente eliminato anche a seguito di operazioni a ciò dirette”. Il legislatore ha poi chiarito che “per enti si intendono i soggetti giuridici collettivi, diversi dallo Stato, che detengono la partecipazione sociale nell’ambito della propria attività imprenditoriale ovvero per finalità di natura economica o finanziaria” 47. L’attività di dominio diviene fonte di responsabilità diretta verso soci e creditori se abusiva, 43 Sul dovere di esercizio della direzione unitaria in particolare L. Rovelli L. “La responsabilità della capogruppo”, Fall., 2000, p. 1098 ss.; Libonati B. “Responsabilità del e nel gruppo”, in AA.VV. “I gruppi di società”, Atti del convegno internazionale di studi, Venezia 16-17-18 novembre 1995, vol. II, Giuffrè, Milano, 1996, p. 1489; Marchetti P.G. “Controllo e poteri della controllante”, ivi, p. 1556 s; Fimmanò F. “I «Gruppi» nel convegno internazionale di studi per i quarant’anni della Rivista delle Società”, Riv. Not., 1996, p. 522 ss. 44 Al riguardo Blatti C., Minutoli G. “Il fallimento della holding personale tra nuovo diritto societario e riforma della legge fallimentare”, Fall., 2006, p. 428. 45 In questa stessa logica già vent’anni fa il legislatore, nell’ambito della disciplina dei gruppi bancari, aveva espressamente sancito che la capogruppo, nell’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento, emana le direttive, riconoscendo una vera e propria espressione di supremazia gerarchica meritevole di tutela. Nelle norme “per la ristrutturazione e per la disciplina dei gruppi bancari” (art. 25 del DLgs. 356/1990) e poi con il Testo unico bancario (art. 61 co. 4 del DLgs. 385/1993). Anche in quel caso si trattava della tutela dell’interesse, di rilievo pubblicistico, alla stabilità del sistema bancario a seguito dell’evoluzione del modello del c.d. gruppo polifunzionale composto anche di società esercenti attività strumentali a quella bancaria e finanziaria, con conseguenti rischi di instabilità ed irregolarità, derivanti dal mancato assoggettamento alla vigilanza prudenziale delle stesse (Al riguardo Costi R. “Le relazioni di potere nell’ambito del gruppo bancario”, Giur. comm., 1995, I, p. 885 ss.). 46 La norma si riferisce evidentemente anche ad enti non societari quali associazioni, fondazioni ed appunto enti pubblici (in tal senso Galgano F. “I gruppi nella riforma delle società di capitali”, in Contr. impr., 2002, p. 1021; Romagnoli G. “ L’esercizio di direzione e coordinamento di società da parte di enti pubblici”, Nuova giur. civ. comm., 2004, II, p. 216 ss.; Ibba C. “Le società a partecipazione pubblica: tipologia e discipline”, in “Le società «pubbliche»”, a cura di Ibba C., Malaguti M.C., Mazzoni A., Giappichelli, Torino, 2011, p. 7; Portale G.B. “Fondazioni «bancarie» e diritto societario”, Riv. soc., 2005, p. 28 ss.). 47 Il DL 1.7.2009 n. 78, conv. L. 3.8.2009 n. 102 (G.U. 4.8.2009 n. 179), recante “Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini e della partecipazione italiana a missioni internazionali”, ha previsto all’art. 19 (rubricato “Società pubbliche”) co. da 6 a 13 (concernenti “Partecipazioni in società delle amministrazioni pubbliche”), talune modifiche alla disciplina delle società pubbliche e degli organi di amministrazione delle società controllate direttamente o indirettamente dallo Stato. In particolare, a fronte dei dubbi interpretativi sorti in relazione a quegli enti che esercitano attività di direzione e coordinamento di società in ordine al perseguimento di un interesse imprenditoriale di gruppo (quale risultato complessivo dell’attività di dominio), il co. 6 dell’articolo citato fornisce un’interpretazione autentica dell’art. 2497 co. 1 c.c. Al riguardo ed in particolare sulla interpretazione autentica, cfr. Eballi I. “Direzione e coordinamento nelle società a partecipazione pubblica alla luce dell’intervento interpretativo fornito dal «Decreto Anticrisi»”, NDS, 10, 2010, p. 44 ss. Il legislatore è intervenuto con la norma assai discutibile, apparentemente generale, diretta invece ad un caso specifico e cioè alla vicenda della crisi Alitalia, svoltasi in modo tale da configurare una evidente responsabilità da abuso del dominio da parte del Ministero dell’Economia, esercitato in violazione dei criteri di corretta gestione societaria e imprenditoriale e nell’interesse proprio od altrui. Giustamente critico Cariello V. “Brevi note critiche sul privilegio dell’esonero dello Stato dall’applicazione dell’art. 2497, comma 1, c.c. (art. 19, comma 6, D.L. n. 78/2009)”, Riv. dir. civ., 2010, p. 343 ss. ovvero se il dominus-ente pubblico la esercita nell’interesse imprenditoriale proprio od altrui (e comunque non nell’interesse del dominato) e se è contraria ai criteri di corretta gestione imprenditoriale e societaria. La responsabilità dell’ente pubblico-dominus sorge per effetto della violazione di un dovere specifico derivante da un preesistente rapporto obbligatorio verso soggetti determinati e non dal generico dovere del neminem laedere verso qualsiasi soggetto dell’ordinamento. Ma c’è di più nel sistema di cui agli artt. 2497 ss. c.c., la responsabilità contrattuale del dominus che esercita l’attività di direzione e coordinamento nell’interesse proprio od altrui e violando gli obblighi di corretto perseguimento degli interessi di gruppo quale risultante dall’equo contemperamento degli interessi delle società eterogestite, convive con la responsabilità risarcitoria di “chi abbia comunque preso parte al fatto lesivo e, nei limiti del vantaggio conseguito, chi ne abbia consapevolmente tratto beneficio” (art. 2497 comma 2). È abbastanza evidente che il controllo “analogo” che legittima l’affidamento diretto del servizio pubblico viene (nella migliore delle ipotesi) esercitato in funzione degli interessi istituzionali dell’ente e della collettività cui viene erogato il pubblico servizio e non dell’interesse (lucrativo) della controllata, e come tale genera la responsabilità sussidiaria dello stesso ente. Addirittura si badi che per i c.d. servizi senza rilevanza economica la gestione secondo criteri di economicità, quindi di corretta gestione imprenditoriale, è esclusa addirittura dalla legge. Quindi in una situazione in cui l’interesse della controllata diverge da quello del soggetto controllante e sussistono i presupposti previsti dalla legge, scatterebbe la responsabilità della capogruppo a prescindere dalla sua natura e dall’interesse in concreto perseguito. In ogni caso, laddove si verifichi l’ipotesi di controllo “analogo” contemplata dalla sentenza a Sezioni Unite in oggetto, ci troviamo di fronte ad un caso di violazione, in re ipsa, delle regole dettate dal codice civile in tema di eterodirezione e coordinamento (artt. 2497 ss. c.c.). Anche nel caso di controllo esterno, l’abuso della dipendenza economica può tradursi di per sé in abuso dell’attività di direzione e coordinamento con la conseguente responsabilità riconosciuta dalla giurisprudenza anche prima delle riforme48. Peraltro la più attenta dottrina commercialistica già sottolineava questa criticità in relazione agli effetti del vecchio art. 2362 c.c., in caso di pubblica amministrazione-azionista unica49, rispetto all’impossibilità di ammettere, per le regole di contabilità pubblica, una spesa di ammontare indeterminato come quella derivante dalla responsabilità delle obbligazioni societarie sorte nel periodo di controllo totalitario. Problema che in verità si pone tuttora, in aggiunta alle responsabilità da eterodirezione abusiva, nei casi in cui a norma e per gli effetti degli artt. 2325 comma 2 c.c. e 2462 comma 2 c.c., non siano state rispettate le cautele in tema di conferimenti e pubblicità. Quindi l’abuso del dominio finisce con il generare anche la violazione delle regole di contabilità pubblica, in ordine all’assunzione indiretta di spese di ammontare indeterminato come quella derivante dalla responsabilità ex art. 2497 c.c. Secondo i giudici delle Sezioni Unite “nei gruppi societari il potere di direzione e coordinamento spettante all’ente capogruppo attiene all’individuazione delle linee strategiche dell’attività d’impresa senza mai annullare del tutto l’autonomia gestionale della società controllata. Gli amministratori di quest’ultima sono perciò tenuti ad adeguarsi alle direttive loro impartite, ma conservano nondimeno una propria sfera di autonomia decisionale (giacché, pur con gli adattamenti resi necessari dall’esser parte di un gruppo imprenditoriale più vasto, continua ad applicarsi alla singola società il disposto 48 Al riguardo Angiolini F. “Abuso di dipendenza economica ed eterodirezione contrattuale”, Milano, 2012, p. 87 ss. 49 Ancora Buonocore V. “Autonomia degli enti locali e autonomia privata: il caso delle società di capitali a partecipazione comunale”, Giur. comm., 1994, p. 14, il quale evidenziava che “a nulla varrebbe obiettare che per le aziende municipalizzate è tenuto a pagare le perdite di gestione, perché le aziende sono bracci operativi del comune, mentre le società a partecipazione comunale sono soggetti assolutamente autonomi e organicamente distinti dal comune”. 31 Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 32 dell’art. 2380 bis c.c., comma 1) né, soprattutto, essi possono prescindere dal valutare se ed in qual misura quelle direttive eventualmente comprimano in modo indebito l’interesse della stessa società controllata: interesse di cui sono garanti ed in virtù del quale hanno il dovere, se del caso, di discostarsi da direttive illegittime. La disciplina della direzione e del coordinamento dettata dai citato art. 2497 e ss., insomma, è volta a coniugare l’unitarietà imprenditoriale della grande impresa con la perdurante autonomia giuridica delle singole società agglomerate nel gruppo, che restano comunque entità giuridiche e centri d’interesse distinti l’una dalle altre”. Altrettanto non si potrebbe dire invece per la società in house, sia per la subordinazione dei suoi gestori all’ente pubblico partecipante, nel quadro di un rapporto gerarchico che non lascerebbe spazio a possibili aree di autonomia e di eventuale motivato dissenso, sia per l’impossibilità d’individuare nella società un centro d’interessi davvero distinto rispetto all’ente pubblico che l’ha costituita e per il quale essa opera. Allo stesso modo, sempre secondo le Sezioni Unite, ove si abbia a che fare con una società a responsabilità limitata, non sarebbe possibile ricondurre sic et simpliciter il “controllo analogo”, caratteristico del fenomeno dell’in house, ad uno dei “particolari diritti riguardanti l’amministra- zione” che l’atto costitutivo può riservare ad un socio (art. 2468 comma 3 c.c.): giacché neppure siffatti diritti speciali di amministrazione sono equiparabili, in presenza di un amministratore non socio, ad un rapporto di natura gerarchica da cui quest’ultimo sia vincolato, restando comunque intatto il suo primario dovere di perseguire l’interesse sociale, che conserva pur sempre un qualche grado di autonomia rispetto a quello personale del socio. La società in house, invece, non sarebbe un’entità posta al di fuori dell’ente pubblico, il quale ne dispone come di una propria articolazione interna. Il “velo” che normalmente nasconde il socio dietro la società sarebbe dunque – nella fattispecie – squarciato: la distinzione tra socio (pubblico) e società (in house) non si rea- lizzerebbe più in termini di alterità soggettiva. In verità questa ricostruzione, pur suggestiva, non ci pare condivisibile. La situazione della società in house è esattamente quella di una società soggetta a direzione e coordinamento. In caso di società per azioni come visto non c’è alcuna possibile previsione statutaria o parasociale che possa rendere gli amministratori degli “automi”. Si tratterebbe in ogni caso di soggetti che possono gestire la società come vogliono anche contro le direttive impartite o contro “improbabili” clausole c.d. “di controllo analogo”, pena la revoca dalla carica e l’azione risarcitoria. Ma evidentemente il potere di nomina e revoca (e di deliberare l’eventuale azione di responsabilità) non è certo eccezionale rispetto a ciò che si verifica nel diritto comune. Davvero non vediamo nel diritto delle società per azioni modalità per realizzare nei confronti degli organi della società partecipata “un rapporto gerarchico che non lascia spazio a possibili aree di autonomia e di eventuale motivato dissenso” (come testualmente si afferma in sentenza). Anche laddove il dominio dell’ente-socio, in linea con quanto da noi rilevato, venga realizzato nella spa attraverso il contratto di servizio, trattandosi peraltro di controllo analogo a quello realizzato sul proprio servizio (e quindi anche nel nomen più adeguato), questo al massimo può realizzarsi attraverso una vera e propria “sostituzione” nella gestione dell’attività, laddove l’amministratore “ribelle” non dia seguito alle direttive dell’ente-dominus. Ma in questo caso, tuttavia, non si porrà un problema di “immedesimazione” ma al limite di una gestione di fatto dell’impresa effettuata dall’esterno, od in via sostitutiva, che comunque non realizza alcuno squarcio del velo della personalità giuridica. Ed anche in questo caso, quindi, non si realizzerà “un rapporto gerarchico che non lascia spazio a possibili aree di autonomia e di eventuale motivato dissenso”, in quanto comunque l’amministratore “ammutinato” sarà libero di fare quel che vuole, pena la revoca e la reazione risarcitoria. Discorso analogo può essere fatto nella società a responsabilità limitata, dove è possibile addirittura che il socio in sostanza, come vi- sto, amministri. Tuttavia anche in questo caso ciò non comporta alcuna eccezione al diritto comune. La srl partecipata dalla P.A. che intervenga direttamente a gestire al posto degli amministratori non realizza “un rapporto gerarchico che non lascia spazio a possibili aree di autonomia e di eventuale motivato dissenso”, ma configura una situazione tipica che l’ordinamento prevede e che in caso di mala gestio sanziona, come visto, ex art. 2476 comma 7 c.c. Anche in questo caso non c’è alcuna ipotesi di piercing the corporate veil. D’altra parte le tecniche giurisprudenziali di reazione all’abuso della personalità giuridica basate sullo squarcio o sulla confusione patrimoniale, sono state definitivamente superate dal nuovo impianto normativo (risultante dalle riforme del diritto societario e fallimentare) che si muove su un doppio binario: l’estensione della responsabilità derivante dalla eccezione tipologica e la responsabilità derivante appunto dall’abuso dell’attività di direzione e coordinamento. La normativa di cui agli artt. 2497 ss. c.c., unitamente a quella di cui all’art. 147 L. fall., ora esclude la possibilità dello squarcio della segregazione mediante la “estensione” della responsabilità o la confusione dei patrimoni, che rimane una tecnica possibile solo per i tipi che contemplano una connaturata responsabilità illimitata dei soci o di alcuni di essi. In ogni caso non si tratterà di squarcio del velo (che resta intangibile ed anzi si rafforza) ma di responsabilità da abuso del dominio. Secondo le Sezioni Unite se non risulta possibile configurare un rapporto di alterità tra l’ente pubblico partecipante e la società in house che ad esso fa capo, “è giocoforza concludere che anche la distinzione tra il patrimonio dell’ente e quello della società si può porre in termini di separazione patrimoniale, ma non di distinta titolarità”. Dal che discende che, in questo caso, il dan- no eventualmente inferto al patrimonio della società da atti illegittimi degli amministratori, cui possa aver contribuito un colpevole difetto di vigilanza imputabile agli organi di controllo, sarebbe “arrecato ad un patrimonio (separato, ma pur sempre) riconducibile all’ente pubblico: è quindi un danno erariale, che giustifica l’attribuzione alla Corte dei conti della giurisdizione sulla relativa azione di responsabilità” 50. In realtà la separazione del patrimonio unitario, nel nostro ordinamento, è un fenomeno caratterizzato dal vincolo di destinazione specifico, cui una pluralità di rapporti giuridici attivi e passivi, che possono fare capo ad una o più persone fisiche o giuridiche, è indirizzato. La funzione alla quale detti rapporti sono chiamati evidenzia come essi debbano essere costituiti in unità e tenuti distinti dagli altri rapporti attivi e passivi di cui le stesse persone siano “domini” e rende il patrimonio vincolato. La possibilità convenzionale di creare patrimoni separati è preclusa all’autonomia privata dal sistema di cui all’art. 2740 c.c., che tuttavia consente la deroga per espressa previsione legislativa. Il sistema di cui all’art. 2740 c.c. che nasce, come noto, dalla concezione, di origine francese, del patrimonio come emanazione della personalità, con i relativi corollari dell’unicità e della indivisibilità, da un lato, e dell’impossibilità di individuare l’appartenenza di più patrimoni in capo al medesimo individuo dall’altro (oltre che, ovviamente, nelle teorie patrimoniali dell’obbligazione di matrice tedesca), presidia dall’esterno il buon funzionamento del rapporto obbligatorio e ne assicura comunque il risultato utile anche contro l’inerzia o la cattiva volontà del debitore, esponendo tutti i beni di quest’ultimo all’azione esecutiva. Tant’è che, in questa medesima prospettiva, la possibilità di destinare patrimoni ad uno scopo suppone, almeno tendenzialmente, la creazione di un centro autonomo di diritto, dotato di distinta soggettività 50 L’azione del procuratore contabile, stante la mancanza dell’alterità dei soggetti dovrebbe avvantaggiare la società e, quindi, il risultato eventuale dovrebbe rifluire nel patrimonio della società, costituendo una forma di tutela aggiuntiva. 33 Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 34 e di un proprio patrimonio diverso da quello delle persone fisiche partecipanti, come avviene nello schema tipico della società di capitali. I giudici di legittimità hanno così coniato in via giurisprudenziale e senza una previsione normativa una sorta di patrimonio separato, destinato ad uno specifico affare (la gestione di un servizio pubblico), a guisa della fenomenologia contemplata dall’art. 2447-bis ss. c.c.51. Ma c’è di più, la Cassazione evoca, con il risultato raggiunto, l’unica norma dell’ordinamento italiano che prevede una forma di squarcio: l’art. 2447-quinquies comma 3, seconda parte, c.c. Anche se per le obbligazioni contratte in relazione allo specifico affare la spa risponde nei limiti del patrimonio destinato allo stesso, il legislatore fa salva la responsabilità illimitata del patrimonio generale per le obbligazioni derivanti da “fatto illecito”, sorte evidentemente dopo la gemmazione. Si è osservato che si tratta della penetrazione nell’ordinamento di quella tendenza, sviluppata in altri ordinamenti, che basa sulla distinzione della natura della fonte dell’obbligazione i limiti del privilegio della limitazione della responsabilità. Anche se l’impatto sistematico nel nostro caso è diverso e ben meno rilevante, considerato che una cosa è superare il diaframma della personalità giuridica in caso di abuso della stessa e tutt’altra è semplicemente rendere inopponibile ai creditori involontari un vincolo di destinazione funzionale a scopo di garanzia, in un contesto in cui manca ogni alterità soggettiva. Tuttavia ci pare che la disciplina sia dettata dalle medesime ragioni economiche poste alla base dell’applicazione della tecnica giurisprudenziale del c.d. piercing the corporate veil 52. In realtà, a nostro avviso, non si può ipotizzare, in assenza di norma espressa, che la società in house sia un patrimonio separato sprovvisto di autonoma personalità e di alterità soggettiva rispetto al socio. Sarebbe peraltro operazione ripetibile nei confronti di qualsiasi soggetto che faccia un uso meramente strumentale del veicolo societario. Pur condividendo l’obiettivo della Cassazione di consentire alle Procure della Corte dei Conti di agire per la mala gestio delle società veicolo in house, ciò deve e può passare attraverso le regole e l’ordinamento del diritto delle società, oppure attraverso una norma di legge che preveda la fattispecie concreta. E si tenga conto che il legislatore si è mosso nella direzione esattamente opposta laddove all’art. 4 comma 13 del DL 6.7.2012 n. 95 (c.d. spending review), ha dettato una norma generale di rinvio alla disciplina codicistica, secondo cui “le disposizioni del presente articolo e le altre disposizioni, anche di carattere speciale, in materia di società a totale o parziale partecipazione pubblica si interpretano nel senso che, per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse, si applica comunque la disciplina dettata dal codice civile in materia di società di capitali”53. È vero che una lettura conforme ai principi 51 Al riguardo mi permetto di rinviare a: Fimmanò F. “Patrimoni destinati e tutela dei creditori nella società per azioni”, Giuffrè, Milano, 2008, 52 Il legislatore italiano, approfittando della sua stessa scelta di non attribuire ai patrimoni destinati a specifici affari di spa una autonomia esterna ed una assenza di alterità soggettiva (esattamente come ragionano le sezioni unite), ha mutuato dal sistema americano la tecnica del superamento del diaframma (o meglio di inefficacia dello stesso), traducendola nella inopponibilità del diaframma della garanzia generica, quando nell’esecuzione dello specifico affare siano sorte obbligazioni derivanti da torts (nel modello anglosassone non si distingue tra illecito contrattuale ed extracontrattuale). 53 Negli atti parlamentari si sottolinea che la norma di interpretazione autentica è volta “ad imprimere un indirizzo (al legislatore e forse più al giudice amministrativo e contabile) di cautela verso un processo di progressiva “entificazione” pubblica di tali società, valorizzando la forma privata societaria e la disciplina comune dell’attività rispetto alla sostanza pubblica del soggetto e della funzione” (parere del Comitato per la legislazione del Senato sul Ddl n. 5389 e Servizio Studi della Camera, Osservatorio legislativo e parlamentare, riportato da Codazzi E. “La società in mano pubblica e fallimento: alcune considerazioni sulla disciplina applicabile tra diritto dell’impresa e diritto delle società”, orizzontideldirittocommerciale.it, Atti dei convegni, 2014, p. 19, che ricorda come proprio Cass. SS.UU. 13.5.2013 n. 11417 – Argomenti, 1, 2014, p. 153 – evidenzia che l’art. 4 co. 13 del DL 95/2012, stante la sua natura di norma di interpretazione autentica, confermerebbe, da un lato, che il socio pubblico deve rapportarsi con la società di capitali alla stregua di qualsiasi altro socio privato e, dall’altro, che il rapporto tra ente pubblico e società deve ritenersi di assoluta autonomia, essendo obiettivo del legislatore impedire che gli enti pubblici, operanti a mezzo di società di diritto privato, agiscano con una razionalità estranea al mercato). nazionali e comunitari comporta l’inquadramento della società in house providing come longa manus dell’ente, una sua derivazione operativa, formalmente strutturata come società, ma sostanzialmente in tutto e per tutto dipendente dai soggetti pubblici proprietari del capitale, a guisa di un’azienda speciale. Tuttavia, laddove si verifichi l’ipotesi di controllo “analogo” contemplato dalle Sezioni Unite ci troviamo di fronte ad un caso di violazione, in re ipsa, delle regole dettate dal codice civile in tema di direzione e coordinamento, fonte di responsabilità diretta verso soci e creditori ex art. 2497, c.c., di responsabilità risarcitoria “aggiuntiva” degli organi e di “chi abbia comunque preso parte al fatto lesivo e, nei limiti del vantaggio conseguito, chi abbia consapevolmente tratto beneficio” (art. 2497 comma 2 c.c.). Il tutto con violazione delle regole di contabilità pubblica, in ordine all’assunzione indiretta di spese di ammontare indeterminato. Insomma siamo in una situazione in cui c’è la responsabilità dell’ente pubblico per abuso del dominio, dei suoi organi per la stessa ragione (e per aver violato le regole di contabilità) esponendo l’ente a spese indiscriminate e degli amministratori e dirigenti della società partecipata per aver preso parte al fatto lesivo. Se la responsabilità consiste nel depauperamento del patrimonio dell’ente generato dal danno al patrimonio della società partecipata e dominata, gli amministratori di quest’ultima saranno responsabili in solido come quelli dell’ente-dominus per aver preso parte al fatto lesivo54. L’IMPATTO DELLA QUESTIONE DELLA GIURISDIZIONE SULLA GIURISPRUDENZA DI MERITO L’orientamento della Cassazione in tema di giurisdizione sugli organi sociali delle società in house, che in un anno ha contato almeno sei interventi di segno comune, nasce dalla giusta sollecitazione delle Procure presso la Corte dei Conti che hanno evidenziato come condizionamenti di carattere politico finiscano col rendere altamente improbabili iniziative serie da parte degli enti locali dirette a sanzionare gli organi societari (controllati) davanti al giudice ordinario, dando luogo ad un sostanziale esonero da responsabilità di soggetti che pure arrecano danno a società sostanzialmente pubbliche, in quanto totalmente partecipate dalla pubblica amministrazione, di cui costituiscono longa manus per l’attuazione delle relative decisioni strategiche ed operative. Ciò dovrebbe indurre a ritenere “irragionevole che siano sottoposti alla giurisdizione contabile gli amministratori di un’azienda speciale, quelli di una società concessionaria, la giunta comunale ed i consiglieri comunali che approvano il conto consolidato e controllano la società partecipata e non anche coloro che l’hanno gestita causando direttamente un danno erariale”55. In questa logica si è fatto appello anche ad una serie di novità normative che avrebbero 54 Peraltro secondo la suprema Corte in tema di azioni nei confronti dell’amministratore di società, proprio a norma dell’art. 2395 c.c., il socio (nel nostro caso pubblico) è legittimato, anche dopo il fallimento della società, all’esperimento dell’azione per ottenere il risarcimento dei danni subiti nella propria sfera individuale, in conseguenza di atti dolosi o colposi compiuti dall’amministratore, solo se questi siano conseguenza immediata e diretta del comportamento denunciato e non il mero riflesso del pregiudizio che abbia colpito l’ente, ovvero il ceto creditorio per effetto della cattiva gestione, essendo altrimenti proponibile la diversa azione (di natura contrattuale) prevista dall’art. 2394 c.c., esperibile, in caso di fallimento della società, dal curatore , ai sensi dell’art. 146 L. fall. (Cass. 22.3.2010 n. 6870, in Banca Dati Eutekne e Giust. civ. Mass., 2010, p. 417). 55 In questo senso si veda in particolare Cass. SS.UU. 3.5.2013 n. 10299, Le Società, 2013, p. 974 ss., con nota di Fimmanò F. “La giurisdizione sulle «società pubbliche»”. Infatti, La Corte dei Conti ha spesso continuato a radicare la propria giurisdizione con riguardo a queste società, affermando che costituiscano un modello organizzatorio della stessa P.A., sia pure per certi versi atipico, con la conseguenza che il danno prodotto dagli amministratori va qualificato come erariale (Corte dei Conti, Sez. I, App., 22.7.2013 n. 568; Corte dei Conti, sez. III, App., 19.7.2011 n. 582; v. anche Corte dei Conti, Sez. giur. Reg. Campania, 19.10.2012 n. 1626.); reputando tale soluzione coerente con i principi costituzionali e del diritto comunitario, dato che quest’ultimo valorizza l’interesse dei cittadini e delle imprese contribuenti ad una gestione delle risorse pubbliche 35 Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 36 aperto, almeno sul piano sistematico, la strada alla giurisdizione contabile almeno per le società in house. Il riferimento è: all’art. 25 comma 1 nn. 5 e 6 del DL 24.1.2012 n. 1 56, che prevede la responsabilità amministrativa in caso di stipulazione, da parte di talune società a totale partecipazione pubblica, di contratti conclusi in violazione delle previste modalità di approvvigionamento; all’art. 4 comma 12 del DL 6.7.2012 n. 95 57, laddove stabilisce che “le amministrazioni vigilanti verificano sul rispetto dei vincoli di cui ai commi precedenti; in caso di violazione dei suddetti vincoli gli amministratori esecutivi e i dirigenti responsabili della società rispondono, a titolo di danno erariale, per le retribuzioni ed i compensi erogati in virtù dei contratti stipulati”; all’art. 6 comma 3 del DL 95/2012, che estende alle società a totale partecipazione pubblica il potere ispettivo attribuito agli organi statali nei confronti delle amministrazioni pubbliche 58 ed, infine, all’art. 3 del DL 10.10.2012 n. 174 59, che ha inserito l’art. 147-quater nel testo unico degli enti locali, prevedendo penetranti controlli da parte dell’ente pubblico partecipante ed un bilancio consolidato riguardante le “aziende non quotate partecipate”. Abbiamo avuto modo, già da anni, di segnalare che le esigenze socio-economiche e politiche dovevano trovare risposta nella emanazione di “norme efficienti” ovvero nella interpretazione giurisprudenziale efficace, capace di sanzionare l’abuso del modello societario, utilizzato per soddisfare obiettivi “impropri” attraverso la segregazione patrimoniale. In particolare si era rappresentato che la società partecipata da un socio pubblico, rimane un contratto tipico con comunione di scopo lucrativo, soggetto al diritto comune, che non può essere “storpiato o manipolato” per finalità abusive dirette a creare in vitro una sorta di azienda speciale, organica all’ente per alcuni fini e separata per altri, solo per ottenere una autonomia formale e la conseguente disapplicazione delle regole pubblicistiche60. La strada più semplice sarebbe stata l’emersione di un tipo di società pubblica “legale” cioè individuata e disciplinata dalla legge cui applicare regole in deroga al diritto comune, analoghe a quelle vigenti per le aziende speciali. Ma visto il silenzio del legislatore, che nonostante i buoni propositi “dichiarati” non è intervenuto espressamente a riconoscere la più efficace giurisdizione della Corte dei Conti (ed a porre un argine effettivo al disastrato mondo delle società in house), le Sezioni Unite non hanno potuto far altro che sostituirsi (come troppo spesso sta accadendo negli ultimi tempi) al fine di raggiungere il risultato più efficiente, in un momento tanto delicato per la finanza pubblica 61. Tuttavia, oltre a tutti i problemi sistemici che il percorso seguito comporta sul piano dei principi fondamentali del diritto delle società, l’impostazione impone una considerazione ancora più rilevante: le Sezioni Unite propongono una soluzione tipologica che in realtà trasparente, efficiente ed economica (Corte dei Conti, Sez. giur. Reg. veneto, 28.9.2012 n. 749; Corte dei Conti, Sez. giur. Reg. Trentino Alto Adige, 6.9.2011 n. 28.) e valorizzando i citati interventi normativi (Corte dei Conti, Sez. giur. Reg. Campania, 7.1.2011 n. 1; Corte dei Conti, Sez. giur. Reg. Campania, 23.10.2012 n. 1629; Corte dei Conti, Sez. giur. Reg. Marche, 15.7.2013 n. 80; Corte dei Conti, Sez. giur. Reg. Lazio, 24.2.2011 n. 339; Corte dei Conti, Sez. giur. Reg. Lazio, 23.2.2011 n. 327). 56 Conv. L. 24.3.2012 n. 27. 57 Conv. L. 7.8.2012 n. 135. 58 Si segnala che il co. 4 del medesimo art. 6, ora abrogato dall’art. 77 co. 1 lett. e) del DLgs. 118/2011, a decorrere dall’1.1.2015, prevedeva inoltre che Comuni e Province allegassero al rendiconto della gestione una nota informativa contenente la verifica dei crediti e dei debiti reciproci tra ente e società partecipate e, in caso di discordanze, adottassero senza indugio i provvedimenti necessari ai fini della riconciliazione delle partite debitorie e creditorie. 59 Conv. L. 7.12.2012 n. 213. 60 Fimmanò F. “Le società di gestione dei servizi pubblici locali”, Riv. Not., 2009, p. 897 ss. 61 Non a caso il Presidente Rordorf, estensore della prima sentenza pilota del 2013, ha avuto modo di rilevare che occorre “affrontare i problemi che abbiamo dinanzi senza fermarci a profili meramente formali, ma dando invece prevalenza ai dati sostanziali, anche perché è questo che c’impone l’inquadramento nel sistema giuridico europeo” (Rordorf R. “Le società partecipate fra pubblico e privato”, Le Società, 2013, p. 1326). riguarda una fattispecie che deve essere oggetto di una valutazione caso per caso62. In questo modo la Cassazione lega la giurisdizione sulle società in house, individuando un tipo sulla base di alcune caratteristiche concrete, neppure solo statutarie, ma in parte addirittura fattuali. Per stabilire se c’è (oppure no) giurisdizione contabile occorrerà stabilire se in una determinata società pubblica esista o meno “un rapporto gerarchico che non lascia spazio a possibili aree di autonomia e di eventuale motivato dissenso”. Nelle fattispecie concrete valutate nelle sentenze emesse tra il novembre del 2013 ed il dicembre 2014, la Cassazione premette che il giudice di primo grado ha fatto questa valutazione rimasta incontestata, e quindi la considera cosa accertata e giudicata. Tuttavia si sta verificando, come prevedibile, nella prassi dei processi un florilegio di eccezioni, perché non c’è una esatta qualificazione tipologica normativa. E le criticità aumentano quando l’accertamento di questo presunto controllo analogo riguarda più enti soci della medesima società, che devono averlo esercitato congiuntamente63. Sarebbe stato diverso se una volta introdotto un tipo di società legale, appunto in house (costituita come tale fin dalla denominazione), si fosse conseguentemente affermata la giurisdizione della Corte dei Conti. Insomma ci troveremo di fronte a innumerevoli fattispecie diverse in cui i giudici dei diversi gradi di giudi- zio dovranno valutare in un alveo molto ampio caratteri non codificati. L’impatto poi sui principi di diritto societario, sui regimi di responsabilità e sull’applicazione o meno dello statuto dell’imprenditore commerciale alla società in house64, al di là dei profili della giurisdizione, è stato ancora più negativo, nel senso dell’aumento dell’incertezza. Subito dopo le prime sentenze delle Sezioni Unite una certa giurisprudenza ha, infatti, sancito l’assoggettabilità alle procedure concorsuali delle società in house65 anche se dotate dei famosi tre requisiti, rilevando che comunque non mutano la loro natura di soggetto di diritto privato solo perché gli enti pubblici ne posseggono le azioni, in tutto o in parte, non assumendo rilievo alcuno, per le vicende della medesima, la persona dell’azionista, dato che tale società privata, opera “nell’esercizio della propria autonomia negoziale, senza alcun collegamento con l’ente pubblico” e gli strumenti utilizzati per regolare il rapporto tra società ed ente locale non possono essere quelli autoritativi di diritto pubblico spendibili nell’organizzazione diretta dell’ente, ma l’ente può avvalersi unicamente degli strumenti propri del diritto societario, da esercitare per il tramite dei membri di nomina pubblica presenti negli organi sociali. Sempre secondo questa giurisprudenza di merito la legge non prevede “alcuna apprezzabile deviazione, rispetto alla comune disciplina privatistica delle società di 37 62 Si tratta di una prospettiva dai “profili problematici, soprattutto derivanti dall’assenza di una precisa definizione legislativa del fenomeno dello in house providing e di sicuri indici normativi circa la natura pubblica degli enti in veste societaria […] potendo eventualmente siffatti indici esser ricercati, ma non senza difficoltà, nel ginepraio delle frammentarie disposizioni speciali che talvolta menzionano a vari fini dette società in house, al di fuori però di un quadro coerente di sistema” (Rordorf R., cit., p. 1332). 63 Cass. SS.UU. n. 27993/2013, cit., che in ordine al primo requisito ha rammentato come già la giurisprudenza europea abbia ammesso la possibilità che il capitale sociale faccia capo ad una pluralità di soci, purché si tratti sempre di enti pubblici (Corte di giustizia 10.9.2009 causa C-573/07, Sea, e 13.11.2008 causa C-324/07, Coditel Brabant) e come nel medesimo senso si sia espresso, del tutto persuasivamente, anche il Consiglio di Stato (n. 7092/2010 ed 8970/2009), e che occorrerà pur sempre, comunque, che lo statuto inibisca in modo assoluto la possibilità di cessione a privati delle partecipazioni societarie di cui gli enti pubblici siano titolari. 64 D’altra parte proprio il Presidente Rordorf ha avuto modo di evidenziare a proposito delle società pubbliche che non possiamo dimenticare “come certe affermazioni, magari anche molto suggestive su questo specifico terreno, hanno molteplici riflessi - per esempio nella materia del diritto concorsuale ed in quella del diritto del lavoro - dei quali è doveroso farsi carico. Pur se si voglia predicare un approccio eclettico, o meramente funzionale, non si può ignorare che con larghissima probabilità l’affermazione di un determinato principio ad opera delle sezioni unite della Cassazione, benché magari formulata solo per decidere un regolamento di giurisdizione, è suscettibile di avere un’eco in ambiti diversi, se in quegli ambiti ugualmente ci si trovi poi a discutere della natura giuridica di tali società ed argomentare sull’applicabilità a dette società or di questa or di quella disciplina giuridica generale o di settore” (Rordorf R., cit., 2013, p. 1327). 65 Si veda sul tema anche Andrea Ziruolo A., Barbiero A. “L’assoggettamento alle procedure concorsuali delle società pubbliche”, in questa Rivista, 11, 2014, pp. 130-138. Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 38 capitali, per le società miste incaricate della gestione di servizi pubblici istituiti dall’ente locale… La posizione del Comune all’interno della società è unicamente quella di socio di maggioranza, derivante dalla «prevalenza» del capitale da esso conferito; e soltanto in tale veste l’ente pubblico potrà influire sul funzionamento della società... avvalendosi non già dei poteri pubblicistici che non gli spettano, ma dei soli strumenti previsti dal diritto societario, da esercitare a mezzo dei membri di nomina comunale presenti negli organi della società”66. Quindi il contemperamento fra tutela dei creditori e necessità di efficiente gestione del servizio non va cercato nell’applicazione di istituti di privilegio, tipicamente previsti per enti pubblici, che operano sul piano dell’attività (come l’esenzione dal fallimento). In senso diametralmente opposto, tuttavia, altri tribunali hanno affermato che l’esenzione dalle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo prevista per gli enti pubblici dall’art. 1 comma 1 della L. fall. deve essere applicata anche alle società in house, così come sancito dalle Sezioni Unite, non essendo configurabile un rapporto di alterità tra l’ente pubblico partecipante e la società67. Secondo altra giurisprudenza più accorta, in- fine, le società in house non vanno esonerate dal fallimento visto che, in difetto di diversa qualificazione legislativa, rimane valido il principio generale della assoggettabilità alle procedure concorsuali delle imprese che abbiano assunto la forma societaria iscrivendosi nell’apposito registro e quindi volontariamente assoggettandosi alla disciplina privatistica. I giudici hanno opportunamente attribuito alle sentenze delle Sezioni Unite una valenza meramente “settoriale” (in tema di giurisdizione), escludendo qualunque altro profilo che non attenga al rapporto tra partecipante e partecipato68, negando recisamente la validità di ricostruzioni panpubblicistiche, fondate su interpretazioni riqualificatorie della natura giuridica, prive di base normativa ed in contrasto con i principi costituzionali di cui all’art. 101 comma 2 Cost. ed all’art. 97 Cost.69. Come si può vedere, dunque, si sono immediatamente realizzate le preoccupazioni da noi espresse già all’indomani della sentenza n. 26283/2013 70. L’orientamento delle Sezioni Unite è stato talora riprodotto acriticamente in ambiti completamente diversi da quello della giurisdizione che richiederebbero invece una vera e propria riqualificazione dell’ente 71. Condividiamo in pieno quanto affermato dal- 66 Trib. Pescara 14.1.2014 (che richiama Cass. SS.UU. 15.4.2005 n. 7799, Foro Amm., CDS, 2005, p. 1045), in Banca Dati Eutekne. 67 Trib. Verona 19.12.2013, in Banca Dati Eutekne. Nello stesso senso Trib. Nola 30.1.2014, ivi). Il Tribunale di Napoli, invece, ribaltando il suo precedente orientamento, ha affermato che se è vero che gli enti pubblici sono sottratti al fallimento, anche la società in house integralmente partecipata dagli stessi, non potrà essere soggetta alla liquidazione fallimentare, in quanto costituisce un mero patrimonio separato dell’ente pubblico, centro decisionale autonomo e distinto dal socio pubblico titolare della partecipazione, che esercita sullo stesso un potere di governo del tutto corrispondente a quello esercitato sui propri organi interni (Trib. Napoli 9.1.2014, in Banca Dati Eutekne. Nello stesso senso Trib. Napoli 29.5.2014, che nel caso di Bagnoli Futura spa dopo un’ampia ricostruzione del fenomeno della società in house, ne ha dichiarato il fallimento sul presupposto dell’assenza dei requisiti individuati dalle Sezioni Unite (Dir. fall, II, 2015, p. 328 ss., con nota di Macchiarulo L. “Il fallimento di una società pubblica di trasformazione urbana: il caso Bagnoli Futura”). In tema cfr. anche: Ibba C. “Il falso problema della fallibilità delle società a partecipazione pubblica”, Riv. dir. civ., 2015, p. 1051; Codazzi E. “Società in mano pubblica e fallimento”, Giur. comm., 2015, p. 74; Vessia F. “Società in house providing e procedure concorsuali”, Dir. fall., 2015, I, p. 142 ss.; M. Di Fabio, Sull’assoggettabilità a procedure concorsuali delle società in house providing, Dir. fall., II, p. 300 ss.; Pagano G. “Società in house ed ammissione delle stesse alle procedure concorsuali”, Banca, borsa, tit., cred., 2014, II, p. 466 ss. 68 Trib. Modena 10.1.2014, in Banca Dati Eutekne (i giudici modenesi hanno correttamente rilevato che anche la circostanza che siano stati conferiti nella società gli impianti necessari per l’erogazione dei servizi, utilizzando una opportunità prevista dall’art. 113 del DLgs 267/2000, rileva in relazione ai limiti ed alle modalità dell’eventuale liquidazione ma non incide sulla natura della società). 69 Trib. Palermo 20.10.2014, cit. Sul tema della fallibilità dopo le Sezioni Unite, cfr. pure D’Attorre G. “La fallibilità delle società in mano pubblica”, Fall., 2014, p. 493 ss. 70 F. Fimmanò “La giurisdizione sulle «società in house providing»”, cit., p. 60 ss. 71 Si è peraltro giustamente sottolineato che l’esonerare da fallimento le società a partecipazione pubblica insolventi potrebbe determinare una grave alterazione del mercato e della concorrenza, nonché una disparità di trattamento tra imprese pubbliche e private, in violazione dell’art. 106 co. 1 e 2 del Trattato UE, proprio perché, in tal modo, potrebbero continuare ad operare in perdita sul mercato, perlomeno fino a che i soci non decidano autonomamente di porle in stato di liquidazione o gli am- la migliore dottrina e cioè che i giudici della Cassazione pur radicando la giurisdizione della Corte dei Conti avevano posto un insuperabile argine alla c.d. riqualificazione, ossia all’attribuzione alla società partecipata della qualifica di “ente pubblico” “per contrastare erronee derive interpretative inclini, con eccessivo semplicismo, alla qualificazione della società partecipata da soggetti pubblici come ente pubblico”72. Ma al tempo stesso dobbiamo registrare che ciò invece, come volevasi dimostrare, è avvenuto. Difatti una certa giurisprudenza di merito ha interpretato l’impostazione delle Sezioni Unite proprio come una riqualificazione, altrimenti non si spiega l’affermazione che la società in house rientra tra i soggetti non assoggettabili alle procedure concorsuali a norma dell’art. 1 della legge fallimentare, ossia tra gli enti pubblici73. Affermare che la mancanza di alterità soggettiva genera ai fini fallimentari l’esenzione; equivale a dire che la società coincide con l’ente pubblico, ed il passaggio successivo naturale è che la responsabilità delle obbligazioni sociali è dell’ente pubblico, almeno in via sussidiaria. Portando alle estreme conseguenze questo ragionamento si arriva al risultato clamoroso e devastante per la finanza pubblica (ed in particolare per i bilanci degli enti locali) che i creditori sociali della società in house divengono tutti creditori dell’ente pubblico, verso cui possono agire in via diretta74. L’orientamento della suprema Corte, frutto di un intento diretto a salvaguardare l’erario dalla diffusa mala gestio degli organi sociali di società strumentali, raggiungerebbe così, il risultato esattamente opposto cioè quello di aprire una voragine nei conti pubblici derivante dalla responsabilità diretta delle pubbliche amministrazioni per tutti i debiti contratti dalle famigerate società in house providing. I REGIMI CONCORRENTI E SETTORIALI IN TEMA DI RESPONSABILITÀ DEGLI ORGANI Per concludere va evidenziato come al di là delle riserve espresse, la giurisprudenza di legittimità non chiarisce se la giurisdizione sugli organi sociali delle società in house “per tipo” sia esclusiva o concorrente, coesista cioè con quella del giudice ordinario, avendo due legittimati attivi e due beneficiari diversi, oppure la escluda. L’azione contabile può in linea di principio concorrere con le altre azioni poste a garanzia dei soci e dei creditori sociali previste dal codice civile, come avviene per gli altri casi di responsabilità devolute alla giurisdizione contabile, senza che si determini alcun conflitto di giurisdizione, “ma soltanto un’eventuale preclusione all’esercizio di un’azione quando ministratori non accertino l’esistenza di una causa di liquidazione ovvero non venga loro revocato l’affidamento del servizio pubblico. Secondo il trattato, infatti, “le disposizioni in materia di concorrenza si applicano nei confronti di quelle imprese cui gli Stati attribuiscano diritti speciali o esclusivi, anche nel caso in cui siano incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale o abbiano carattere di monopolio fiscale, nei limiti in cui l’applicazione di tali norme non osti all’adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata” (Codazzi E. “La società in mano pubblica e fallimento”, cit., p. 9; in tema cfr. pure Goisis F. “Il problema della natura e della lucratività delle società in mano pubblica alla luce dei più recenti sviluppi dell’ordinamento nazionale ed europeo”, Dir.ec., 2013, p. 42 ss.). 72 Salvato L. “Riparto della giurisdizione sulle azioni di responsabilità nei confronti degli organi sociali delle società in house”, cit., p. 43. 73 Non è bastata dunque quella che è stata definita la cura di confinare “il principio entro i limiti nei quali è stato imposto dall’involuzione (perché è tale) normativa del fenomeno” delle società in house (Salvato L. cit., p. 47). 74 Eppure (come ricorda sempre Salvato L., cit., p. 47) la Corte costituzionale ha affermato che, in relazione a tali società, resta ferma la competenza dello Stato per “gli aspetti che ineriscono a rapporti di natura privatistica [non] esclusa dalla presenza di aspetti di specialità rispetto alle previsioni codicistiche [che] comprende la disciplina delle persone giuridiche di diritto privato [e include] istituti caratterizzati da elementi di matrice pubblicistica, ma che conservano natura privatistica”, applicando in tal modo segmenti di discipline pubblicistiche, senza procedere alla riqualificazione del soggetto come ente pubblico. 39 Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 40 con l’altra sia già ottenuto il medesimo bene della vita”75. Orbene gran parte dei giudici ordinari di merito, dopo aver accertato la sussistenza o meno delle condizioni contemplate dalla Suprema Corte, affermano o negano la propria giurisdizione76. Eppure non vi sono ragioni per escludere la concorrenza di procedimenti, civili, contabili e penali a carico degli organi sociali. Prendiamo il caso di una società in house fallita, orbene l’azione di responsabilità promossa dal curatore, diretta al risarcimento del danno provocato ai creditori non può essere certo esclusa a vantaggio dell’azione contabile promossa dal procuratore della Corte dei Conti che non potrà mai essere finalizzata ad aumentare la massa attiva nell’interesse del ceto creditorio 77. Le due azioni a nostro avviso potranno convivere e nessuna prevarrà sull’altra. Laddove nel tempo si formino due diversi titoli esecutivi sui beni dei componenti degli organi sociali, questi seguiranno le normali dinamiche del processo di esecuzione. E se una delle due azioni avrà bruciato nel tempo, l’altra evidentemente non avrà esito fruttuoso per la sopravvenuta incapienza. D’altra parte anche l’azione penale può essere una terza incomoda. Ipotizziamo che il curatore preferisca l’azione civile alla costituzione di parte civile per un processo di bancarotta impropria ad opera degli organi sociali della società in house, ed al contempo il procuratore della Corte dei Conti eserciti l’azione erariale; ciò non toglie che l’eventuale sequestro penale ad esempio per fatti distrattivi si converta in una confisca a favore dello Stato, di beni degli amministratori altrimenti destinati alla massa attiva della procedura concorsuale. Ecco che il modello da noi proposto sarebbe stato ben più conforme al sistema: alla responsabilità degli organi sociali di società soggette a controllo analogo doveva arrivarsi attraverso il diritto comune e non l’affermazione della giurisdizione contabile per ragioni di immedesimazione organica. Il procuratore della Corte dei Conti avrebbe potuto agire verso gli organi utilizzando il comma 2 dell’art. 2497 c.c., essendo gli amministratori e i sindaci della partecipata responsabili in quanto prendono parte al fatto lesivo in solido ed unitamente all’ente pubblico che ha abusato del dominio sul quale esiste già la giurisdizione contabile senza necessità di costruire in vitro una delegazione organica virtuale tra ente e società in house. In questo modo si sarebbe ricondotto a sistema il funzionamento dei diversi regimi che come visto ora, al di là delle incertezze, crea una sovrapposizione disordinata ed incontrollata. 75 Cass. SS.UU. 17.4.2014 n. 8927, richiamata in Cerioni F., cit., p. 969, che rileva come la legittimazione straordinaria del pubblico ministero contabile, garantita dalle diverse disposizioni succedutesi nel tempo in tema di contabilità pubblica, non ha mai precluso alle pubbliche amministrazioni, danneggiate da atti e comportamenti dei propri dipendenti, di agire in sede civile per il risarcimento dei danni ovvero, nei casi di commissione di reati, di costituirsi parte civile nei relativi procedimenti penali. In argomento cfr. pure Miele T., cit., 2011, p. 450 ss. 76 Trib. Nocera Inferiore 30.7.2015, in Banca Dati Eutekne (ha rilevato che è possibile che un rapporto di servizio, inteso nella sua moderna accezione di svolgimento di un’opera per il perseguimento di scopi pubblici e con denaro pubblico, si incardini tra un soggetto che svolge attività di gestione di società privata, il cui scopo sociale sia l’erogazione di servizi pubblici, con dotazione di patrimonio da parte dell’ente locale, senza peraltro che questa incida sulla natura di persona giuridica autonoma della società in house, purché tale rapporto sia individuato in concreto senza apodittiche conclusioni circa la partecipazione totale o parziale del soggetto pubblico. In proposito è opportuno precisare che questa impostazione non incide sulla autonomia privatistica della persona giuridica della società in house, la quale altro non costituisce che un organo indiretto dell’amministrazione pubblica, il quale agisce per le finalità proprie di quest’ultima. In base alle considerazioni che precedono il danno lamentato da un Comune al proprio patrimonio nei confronti degli amministratori e sindaci di società in house costituisce danno erariale devoluto alla giurisdizione contabile). 77 Peraltro secondo la Suprema Corte in tema di azioni nei confronti dell’amministratore di società, proprio a norma dell’art. 2395 c.c., il socio (nel nostro caso pubblico) è legittimato, anche dopo il fallimento della società, all’esperimento dell’azione per ottenere il risarcimento dei danni subiti nella propria sfera individuale, in conseguenza di atti dolosi o colposi compiuti dall’amministratore, solo se questi siano conseguenza immediata e diretta del comportamento denunciato e non il mero riflesso del pregiudizio che abbia colpito l’ente, ovvero il ceto creditorio per effetto della cattiva gestione, essendo altrimenti proponibile la diversa azione (di natura contrattuale) prevista dall’art. 2394 c.c., esperibile, in caso di fallimento della società, dal curatore , ai sensi dell’art. 146 L. fall. (Cass. n. 6870/2010, cit.). Insomma, allo stato esistono, al di là di quella penalistica, due forme di responsabilità degli organi amministrativi e di controllo, concorrenti 78 e settoriali 79, quella civilistica comune per danni, secondo le regole ex artt. 2393 ss. c.c., e quella erariale nei confronti del socio pubblico, da far valere con l’azione ordinaria per le società in house e con quella individuale del socio ex art. 2395 c.c.80 e peraltro non preclusiva della stessa 81, esattamente come accadrebbe per qualsiasi altra società di diritto comune 82. 78 Cfr. in tema Ibba C. “Forma societaria e diritto pubblico”, Riv. dir. civ., 2010, I, p. 365 ss.; Id. “Azioni ordinarie di responsabilità a azione di responsabilità amministrativa nelle società in mano pubblica, il rilievo della disciplina privatistica”, Riv. dir. civ., 2006, II, p. 145 ss.; Id. “Sistema dualistico e società a partecipazione pubblica”, Riv. dir. civ., 2008, I, p. 584. Per la responsabilità concorrente propende Rordorf R. “Le società pubbliche nel codice civile”, Le Società, 2005, p. 424; per quella alternativa Venturini L. “L’azione di responsabilità amministrativa nell’ambito delle società per azioni in mano pubblica. La tutela dell’interesse pubblico”, Foro amm., Cons. Stato, 2005, p. 3442 ss.; incerto Romagnoli G. “La responsabilità degli amministratori di società pubbliche fra diritto amministrativo e diritto commerciale”, Le Società, 2008, p. 441 (secondo cui tuttavia la non coincidenza degli interessi tutelati dalle due azioni emerge dalla distinta natura rispettivamente compensativa di quella civile e sanzionatoria di quella contabile. Nella seconda è peraltro prevista la possibilità di attenuare la condanna rispetto all’entità del danno accertato ex art. 1 co. 1- bis della L. 20/1994, e di concordare per l’appellante il pagamento di una somma non superiore al terzo della condanna di primo grado ex art. 1 co. 231 della L. 266/2006, a conferma della inidoneità del processo erariale ad appagare le esigenze di reintegrazione del patrimonio sociale tutelate dal diritto societario). Sul tema cfr. pure Corte Conti, Sez. Molise, 11.1.2001 n. 157, secondo cui nel giudizio contabile ed in quello civile non viene fatta valere la tutela dello stesso bene per la diversità di causa pretendi. 79 L’estensione della giurisdizione contabile in assenza di una espressa previsione contrasta, peraltro, con l’art. 103 Cost., nella parte in cui impone una chiara delimitazione dei giudici speciali, visto che il concetto stesso di materia presuppone una precisa definizione dei suoi confini atteso il suo ruolo discriminante rispetto alla sfera d’azione riservata all’autorità giudiziaria ordinaria (Corte Cost. 6.7.2004 n. 204, Foro It., I, c. 2594 ss.). 80 Ex adverso l’azione individuale ex art. 2395 c.c., è stata ritenuta dalla magistratura contabile fuori dall’ambito della propria giurisdizione (Corte dei Conti n. 356/2005, cit.). 81 Questo pare essere il risultato cui perviene la Cassazione che ha affermato che la Corte dei Conti può pronunciarsi solo sul danno erariale, cioè quello subito dal socio pubblico al suo patrimonio, risarcibile in sede civile, ai sensi dell’art. 2395 c.c., potendosi qualificare erariali tali pregiudizi direttamente incidenti sul patrimonio del socio pubblico e fonte di responsabilità da accertare con lo speciale procedimento, su iniziativa del procuratore della Corte dei Conti (Cass. SS.UU. n. 4309/2010, cit.). Da questo punto di vista l’azione contabile esperita dal procuratore della Corte non dovrebbe comunque precludere l’azione ex art. 2395 c.c. esperita dal socio innanzi al giudice ordinario, vista la diversità dei presupposti e dei risultati perseguibili (contra, Corso S. “La responsabilità societaria ed amministrativa degli amministratori di società a prevalente partecipazione pubblica”, Riv. arb., 2008, p. 570). 82 Per Corte dei Conti, Sez. giur. Reg. Friuli Venezia-Giulia 18.3.2009 n. 98, l’azione di responsabilità amministrativa concorre con le azioni civili di responsabilità sociale degli amministratori e sindaci della società, e non si sostituisce ad esse, costituendo una forma di tutela aggiuntiva, giustificata dall’esigenza di salvaguardia delle funzioni e dei servizi pubblici ai quali la società stessa è preordinata, anche al fine di evitare le conseguenze pregiudizievoli derivanti dall’eventuale inerzia dei soggetti legittimati dinanzi al giudice ordinario. 41 / Obbligazioni e contratti 02 2. Obbligazioni e contratti CRITICITÀ E CONSIGLI NELLA REDAZIONE DEI CONTRATTI: LA CESSIONE DEL CREDITO La cessione del credito, disciplinata dagli artt. 1260 c.c. ss., è il negozio mediante il quale il creditore (cedente) trasferisce un diritto di credito a un terzo (cessionario): un contratto che si perfeziona con il consenso del cedente e del cessionario, senza necessità di quello del debitore ceduto, e si caratterizza per l’oggetto (il trasferimento di un diritto di credito), a prescindere dalla causa. Nella redazione del contratto, quindi, oltre alle obbligazioni a carico dell’una e dell’altra parte, è opportuno disciplinare, o quanto meno richiamare, gli elementi essenziali del negozio giuridico da cui il credito ceduto deriva, senza dimenticare il regolamento delle vicende legate alla vita e alla cessazione del rapporto. / Cristiano BERTAZZONI * IL CONTRATTO DI CESSIONE DEL CREDITO Il termine cessione indica sia il fatto traslativo del credito sia l’effetto prodotto da questo. La disciplina che il codice civile (artt. 1260 c.c. ss.) dedica all’istituto1 attiene ora all’uno ora all’altro aspetto. Secondo i principi generali del sistema, il trasferimento del diritto si realizza solo se nella fattispecie concreta è presente una causa idonea a produrlo, che non può sussistere nel nudo atto traslativo del credito per sé considerato. Per questo motivo, il fatto traslativo del credito viene a trovarsi in un certo senso assorbito nei vari tipi negoziali mediante i quali è possibile realizzare l’effet- * to traslativo del credito (vendita, donazione, cessione in luogo di adempimento, cessione d’azienda, ecc.). La disciplina della cessione del credito, infatti, detta uno schema unitario e generale ma incompleto, che si pone quale correttivo e/o integrazione nei confronti dei singoli negozi causali traslativi. In altri termini, nella redazione del contratto in oggetto è sempre opportuno considerare il tipo contrattuale cui il trasferimento del credito si riferisce. In sostanza, se si tratta di compravendita, oltre agli elementi tipici della cessione del credito, dovranno essere disciplinati anche quelli della compravendita stessa. Se, invece, per esempio, il trasferimento del credito avviene a titolo gratuito, sarà opportuno applicare le norme relative alla donazione. E così via. Avvocato in Verona 1 Per l’approfondimento del quale si rinvia a Bertazzoni C. “La cessione del credito”, in questa Rivista, 12, 2015, pp. 38-53. 43 Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 Si osserva, infine, che con la L. 52/1991 è stata prevista una serie di deroghe rispetto ad alcuni punti della disciplina del codice civile, destinate a operare nei confronti delle c.d. “cessioni di crediti d’impresa” (c.d. factoring). 44 CLAUSOLE SENSIBILI PER IL CEDENTE Le clausole che contengono elementi sensibili per il cedente si riferiscono, in particolare, agli obblighi che questi assume nei confronti del cessionario, riconducibili alle seguenti categorie: • obblighi di cooperazione (es. notifica al debitore ceduto, consegna dei documenti probatori, informazioni sul debitore); • garanzie (garanzia per l’esistenza del credito; garanzia per la solvenza del debitore); • ogni altra obbligazione a carico del cedente derivante dal tipo contrattuale cui si riferisce la cessione (es. garanzia della titolarità del credito, garanzia per la mancanza di qualità ex art. 1497 c.c.). CLAUSOLE SENSIBILI PER IL CESSIONARIO Gli elementi di criticità del cedente si riflettono nelle clausole sensibili del cessionario, quale beneficiario delle obbligazioni (es. obblighi di cooperazione e garanzie). In più, anche al cessionario sono applicabili le norme che regolano il tipo contrattuale cui la cessione del credito di riferisce (es. compravendita, donazione, permuta ecc.). Oltre a ciò, vi sono alcuni elementi cui il cessionario, nella redazione del contratto, deve prestare particolare attenzione e sono riferibili a: • previsione e tipologia del corrispettivo (es. prezzo, datio in solutum, assenza di corrispettivo ecc.); • oggetto della cessione (es. verifica della cedibilità del credito e divieti di cessione); • forma del contratto e opponibilità al debitore ceduto; • trasferimento degli accessori del credito (es. garanzie reali o personali del ceduto o di terzi); • efficacia della cessione nei confronti dei terzi. A seguito del trasferimento del credito, il cessionario acquista tutte le facoltà inerenti alla posizione di titolare del diritto (es. novare, rimettere, concedere dilazioni) e può esercitare i poteri strumentali al soddisfacimento delle ragioni creditorie (es. azioni revocatoria e surrogatoria, sequestro conservativo, fallimento, ecc.). Tuttavia, la cessione non modifica né il titolo del credito, né in genere la posizione del debitore e, quindi, il ceduto può opporre al cessionario tutti i vizi inerenti al negozio costitutivo (nullità, annullabilità, risoluzione, rescissione). Per le eccezioni che incidono sull’esistenza del rapporto ceduto, ma traggono origine da altri rapporti intercorrenti tra gli stessi soggetti (es. le eccezioni di compensazione, di novazione) bisogna far riferimento al soggetto che è creditore al tempo in cui si verifica il fatto costitutivo l’eccezione. Il codice stabilisce che, riguardo a tali eccezioni, il trasferimento del diritto dal cedente al cessionario è rilevante per il ceduto solo dal momento in cui è eseguita la notifica (art. 1248 c.c.): il ceduto può opporre al cessionario le eccezioni relative a rapporti personali col cedente, anche se il fatto costitutivo è posteriore alla cessione, ma anteriore alla reazione della notifica. Si propone di seguito uno schema contrattuale limitato, per definizione, ma che può costituire una solida base per la redazione di un contratto che recepisca, grazie alle necessarie e opportune integrazioni del professionista, le circostanze, i termini, le condizioni e, in generale, le caratteristiche del singolo caso di specie. CESSIONE DEL CREDITO Forma. In assenza di una specifica previsione di legge, alla cessione del credito è applicabile il principio della libertà di forma, salvo le prescrizioni del negozio la cui funzione integra la causa variabile della fattispecie (es. la forma solenne richiesta per la donazione ex art. 782 c.c.) o quelle previste per soddisfare esigenze di pubblicità (es. cessione di un credito assistito da garanzia ipotecaria ex art. 2843 c.c.) o quelle derivanti dalla soggettività di una delle parti (es. atto pubblico o scrittura privata autenticata per la cessione di crediti vantati nei confronti della pubblica amministrazione ex art. art. 69 comma 3 del RD 18.11.1923 n. 2440). In ogni caso, anche se le parti sono libere di convenire una particolare forma per il negozio di cessione del credito, è sempre preferibile, almeno, la forma scritta. Tra la società Alfa srl avente sede legale in _______ via _______, P. IVA e iscrizione al Reg. Imp. di _______ n. _______, in persona del suo legale rappresentante Sig. _______ (di seguito, per brevità, “Cedente”) e la società Beta srl avente sede legale in _______ via _______, P. IVA e iscrizione al Reg. Imp. di _______ n. _______, in persona del suo legale rappresentante Sig. _______ (di seguito, per brevità, “Cessionario”) premesse A.il Cedente è creditore della società Gamma S.p.A., avente sede legale in _______ via _______, P. IVA e iscrizione al Reg. Imp. di _______ n. _______, (di seguito, per brevità, il “Debitore Ceduto”), della somma di Euro _______ in ragione di _______, in relazione al quale sono stati emessi i seguenti documenti: a. _______________; b. _______________; c. _______________; che in copia si allegano al presente contratto rispettivamente sotto le lettere A, B e C; Documenti probatori del credito. L’art. 1262 c.c. impone al cedente di consegnare al cessionario i documenti probatori del credito in suo possesso. La consegna attiene all’esecuzione e costituisce un obbligo del cedente solo eventuale che, vista la natura non imperativa della norma, può essere convenzionalmente escluso. Salvi i documenti che costituiscono normale strumento di esercizio del credito ceduto, il cedente non è obbligato a procurare al cessionario i documenti di cui non abbia la disponibilità. Se il cedente non adempie spontaneamente, il cessionario può ottenere giudizialmente ex art. 2930 c.c. la consegna dei documenti probatori. B. il Cedente intende cedere il predetto credito al Cessionario affinché ne diventi unico ed esclusivo titolare; Tutto ciò premesso, si conviene e stipula quanto segue. 45 Art. 1 – Premesse e Allegati Le Premesse e gli Allegati costituiscono parte integrante del presente contratto. Art. 2 – Oggetto L’oggetto della cessione è il trasferimento, a titolo oneroso o gratuito, a un terzo (cessionario), anche senza il consenso del debitore (ceduto), di un diritto di credito, un diritto potestativo o personale di godimento, un’aspettativa e, in generale, di qualsiasi situazione giuridica soggettiva, cui sia connesso il diritto di ricevere una determinata prestazione di dare, fare o non fare, da parte del creditore (cedente). Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 2.1. Il Cedente cede e vende al Cessionario, che accetta, il credito di Euro _______ che a lui compete in virtù del contratto di _______, stipulato il _______, nei confronti del Debitore Ceduto, con i privilegi e le garanzie a esso inerenti e con ogni accessorio, come risultante dai documenti di cui alle premesse e allegati sub A, B e C al presente contratto. 46 Cedibilità dei crediti. È liberamente trasferibile il credito: -- derivante da promessa unilaterale o avente fonte in un’obbligazione naturale; -- derivante da contratto o da atto illecito; -- non ancora determinato, ma determinabile con riferimento al rapporto da cui deriva, ovvero non determinato nell’ammontare o non esigibile; -- giudizialmente contestato, nei limiti di cui all’art. 1261 c.c.; -- con adempimento previsto in un determinato termine, ovvero sottoposto a termine iniziale o a condizione sospensiva; -- non ancora esistente. Cessione di credito futuro. Si perfeziona con la manifestazione del consenso da parte del cedente e del cessionario, ma produce l’effetto traslativo solo nel momento in cui il credito viene a esistenza nel patrimonio del cedente. Fino a quel momento, il contratto produce tra le parti effetti meramente obbligatori (obbligazione del cedente di comunicare al cessionario il sorgere del credito). Art. 3 – Corrispettivo 3.1. Il corrispettivo pattuito per la cessione è pari a Euro _______ e verrà corrisposto entro dieci giorni solari dalla stipulazione del presente Contratto mediante bonifico bancario da accreditare su _______ IBAN _______. [Oppure - Caso specifico cessione in luogo di adempimento] 3.1. Le Parti dichiarano che la presente cessione ha luogo a titolo di pagamento del debito di Euro _______ che il Cedente ha nei confronti del Cessionario, derivante da _______, come risulta da _______ che si allega al presente contratto sub lett. _______. 3.2. La presente cessione produce effetti immediatamente liberatori nei confronti del Cedente che, in deroga a quanto disposto dall’art. 1198 c.c., non assume alcuna responsabilità relativamente alla solvenza del debitore ceduto. Datio in solutum. Si tratta di un’ipotesi particolare di cessione pro solvendo. Infatti, ex art. 1198 c.c., quando in luogo dell’adempimento è ceduto un credito, l’obbligazione si estingue con la riscossione del credito, se non risulta una diversa volontà delle parti (cessione pro soluto). Pertanto, la cessione non estingue il credito originario, ma si affianca a quello ceduto. Il cedente è liberato in caso di realizzazione del credito ceduto ovvero quando vi sia stato un comportamento negligente del cessionario ai fini del conseguimento del credito. Art. 4. – Garanzie 4.1. Cessione pro soluto. Il cedente garantisce la sussistenza del credito al tempo della cessione ma non la solvenza del debitore ceduto. Cessione pro soluto. A norma dell’art. 1266 c.c., quando la cessione è a titolo oneroso, il cedente è tenuto a garantire l’esistenza del credito al tempo della cessione. La garanzia può essere pattiziamente esclusa, ma il cedente resta sempre obbligato per il fatto proprio. Se la cessione è a titolo gratuito, la garanzia è dovuta solo nei casi e nei limiti in cui la legge pone a carico del donante la garanzia per l’evizione. La garanzia dell’esistenza del credito ha natura di obbligazione accessoria e trova fondamento nella tutela del cessionario il quale, non potendo accertare l’effettiva esistenza del diritto oggetto di cessione, si troverebbe esposto al rischio di incorrere in possibili manovre in suo danno poste in essere dal cedente. La garanzia dell’esistenza del credito non opera in caso di cessione di credito futuro. Nel caso di cessione di un credito derivante da titolo soggetto a condizione sospensiva, invece, il cessionario può invocare la garanzia fino al momento dell’eventuale avveramento della condizione. [Oppure] 4.1 Cessione del credito con esclusione della garanzia. Il Cedente non garantisce la sussistenza del credito, ferma la responsabilità per fatto proprio. Esclusione della garanzia. In presenza di un patto di esclusione o di limitazione della garanzia ex art. 1266 c.c., il cedente risponde comunque nei confronti del cessionario ex art. 1229 c.c., sia nel caso in cui il cessionario non acquisti la titolarità del diritto di credito ceduto per fatto proprio del cedente, sia nel caso in cui il cessionario perda la titolarità del credito già acquisito per fatto imputabile al cedente. In questo ultimo caso (estinzione del credito successiva alla cessione per fatto imputabile al cedente), il cedente è obbligato al risarcimento del danno, secondo le norme comuni, ma non ex art. 1266 c.c., in quanto la garanzia prevista dalla norma è riferita unicamente al momento di conclusione del negozio di cessione. Non vi è responsabilità ex art. 1266 c.c. in capo cedente se l’estinzione del credito ceduto, successiva alla conclusione della fattispecie traslativa, è conseguenza di fatti non imputabili al cedente. Cessione di credito inesistente. Per credito inesistente, deve intendersi il credito mai venuto a esistenza; il credito altrui; il credito che, benché esistente prima della cessione, risulti estinto al momento della conclusione della fattispecie traslativa; il credito derivante da titolo inesistente o nullo e il credito prescritto. La cessione di credito inesistente non è nulla (ex art. 1418 c.c.), ma il cedente deve risarcire al cessionario l’interesse positivo, ossia il valore del credito, gli interessi e le spese eventualmente sostenute dal cessionario per infruttuose escussioni del debitore. Se, invece, le parti hanno convenzionalmente escluso la garanzia, la cessione di credito inesistente è nulla. Il credito si considera retroattivamente 47 inesistente nel caso di avveramento della condizione risolutiva cui era soggetto il titolo del credito e nel caso in cui il debitore opponga al cessionario l’avvenuta compensazione ex art. 1248 c.c. [Oppure] 4.1 Cessione pro solvendo. Il cedente assume la responsabilità della solvenza del Debitore Ceduto nei limiti di quanto ha ricevuto, oltre agli interessi, alle spese della cessione e dell’escussione del debitore, e al risarcimento del danno. Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 Cessione pro solvendo. L’assunzione, da parte del cedente della garanzia della solvenza è soggetta a un espresso patto, che può essere concluso dalle parti anche successivamente al perfezionamento del negozio traslativo (art. 1267 c.c.). La garanzia della solvenza del debitore ceduto è prevista a carico del cedente in tema di cessione dei crediti d’impresa (c.d. factoring – art. 4, L. 21.2.1991 n. 52); sconto di cambiali (art. 1859 c.c.); cessione di un credito in luogo dell’adempimento (art. 1198 c.c.); conferimento di un credito in società (art. 2255 c.c.) e assegnazione di crediti e rendite nella divisione ereditaria, nei limiti dell’art. 760 c.c. 48 Limiti. Le parti possono convenzionalmente stabilire particolari limiti e condizioni alla responsabilità del cedente. Per esempio, è possibile convenire che il cedente non sia tenuto, in tutto o in parte, alla restituzione di quanto ricevuto e/o al pagamento degli interessi e/o delle spese e/o del risarcimento dei danni. In nessun caso, invece, (ivi compresa la previsione di una clausola penale) le parti possono convenire che, in caso di insolvenza, il cedente debba corrispondere al cessionario un importo superiore al corrispettivo del trasferimento del credito. La violazione di tale divieto, previsto dall’art. 1267 comma 1 ultima parte c.c., comporta la nullità del patto. Insolvenza del ceduto. Ai fini della garanzia pro solvendo, rileva l’insolvenza che può determinare l’impossibilità per il cessionario di realizzare, direttamente o indirettamente, la propria pretesa creditoria nei confronti dell’obbligato a causa della mancanza di un patrimonio personale del ceduto e della sussistenza di impedimenti alla proposizione dell’azione esecutiva nei confronti di questi. Invocando la garanzia, il cessionario risolve il negozio di cessione e il cedente, una volta corrisposto al cessionario, non l’importo del credito oggetto di trasferimento, ma il prezzo della cessione e le spese, ritorna titolare dell’intero credito insoluto. Preventiva escussione. Per potersi avvalere della garanzia pro solvendo il cessionario deve preventivamente escutere il debitore, sino a esaurire tutti i possibili tentativi di realizzazione del credito, salvo che non provi che le istanze nei confronti del ceduto sarebbero rimaste comunque infruttuose a causa della sua insolvenza. La garanzia del cedente per mancata realizzazione del credito è condizionata alla dimostrazione, da parte del cessionario, della richiesta di pagamento di quanto dovuto al debitore ceduto, o quantomeno, dimostrazione della totale inutilità delle istanze di pagamento, attesa la notoria insolvenza del debitore al momento della cessione. Le parti, però, possono escludere l’onere di agire preventivamente in via esecutiva nei confronti del debitore ceduto. Inadempimento del debitore ceduto. La garanzia della solvenza ex art. 1267 c.c. deve essere distinta dalla garanzia dell’adempimento del debitore. Nel primo caso, infatti, il cedente si obbliga a restituire, in caso d’inadempimento del ceduto, il corrispettivo della cessione, oltre alle spese, ai danni e agli interessi, mentre nel secondo caso, il cedente garantisce il cessionario in ordine all’adempimento dell’obbligato e si obbliga a corrispondere al cessionario l’equivalente patrimoniale della prestazione inadempiuta. 4.2. Il Cedente dichiara e garantisce di essere pieno ed esclusivo titolare del credito ceduto con il presente contratto e che lo stesso non è assistito da alcuna garanzia reale o personale. Le garanzie del credito ceduto. Alla cessione del credito consegue l’automatico trasferimento al cessionario dei privilegi e delle garanzie (personali e reali) che assistono il credito ceduto, nonché degli accessori. La norma è derogabile, e se le parti convengono di escludere il trasferimento delle garanzie del credito ceduto, le stesse garanzie, in quanto accessorie, si estinguono. [Oppure] 4.2. Il Cedente dichiara e garantisce di essere pieno ed esclusivo titolare del credito ceduto con il presente contratto e che lo stesso è garantito da ipoteca iscritta presso la Conservatoria dei Registri immobiliari di _______ in data _______ al n. _______. Garanzie reali. Se il credito ceduto è assistito da ipoteca, è necessaria l’annotazione della cessione in margine all’iscrizione ipotecaria prevista dall’art. 2843 c.c., a seguito della quale il cessionario acquista lo stesso grado e gli stessi diritti dell’originario creditore ipotecario. Se l’annotazione non viene eseguita, l’ipoteca si estingue. In caso di pegno, l’art. 1263 comma 2 c.c. vieta il trasferimento del possesso della cosa ricevuta in pegno senza il consenso del “costituente”, ossia del debitore ceduto. Se questi non presta il consenso, il cedente assume la custodia della cosa data in pegno ex art. 2786 comma 2 c.c. [Oppure] 4.2. Il Cedente dichiara e garantisce di essere pieno ed esclusivo titolare del credito ceduto con il presente contratto e che lo stesso è garantito da fideiussione rilasciata da _______, che in originale si allega al presente atto sotto sub lett. _______. Garanzie personali. Accessorie per definizione, si trasferiscono automaticamente insieme al credito (es. garanzia fideiussoria prestata dal ceduto o da un terzo in relazione al credito oggetto di cessione, mandato di credito, avallo). È escluso il trasferimento automatico del c.d. contratto autonomo di garanzia, in quanto privo del carattere di accessorietà. Art. 5 – Notificazione/Accettazione 5.1. Il Cedente si obbliga a notificare il presente contratto al Debitore Ceduto, con raccomandata a.r., entro _______ giorni dalla sottoscrizione dello stesso. La notifica della cessione. La notificazione può essere eseguita indifferentemente dal cedente o dal cessionario ma deve obbligatoriamente contenere o una copia integrale dell’atto di cessione o l’indicazione di tutti gli elementi essenziali della cessione (rapporto obbli- 49 gatorio tra cedente e ceduto; ammontare del credito oggetto di trasferimento; indicazione del titolo da cui il credito deriva; data dell’atto di cessione; indicazione del cessionario e dell’eventuale notaio rogante; data di registrazione ecc.). Forma e termine della notifica. Non è necessario che la notificazione avvenga con l’osservanza delle prescrizioni previste dall’ordinamento per gli atti processuali e, in particolare, a mezzo di ufficiale giudiziario, né è previsto alcun termine perentorio e deve essere eseguita a cura della parte interessata secondo i canoni della normale diligenza. Per ovviare, quindi, a eventuali controversie, è sempre preferibile stabilire nel contratto di cessione il soggetto obbligato, la forma e il termine della notifica. [Oppure] Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 5.1. Il Debitore Ceduto ha già accettato prima d’ora la cessione del credito, come risulta dal _______ allegato al presente contratto sub lett. _______. 50 Accettazione della cessione da parte del debitore. L’accettazione del debitore ceduto non è una manifestazione di volontà idonea a concorrere alla formazione della fattispecie contrattuale, ma ha natura di mera dichiarazione di scienza, con lo scopo di attestare la conoscenza da parte del debitore dell’avvenuto trasferimento del diritto di credito, pur essendo priva di valore confessorio o ricognitivo del debito nei confronti del cessionario. L’accettazione del debitore può essere: -- preventiva, ossia anteriore al perfezionamento di un atto traslativo già programmato; -- richiesta al debitore, indifferentemente, dal cedente o dal cessionario; -- indirizzata dal debitore al cedente o al cessionario. L’accettazione non deve necessariamente avere data certa e può essere provata con ogni mezzo, anche se è sempre preferibile che avvenga in forma scritta. Art. 6 – Spese Le spese relative al presente contratto, comprese quelle di notifica, sono interamente a carico del Cessionario. Art. 7 – Legge applicabile Il presente contratto sarà retto e interpretato in base alla legge italiana. Art. 8 – Controversie Ogni controversia che dovesse sorgere dal presente contratto, o comunque a esso relativa, sarà di esclusiva competenza del Foro di _______. Art. 9 – Clausole finali 9.1. Il presente contratto annulla e sostituisce ogni intesa o accordo anteriormente intercorso tra le parti. 9.2. Ogni modifica al presente contratto, compresi gli Allegati, dovrà rivestire forma scritta e dovrà essere sottoscritta dai rappresentanti di entrambe le parti debitamente autorizzati. 9.3. Ogni comunicazione da farsi secondo il presente contratto deve effettuarsi a mezzo raccomandata con ricevuta di ritorno o a mezzo PEC o fax agli indirizzi delle parti come sopra indicati o ad altri indirizzi che ciascuna parte abbia comunicato all’altra in forma scritta. 9.4. Per quanto non espressamente previsto dal presente contratto, si fa espresso riferimento alle leggi speciali in materia e al codice civile. Letto, confermato e sottoscritto a _______, il _______ Il Cedente ____________________________ Il Cessionario ___________________________ 51 / La sentenza del mese 03 3. La sentenza del mese PREVISIONE DI UN TERMINE DI DURATA ECCEDENTE LA VITA MEDIA DI UN ESSERE UMANO E DIRITTO DI RECESSO NELLA SRL Il Tribunale di Roma, con la sentenza del 22 ottobre 2015 n. 21224, si è pronunciato sulla questione dell’applicabilità del recesso all’ipotesi in cui l’atto costitutivo della srl preveda un termine di durata della società tale da eccedere la vita media di un essere umano, pervenendo alla soluzione affermativa, in conformità all’orientamento sostenuto dalla Suprema Corte. Trib. Roma 22.10.2015 n. 21224 / Paolo REVIGLIONO * LA SENTENZA IN BREVE Un imprenditore aveva donato alla figlia una quota del capitale sociale della società Alfa srl, proprietaria di alcuni immobili, di cui uno adibito a sala cinematografica; la figlia aveva successivamente inviato al padre, quale amministratore unico della società, una lettera contenente gravi critiche in ordine alla gestione della società nonché la manifestazione di recedere dalla società e la richiesta di liquidazione della quota, ai sensi della norma statutaria che prevedeva, essendo la società contratta a tempo indeterminato, il recesso dei soci con un preavviso di almeno sei mesi. Il padre aveva quindi convenuto in giudizio la figlia, al fine di ottenere la revocazione della donazione per ingratitudine, ai sensi dell’art. 801 c.c., adducendo la gravità e l’infondatezza delle accuse mossegli dalla figlia stessa e, quindi, * stigmatizzando la volontà di quest’ultima di determinare lo scioglimento della società, la cessazione dell’attività e il conseguente dissolvimento del patrimonio familiare. La convenuta, oltre che contestare la fondatezza della domanda attorea, aveva, a sua volta, convenuto in giudizio la società al fine di far accertare la legittimità del recesso e la correlata pretesa liquidatoria della quota, sulla base della considerazione che la modifica dello statuto con cui era stato introdotto il termine di durata del 31 dicembre 2050, per quanto avvenuta anteriormente al momento in cui il recesso era stato da essa esercitato, fosse da reputarsi illegittima, essendo il risultato di un atto unilaterale compiuto dell’amministratore al di fuori dell’assemblea, peraltro qualificato dalla società come atto ricognitivo del contenuto di un precedente deliberato. Ordinario di Diritto Commerciale nell’Università “Universitas Mercatorum” – Notaio 53 Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 54 Il Tribunale1, nel disporre la riunione della trattazione delle due cause, esclude, innanzitutto, la sussistenza dei presupposti per la revocazione della donazione; in primo luogo perché il grave pregiudizio al patrimonio del donante è escluso dal fatto che il danno cagionato dalla figlia, ammesso che si sia effettivamente verificato, ha avuto come termine diretto il patrimonio della società e non quello dei singoli soci, sia perché le affermazioni contenute nella lettera inviata all’attore non costituiscono un’ingiuria grave: le mere critiche, alla luce dell’orientamento consolidato in giurisprudenza, sono, per quanto aspre, espressione della libertà personale e non raggiungono, come tali, quel livello di astiosità o avversità verso il donante, richiesto dalla legge ai fini dell’ottenimento della revocazione della donazione. Il Tribunale, quindi, passa ad esaminare il profilo relativo al recesso, affermando l’inutilità di procedere alla valutazione del significato e del valore giuridico dell’atto con cui l’amministratore aveva introdotto il termine di durata; secondo i giudici romani, anche ammettendo la legittimità di tale determinazione dell’amministratore (e quindi che la società avesse una durata fissata sino al 31 dicembre 2050), non per questo la legittimità del recesso potrebbe essere messa in dubbio, stante la necessità di estendere l’applicazione del recesso anche alla previsione di una durata della società che ecceda la vita media di un essere umano (nel caso concreto, la convenuta nel 2050 avrebbe avuto 85 anni). Nel breve commento ci si soffermerà esclusivamente su questo secondo profilo, pur dovendosi riconoscere l’interesse che rivestono le considerazioni svolte dal Tribunale in ordine al profilo della revocazione della donazione per ingratitudine. Tribunale di Roma 22.10.2015 n. 21224 Pres. Mannino - Est. Scerrato Società a responsabilità limitata – Termine di durata eccedente la vita media umana – Diritto di recesso – Ammissibilità Svolgimento del processo Con atto di citazione (prima causa: n. [Omissis] RG) l’attore D.L. Ettore, premesso che con atto notaio dott. Poalo S. del 2.12.2010 aveva donato alla figlia Isabella una quota, pari a nominali 3.300,00 euro, del capitale sociale della Alfa srl, allegava che il patrimonio della predetta società consisteva in un immobile adibito a sala cinematografica con terreno limitrofo, area e terreno con progetto di edificabilità, nonché in tre appartamenti, il tutto al centro di Ladispoli; che la convenuta rivestiva la qualifica di direttore di sala cinematografica, con ampi poteri di gestione dell’attività commerciale in parola, che costituiva la fonte principale dei guadagni della società; che in 12.3.2012 la convenuta aveva inviato ad esso attore, donante ed amministratore unico della società, una lettera contenente gravi ed infondate accuse in ordine alla non corretta gestione della società, oltre che la formalizzazione della domanda di recesso dalla carica di socio con conseguente richiesta di liquidazione della quota; che con successiva raccomandata dell’11.12.2012 era stato invitato a convocare un’assemblea per deliberare sull’accettazione del recesso, già discusso nella precedente assemblea del 20.10.2012; che sempre con la medesima raccomandata la convenuta aveva espresso disaccordo sulla proposta, formulata dagli altri soci, di aumentare il costo dei biglietti degli spettacoli cinematografici, aumento cui la convenuta, quale direttrice di sala, non aveva inteso dare seguito, 1 Trib. Roma 22.10.2015 n. 21224, riportata in stralcio di seguito e disponibile in Banca Dati Eutekne. nonostante la passività della società registrata dall’esercizio 2009; che detto atteggiamento di forte ed ingiustificato astio della donataria nei confronti del donante era poi sfociato nella successiva autoconvocazione dell’assemblea per il giorno 7.2.2013, avente all’ordine del giorno la presa d’atto del recesso del socio Isabella D.L. e modifica dello statuto da parte dell’amministratore unico ed azioni conseguenti’; che aveva replicato prontamente alle accuse rivoltegli di aver modificato lo statuto in tema di durata e di recesso, in quanto si trattava di modifiche intervenuto all’atto della scissione parziale nel 2008, prima della donazione; che la reale finalità della convenuta era quella di provocare lo scioglimento della società per ottenere la sala cinematografica, ossia l’unità immobiliare più consistente ed importante, a livello commerciale, del patrimonio sociale, con inevitabile dissoluzione del patrimonio familiare; che un siffatto comportamento costituiva una ingiuria grave nei confronti di esso donante, con danno al patrimonio morale e pregiudizio economico determinato dolosamente dalla donataria, che ben rientrava nel genus della revocazione per ingratitudine ex art. 801 c.c.; che la figlia inoltre, non solo non gli aveva consentito di mettere la propria esperienza a servizio della società, anche al fine di ridurre le passività, ma aveva anche messo in discussione le sue capacità, con le accuse rivoltegli nelle citate raccomandate, e gli aveva così causato un profondo senso di frustrazione. Tanto premesso, l’attore concludeva come in epigrafe riportato. Si costituita in giudizio la convenuta D.L. Isabella, che, impugnando e contestando le allegazioni e deduzioni dell’attore, concludeva per l’accoglimento delle conclusioni rassegnate in epigrafe. Faceva in ogni caso presente che aveva già proposto separata domanda nei confronti della Alfa srl, di cui l’attore era il legale rappresentante, per l’accertamento del diritto di recesso dalla società e per la liquidazione della quota. La causa era assegnata alla 8^ Sezione Civile. Con atto di citazione (seconda causa: n. [Omissis] Rg) l’attrice D.L. Isabella, richiamate le vicende di cui sopra, aveva appunto instato per l’accertamento della legittimità del recesso dalla Alfa srl e per la liquidazione della quota di partecipazione al capitale sociale, chiedendo l’accoglimento delle rassegnate conclusioni. Si costituiva in giudizio la convenuta Alfa srl, la quale concludeva come in epigrafe riportato. A seguito di provvedimento presidenziale del 7.1.2014 entrambe le cause erano rimesse alla Sezione Specializzata Tribunale delle Imprese, attesa la competenza per materia, anche in ordine alla donazione avente ad oggetto il trasferimento di quote del capitale sociale di una società di capitali. Le cause, così riunite, erano istruite con produzione di documentazione e veniva ammessa CTU per la determinazione del valore della quota di spettanza della socia receduta D.L. Isabella. All’udienza del 23.3.2015 le cause erano trattenute in decisione con assegnazione dei termini di legge per il deposito di comparse conclusionali (60 giorni) e di memorie di replica (ulteriore 20 giorni): i termini ex art. 190 c.p.c. sono scaduti l’11.6.2015. Motivi della decisione In punto di rito va ribadito che l’odierna controversia è di competenza della Sezione Specializzata Tribunale delle Imprese ai sensi dell’art. 3, 2° e 3° comma, del DLgs 168/03, come modificato dal DL 1/12, convertito con modificazioni nella L. 27/12; infatti tanto la prima quanto la seconda causa hanno ad oggetto la costituzione e l’estinzione del rapporto sociale fra socio e società a responsabilità limitata. Per quanto riguarda l’istanza della società convenuta (seconda causa) di sospensione – ex art. 295 c.p.c. – del giudizio di liquidazione della quota sul presupposto che la controversia relativa alla revoca della donazione delle quote sociali in favore dell’attrice rivestiva il carattere della pregiudizialità, si osserva che la disposta riunione dei due giudizi consente, a prescindere da ogni approfondimento sulla sussistenza di pregiudizialità giuridica e non solo logica, di superare ogni pericolo di giudicati contraddittori, nell’ottica della celere definizione della complessiva controversia (cfr. Cass. 1653/05: “La sospensione del processo per pregiudizialità non è ammissibile allorché sia possibile la riunione e la decisione congiunta dei giudizi davanti al giudice della causa pregiudiziale o a quello della causa dipendente attraverso gli strumenti offerti dagli artt. 34, 40, 274 c.p.c., atteso che il processo simultaneo è il mezzo più efficace per perseguire la speditezza e il coordinamento delle decisioni. …”). Richiamato quanto esposto in precedenza, appare 55 Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 56 opportuno esaminare la domanda di revocazione della donazione di quota del capitale sociale della Alfa srl, donazione del 2.12.2010 a rogito del notato dott. Paolo S. in forza della quale D.L. Isabella era divenuta socia della predetta società, quale titolare della quota del 33% del capitale sociale della Alfa srl per nominali 3.300,00 euro, La domanda, oggetto della prima causa, è chiaramente infondata e va rigettata. [Omissis] Nel caso che qui ci occupa, ritiene il Collegio che non ricorra l’ipotesi della ingiuria grave, tale da legittimare l’invocata revocazione della donazione per ingratitudine. Nella citata raccomandata del 12.3.2012, redatta da un legale e sottoscritta anche dalla D.L., dopo la comunicazione del recesso e della richiesta di liquidazione della quota, si erano sottolineanti “[…] alcuni aspetti non certamente piacevoli che hanno interessato i socio della Alfa srl considerato non da ultimo i rapporti familiari […] che dovrebbero servire ad appianare le difficoltà nella gestione del patrimonio comune e non certamente ad amplificarle, come nel concreto, invece accade. Mi riferisce infatti la mia assistita che la gestione sociale negli ultimi tempi non è stata concordata, ma è stata oggetto di imposizioni ed inutili impuntature da parte dell’amministratore unico e/o dei soci Valeriano D.L. e Alessandra D.L., attività che ha reso difficile se non impossibile i rapporto fra i soci. La suddetta gestione - a detta della mia patrocinata - è risultata rigida ed obsoleta, al punto da ingenerare uno stallo nella gestione del patrimonio sociale il quale non è stato messo a frutto, producendo ben pochi utili, tra l’altro mal divisi e/o concordemente investiti. È pur vero che l’amministratore unico è insignito dei più ampi poteri per la gestione della società, con facoltà dello stesso di compiere tutti gli atti necessari od utili per il raggiungimento dello scopo sociale, ma è altrettanto vero che questi, incurante della esistenza di una assemblea, non provvede ad effettuare la sua convocazione, intraprenda discutibili e temerarie azioni giudiziarie senza coinvolgere nella decisione i soci, non considera interessanti offerte economiche circa la compravendita dei beni sociali, oltre a non tenere indebito conto l’attività lavorativa svolta in ambito sociale dalla mia cliente […]”. Al riguardo, ricordato che la D.L. era socia della società di famiglia (gli altri soci sono genitori e fratelli) e svolgeva altresì le mansioni di direttore di sala presso il cinema Beta di Ladispoli, cinema appunto di proprietà della Alfa srl, risulta evidente che quanto riportato nella citata raccomandata del 12.3.2012 non appare per nulla offensivo ed è espressione del diritto di critica, da parte di un socio, alla gestione dell’amministratore unico in relazione alla politica aziendale ritenuta non consona all’andamento del mercato ed alle tendenze ed ai gusti del pubblico. Le critiche avanzate dalla D.L. sulla gestione “rigida” ed “obsoleta” non appaiono, viepiù in quanto provenienti da chi era socia ed anche direttore di sala del cinema, gratuite e fini a sé stesse, ma esprimono un reale disagio nella verifica in concreto della gestione della società e non sono neanche estemporanee, atteso che si ricollegano ad una serie di proposte che nel corso degli anni la D.L. aveva presentato per tentare di migliorare la situazione economica della società riducendo le spese, incrementando le entrate e aggiornando i supporti tecnici per lo svolgimento dell’attività cinematografica (cfr. doc. 4, allegato alla comparsa di risposta: prima causa, a proposito della questione del riallineamento del prezzo dei biglietti). Anche la critica per una gestione dirigistica ed accentratrice, senza coinvolgimento dei soci, non configura ipotesi di ingiuria grave, in quanto, a prescindere da ogni disquisizione sul reale livello di coinvolgimento dei soci, si è oggettivamente fuori da quel livello di astiosità e di avversione che richiede la legge per la revocatoria. Si è in presenza di un legittimo esercizio del diritto di critica, senza neanche ricorrere ad espressioni offensive. Alla luce delle superiori osservazioni è infondata, sia in fatto che in diritto, la domanda dell’attore D.L. Ettore di revocazione della donazione per ingratitudine, non sussistendo i presupposti di legge Risultano così assorbite le altre questioni (irrevocabilità della donazione rimuneratoria ed intervenuta decadenza dell’azione di revocazione) sollevate dalla convenuta D.L. Isabella. Per quanto riguarda le prove costituende, articolate dall’attore D.L. Ettore nella memoria ex art. 183/6 n. 2 c.p.c. e della cui mancata ammissione si duole l’attore (cfr. comparsa conclusionale), si osserva che le stesse si riferiscono a fatti non allegati in citazione, ove invero si è fatto riferimento solo al contenuto della raccomandata del 12.3.2012 ed alle successive assemblee per la formalizzazione del recesso; quindi le predette prove correttamente non sono state ammesse, in quanto non si può chiedere di provare fatti non oggetto di conferente allegazione. Per quanto riguarda il mancato ordine di produzione documentale richiesto nei confronti della convenuta D.L. Isabella in ordine alla eccezione di decadenza dalla revocazione, le considerazioni sopra svolte hanno reso non necessaria l’effettuazione di ulteriore attività istruttoria. In conclusione D.L. Isabella a tutti gli effetti è e deve essere considerata socia della Alfa srl per la quota di nominali 3.300,00 euro. A questo punto si deve passare all’esame della domanda di liquidazione della quota (seconda causa), previo accertamento della validità ed efficacia dell’esercitato recesso dalla compagine sociale. Poiché vi è stata contestazione da parte della società in ordine all’an, ossia alla legittimità stessa del recesso, correttamente è stato introdotto un giudizio di accertamento nelle forme del giudizio ordinario, dovendosi invero ritenere che il ricorso all’arbitratore, di cui al secondo capoverso del terzo comma dell’art. 2473 c.c., sia ipotizzabile solo nel caso di mero disaccordo sul quantum. Orbene, premesso che è pacifico il fatto storico della comunicazione della volontà di recesso (cfr. raccomandata del 12.3.2012), va ricordato che nel caso delle società a responsabilità limitata, come quella che qui ci occupa, e a differenza di quanto previsto per le società di persona in cui assoluto è il carattere personale della partecipazione, il legislatore ha previsto una disciplina speciale per quanto riguarda il recesso dei soci di srl. Al riguardo osserva il Collegio che il recesso può avvenire solo nelle ipotesi espressamente previste dall’atto costitutivo o, in ogni caso, in quelle previste dalla legge (art. 2473 c.c.): il legislatore della riforma ha dato rilievo all’autonomia privata, individuando peraltro delle fattispecie tipiche di recesso. L’atto costitutivo nulla dispone in ordine a specifiche ipotesi di recesso ed alle modalità del relativo esercizio, per cui deve farsi riferimento alla legge. In punto di fatto si osserva che la D.L. ha comunicato la propria volontà di recedere con raccomandata del 12.3.2012 (cfr. raccomandata in atti a firma dell’avv. to C., con sottoscrizione in calce della stessa socia), in cui la stessa rendeva “[…] nota la volontà […] di esercitare il diritto di recesso dalla Alfa srl per l’intera partecipazione sociale posseduta pari al 33% dell’intero, ai sensi e per gli effetti del combinato disposto degli artt. 2285 c.c. e 15 del vigente Statuto Sociale, ed in virtù di ciò questa missiva assume valore di notifica di preavviso […]”; che pertanto ha ricollegato l’esercizio del diritto di recesso all’art. 2285 c.c., in tema di recesso del socio da società costituite a tempo indeterminato o per tutta la durata della vita dei soci, ed all’art. 15 dello Statuto, vigente all’epoca dei fatti (“essendo la società contratta a tempo indeterminato, i soci hanno diritto di recedere in qualsiasi momento dando un preavviso di almeno 6 mesi”) e che, nonostante la comunicazione della volontà di recedere, la società non ha adottato alcun provvedimento sulla liquidazione della quota. Da parte sua la società ha eccepito che, contrariamente a quanto dedotto dall’attrice, lo statuto non prevedeva una durata a tempo indeterminato, emergendo dall’art. 3 St. che la durata era stata fissata fino al 31/12/50 e che pertanto non trovava più previsione il richiamato diritto di recesso ad nutum. L’attrice D.L. Isabella, a sua volta, ha eccepito l’invalidità della disposta modifica dello Statuto in ordine al riferimento alla durata non più a tempo indeterminato della società (art. 3) ed alla possibilità del recesso ad nutum con preavviso semestrale (art. 15, u.c.). In particolare ha allegato che la società era stata costituita per atto di scissione del 30.6.2005; che successivamente, in occasione di un’altra scissione, era stato modificato in data 12.11.2008 lo statuto, ma senza alcuna modificazione del citato art. 15, con la conseguenza che alla data del 2/12/10, data di acquisizione della qualifica di socia, vi era ancora l’esplicita previsione del diritto di recesso ad nutum; che dopo l’interlocutoria riunione del 20/10/12, in cui era stato contestato il diritto di recesso, l’amministratore, senza convocare alcuna assemblea né straordinaria né ordinaria, si era recato dal notaio Paolo S. di Roma e con atto unilaterale aveva modificato proprio l’art. 15 dello statuto con un preteso mero “atto ricognitivo” (cfr. doc. 10 di parte attrice: seconda causa: atto ricognitivo del 5.11.2012). Da parte sua la società ha ulteriormente dedotto che non vi era stata alcuna arbitraria ed illegittima modifica dello statuto in ordine alla durata della società; che infatti vi era stato un semplice atto 57 Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 58 pubblico di ricognizione a rogito del notaio S., in cui erano state semplicemente richiamate la delibera di scissione parziale del 30.6.2005 (notaio Nicola Ci.) e quella di scissione parziale del 25.6.2008 (notaio Paolo S.), con la quale – tra l’altro – era stato modificato l’art. 3 dello statuto relativamente alla durata e era stato stabilito che la società avesse durata fino al 31.12.2050 e non più durata illimitata, e si era dato altresì atto che successivamente alla delibera del 25.6.2008 non erano intervenute altre modifiche statutarie in riferimento alla durata della società (punto “C”). Inoltre ha allegato che nel richiamato atto ricognitivo era stato precisato che “[…] per mero errore materiale nell’art. 15 dello statuto sociale, […], risulta invece ancora riportato all’ultimo capoverso che, essendo la società contratta a tempo indeterminato, i soci hanno diritto di recedere in qualsiasi momento dando un preavviso di almeno sei mesi” (punto “D”) e che “pertanto è intenzione della società di eliminare il suddetto refuso dall’art. 15 dello statuto sociale” (punto “E”). In conclusione si era trattato – a detta della società – di un mero refuso e che lo Statuto era stato modificato nel 2008, quando ancora la D.L. non era ancora diventata socia. Il Collegio ritiene che non sia necessario accertare se lo Statuto sia stato o meno modificato legittimamente ovvero se la modifica, contestata dalla D.L. Isabella, sia o meno il frutto di una mera correzione formale di un refuso e di un difetto di coordinamento fra la deliberazione assembleare e statuto poi depositato presso l’Ufficio del Registro delle Imprese. Invero, anche a voler ritenere validamente previsto all’art. 3 St. che la società ha durata fino al 31.12.2050, va ricordato che al 2° comma del citato art. 2473 c.c. è prevista, come specifica fattispecie legale di recesso, l’ipotesi del recesso ad nutum (con preavviso) da parte dei soci nel caso di società costituita a tempo indeterminato e che a tale ipotesi, legislativamente codificata, va ricollegata, in base a condivisa giurisprudenza di legittimità e di merito, anche l’ipotesi della previsione di una durata della società che ecceda la vita media di un essere umano, tenuto conto dell’età anagrafica di tutti i soci o, secondo altra tesi, anche di uno solo; quindi l’ordinamento, ritenendo non tutelabili vincoli contrattuali di durata illimitata ovvero di durata oggettivamente superiore alla vita media dei soci o del singolo socio, consente in questi casi la libertà di recesso ad nutum con il solo onere del preavviso. Nel caso concreto, dovendosi prendere in considerazione il singolo socio, si osserva che la convenuta, nata nel 1965, sarebbe ottantacinquenne nel 2050 e quindi, alla luce di quanto detto, ben poteva liberamente e del tutto legittimamente recedere dalla società, anche qualora si volesse prendere in considerazione il nuovo testo dell’art. 3 e dell’art. 15 St. Non rileva, a confutazione delle superiori osservazioni, che nella richiamata raccomandata del 12.3.2012 la socia abbia fatto riferimento, a giustificazione dell’esercizio del diritto di recesso, all’art. 2285 c.c., disciplina dettata per le società semplici, e non invece all’art. 2473 c.c., norma speciale per le Srl, ovvero al vecchio testo dell’art. 15 St. Ciò che rileva è infatti la volontà di recedere ed il richiamo alla specifica fattispecie del recesso connesso alla durata della società, spettando poi al Giudice l’esatto inquadramento normativo o statutario della fattispecie concreta. Non va peraltro neanche dimenticato che con successiva raccomandata dell’11.12.2012 (cfr. doc. 5 fascicolo della convenuta: prima causa) la socia aveva meglio argomentato i motivi che giustificavano il recesso dalla società, fra cui appunto la considerazione che la durata (ex art. 3 dello Statuto) della Società era prevista in un termine tale (31.12.2050) da essere pari o superiore alla sua vita e tale da rappresentare un vincolo perpetuo ed indeterminato, cui andava applicato, pertanto, l’art. 2473, 2° comma, c.c., evidenziando che nel 2050 avrebbe avuto 85 anni e che, al cospetto di un termine di durata ingiustificatamente lungo in relazione al caso concreto, era oramai pacifico l’orientamento giurisprudenziale secondo cui in questi casi andava riconosciuto il diritto di recesso. Alla luce delle risultanze di causa, va pertanto dichiarato che la socia ha validamente ed efficacemente esercitato il proprio diritto di recesso; risultano così assorbite tutte le altre deduzioni della socia in ordine agli altri motivi che avrebbero ugualmente legittimato il recesso. Portando a sintesi le superiori osservazioni in fatto e in diritto, va evidenziato che D.L. Isabella è socia della Alfa srl, in quanto legittima titolare di una quota di partecipazione al capitale sociale pari al 33% per un valore di nominali 3.300,00 euro, e che la stessa è legittimamente receduta dalla società: il recesso è stato esercitato con raccomandata del 12.3.2012 e lo stesso è efficace dal 20.3.2012, giorno di ricezione della comunicazione di recesso; sul punto non vi sono contestazioni né sulla natura recettizia del recesso né sulla data di ricezione della raccomandata in questione. Orbene, in base all’art. 2473, 3° comma, c.c. è previsto che “i soci che recedono dalla società hanno diritto di ottenere il rimborso della propria partecipazione in proporzione al patrimonio sociale. Esso a tal fine è determinato tenendo conto del suo valore di mercato al momento della dichiarazione di recesso; […]”. La previsione statutaria (art. 15 St.), non oggetto di alcuna contestazione in parte qua, prevede una disciplina analoga, stabilendo, al 3° comma, che “i soci che recedono hanno diritto al rimborso della propria partecipazione in proporzione al patrimonio sociale, che viene determinato al valore di mercato al momento della richiesta di recesso da parte del socio, ossia il giorno nel quale perviene la raccomandata con avviso di ricevimento presso la sede legale societaria […]”. Nel corso del giudizio è stata ammessa CTU contabile appunto per accertare “[…] il valore di mercato, alla data di ricezione della comunicazione di recesso (20.3.2012), della quota (pari al 33%) del capitale sociale […] posseduta dalla socia […]”. Con valutazione pienamente condivisa dal Collegio, in quanto esente da vizi di calcolo o di impostazione metodologica - nella valutazione è stato utilizzato il metodo misto, con stima autonoma dell’avviamento -, il CTU nominato, dott. Pietro B., ha precisato che “[…] Il valore della società alla data del 20 marzo 2012 con la metodologia di stima descritta nei precedenti capitoli è pari ad € 2.919.134,00 […]” (cfr. CTU in atti). Non sono condivisibili le parziali contestazioni della socia receduta in ordine alla valutazione fatta dal CTU. Al riguardo è stato dedotto che, pur condividendosi sostanzialmente l’elaborato del CTU, sarebbero stati necessari alcuni approfondimenti su taluni profili, come evidenziato dal proprio CTP, dott.ssa Ca. In particolare con riguardo alla valutazione del principale immobile della società, ovvero la sala cinematografica, è stato dedotto che il CTU, pur avendo riconosciuto che lo stesso era sostanzialmente costituito da due distinti corpi di fabbrica, indicati invero quali “atrio + sala”, non aveva preso in con- siderazione il valore che tali due corpi di fabbrica avrebbero potuto avere qualora fossero stati considerati tra loro separati, anche in considerazione del fatto che non solo sarebbe stato ammissibile il cambio di destinazione d’uso dell’atrio da cat. D/3 (cinema, teatri) a cat. C/1 (negozi), ma anche che sarebbe stata possibile anche la sua divisione dal cinema tramite piccole opere murarie non strutturali, con una differente utilizzazione e sfruttamento commerciale; che pertanto il CTU avrebbe dovuto approfondire l’indagine, valutando autonomamente i due beni e proiettando tale diversa valutazione sul valore del patrimonio della società e, di riflesso, sul valore della quota della socia receduta, che, secondo i calcoli del CTP, sarebbe pertanto ammontata a complessivi 1.090.716,00 euro, con una differenza positiva, rispetto ai conteggi del CTU, di 127.401,78 euro. Altra contestazione si riferisce, con riguardo alla valutazione degli altri beni, al fatto che il CTU, pur avendo rappresentato sia i valori medi peritali (estratti dalle valutazioni fatte effettuare da alcune agenzie immobiliari) sia i valori OMI, aveva inteso assumere a riferimento sempre il minor valore tra i due, con conseguente riflesso negativo sul valore della quota della socia D.L. Ritiene il Collegio che le superiori osservazioni non siano tali da porre in dubbio la correttezza della metodologia seguita dal CTU. Per quanto riguarda la questione della divisione e/o di una diversa destinazione degli immobili facenti parte del complesso immobiliare “cinema”, non immotivatamente il CTU, nel replicare nel proprio elaborato alle osservazioni del CTP della socia, ha dedotto che “[…] In merito al valore della sala cinematografica non si ritiene prudenziale di dover procedere alla valutazione di vendita disgiunta perché ciò comporterebbe una serie di ipotesi e di investimenti, allo stato indefinibili. Inoltre difetta la concorde comune volontà dei soci, che al momento non si ravvede, essendo gli stessi addirittura in contrasto giudiziale. Infine le ipotesi prospettate non rispecchiano lo stato dei fatti della attuale struttura immobiliare - produttiva”. Del resto l’attività della società è proprio nel campo cinematografico e quindi la valutazione dei beni è e deve essere coerente con tale attività sociale. Per quanto poi riguarda la scelta dei valori al minimo, va evidenziato che nelle citate repliche alle 59 Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 60 osservazioni del CTP della socia receduta, vi è il riferimento da parte del CTP ad una stima ispirata a criteri prudenziali: si tratta di scelta condivisa dal Collegio. In conclusione il valore della società Alfa srl, alla data del 20.3.2012, era pari a 2.919.134,00 euro e che pertanto, sempre alla data del 20.3.2012, il valore della partecipazione della socia receduta D.L. Isabella, titolare del 33% del capitale sociale, era proporzionalmente pari a 963.314,22 euro, somma che deve essere pagata alla socia receduta. In base all’art. 2473, 4° comma, c.c. è previsto che “il rimborso delle partecipazioni per cui è stato esercitato il diritto di recesso deve essere eseguito entro centottanta giorni dalla comunicazione del medesimo fatta alla società. …”. Lo statuto, sempre al citato art. 15, 3° comma, prevede una disciplina sostanzialmente analoga, stabilendo che “[…] Il rimborso della partecipazione deve essere eseguito entro sei mesi dalla data della comunicazione fatta alla società da parte del socio […]”. Dunque D.L. Isabella ha diritto al pagamento, da parte della società, della complessiva somma di 963.314,22 euro, oltre agli interessi legali dal 17.9.2012 fino al saldo effettivo. In relazione al predetto dies a quo si osserva che, tanto nel codice civile (citato art. 2473 c.c.) quanto nello statuto (citato art. 15), è previsto un termine dilatorio entro il quale deve avvenire l’effettivo pagamento del rimborso, termine ritenuto necessario ma anche adeguato per provvedere alla liquidazione della quota; quindi fino alla scadenza di detto termine non sono dovuti interessi moratori. Poiché è utilizzata una terminologia differente – nel codice civile si parla di centottanta giorni, mentre nello statuto di sei mesi – e poiché non vi è coincidenza della scadenza [pacifica la decorrenza del 20.3.2012, calcolando “a mesi” ex nominatione dierum (come da statuto) il termine scadrebbe il 20/9/12 – con questa metodologia il decorso del tempo si ha, indipendentemente dall’effettivo numero dei giorni compresi nel rispettivo periodo, allo spirare del giorno corrispondente a quello del mese iniziale (cfr. Cass. 22699/13) -, mentre calcolandolo “a giorni” ex numeratione dierum (come da codice) il termine scadrebbe il 16/9/12], si deve verificare quale disciplina applicare. Ritiene il Collegio che si deve applicare la disposi- zione del codice, in quanto manca una deroga in favore della disciplina pattizia, come invece previsto nel caso p.es. del recesso ad nutum, a proposito del termine di preavviso che, fissato per legge in 180 giorni, potrebbe essere previsto di maggiore durata nell’atto costitutivo, purché peraltro non superiore ad un anno (art. 2473, 2° comma, c.c.). In conclusione, poiché lo scioglimento del vincolo societario è pacificamente avvenuto in data 20.3.2012, è pertanto conseguenziale che fino al 16.9.2012 non sono dovuti interessi di mora. Per il periodo successivo, essendosi protratto il mancato pagamento del corrispettivo a titolo di liquidazione della quota, sono invece dovuti gli interessi moratori in misura legale a decorrere appunto dal 17.9.2012. Nulla è dovuto a titolo di rivalutazione monetaria, in quanto, configurandosi l’obbligazione di liquidazione della quota sociale come debito di valuta, manca la prova da parte dell’attrice, in base a conferente allegazione, del maggior danno in ipotesi subito e cioè che il tasso di svalutazione annuo era stato superiore al tasso degli interessi e che pertanto il’ “maggior” danno non era stato assorbito dalla liquidazione degli interessi stessi (cfr. Cass. 816/09). Al riguardo va ricordato che “nelle obbligazioni pecuniarie […] il maggiore danno da svalutazione monetaria (rispetto a quello già coperto dagli interessi legali moratori non convenzionali, che siano comunque dovuti) è in via generale riconoscibile in via presuntiva e per qualunque creditore che ne domandi il risarcimento, senza necessità di inquadrarlo in un’apposita categoria, nella eventuale differenza, a decorrere dalla data di insorgenza della mora, tra il tasso del rendimento medio annuo netto dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi ed il saggio degli interessi legali; […]” (cfr. Cass. SU 19499/08). Dunque il superamento delle note categorie economiche socialmente significative di creditori è pur sempre accompagnato dalla necessità della prova da parte del creditore, in base a conferente allegazione, “[…] dell’eventuale differenza, a decorrere dalla data di insorgenza della mora, tra il tasso del rendimento medio annuo netto dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi ed il saggio degli interessi legali […]” (cfr. citata sentenza); quindi è sempre onere di chi agisce per il maggior danno allegare e dimostrare per l’appunto l’esistenza di detto maggior danno, derivante dalla mancata disponibi- lità della somma durante la mora e non compensato dalla corresponsione degli interessi legali nella misura predeterminata ex art. 1224, 1° comma, c.c. (cfr. Cass. 12828/09). In mancanza di allegazione e prova sulla su richiamata eventuale differenza – in ciò consiste il maggior danno da svalutazione monetaria – nulla può essere riconosciuto a titolo di maggior danno (cfr. Cass. 9796/11). Tanto lo statuto sociale (art. 15) quanto l’art. 2473, 4° comma, c.c., prevedono le modalità per il rimborso in concreto della partecipazione. L’ultima domanda da esaminare riguarda la richiesta di D.L. Isabella di condanna ex art. 96, 1° e 3° comma, c.p.c. Entrambe le domande vanno rigettate in quanto, in relazione alla prima, manca la prova, in base a conferente allegazione, dei requisiti soggettivi ed oggettivi legittimanti una tale condanna, mentre, in relazione alla seconda, il contrasto fra le parti in ordine al quantum della liquidazione rendeva necessario ricorrere ad un esperto contabile, per cui non appare ispirata a condotta dilatoria la posizione processuale della società ovvero del D.L. Ettore. Atteso l’esito complessivo dei due giudizi riuniti, le spese di lite vanno compensate per 1/3, mentre il residuo, liquidato in dispositivo, per il grado di soccombenza va posto in solido a carico di D.L. Ettore e della Alfa srl, attesa la sostanziale identità di posizione processuale di costoro pur nella diversità delle cause. Si dà atto che per la liquidazione delle spese deve essere applicato il Decreto Ministero Giustizia n. 55 del 10.3.2014 (GU n. 77 del 2.4.2014) sui nuovi parametri forensi, entrato in vigore il 3.4.2014, prima che avesse termine l’attività professionale dei legali; l’udienza di p.c. si è infatti tenuta il 23.3.2015 e i termini ex art. 190 c.p.c. sono scaduti l’11/6/15 e pertanto deve essere applicato integralmente il nuovo regime, alla luce dell’art. 28 del citato DM 55/14 (arg. ex Cass. SU 17405/12, in relazione alla precedente riforma ex Decreto Ministero Giustizia 20.7.2012 n. 140). Si è proceduto alla somma degli importi al minimo relativi ai giudizi di cognizione innanzi il tribunale ed allo scaglione di valore “1.000.001-2.000.000”, tenuto conto della natura e del valore della controversia, della qualità e quantità delle questioni trattate e dell’attività complessivamente svolta dai difensori (21.424 euro). Su detto importo va poi calcolata la compensazione parziale. Va nuovamente riconosciuto il rimborso forfettario (art. 2, 2° comma, citato DM 55/14). Le spese di CTU, liquidate con separato e contestuale decreto, vengono definitivamente e per l’intero poste a carico della Alfa srl. P.Q.M. Definitivamente pronunciando: - rigetta la domanda di revocazione della donazione, proposta da D.L. Ettore nei confronti di D.L. Isabella (prima causa); - in parziale accoglimento della domanda dell’attrice D.L. Isabella (seconda causa), condanna la convenuta Alfa srl al pagamento, in favore dell’attrice e a titolo di liquidazione della quota sociale al 20.3.2012, di 963.314,22 euro, oltre agli interessi moratori al tasso legale dal 17.9.2012 fino al saldo effettivo; - rigetta la domanda risarcitoria di D.L. Isabella ex art. 96, 1° e 3° comma, c.p.c.; - compensa per 1/3 le spese di lite e, per il grado di soccombenza, pone in solido a carico di D.L. Ettore e della Alfa srl il residuo, che liquida in 14.282,50 euro per compensi professionali ed in 2.500,00 euro per spese, oltre rimborso forfettario, CP ed IVA come per legge; - pone definitivamente e per intero a carico della Alfa srl le spese di CTU, liquidate con separato e contestuale decreto. 61 MASSIMA La previsione, contenuta nello statuto di una srl, di un termine di durata della società, che ecceda la vita media di un essere umano in relazione all’età anagrafica di tutti i soci od anche di uno solo, comporta la libertà del socio di recedere ad nutum, con il solo onere del preavviso. IL COMMENTO La pronuncia del Tribunale di Roma si colloca nell’ambito dell’orientamento espresso Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 62 recentemente dalla Suprema Corte 2, volto ad estendere l’applicabilità del recesso ad nutum all’ipotesi in cui l’atto costitutivo di una società a responsabilità limitata preveda un termine di durata della società particolarmente lungo, tale da eccedere la vita media dell’essere umano. Tale orientamento, sostenuto anche da una parte della giurisprudenza di merito3 e da taluni Autori4, viene fondato su due considerazioni: qualora il termine di durata della società sia eccessivamente lungo, si manifestano quelle medesime ragioni di tutela della posizione del socio, che stanno alla base della previsione del recesso per il caso in cui sia del tutto assente un termine di durata; l’art. 2285 c.c., per quanto dettato in tema di società di persone, esprime, secondo l’interpretazione prevalente, una regola di carattere generale, la quale, al di là dell’espressione letterale della disposizione, va interpretata nel senso che il recesso deve essere riconosciuto anche nel caso in cui sia prevista una durata della società superiore alla vita media dei soci. Il Tribunale di Roma, nella pronuncia in oggetto, non sviluppa in modo approfondito le argomentazioni a sostegno della decisione assunta, ma si limita a citare la posizione della Suprema Corte e ad affermare che il termine di durata così come stabilito nello statuto della società rappresenta “un vincolo perpetuo ed indeterminato” e che, alla luce del fatto che l’ordinamento non tutela “vincoli contrattuali di durata illimitata ovvero di durata oggettivamente superiore alla vita media dei soci o del singolo socio”, è necessario riconoscere in questi casi la libertà di recesso ad nutum con il solo onere del preavviso. A tal proposito pare opportuno rammentare in questa sede le considerazioni che la Corte di Cassazione ha elaborato a sostegno dell’orientamento sopra esposto e con le quali ha opportunamente (e correttamente) risolto una questione che non trovava unanimità di consensi nella giurisprudenza di merito e nemmeno nella dottrina5. La Corte, dopo aver attribuito un preciso valore sistematico e di carattere generale alla regola fissata dall’art. 2285 c.c., ha svolto una valutazione di natura funzionale, osservando, in particolare che, mentre nel caso in cui vi sia una determinazione del termine di durata i soci manifestano l’intenzione di voler optare per una individuazione dell’aspettativa di vita della società in funzione della circostanza che entro quel determinato termine il progetto di attività programmato possa essere realizzato, nell’ipotesi invece in cui la durata sia indeterminata “prevalgono ragioni di perpetuità del progetto” imprenditoriale, nel senso che i soci rinunciano, in questo caso, all’individuazione prognostica dello spazio temporale necessario per la realizzazione del progetto medesimo: in tale ultimo frangente la previsione legale del recesso ha, appunto, la funzione di consentire al socio l’uscita da un organismo tendenzialmente perpetuo. Osserva quindi la Corte che un termine di durata eccessivamente lungo “ha l’effetto di far perdere qualsiasi possibilità di ricostruire l’effettiva volontà delle parti circa l’opzione fra una durata a tempo determinato 2 Cass. 22.4.2013 n. 9662, in Banca Dati Eutekne e Giur. It., 2013, c. 2271, con nota di Revigliono P. 3 App. Milano 21.4.2007, in Banca Dati Eutekne e Le Società, 2008, p. 1121 ss.; Trib. Roma 19.5.2009, in Banca Dati Eutekne; Trib. Varese 26.11.2004, Giur. comm., 2005, II, p. 473 ss., nonché, pare, App. Trento 22.12.2006, in Banca Dati Eutekne e Le Società, 2007, p. 1478 ss. 4 Revigliono P. “Il recesso nella società a responsabilità limitata”, Giuffrè, Milano, 2008, p. 212 ss.; Annunziata F., sub art. 2473 c.c., in “Commentario – Società a responsabilità limitata”, a cura di Bianchi L.A., Egea, Milano, 2008, p. 494 ss. V. anche Ventoruzzo M. “I criteri di valutazione delle azioni in caso di recesso del socio, Riv. soc., 2005, p. 328 ss. 5 Nel senso che il recesso previsto per la società a tempo indeterminato non potrebbe essere esteso all’ipotesi di una società con un termine eccessivamente lungo: App. Milano 18.11.2009, inedita; Trib. Terni 28.6.2010, Giur. It., 2010, c. 2551; Trib. Napoli 10.12.2008, Notariato, 2009, p. 285 ss.; Trib. Forlì 16.5.2007, Giur. comm., 2008, II, p. 256 ss.; Trib. Cagliari 20.4.2007, Riv. giur. sarda, 2009, p. 375 ss.; Trib. Milano 19.7.2006, inedita; in dottrina, nel medesimo senso, pur se con diverse argomentazioni, Zanarone G. “Della società a responsabilità limitata”, in “Il Codice civile. Commentario”, diretto da Busnelli F.D., t. I, 2010, p. 798 ss.; Magliulo F. in “La riforma della società a responsabilità limitata”, a cura di Caccavale C., Magliulo F., Maltoni M., Tassinari F., Milano, 2007, p. 254 ss.; Piscitello P. “Riflessioni sulla nuova disciplina del recesso nelle società di capitali”, Riv. soc., 2005, p. 522. o indeterminato della società” e manifesta, in definitiva, l’intento di eludere gli effetti che si realizzerebbero qualora la società fosse espressamente dichiarata a tempo indeterminato; con la conseguenza che, in tal caso, si pone “la necessità di un intervento correttivo dell’interprete che garantisca il riconoscimento della tutela accordata dal legislatore al socio in una società che non preveda una determinazione del tempo della sua durata”. Le argomentazioni della Suprema Corte e la massima in cui si sono tradotte – alla quale ha espressamente aderito il Tribunale di Roma nella sentenza in esame – appaiono condivisibili e difficilmente confutabili; d’altra parte le considerazioni svolte dall’orientamento opposto non paiono fondate né risolutive. Si è sostenuta, in primo luogo, l’impossibilità di applicare alle società di capitali le regole fissate in relazione alle società di persone, nelle quali sarebbe il ruolo preponderante riconosciuto alla persona dei soci a giustificare la previsione del recesso quale conseguenza di una durata pari alla vita dei soci6; a tale considerazione si può obiettare, in primo luogo, che l’applicabilità alla srl di talune norme dettate in materia di società personali non è affatto escluso, in linea di principio, dagli interpreti, sempreché, come avviene nel caso in esame, sia ravvisabile una sostanziale analogia tra le situazioni poste a raffronto; in secondo luogo che, come ha anche correttamente osservato la Cassazione, non si tratta comunque, nel caso in esame, di applicare analogicamente alla srl la disposizione contenuta nell’art. 2285 c.c., ma di prendere atto che tale disposizione riflette l’esistenza di un principio più generale, tendenzialmente estensibile ai rapporti associativi, in base al quale la previsione di un termine di durata dell’ente che risulti eccedente la vita media dell’individuo giustifica ed anzi impone l’attribuzione del recesso ai membri dell’ente medesimo. Né d’altra parte appare decisiva l’osservazione per cui nella società a responsabilità limitata, a differenza di quanto avviene nelle associazioni o nelle società di persone, la qualità di socio è liberamente trasmissibile7, dal momento che tale astratta libertà del socio di cedere la propria partecipazione non risulta idonea a salvaguardare compiutamente la posizione del socio medesimo, stante l’oggettiva e peculiare difficoltà di circolazione delle partecipazioni relative ad un tipo di società strutturalmente chiusa e non aperta al mercato, della quale il legislatore ha tenuto puntualmente conto proprio nel prevedere il recesso nel caso di società contratta a tempo indeterminato. Si è poi osservato come la previsione di un termine di durata molto lungo, senza il correttivo del recesso, non contrasterebbe con alcun principio sostanziale, dal momento che ad un risultato praticamente analogo sarebbe possibile giungere, in maniera del tutto legittima, nella spa, mediante la proroga della società, in un contesto statutario ove viga la regola dell’esclusione dell’operatività del recesso, ai sensi dell’art. 2437 comma 2 lett. b) c.c. 8. A questa osservazione si può opporre – oltre che l’impossibilità di assimilare integralmente, sotto il profilo che ci occupa, la situazione del socio di srl a quello di spa, se si considera il diverso significato che assume la libertà di circolazione delle partecipazioni nei due tipi sociali – anche la considerazione per cui la possibilità di sopprimere il recesso in relazione alla deliberazione di proroga della società nella società per azioni appare, effettivamente, un dato normativo alquanto eccentrico nello stesso contesto della società per azioni, in quanto sicuramente contradditorio con quelle esigenze di tutela del socio che stanno alla base della previsione 6 Considerazione riportata da Frigeni C. “Le fattispecie legali di recesso”, in “S.r.l. Commentario”, dedicato a Portale G., a cura di Dolmetta A.A., Presti G.M.G., Giuffrè, Milano, 2011, p. 469. 7 In tal senso Magliulo F., cit., p. 256. 8 Calandra Buonaura V. “Il recesso del socio di società di capitali”, Giur. comm., I, 2005, p. 303. 63 Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 64 (inderogabile) del recesso in caso di società con durata indeterminata 9. Si è infine affermato che la necessità di interpretare in modo letterale e restrittivo la disposizione che circoscrive il recesso alle società a tempo indeterminato deriverebbe dalla presunta eccezionalità del recesso ad nutum, in considerazione dell’esigenza dei creditori sociali di conoscere e valutare ex ante “le occasioni in cui corrono il rischio di vedere contrarsi, come effetto del rimborso del socio recedente, l’unica loro garanzia rappresentata dal patrimonio sociale”10. Per quanto tale osservazione appaia, a prima vista, convincente, in realtà non può essere accolta; in primo luogo, perché si fonda su un assunto – l’eccezionalità del recesso ad nutum – il cui fondamento andrebbe verificato alla luce del diverso ruolo che attualmente il recesso riveste rispetto al passato e quindi, soprattutto, della sostanziale idoneità degli strumenti previsti dall’ordinamento a salvaguardare in modo compiuto ed integrale la posizione dei creditori sociali in caso di esercizio del recesso da parte dei soci; in secondo luogo, perché la previsione di un termine di durata della società particolarmente lungo rappresenta un dato comunque oggettivamente verificabile da parte dei creditori e, quindi, idoneo a determinare in questi ultimi la piena consapevolezza della possibilità di recesso di tutti i soci o, quantomeno, di quelli in relazione ai quali la durata della società risulti eccedere la durata della loro esistenza, secondo i consueti criteri statistici relativi alla vita media. IL CRITERIO DI VALUTAZIONE DELL’IDONEITÀ DEL TERMINE DI DURATA A LEGITTIMARE IL RECESSO Nell’ambito dell’orientamento volto a ricono- scere la possibilità di estendere il recesso al caso in cui il termine di durata della società risulti eccessivamente lungo, mentre alcuni Autori fanno riferimento ad un “oggettivo criterio di normalità”11, nel senso che la spettanza del recesso andrebbe riconosciuta ai soci laddove “il termine di durata della società ecceda la durata media normale della vita umana, a prescindere dall’età anagrafica dei singoli soci”, altri ritengono che si debba procedere ad una valutazione caso per caso, valutando l’aspettativa di vita di ciascun socio in relazione al termine di durata della società12. Il Tribunale di Roma, nella pronuncia in esame, opta per la seconda delle tesi sopra indicate, osservando che “nel caso concreto, dovendosi prendere in considerazione il singolo socio, […] la convenuta, nata nel 1965, sarebbe ottantacinquenne nel 2050 e quindi, alla luce di quanto detto, ben poteva liberamente e del tutto legittimamente recedere dalla società”. La tesi sostenuta dal Tribunale di Roma è senz’altro condivisibile, anche se, forse, espressa in maniera un po’ apodittica. In effetti, la fondamentale ragione per cui l’applicazione del criterio della durata della vita media dell’individuo deve essere effettuata con riferimento a ciascun singolo socio è da ricercarsi nella ratio dell’attribuzione del recesso nel caso della società con un termine di durata particolarmente lungo, vale a dire l’esigenza di tutela della posizione del singolo socio, sia sotto il profilo della libertà di uscire dalla compagine sociale, sia sotto il profilo della realizzazione del suo investimento mediante la liquidazione del valore della sua partecipazione 13. Né potrebbe osservarsi, di contro, che la suesposta tesi, cui il Tribunale ha sostanzialmente aderito, non sia soddisfacente, in quanto com- 9 Al punto che si potrebbe dubitare della legittimità costituzionale, con riferimento all’art. 3 Cost. dello stesso art. 2437 co. 2 lett. a) c.c., evidenziando una non giustificata disparità di trattamento, con riferimento al profilo della sopprimibilità del recesso in caso di proroga della società, fra la società per azioni chiusa e non destinata al mercato e la società a responsabilità limitata. 10 Così Zanarone G., cit., p. 799. 11 Annunziata F., cit., 495; per una sintesi delle diverse posizioni v. Frigeni C., cit., p. 468 ss. 12 Revigliono P. “Il recesso nella società a responsabilità limitata”, cit., p. 214 ss. 13 Mi permetto di rinviare, sul punto, a Revigliono P. “Il recesso nella società a responsabilità limitata”, cit., p. 214 ss. porterebbe l’introduzione di un “forte elemento di «variabilità» nell’applicazione della disciplina, in particolare nell’ipotesi di trasferimento della quota a favore di soggetti con età anagrafiche diverse”14. Non vi è dubbio che la valutazione dell’età di ciascun socio in rapporto al termine di durata della società comporti la necessità di un’operazione più complessa e con esiti meno prevedibili rispetto a quello che sarebbe il risultato di una valutazione effettuata in astratto, a prescindere dall’età anagrafica dei singoli soci, ma ciò non può costituire un argomento per negare la fondatezza della tesi sostenuta dal Tribunale: quest’ultima rappresenta, come si è sottolineato, un corollario necessario della ratio che sta alla base della attribuzione del recesso, il quale non potrebbe assolvere la funzione che l’ordinamento, in generale, tipicamente ed inderogabilmente gli attribuisce se si dovesse riconoscere che la sua sfera di applicazione prescinde dalla valutazione della posizione dei singoli soci, ma viene ancorata ad un criterio generale ed astratto di “normalità”. Resterebbe, per completezza, da chiedersi – pur trattandosi di un profilo ulteriore rispetto a quanto deciso dal Tribunale – se, nell’ipotesi in cui si accerti che il termine di durata della società è troppo lungo rispetto alla vita di uno o più soci, la spettanza del recesso riguardi tutti i soci od esclusivamente quelli in relazione alla vita dei quali il termine di durata sia stato riconosciuto come eccessivamente lungo; ancora una volta la considerazione delle ragioni che caratterizzano, in questi casi, l’attribuzione del recesso, secondo le modalità che si sono tratteggiate, consente di risolvere agevolmente la questione posta optando per la seconda delle soluzioni indicate. CONCLUSIONI In conclusione si deve ritenere che la decisione del Tribunale di Roma – che, come si è osservato, è conforme alla posizione della Suprema Corte – sia condivisibile, sia con riferimento all’individuazione del principio che si è tradotto nella massima (ovvero la regola per cui il recesso spetta al socio anche nell’ipotesi in cui la società, pur se non contratta a tempo indeterminato, abbia un termine di durata che risulti eccessivo in relazione ala vita dei soci, in base al criterio della vita media dell’essere umano) sia per quanto riguarda l’adesione, anche se forse non sufficientemente esplicitata ed argomentata, alla tesi per cui il criterio di valutazione, così come configurato in termini generali dallo stesso Tribunale, deve necessariamente essere ancorato all’aspettativa di vita di ciascun singolo socio. 65 14 Così Annunziata F., cit., p. 495. BILANCIO E REVISIONE a cura di Ermando BOZZA / Bilancio 04 Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 4. Bilancio 68 LE COSTRUZIONI IN ECONOMIA: PROFILI CIVILISTICI, PRINCIPI CONTABILI NAZIONALI E RIFLESSI FISCALI L’articolo analizza le costruzioni in economia, soffermandosi sui profili civilistici, i principi contabili nazionali di riferimento e i riflessi fiscali. Particolare enfasi è data all’analisi delle disposizioni dell’OIC 16, anche in prospettiva comparativa con la precedente versione del 2005. Emerge, così, la questione cruciale della congettura del costo di produzione, basata sull’addensamento dei costi diretti, l’imputazione dei costi indiretti e l’aggregazione convenzionale degli oneri finanziari. Sono, poi, offerti casi ed esempi. / Valerio ANTONELLI * Le costruzioni in economia sono un fenomeno di non poco momento nell’economia delle aziende. Esso si manifesta a causa di una pluralità di circostanze esterne e di condizioni interne che rendono conveniente, per l’unità aziendale, non procurarsi i fattori produttivi sul mercato di provvista, ma per sviluppo in proprio. Invero, mentre alcuni fattori produttivi, per la loro natura (come i terreni e la maggioranza dei fabbricati) o per le loro specifiche tecniche, possono essere soltanto acquistati da fornitori, la produzione in proprio dei fabbricati (specialmente nelle imprese edili), degli impianti e dei macchinari (nelle aziende industriali), dei mobili e arredi (nei mobilifici), degli automezzi e autoveicoli (nelle aziende automobilistiche), dei computer (nelle aziende di informatica) e di molti altri beni economici, è pratica assai diffusa. I fattori produttivi poliennali e a fecondità ripetuta possono essere costruiti in economia per * numerosi motivi: conservazione del segreto su alcune tecnologie aziendali, maggiore rapidità di esecuzione dei lavori, competenze specifiche non detenute da altre imprese, minori costi di realizzazione dell’opera e via discorrendo. Tali aspetti incidono sulla progettazione del bene economico e, indirettamente, sul suo costo. Focalizzando l’attenzione sugli aspetti strettamente contabili – e quindi sul profilo di capitalizzazione dei costi d’esercizio sostenuti a seguito di tali processi di sviluppo interno – nel seguito consideriamo: • le norme del codice civile; • i principi contabili nazionali (OIC 16); • i riflessi fiscali. CODICE CIVILE L’art. 2426 comma 1 n. 1 c.c. stabilisce che il Professore ordinario di Bilanci e comunicazione economico-finanziaria nell’Università degli studi di Salerno costo di produzione delle immobilizzazioni materiali comprende tutti i componenti di costo direttamente imputabili alla commessa. Può comprendere anche altri costi, per la quota ragionevolmente imputabile, relativi al periodo di fabbricazione e fino al momento dal quale il bene può essere utilizzato; con gli stessi criteri possono essere aggiunti gli oneri relativi al finanziamento della fabbricazione, interna o presso terzi. La Relazione ministeriale al DLgs. 127/1991 precisa che “oltre ai costi direttamente imputabili al prodotto esso [il costo di produzione] può comprendere anche costi cosiddetti di indiretta imputazione per la quota che ragionevolmente possa essere imputata al prodotto: deve trattarsi naturalmente di costi di competenza del periodo di fabbricazione, il quale deve essere considerato concluso dal momento in cui il bene è oggettivamente utilizzabile (ciò ad evitare che vengano capitalizzate anche quote di costi generali relativi a tempi successivi, con la giustificazione che il prodotto, di fatto, non è stato ancora utilizzato). La formula «può comprendere» non intende attribuire ai redattori del bilancio una facoltà di scelta arbitraria, ma si riferisce alla ragionevole applicazione della discrezionalità tecnica, in conformità al principio generale della «rappresentazione veritiera e corretta»; naturalmente, se la capitalizzazione dei costi di indiretta imputazione conducesse a superare il valore di mercato o il valore di utilizzazione, la posta dovrà essere corrispondentemente svalutata in base al medesimo principio generale. La regola dettata per i costi di indiretta imputazione è poi estesa agli oneri finanziari, compresi quelli sostenuti per far costruire il prodotto da terzi”. L’equazione del costo di produzione indicata dal legislatore civilistico, dunque, include tre addendi: • i costi diretti ovvero: -- i costi relativi alla progettazione delle specifiche tecniche dell’impianto (costo della consulenza se il progetto è esterno, costo di sviluppo in proprio se il progetto è interno); -- i costi sostenuti per l’acquisto delle ma- terie prime e sussidiarie che entrano a far parte dell’immobilizzazione; -- i costi del personale impegnato nella costruzione dell’impianto (opportunamente identificato sulla base di schede di rilevazione delle presenze e incrociato con il costo medio orario per qualifica o, meglio, per soggetto); • i costi indiretti (perciò attribuibili soltanto adottando opportune basi di riparto) per i quali valgano il requisito quantitativo della imputazione ragionevole e quello temporale del nesso funzionale al periodo di fabbricazione, concluso con l’assunzione del carattere di utilizzabilità da parte del fattore appena completato, tra i quali: -- i costi per le utenze assorbite dalla produzione dell’immobilizzazione; -- i costi per la forza motrice degli impianti impiegati per lo sviluppo dell’immobilizzazione; -- gli ammortamenti degli impianti impiegati per lo sviluppo dell’immobilizzazione; -- i costi del personale indiretto e del personale tecnico di stabilimento; • gli oneri finanziari per i quali valgono il requisito spaziale della pertinenza al finanziamento della produzione, quello quantitativo della imputazione ragionevole e quello temporale del nesso funzionale al periodo di fabbricazione, concluso con l’assunzione del carattere di utilizzabilità da parte del fattore appena completato. La dottrina giuridica ritiene, a tale riguardo, che1: • i costi indiretti da ripartire non possano includere quelli relativi alla funzione vendita, alla funzione amministrativa, alle strutture centrali; • i costi indiretti debbano essere ripartiti sulla base di una capacità produttiva normale onde evitare incongrui spostamenti di costo da un esercizio all’altro; • l’estensione temporale dell’imputazione giunga fino al momento dal quale il bene può essere utilizzato a non anche quello, successivo, del suo effettivo utilizzo; 1 Colombo G.E., G. Olivieri “Bilancio d’esercizio e consolidato”, UTET, Torino, 1994, pp. 231-232. 69 Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 70 • il limite superiore della configurazione di costo sia rappresentato dal valore attuale d’uso o di mercato. La dottrina economico-aziendale concorda sul primo punto, ritenendo che la norma escluda i costi delle funzioni amministrativa, marketing, ricerca e sviluppo, sul fondamento della natura industriale del costo, come avviene con le rimanenze di magazzino2. Invero, tale qualificativo non è contenuto nella lettera della norma, la quale parla di “altri costi [rispetto a quelli direttamente imputabili], per la quota ragionevolmente imputabile al prodotto, relativi al periodo di fabbricazione e fino al momento dal quale il bene può essere utilizzato” né il qualificativo industriale è aggiunto dalla relazione governativa. Il criterio identificativo degli altri costi sembrerebbe, invece, sulla base di una interpretazione letterale dell’art. 2426 comma 1 n. 1 c.c., quello di essere indiretti, e non industriali, fatta eccezione per gli oneri finanziari di cui la norma dispone separatamente. La restrizione all’area della “fabbricazione” è imposta dai principi contabili nazionali (OIC 16, par. 25 e par. 31). In relazione al carattere indiretto dei costi, la dottrina economico-aziendale sottolinea i vincoli di comunanza nello spazio e nel tempo dei costi da imputare: nello spazio in quanto si possono simultaneamente riferire alla commessa e ad altre attività di produzione economica; nel tempo in quanto la commessa può essere iniziata nel corso del periodo amministrativo e, dunque, i fattori produttivi a fecondità ripetuta possono aver trovato impiego sia nelle produzioni precedenti all’apertura di quella sia nella commessa. La nozione di costi indiretti alla quale si riferisce il legislatore non è, poi, insita soltanto nella natura del fattore produttivo e nelle relazioni combinatorie che lo legano agli altri (n – 1), interpretabili alla luce del principio funzionale, ma anche delle scelte di configurazione del sistema contabile adotta- 2 Giunta F., Pisani M. “Il bilancio”, Apogeo, Milano, 2005, p. 424. ta e, dunque, varia anche con esse. Quanto alla base di riparto il problema ammette molteplici soluzioni in quanto si possono dare le seguenti situazioni: 1. l’azienda non dispone di un sistema di contabilità analitica; 2. l’azienda dispone di un sistema di contabilità analitica a direct costing; 3. l’azienda dispone di un sistema di contabilità analitica a full costing a base unica; 4.l’azienda dispone di un sistema di contabilità analitica a full costing articolato per centri di costo; 5. l’azienda dispone di un sistema di contabilità analitica activity-based. Nel caso sub 1), manca qualsiasi fondamento razionale alla ripartizione dei costi indiretti e, dunque, devono essere elaborati calcoli economici di tipo extra-contabile. Nel caso sub 2), manca la rilevazione e la ripartizione dei costi indiretti e, dunque, devono essere elaborati calcoli economici di tipo extra-contabile. Nel caso sub 3), i costi indiretti sono identificati, rilevati e ripartiti su un’unica base che può essere sensibile o meno al grado di sfruttamento della capacità produttiva. Nei casi sub 4) e sub 5), i costi indiretti sono identificati, rilevati e ripartiti su base multipla; il redattore del bilancio può valutare gli effetti di oscillazioni nel grado di sfruttamento della capacità produttiva. PRINCIPI CONTABILI NAZIONALI Secondo l’OIC 16, il valore di iscrizione include tutti quei costi, relativi alle costruzioni, che l’impresa deve sostenere affinché l’immobilizzazione possa essere utilizzata. L’equazione del costo di fabbricazione si rifà, evidentemente, all’art. 2426 comma 1 n. 1 c.c. Le costruzioni in economia secondo l’OIC 16 §25 Il costo di produzione comprende tutti i costi direttamente imputabili all’immobilizzazione materiale. Può comprendere anche altri costi, per la quota ragionevolmente imputabile all’immobilizzazione, relativi al periodo di fabbricazione e fino al momento dal quale il bene può essere utilizzato; con gli stessi criteri possono essere aggiunti gli oneri relativi al finanziamento della fabbricazione, interna o presso terzi. In generale, sono capitalizzabili solo i costi sostenuti per la costruzione di nuovi cespiti (costi originari) e per migliorare, modificare, ristrutturare o rinnovare cespiti già esistenti, purché tali costi producano un incremento significativo e misurabile di capacità, di produttività o di sicurezza dei cespiti per i quali sono sostenuti ovvero ne prolunghino la vita utile. §31 Il costo iniziale di un cespite totalmente o parzialmente costruito in economia è il costo di produzione inclusivo dei costi diretti (materiale e mano d’opera diretta, costi di progettazione, forniture esterne, ecc.) e dei costi generali di produzione, per la quota ragionevolmente imputabile al cespite per il periodo della sua fabbricazione fino al momento in cui il cespite è pronto per l’uso; con gli stessi criteri possono essere aggiunti gli oneri relativi al finanziamento della loro fabbricazione. §32 I costi di natura straordinaria sostenuti durante la costruzione dei cespiti, (ad esempio: scioperi, incendi o eventi connessi a calamità naturali, come alluvioni, terremoti, ecc.) non sono capitalizzabili, e sono addebitati al conto economico dell’esercizio in cui si sostengono. Si noti che nell’attuale OIC 16 sono scomparsi, rispetto alla versione 2005 del medesimo principio contabile nazionale, i riferimenti al criterio della capacità normale, quale criterio per la ripartizione dei costi indiretti (per rinvio all’OIC 13 contenuto nel par. D.II.b) in caso di produzione ordinaria di impianti e alla omissione della quota di costi indiretti nei casi di occasionalità della costruzione in economia (sempre nel par. D.II.b). Si deduce, dall’enunciazione generale e generica del par. 31 della versione 2014 dell’OIC 16,, che non vi sia più una differenza “soggettiva” tra classi di aziende che procedono alle costruzioni in economia. Ne consegue che, mentre per le imprese dedite alla produzione di impianti – in conseguenza del par. 31 dell’attuale OIC 13 – pare ragionevole ritenere che ancora si applichi la suddetta base di imputazione, rispetto alla versione 2005 è solo scomparsa la facoltà di omettere l’imputazione e il rinvio al futuro della quota di costi indiretti. L’imputazione dei costi indiretti, quindi, si applica a tutte le aziende, ma non è evidente quale sia la base di riparto di tali costi per quelle unità produttive che procedono – secondo la semantica del 2005 – a costruzioni in economia occasionali. ESEMPIO DI VALORIZZAZIONE E RAPPRESENTAZIONE IN BILANCIO DELLA COSTRUZIONE IN ECONOMIA 71 La A&D spa procede, nell’anno X1, alla costruzione in proprio di un impianto che completa nell’anno di avvio della commessa. La realizzazione dell’opera richiede quanto segue: -- materie prime: quantità in kg 3.000; prezzo al kg euro 30; -- manodopera diretta: ore impiegate pari a 2.000; costo orario complessivo euro 60; -- costi indiretti di produzione pari a euro 400.000; tali costi si riferiscono, oltre alla realizzazione dell’opera (per le 2.000 ore sopra richiamate), alla produzione di altri beni (per 6.000 ore) mentre per 4.500 ore ci si riferisce a capacità inutilizzata. Si procede al calcolo del costo di produzione dell’impianto, utilizzando come base di riparto dei costi indiretti le ore di capacità produttiva totale (= 2.000 + 6.000 + 4.500): Elementi di costo Materie prime Manodopera diretta Costi indiretti Totale costo Calcolo 3.000 × 30 = 2.000 × 60 = 400.000 × 2.000/12.500 = Importi 90.000 120.000 64.000 274.000 Se, invece, il riparto dei costi indiretti si basa soltanto sulle ore di capacità produttiva effettivamente sfruttata (pari a 2.000 + 6.000), senza tenere conto delle ore di capacità inutilizzata (pari a 4.500), il calcolo del costo dell’impianto si modifica come segue: Elementi di costo Materie prime Manodopera diretta Costi indiretti Totale costo Calcolo 3.000 × 30 = 2.000 × 60 = 400.000 × 2.000/8.000 = Importi 90.000 120.000 100.000 310.000 Il costo di euro 274.000 è inferiore al valore recuperabile tramite l’uso (stimato in euro 280.000,00). I riflessi sullo Stato patrimoniale civilistico al 31/12/X1 sono i seguenti: Stato patrimoniale al 31/12/X1 B.II) Immobilizzazioni materiali 2) Impianti e macchinari 274.000 Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 I riflessi sul Conto economico civilistico dell’esercizio X1 sono i seguenti: 72 Conto economico dell’esercizio X1 A) Valore della produzione 4) Incrementi di immobilizzazioni per lavori interni COSTRUZIONI IN CORSO Le costruzioni in economia non portano sempre alla realizzazione immediata del fattore produttivo a fecondità ripetuta progettato; esse, piuttosto, domandano tempo e procedono secondo stati di avanzamento che dipendono dalla complessità del fattore produttivo a fecondità ripetuta da realizzare e dalla struttura operativa e organizzativa dedicata, dando luogo a commesse interne di durata infraannuale o ultra-annuale. Nel secondo caso, al termine dell’esercizio, in sede di redazione del bilancio, si dà la circostanza di una commessa interna avviata, ma non ancora conclusa. I costi per la progettazione e l’avvio dei lavori, eventualmente quelli per i materiali, i componenti, gli accessori, il loro montaggio, sono già stati sostenuti, ma non sono di competenza economica dell’esercizio perché non sono correlati a ricavi manifestatisi in questo; d’altra parte, il fattore per il quale quei costi sono stati sostenuti non è completo e non è pronto ad entrare in funzione. A tale proposito, l’OIC 16, par. 24, prevede di procedere come segue: • i costi per la costruzione del cespite sono 274.000 rilevati inizialmente alla data in cui sono sostenuti; • le immobilizzazioni materiali in corso di realizzazione sono stornate a fine esercizio e riepilogate nell’apposita voce; • le immobilizzazioni materiali in corso di realizzazione rimangono iscritte come tali fino alla data in cui il bene può essere effettivamente utilizzato; a tale data, l’immobilizzazione materiale è riclassificata nella specifica voce della classe B.II) alla quale sono riconducibili (mediante storno del saldo del conto acceso alla costruzione in corso al conto corrispondente). Il sistema contabile (se non dispone di codici destinazione o non ha funzionalità gestionali) non rileva nelle scritture continuative tale destinazione dei costi: in sede di assestamenti di fine esercizio, dunque, si dovrà procedere alla capitalizzazione indiretta dei costi sostenuti (rilevati in conti i cui saldi sono riepilogati nella voce A.4) “Incrementi di immobilizzazioni per lavori interni” del Conto economico civilistico) e alla individuazione di un costo rinviato al futuro che porta il suo saldo alla voce B.II.5) “Immobilizzazioni in corso e acconti” dell’attivo dello Stato patrimoniale civilistico (denominato in termini generici, cioè senza specificare a quale delle quattro classi di immobilizzazioni dell’area B.II si riferisce). Opportunamente, nel piano dei conti, sarà dettagliata la scheda contabile relativa alla specifica classe d’immobilizzazione in via di realizzazione. Tale scheda sarà riaperta nell’esercizio successivo. Se al termine di questo la commessa interna sarà conclusa, il conto acceso all’immobilizzazione in corso sarà stornato e, unitamente ai costi capitalizzati nell’esercizio di completamento dell’opera, concorrerà a formare il valore di iscrizione della immobilizzazione, appostata nella prima parte dell’area B.II) “Immobilizzazioni materiali” dell’attivo dello Stato patrimoniale civilistico (distinguendo, dunque, se si tratta di fabbricati, impianti, macchinari, attrezzature o altri beni). Se, invece, la commessa interna si protrae anche oltre la chiusura del secondo esercizio, ai costi ripresi dall’esercizio precedente si aggiungeranno quelli capitalizzati nel nuovo esercizio, questi ultimi portati a rettifica indiretta dei costi di produzione mediante il ripetersi dell’appostamento della voce A.4) “Incrementi di immobilizzazioni per lavori interni” nel Conto economico civilistico. ESEMPIO DI COSTRUZIONE IN ECONOMIA DI DURATA PLURIENNALE La A&D spa procede alla costruzione in economia di un impianto industriale secondo i seguenti dati: -- inizio dei lavori 10/09/X1; -- costi sostenuti in X1: manodopera 22.000,00 euro; materie prime 12.000,00 euro; altri costi diretti 3.000,00; -- costi sostenuti in X2: manodopera 28.000,00 euro; materie prime 4.000,00 euro; altri costi diretti 1.000 euro; -- fine dei lavori 20/04/X2. I riflessi sullo Stato patrimoniale civilistico al 31/12/X1 sono i seguenti: Stato patrimoniale al 31/12/X1 B.II) Immobilizzazioni materiali 5) Immobilizzazioni in corso e acconti 37.000 I riflessi sul Conto economico civilistico dell’esercizio X1 sono i seguenti: Conto economico dell’esercizio X1 A) Valore della produzione 4) Incrementi di immobilizzazioni per lavori interni 73 37.000 I riflessi sullo Stato patrimoniale civilistico (prima delle eventuali scritture di ammortamento) al 31/12/X2 sono i seguenti: Stato patrimoniale al 31/12/X2 B.II) Immobilizzazioni materiali 2) Impianti e macchinari 70.000 I riflessi sul Conto economico (prima delle scritture di assestamento) dell’esercizio X2 sono i seguenti: Conto economico dell’esercizio X2 A) Valore della produzione 4) Incrementi di immobilizzazioni per lavori interni 33.000 CAPITALIZZAZIONE DEGLI ONERI FINANZIARI L’OIC 16 pone le condizioni per la capitalizza- zione degli oneri finanziari ad incremento del costo delle immobilizzazioni materiali. Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 La capitalizzazione degli oneri finanziari secondo l’OIC 16 74 Limiti alla capitalizzazione (§35) La capitalizzazione degli oneri finanziari è ammessa con riguardo ad oneri effettivamente sostenuti, oggettivamente determinabili, entro il limite del valore recuperabile del bene. L’ammontare degli oneri finanziari capitalizzati durante un esercizio non può quindi eccedere l’ammontare degli oneri finanziari, al netto degli eventuali proventi finanziari derivanti dall’investimento temporaneo dei fondi presi a prestito, riferibili alla realizzazione del bene e sostenuti con riferimento allo stesso esercizio. Questo nel presupposto che il fatto di acquisire il bene dall’esterno piuttosto che realizzarlo internamente, non può portare a rappresentare in bilancio medesimi beni per valori significativamente differenti. Calcolo degli interessi (§35) Nella misura in cui i fondi sono presi a prestito specificatamente per finanziare la costruzione di un bene (c.d. finanziamento di scopo), e quindi costituiscono costi direttamente imputabili al bene, l’ammontare degli oneri finanziari capitalizzabili su quel bene deve essere determinato in base agli effettivi oneri finanziari sostenuti per quel finanziamento durante l’esercizio, dedotto ogni provento finanziario derivante dall’investimento temporaneo di quei fondi. Nella misura in cui si renda necessario utilizzare ulteriori fondi presi a prestito genericamente, l’ammontare degli oneri finanziari maturati su tali fondi è capitalizzabile nei limiti della quota attribuibile alle immobilizzazioni in corso di costruzione. Tale ammontare è determinato applicando un tasso di capitalizzazione ai costi sostenuti corrispondente alla media ponderata degli oneri finanziari netti relativi ai finanziamenti in essere durante l’esercizio, diversi dai finanziamenti ottenuti specificatamente allo scopo di acquisire un bene che giustifica una capitalizzazione. Periodo di riferimento (§35) c) Sono capitalizzabili solo gli interessi maturati su beni che richiedono un periodo di costruzione significativo. Per periodo di costruzione si intende il periodo che va dal pagamento ai fornitori di beni e servizi relativi alla immobilizzazione materiale fino al momento in cui essa è pronta per l’uso, incluso il normale tempo di montaggio e messa a punto. In sostanza, l’arco temporale di riferimento, ai fini della capitalizzazione degli oneri finanziari, risulta essere quello strettamente necessario alle attività tecniche volte a rendere il bene utilizzabile. Infatti, se il periodo di costruzione si prolunga a causa di scioperi, inefficienze o altre cause estranee all’attività di costruzione, gli oneri finanziari relativi al maggior tempo non sono capitalizzati, ma sono considerati come costi del periodo in cui vengono sostenuti. La capitalizzazione degli oneri finanziari è sospesa durante i periodi, non brevi, nei quali lo sviluppo del bene è interrotto. Uniformità dei criteri di applicazione (§36) La scelta di capitalizzare gli oneri finanziari è applicata in modo costante nel tempo. Collocazione in bilancio (§33) Gli oneri finanziari sono imputati nella voce C17 “interessi e altri oneri finanziari” del conto economico dell’esercizio in cui maturano. La voce C17 comprende gli interessi capitalizzati che trovano per tale importo contropartita nella voce A4 “incrementi di immobilizzazioni per lavori interni”, in linea con le voci previste dal codice civile e con la previsione di un conto economico per natura disciplinata dal legislatore. Anzitutto, la capitalizzazione si deve riferire a interessi passivi sostenuti per capitali presi a prestito specificamente per l’acquisizione delle immobilizzazioni (il che implica un processo di “isolamento” dei finanziamenti attinti in ragione della loro entità – inferiore, o al più pari, a quella dei costi di acquisizione delle immobilizzazioni materiali – e dei tempi di accen- sione, immediatamente precedenti o senz’altro inclusi nel “periodo di fabbricazione” a cui fa riferimento l’art. 2426 comma 1 n. 1 c.c.). Gli interessi passivi capitalizzabili a incremento del costo delle immobilizzazioni materiali sono solo quelli maturati durante il periodo di costruzione. Tale periodo è compreso tra il momento in cui avvengono le uscite mo- netarie a favore dei fornitori dei beni e servizi che entrano nella realizzazione dei cespiti e il momento in cui l’immobilizzazione è pronta per l’uso (si tratta, in pratica, della durata dell’investimento prima che inizi il potenziale ricupero mediante realizzo indiretto); tale periodo si estende fino a includere la durata delle operazioni di montaggio e di messa a punto (necessarie affinché il fattore possa essere effettivamente utilizzato), sempre che l’arco temporale complessivo – precisa l’OIC – possa considerarsi “normale”. Se scioperi, inefficienze produttive o altre circostanze protraggono la costruzione del bene economico oltre il periodo di tempo che può dirsi normale, gli oneri finanziari relativi ai “tempi supplementari” non possono essere capitalizzati. Specularmente, la capitalizzazione degli oneri finanziari è sospesa durante i periodi, non brevi, nei quali lo sviluppo del bene è interrotto. Se la produzione dell’impianto si svolge a stadi di avanzamento, gli interessi passivi sono capitalizzati in proporzione alle fasi realizzate, distinguendo entità e durata di ciascuno stadio, separatamente dagli altri. L’intervallo di tempo così definito deve es- sere significativo. Ciò non avviene quando si procede all’acquisizione ordinaria dei cespiti, cioè quando il ciclo acquisti è troppo breve perché si possa computare un’aliquota differenziale di fabbisogno finanziario e addensare interessi passivi (di importo rilevante). Nel caso in cui la copertura del fabbisogno finanziario 3 abbia domandato una pluralità di prestiti, contratti a tassi differenti, l’OIC 16 dispone che: • per la porzione di fabbisogno finanziario coperta da “finanziamenti di scopo”, si applichi il tasso d’interesse convenuto4; • per la porzione di fabbisogno finanziario non coperta da prestiti di scopo, si determini convenzionalmente un costo per interessi ottenuto applicando a tale porzione residua il saggio medio ponderato delle fonti generiche. È scomparso nella versione 2014, il vincolo che la versione 2005 (par. D.II.b.4) imponeva al costo di produzione, incrementato di un’aliquota a titolo d’interesse passivo, di non superare, ab origine, il prezzo di mercato (rinviando al complesso meccanismo previsto dall’OIC 9 il controllo sulla recuperabilità economicofinanziaria del valore dell’investimento). ESEMPIO DI CAPITALIZZAZIONE DEGLI ONERI FINANZIARI La A&D spa stipula, in data 10/01/X1, un contratto di appalto con la Azzob spa per la realizzazione di un impianto specifico. Le condizioni contrattuali sono riepilogate di seguito. Data Stato di avanzamento dei lavori Importo 31/01/X1 Anticipo a inizio lavori 120.000 31/03/X1 Avanzamento 80.000 30/09/X1 Avanzamento 400.000 31/12/X1 Consegna, collaudo, messa in opera 200.000 Totale 100% 800.000 Poiché l’OIC 16 fa riferimento a un complesso di finanziamenti, per il quale sussistono fonti diverse a tassi distinti, occorre calcolare il fabbisogno di finanziamento (= costo × velocità di circolazione dell’investimento) come segue. 3“Per determinare la quota di interessi passivi da capitalizzare l’impresa deve innanzitutto determinare la quota di costo di costruzione capitalizzabile. A tal proposito, occorre considerare quali siano gli esborsi finanziari sostenuti dall’impresa acquirente per la realizzazione dell’immobilizzazione nel corso dell’esercizio”. Documento CNDCEC maggio 2015 “OIC 16: Immobilizzazioni materiali”, p. 22. 4“Nello specifico, l’OIC 16 prevede che: gli oneri relativi a finanziamenti specificamente contratti per la costruzione (finanziamenti di scopo) sono da considerarsi «costi di diretta imputazione»; gli oneri inerenti a finanziamenti generici rientrano nella categoria dei costi indiretti imputabili al prodotto per una «quota ragionevole»”, Documento CNDCEC maggio 2015, cit., p. 21. 75 Data 31/01/X1 31/03/X1 30/09/X1 31/12/X1 Totale Importo 120.000 80.000 400.000 200.000 800.000 Mesi 11 9 3 0 Numeri/12 110.000 60.000 100.000 0 270.000 Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 A questo punto occorre fare riferimento alle fonti di finanziamento: -- finanziamento di scopo assunto all’inizio del mese di gennaio a fronte della realizzazione dell’impianto di importo pari a 150.000 euro, con un tasso pari al 5,00%, presso la banca X; -- finanziamento ottenuto all’inizio del mese di gennaio per un importo pari a 100.000 euro con un tasso pari al 6,00%, presso la banca Y; -- finanziamento ottenuto all’inizio del mese di gennaio per un importo pari a 300.000 euro, con un tasso pari al 9,00%, presso la banca Z. Pertanto: -- fino a capienza del finanziamento X, il saggio d’interesse da applicare è pari al 5,00%; -- per la porzione residua, occorre fare riferimento agli altri due prestiti, congiuntamente considerati, cioè al loro saggio medio. Il saggio medio ponderato d’interesse di questi due prestiti è: 76 6,00% × 100.000/400.000 + 9,00% × 300.000/400.000 = 8,25% Le vie di copertura del fabbisogno finanziario e i loro costi sono così determinate: Aliquota di fabbisogno finanziario Prima aliquota Seconda aliquota Totale Importo 150.000 120.000 270.000 Tasso 5,00% 8,25% Interessi 7.500 9.900 17.400 Tenendo conto tanto del costo di produzione (800.000) quanto degli oneri finanziari (17.400), i riflessi sullo Stato patrimoniale civilistico al 31/12/X1 sono i seguenti: Stato patrimoniale al 31/12/X1 B.II) Immobilizzazioni materiali 2) Impianti e macchinari 817.400 I riflessi sul Conto economico civilistico dell’esercizio X1 sono i seguenti: Conto economico dell’esercizio X1 A) Valore della produzione 4) Incrementi di immobilizzazioni per lavori interni RIFLESSI FISCALI La capitalizzazione dei costi per costruzioni in economia (nella latitudine dei componenti inclusi, compresi gli oneri finanziari) assume rilievo a fini IRES. A fini IRES, l’art. 110 comma 1 del TUIR stabilisce che il costo dei beni strumentali materiali per l’esercizio dell’impresa è formato da: 817.400 • il valore al lordo dei fondi ammortamento; • gli oneri accessori di diretta imputazione; • gli interessi passivi iscritti in bilancio ad aumento del costo per effetto di disposizioni di legge. L’art. 110 comma 1 lett. b) del TUIR stabilisce che nel costo di fabbricazione si possono aggiungere con gli stessi criteri anche i costi diversi da quelli direttamente imputabili al prodotto. Se i beni strumen- tali materiali sono ottenuti per produzione interna (e, dunque, si può parlare di costo di fabbricazione), si aggiungono anche gli altri costi indiretti (la norma non specifica quali e con quale driver). L’art. 110 comma 1 lett. b) del TUIR sancisce che per i beni materiali strumentali per l’esercizio dell’impresa si comprendono nel costo gli interessi passivi iscritti in bilancio ad aumento del costo stesso per effetto di disposizioni di legge. Gli interessi passivi entrano nella formazione del costo secondo questi criteri: • si riferiscono alla costruzione in economia dei beni materiali strumentali per l’esercizio dell’impresa; • secondo la classificazione civilistica si tratta di: -- terreni e fabbricati; -- impianti e macchinari; -- attrezzature industriali e commerciali; -- altri beni; • sono iscritti ad aumento del costo di acquisizione di quei beni per effetto di disposizioni di legge; • il costo, maggiorato degli interessi, è il valore originario di iscrizione del bene nello Stato patrimoniale; • per gli interessi sussiste l’obbligo di capitalizzazione a fini fiscali, anche se molti ritengono tale capitalizzazione una facoltà. A contrario, si desume che gli interessi passivi non possono essere compresi nel costo se: • si è in presenza di beni materiali non strumentali (eccezion fatta per gli immobilimerce); • si è in presenza di beni immateriali non strumentali; • gli interessi passivi non sono stati capitalizzati dal redattore del bilancio; • gli interessi passivi inclusi nel costo fiscale sono diversi da quelli capitalizzati dal redattore del bilancio; • gli interessi passivi inclusi nel costo fiscale sono diversi da quelli capitalizzabili secondo le norme di legge (e i principi contabili). Gli interessi passivi che non sono compresi nel costo fiscale dei beni sono attratti alla disciplina dell’art. 96 del TUIR. 77 / Revisione e vigilanza 05 5. Revisione e vigilanza LA VERIFICA DEI CREDITI COMMERCIALI IN FASE DI FINAL Dopo aver trattato le attività che caratterizzano la pianificazione della revisione con riferimento alla voce di bilancio dei crediti commerciali – voce di norma significativa nel mondo delle società industriali e che, pertanto, richiede molta attenzione da parte del revisore – nel presente contributo completiamo l’analisi delle tecniche di revisione applicabili alla voce in esame, andando ad analizzare la fase della “execution”, ossia delle attività che il revisore pone in essere per dare appropriate risposte ai rischi identificati e valutati in sede di pianificazione. Ci occuperemo, dunque, con taglio operativo ed esempi di carte di lavoro, della circolarizzazione dei clienti, dell’analisi e del controllo del fondo svalutazione crediti, dei test di cut-off, dell’analisi delle note credito, nonché del controllo della corretta informativa di bilancio. / Ermando BOZZA * Nel work-flow caratterizzante la revisione contabile di un bilancio di esercizio, il revisore, nella cosiddetta fase di “interim”1, procede a identificare e valutare quali siano i rischi di errori significativi che potrebbero annidarsi nelle singole voci di bilancio e nelle correlate asserzioni al fine di poter pianificare, in modo efficiente ed efficace, le appropriate risposte che possano portare il rischio di revisione ad un livello accettabilmente basso. Nella fase di pianificazione il revisore definisce, tra l’altro, anche 2: • il livello di significatività complessiva, ossia il livello massimo di errore tollerabile sul bilancio nel suo complesso che, seppur presente, non farebbe modificare le decisioni economiche assunte dagli utilizzatori del bilancio; * • il livello di significatività operativa, ossia quel livello, sempre più basso del valore della significatività complessiva, che consenta di ridurre ad un livello accettabilmente basso il rischio che la somma di errori non corretti in bilancio e non individuati superino la significatività complessiva e soprattutto di coniugare il grado di rischio valutato con l’estensione del lavoro da svolgere. Caratteristica della significatività operativa è, infatti, che essa va determinata per voce di bilancio, classe di operazioni e singola asserzione, sulla base dei rischi valutati di errori significativi in modo tale da determinare l’estensione del lavoro del revisore. In altri termini: più basso è il livello della significatività allocata su una voce di bilancio, maggiore dovrà essere l’e- Dottore Commercialista e Revisore Legale 1 Fase tipicamente svolta prima della chiusura dell’esercizio. 2 Per approfondimenti si rinvia a Bozza E. “La determinazione e l’utilizzo della significatività nella revisione”, in questa Rivista, 9, 2015, pp. 100-109. 79 stensione del lavoro necessario per verificare con ragionevole certezza che quella voce non contenga errori significativi. Come vedremo nel prosieguo dell’articolo, la significatività assume un ruolo fondamentale per determinare, ad esempio, quanti clienti selezionare ai fini della circolarizzazione, quanti elementi indagare da un tabulato di ageing, ecc. Il revisore, completate le procedure di valutazione del rischio di revisione, procede alla ste- sura dei programmi dettagliati di revisione che individuano la natura e l’estensione dei controlli da effettuare per giungere ad esprimere un giudizio sulle poste di bilancio in esame 3. Nella cosiddetta fase di “final” il revisore procede, quindi, ad operare i test pianificati per dare appropriate risposte ai rischi identificati e valutati e, all’esito, a formarsi un giudizio circa il corretto trattamento della voce di bilancio analizzata. Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 RISPOSTA AI RISCHI LA FASE DELL’EXECUTION 80 Esecuzione delle procedure di revisione appropriate e sufficienti per dare risposta ai rischi identificati e valutati Svolgimento delle procedure pianificate Valutazione dei risultati conseguiti e degli elementi probativi acquisiti Documentazione dei risultati e delle conclusioni I TEST DI SOSTANZA Come per ogni altra voce di bilancio, anche per i crediti il revisore deve acquisire sufficienti ed appropriati elementi probativi che lo mettano in grado di concludere che, con ragionevole certezza, il bilancio non contenga errori significativi. L’acquisizione degli elementi probativi avviene attraverso lo svolgimento di procedure di revisione che il revisore ritiene idonee per fronteggiare i rischi di revisione individuati. Procedure di revisione che dovranno dare risposte ai vari obiettivi di revisione (asserzioni) e la cui natura ed estensione sono in funzione del grado di rischio valutato. Procediamo, quindi, ad affrontare le principali tecniche di revisione con riguardo alla voce crediti verso clienti che, di prassi, caratterizzano l’attività di revisione. LA COSTRUZIONE DELLE CARTE DI LAVORO La Lead-schedule Il revisore apre la sezione crediti verso clienti con una carta di lavoro denominata “Lead Schedule”. La citata carta di lavoro funge da capo sezione delle successive schede. In tale scheda vengono, infatti, riportati: • i saldi del bilancio d’esercizio oggetto di revisione, così come risultanti dalle voci componenti lo stesso, comparati con quelli dell’esercizio precedente; • le differenze in valore assoluto e percentuale; • i commenti su eventuali elementi di rilievo trovati dal revisore nel corso delle verifiche e le conclusioni a cui è giunto il revisore sulla voce in esame a seguito dell’acquisizione degli elementi probativi. Come è evidente, la carta di lavoro in esame è quella che apre la sezione ma di fatto l’ultima ad essere completata. Infatti solo quando il revisore ha acquisito il saldo di bilancio dell’esercizio corrente e operato le verifiche previste nel piano di revisione sarà in grado di completare la carta di lavoro in esame. Un controllo di cui si dà evidenza nella “Lead-schedule” è la corrispondenza tra i saldi riportati nella stessa con quelli esposti in bilancio. Nella prassi l’evidenza viene data apponendo un tick-mark (ad esempio, 3 Si veda, a tal riguardo, Bozza E. “La pianificazione della revisione dei crediti verso clienti”, in questa Rivista, 11, 2015, pp. 82-100. apponendo la spunta √ = ok con bilancio al 31.12.20XX). Nella sezione commenti della carta di lavoro il revisore evidenzia gli esiti del lavoro comples- sivamente svolto sulla voce di bilancio, e se i crediti commerciali siano o meno correttamente esposti in bilancio in conformità alle norme di legge e ai principi contabili di riferimento. ESEMPIO DI LEAD-SCHEDULE wp C-1 ABC SPA Prep. da: MR gg/mm/aa 31/12/15 Riv. da: AB gg/mm/aa Riv. da: SG gg/mm/aa Lead Crediti Verso Clienti Euro Riferimento al Bilancio C . II . 1 √ √ √ Voci come da Bilancio Saldo 31.12.15 Saldo 31.12.14 Delta Delta % esigibili entro es. succ. 2.047.517,98 1.778.573,00 268.944,98 15% esigibili oltre es. succ. 0,00 0,00 0,00 0% CREDITI VERSO CLIENTI 2.047.517,98 1.778.573,00 268.944,98 15% Ok con Bilancio al 31.12.2015 COMMENTI: Dal lavoro svolto, non sono emersi rilievi significativi. CONCLUSIONI: In base al lavoro svolto i crediti verso clienti sono correttamente esposti in bilancio in conformità alle norme di legge e ai principi contabili di riferimento. Il programma di revisione (Audit program) Nelle carte di lavoro relative ad ogni voce di bilancio viene, abitualmente, inserito il programma dettagliato di lavoro redatto all’esito delle attività di pianificazione. In questo modo il revisore ha immediata evidenza delle attività di controllo da svolgere all’esito della valutazione dei rischi effettuata. Riportare tali informazioni nel programma di revisione appare opportuno, in quanto, consente di motivare al meglio l’approccio di revisione prefissato e di verificarne la coerenza rispetto ai rischi valutati 4. La Sublead schedule Il bilancio di verifica viene ricomposto in schede sommario in forma standard (dette Sublead-schedule) e per ogni voce di bilancio ne vengono ricostruiti, in dettaglio, gli elementi costitutivi. Nella Sublead-schedule vengono inserite note o tick marks che rimandano alle carte di lavoro di dettaglio nel quale è riportato il lavoro svolto dal revisore e gli elementi probativi raccolti con riferimento alle singole voci della Sublead-schedule. Ogni singolo sottoconto è oggetto di verifiche da parte del revisore che sono formalizzate in apposite carte di lavoro, a meno di sottoconti ritenuti assolutamente non significativi per i quali non si effettua alcuna verifica (unverified items). Nella Sublead-schedule sono riportate delle spunte e delle note che danno evidenza dei controlli effettuati. 4 V. l’esempio di programma di revisione contenuto in Bozza E. “La pianificazione della revisione dei crediti verso clienti”, cit., p. 96 ss. 81 wp C-2 ABC SPA 31/12/15 Preparato da Rivisto da: Rivisto da: MR AB SG mm/gg/aa mm/gg/aa mm/gg/aa Delta 330.019,51 614,76 4.352,03 -14.167,68 -107,36 -8.361,68 -43.404,61 268.944,98 Delta % 20% 1% 19% -94% -100% 26% -100% 15% Crediti verso Clienti - Sublead Euro Descrizione CREDITI V/CLIENTI CREDITI IN CONTENZIOSO RICEVUTE BANCARIE IN PORTAFOGLIO/S.B.F. FATTURE DA EMETTERE CLIENTI C/TRANSITORIO F/DO RISCHI SU CREDITI V.CLIENTI NOTE CREDITO DA EMETTERE TOTALE CREDITI VERSO CLIENTI AL 31/12/2014 (1) (2) (1) (2) (3) √ vv Saldo 31.12.14 2.019.468,61 84.494,09 27.206,30 832,33 0,00 -41.078,73 -43.404,61 2.047.517,98 Saldo 31.12.13 1.689.449,10 83.879,33 22.854,28 15.000,00 107,36 -32.717,06 0,00 1.778.573,00 Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 √ Ok con Bilancio CEE al 31.12.2015 vv Ok con saldi di apertura 2015 (1) Saldi oggetto di conferma saldi da parte della controparte. Vedi wp C-4 e C-5 e segg. (2) Vedi lavoro svolto in wp C-40 e segg. (3) Vedi lavoro svolto in wp C-50 e segg. 82 Nell’esempio sopra riportato, la spunta √ apposta dà evidenza del controllo effettuato in termini di corrispondenza dei saldi esposti nella sublead con quelli risultanti dal bilancio. La spunta vv da evidenza dello stesso controllo con riguardo all’esercizio 2014. Le nota (1) apposta in corrispondenza della voce crediti v/clienti e Ricevute bancarie in portafoglio/Sbf, rinvia alle carte di lavoro C-4, C-5 e segg. dove è stato documentato il lavoro svolto sulla voce e dà evidenza che è stata effettuata la circolarizzazione. La nota (2) apposta in corrispondenza del sottoconto Crediti in contenzioso e del fondo svalutazione crediti rinvia alle carte di lavoro C-40 e segg. dove è stato documentato il lavoro svolto sulla valutazione dei crediti con approccio mirato. La nota (3) apposta in corrispondenza del sottoconto Note credito da emettere rinvia alle carte di lavoro C-50 e segg. dove è documentato il lavoro fatto dal revisore con riferimento a tale sottoconto specifico. L’ACCERTAMENTO DELL’ESISTENZA DEI CREDITI Tra i vari controlli da svolgere sulla voce clien- ti il revisore deve necessariamente includere quelli tesi ad accertare l’effettiva esistenza dei crediti iscritti in bilancio. La principale procedura di revisione utilizzata per accertare l’esistenza dei crediti è quella della richiesta di conferma al cliente del saldo risultante dalla contabilità dell’impresa soggetta a revisione. Tale tecnica di revisione è particolarmente qualificata. Come recita, infatti, il principio di revisione ISA (Italia) n. 505 “Conferme esterne”, le informazioni acquisite da una fonte indipendente dall’impresa possono aumentare il livello di sicurezza che il revisore acquisisce dagli elementi probativi presenti nell’ambito delle registrazioni contabili ovvero dalle attestazioni rilasciate dalla direzione aziendale5. La richiesta di informazione che viene, di prassi, inviata ai clienti è di tipo “positivo”. Occorre, in altri termini, che il cliente risponda direttamente al revisore indicando se concorda o meno con il saldo indicato nella lettera di circolarizzazione. In questi casi la mancata o incompleta risposta, come vedremo, non fornisce alcun elemento probativo al revisore il quale dovrà attivarsi con “procedure alternative” per giungere alla conclusione che i crediti, con ragionevole certezza esistono. A tal scopo, il revisore deve acquisire la scheda di sintesi dei crediti verso clienti e procedere 5 Per approfondimenti sul tema della circolarizzazione, vedi Bozza E. “Le circolarizzazioni nella revisione legale dei conti”, in questa Rivista, 12, 2013, pp. 87-106. ad operare il controllo di “quadratura” con i conti di dettaglio. Di norma dal tabulato dei clienti da circolarizzare vengono esclusi i crediti in contenzioso (assoggettati a specifiche procedure) e i crediti intercompany (anch’essi oggetto di specifiche procedure). Dal tabulato dei crediti verso clienti alla data di riferimento del bilancio il revisore dovrà selezionare alcuni di essi per assoggettarli alla procedura di circolarizzazione6. L’estensione del campione è correlata al grado di rischio valutato. La procedura di selezione del campione di clienti può essere operata sia con metodo di campionamento statistico che con metodo di campionamento a giudizio del revisore. Di solito viene preferito il campionamento statistico laddove la popolazione dei clienti è piuttosto numerosa e poco concentrata in termini di saldi. Quando, invece, buona parte del saldo complessivo (70%80%) si concentra in pochi clienti è preferibile selezionare i maggiori clienti ottenendo una copertura soddisfacente dell’intera popolazione. In entrambi i casi descritti assume un ruolo determinante il livello di significatività operativa determinato e il grado di rischio associato all’asserzione dell’esistenza7. Le metodologie di determinazione del livello di significatività operativa e di graduazione dei rischi sono molteplici e dipendono dai manuali operativi adottati dai revisori. ESEMPIO DI SELEZIONE CLIENTI CON IL METODO DI CAMPIONAMENTO STATISTICO Ipotizziamo di avere determinato la significatività operativa in base al 2% dell’ammontare dei ricavi e che il risultato ottenuto sia pari a euro 127.958. Ipotizziamo, altresì, che nella metodologia adottata dal revisore la significatività operativa venga divisa per i seguenti fattori di rischio. Rischio valutato Divisore della significatività operativa Livello di confidenza assicurato ALTO 3,0 95% MEDIO 2,0 86% BASSO 1,1 65% e che il grado di rischio valutato in merito all’asserzione dell’esistenza sia “Basso”. L’intervallo di selezione, volendo applicare un campionamento di tipo statistico, sarà, quindi, pari a: euro 127.958/1,1 = euro 116.325. Il revisore procede ad elaborare su apposito foglio elettronico il campionamento statistico campionando, con l’intervallo di selezione determinato, i clienti a cui inviare richiesta di conferma saldo. Nel foglio elettronico è importante partire da un numero casuale tra zero e l’intervallo di selezione, al fine di attribuire ad ogni cliente una probabilità di essere selezionato. Nell’esempio, di seguito riportato, il numero casuale estratto ammonta a euro 77.123. Partendo da tale importo e sommando man mano i saldi di ogni cliente, si procederà a selezionare quel cliente che porta in positivo la colonna sub-totale. 6 La data di riferimento della circolarizzazione potrebbe, in alcuni casi, essere anticipata rispetto alla data di chiusura dell’esercizio. Tale scelta è opportuna soprattutto laddove sia difficile ottenere le risposte dai clienti in tempo utile. In tali casi è preferibile, infatti, anticipare la data di riferimento della circolarizzazione ed operare successivamente procedure di “roll forward” per estendere gli esiti dei risultati della circolarizzazione dalla data di riferimento a quella di chiusura dell’esercizio. 7 Vedi a tal riguardo op. cit. nota 2. 83 Wp ABC SPA Preparato da 31/12/2015 Rivisto da: MR AB SG Rivisto da: wp C-5 mm/gg/aa mm/gg/aa mm/gg/aa Selezione clienti per circolarizzazione Descrizione Saldo 31.12.15 2,019,468.61 CREDITI V/CLIENTI v Come da Bilancio di verifica al 31 dicembre 2015 Come da bilancio di verifica al 31 dicembre 2014 Saldo 31.12.14 1,689,449.10 w Delta 330,019.51 Delta % 20% 4,352.03 19% 27,206.30 v 22,854.28 w 2,046,674.91 v 1,712,303.37 w RICEVUTE BANCARIE S.B.F. w v Ai fini della circolarizzazione abbiamo tenuto conto dei saldi contabili dei conti "crediti v/ clienti" e ad ogni saldo abbiamo aggiunto il saldo delle RIBA presentate in banca al 31.12.2015 e non ancora scadute. Abbiamo poi effettuato la selezione statistica dei crediti verso clienti, così determinati, tenendo conto del livello della significatività operativa prescelto e del grado di rischio dell'area. Significatività operativa Rischio intrinseco Rischio controllo Rischio individuazione 127,958 Basso (affidamento sulla procedura vendite) Basso Basso Fattore correttivo 1.1 Intervallo di selezione =-CAUSUALE.TRA(0;116.325) 116,325 Numero voci Numero di conto Descrizione Valore Sub-Totale Numero di selezioni Intervallo col. 1 col. 2 col. 3 col. 4 col. 5 col. 6 col. 7 X Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 col. 8 - 77,123 (1) 6 Cliente A 84,728.40 22,189 1 116,325 11 Cliente B 27,796.64 19,715 1 116,325 -96,610 Cliente C 15,944.19 4,911 1 116,325 -111,414 \/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/ Cliente R 123,210.14 107,364 1 116,325 -8,961 17 84 Resto 537 Popolazione 2,046,675 Numero items selezionati 17 -94,136 -7,973 (1) Valore iniziale, selezionato casualmente. Riconciliazione selezione Valore iniziale casuale 77,123.00 1,977,525.00 Numero items x intervallo di selezione (18 x 232.650) Resto finale - 7,973.14 2,046,674.86 2,046,674.86 Popolazione (saldo crediti verso clienti) Differenza (deve essere pari a zero) Nell’esempio proposto il numero di clienti selezionati ammonta a 17. Tale risultato scaturisce dal rapporto tra il saldo complessivo della popolazione dei clienti (euro 2.046.675) e l’intervallo di selezione determinato (euro 116.325). Una volta selezionati i clienti il revisore procede a predisporre le lettere di circolarizzazione che inoltra all’amministratore della società affinché questi le riporti su carta intestata e le sottoscriva. ESEMPIO DI LETTERA DI CIRCOLARIZZAZIONE CLIENTI Carta intestata ABC SPA Spettabile Cliente A Via .............. Città ........... Egregi Signori Ci pregiamo informarVi che alla data del 31 dicembre 2015 il Vostro conto presentava un saldo a nostro credito di Euro 84.728,40, come risulta dall’estratto conto che alleghiamo. In relazione al normale controllo della nostra contabilità, Vi saremo grati se vorrete confermarci direttamente al seguente indirizzo: Dott. AB Via _____ n. __ cap _____ Città _____ se il suddetto saldo corrisponde a quello a Vostra conoscenza, firmando nello spazio sotto indicato. Se non fosse esatto Vi preghiamo di scrivere direttamente ai nostri revisori contabili indicando il diverso saldo a Voi risultante. Vi preghiamo di porre attenzione alla data di conferma. Le operazioni avvenute successivamente a tale data non sono state da noi considerate. Vi preghiamo comunque di elencare la data e l’importo dei pagamenti da Voi effettuati successivamente alla data della conferma. Per evitarVi per quanto possibile il disturbo di tale comunicazione, Vi accludiamo altra copia della presente da ritrasmettere al nostro revisore con l’apposita busta affrancata ed indirizzata, con il Vostro benestare e con le Vostre eventuali osservazioni. Il completamento della verifica da parte del nostro revisore richiede che la risposta pervenga al Dott. AB entro il gg/mm/2016. Ai sensi del DLgs. 196/2003, Vi informiamo che i dati assunti dal revisore, saranno utilizzati esclusivamente ai fini della revisione contabile del nostro bilancio e saranno conservati a cura delle stessa in archivi cartacei ed elettronici nel rispetto delle misure di sicurezza previste dal suddetto decreto. Il conferimento dei dati è necessario per consentire al revisore di verificare la correttezza e la rispondenza dei dati contabili forniti dalla scrivente società. I dati acquisiti possono essere oggetto di comunicazione nei limiti previsti dalle normative vigenti e dai principi di revisione alle seguenti categorie di soggetti: Ispettori della qualità, Autorità giudiziarie, altri revisori. Firmato Il legale rappresentante ABC SPA _________________________ Il revisore annota in apposita carta di lavoro la data di invio delle lettere di conferma ai clienti in modo da avere sotto controllo lo stato delle ricezioni. Laddove necessario, di prassi, si procede ad un secondo invio. 85 ESEMPIO DI CARTA DI LAVORO DI RIEPILOGO DELLE OPERAZIONI DI CIRCOLARIZZAZIONE Circolarizzazioni Clienti Cliente A Cliente B Cliente C Cliente D Cliente E Cliente F Cliente G Cliente H Cliente I Cliente L Cliente M Cliente N Cliente O Cliente P Lettera Ricevuta √ √ √ √ √ √ √ √ √ √ √ √ √ √ Primo Invio ../../2016 ../../2016 ../../2016 ../../2016 ../../2016 ../../2016 ../../2016 ../../2016 ../../2016 ../../2016 ../../2016 ../../2016 ../../2016 ../../2016 Secondo Invio Risposta Ricevuta ../../2016 √ √ ../../2016 √ ../../2016 ../../2016 ../../2016 √ √ ../../2016 √ √ ../../2016 √ √ ../../2016 ../../2016 ../../2016 √ Circolarizzazioni Clienti Cliente Q Cliente R Cliente S Lettera Ricevuta √ √ √ Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 L’UTILIZZO DELLA PEC NELL’AMBITO DEL PROCESSO DI CIRCOLARIZZAZIONE 86 Assirevi, con il documento del novembre 2014 n. 187, ha fornito alcune indicazioni operative per l’uso della PEC nell’ambito della procedura di circolarizzazione. Il documento ritiene senz’altro applicabile tale modalità operativa, ma avverte che i registri conservati dai gestori di posta certificata, pur rappresentando un ausilio circa la rintracciabilità della documentazione non possono in alcun modo sostituire la formazione delle carte di lavoro da parte del revisore ai sensi del principio di revisione ISA Italia 230. L’organizzazione del processo di circolarizzazione dovrà, comunque, tener presente i seguenti passi: • selezione delle controparti da circolarizzare: è una fase sotto l’esclusivo controllo del revisore, per cui, andranno preventivamente definite e comunicate al cliente le controparti a cui inviare la lettera di conferma; • verifica degli indirizzi: gli indirizzi PEC forniti al revisore, se ritenuto necessario, potranno dallo stesso essere verificati8, per quanto attiene l’autenticità e l’accuratezza; • predisposizione delle lettere di conferma: il formato della lettera di conferma potrà essere un formato elettronico non modificabile (ad esempio PDF/A), oppure, sulle richieste di conferma in formato cartaceo, potrà essere apposta la firma autografa del legale rappresentante o del procuratore del cliente, e il documento potrà essere successivamente trasformato nel suddetto formato elettronico non modificabile da al- 8 Si può consultare il sito www.inipec.gov.it. Primo Invio ../../2016 ../../2016 ../../2016 Secondo Invio Risposta Ricevuta ../../2016 √ √ ../../2016 legare ad un messaggio PEC. In alternativa, le richieste di conferma potranno essere firmate anche digitalmente dal legale rappresentante o dal procuratore del cliente e inviate al soggetto da circolarizzare come allegati ad un messaggio PEC; • invio ai soggetti circolarizzati delle richieste di conferma: le lettere di circolarizzazione vanno inviate ai soggetti selezionati sotto forma di allegati a messaggi PEC da parte del revisore. • ricezione delle risposte: le risposte dovranno pervenire direttamente all’indirizzo di PEC segnalato dal revisore nel corpo della lettera di conferma. C’è da segnalare che il principio di revisione ISA Italia 505, con riferimento alle risposte in formato elettronico, alla luce del crescente utilizzo della tecnologia, indica che il revisore debba valutare attentamente la possibilità di convalidare la fonte delle risposte ricevute in formato elettronico (ad esempio, fax o posta elettronica), poiché con tali strumenti può essere difficile ottenere evidenza della provenienza della risposta e della identificazione della persona che l’ha inviata, nonché prevenire il rischio di alterazioni. Nella prassi, quando non si usa la PEC, la risposta ricevuta via fax o posta elettronico deve essere confermata con l’invio dell’originale in forma cartacea. IL CONTROLLO DEGLI ESITI DELLE CIRCOLARIZZAZIONI L’esito delle procedure di circolarizzazione può essere, alternativamente: a. il cliente ha risposto e il saldo concorda; b. il cliente ha risposto e il saldo non concorda; c. il cliente non ha risposto o la risposta non è valida. Nel primo caso il revisore avrà acquisito elementi probativi circa l’esistenza del credito e archivierà la risposta del cliente tra le carte di lavoro della sezione clienti. Nel caso in cui la risposta non concordi, il revisore dovrà chiedere alla società soggetta a revisione di effettuare la riconciliazione dei saldi e all’esito verificare se il saldo esposto in contabilità sia corretto o se, al contrario, il saldo corretto sia quello risultante dalle scritture contabili del cliente circolarizzato. In quest’ultimo caso il revisore chiederà di apportare le dovute correzioni e, in caso di diniego, annoterà l’errore nel foglio “riepilogo errori” (carta di lavoro dove il revisore annota tutti gli errori riscontrati al fine di poter determinare la tipologia di giudizio da emettere). Qualora, invece, il cliente circolarizzato non risponda o se la risposta non è valida (ad esempio, risposta non recante la firma del legale rappresentante della società circolarizzata) il revisore dovrà porre in essere delle “procedure alternative” tese ad accertare l’esistenza del credito, quali: • l’esame dei pagamenti (anche tramite remote banking) ricevuti dall’azienda successivamente alla data di riferimento della conferma: è chiaro che se il pagamento è intervenuto integralmente il revisore può concludere per l’esistenza del credito; • controllo dei crediti sulla base dei documenti relativi alle operazioni che li hanno originati. Ad esempio, partendo dalla registrazione contabile si può risalire ai documenti di riferimento quali contratto, ordine, conferma d’ordine, documento di trasporto, fattura, corrispondenza, e-mail, ecc. È importante sottolineare che per tutti i soggetti circolarizzati bisogna dare risposta in termini di test. Completate le verifiche descritte il revisore procede a riepilogare gli esiti della circolarizzazione in una apposita carta di lavoro. ESEMPIO DI ESITO CIRCOLARIZZAZIONE CLIENTI ABC SPA wp C-4 31-dic-15 Circolarizzazione clienti Prep. da: MR gg/mm/aa Riv. da: AB gg/mm/aa Riv. da: SG gg/mm/aa Euro CIRCOLARIZZAZIONE DEI CLIENTI DATA DI CIRCOLARIZZAZIONE: 31.12.15 Per la selezione dei clienti si rimanda al wp C-5 87 N° CLIENTE It/ Saldo Est Co.Ge. Risposte In accordo Riconciliate Proc. Alternat. Ref. 1 1 Cliente A It 84.728 v 84.728 C-09 2 1 Cliente B It 27.797 v 27.797 C-10 3 1 Cliente C It 15.944 v 15.944 4 1 Cliente D Est 4.487 v 4.487 5 1 Cliente E Est 1.743 v 5.385 6 1 Cliente F It 48.233 v 48.233 C-13 7 1 Cliente G Est 20.114 v 20.114 C-14 8 1 Cliente H Est 57.089 v 57.089 C-15 9 1 Cliente I It 134.311 v 134.311 10 1 Cliente L Est 77.625 v 11 2 Cliente M It 118.342 v 12 2 Cliente N Est 106.528 v 106.528 13 1 Cliente O Est 32.322 v 32.322 14 Cliente P Est 66.894 v 15 Cliente Q It 88.959 16 Cliente R It 123.210 17 Cliente S It 177.917,32 C-11 z z C-16 C-12 77.625 118.342 C-17 z z 66.894 C-18 v 88.959 C-19 v 123.210 C-20 v 177.917 1.186.244 963.539 C-21 77.625 148.722 1.189.886 v Come da partitario clienti al 31 dicembre 2015 - vedi wp C-5-2 z Per le procedure alternative vedi wp C-6 SOMMARIO DEI RISULTATI DELLA CIRCOLARIZZAZIONE: RISPOSTE in accordo riconciliate procedure alternative Totale circolarizzato % 81% 7% 13% 100% Note 15 Cliente Q It 88.959 v 88.959 C-19 16 Cliente R It 123.210 v 123.210 C-20 17 Cliente S It 177.917,32 v 177.917 1.186.244 963.539 C-21 77.625 148.722 1.189.886 v Come da partitario clienti al 31 dicembre 2015 - vedi wp C-5-2 z Per le procedure alternative vedi wp C-6 SOMMARIO DEI RISULTATI DELLA CIRCOLARIZZAZIONE: RISPOSTE in accordo riconciliate procedure alternative Totale circolarizzato % 81% 7% 13% 100% Conclusioni sui risultati della circolarizzazione : La circolarizzazione ha dato esito positivo, con risposte complessive pari al 88%, tra risposte in accordo e risposte riconciliate. Dalle procedure alternative effettuate nel caso di mancata risposta (vedi wp C-6 e segg.) e dall'analisi della riconciliazione dei clienti non in accordo non sono emerse problematiche circa l'esistenza, accuratezza e competenza dei crediti commerciali verso terzi iscritti nel bilancio 2015. Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 per presentare una situazione economica VERIFICA DELLE migliore. OPERAZIONI SUCCESSIVE ALLA CHIUSURA DI BILANCIO L’ACCERTAMENTO DELLA CORRETTA Altra procedura di verifica dell’esistenza dei VALUTAZIONE crediti è quella consistente nella verifica delle 88 operazioni intervenute immediatamente dopo la chiusura dell’esercizio. Il revisore dovrà sottoporre a verifica le operazioni di contabilizzazione dei crediti (eventualmente a campione) registrate successivamente alla chiusura dell’esercizio. In particolare è importante identificare le note credito emesse, le note debito ricevute e gli abbuoni e premi concessi nel periodo che intercorre tra la data di chiusura dell’esercizio ed il completamento delle attività di revisione, al fine di indagare i motivi che hanno negato o ridotto in tutto o in parte il credito iscritto in bilancio. Molte frodi contabili nascono, in periodi di crisi, dall’esigenza di “gonfiare” i ricavi tramite emissione di fatture anticipate o per forniture o prestazioni non effettuate. A volte tale procedura viene utilizzata anche per ottenere anticipi bancari su fatture creando disponibilità finanziarie non giustificate. A tale ultimo scopo è utile indagare la presenza di eventuali conti transitori che sono lo strumento contabile utilizzato per ottenere doppie anticipazioni sulla stessa fattura o doppie emissioni di ricevute bancarie da anticipare in banca. Occorre fare, inoltre, attenzione alle politiche utilizzate dall’azienda in materia di premi a clienti. Potrebbe, infatti, accadere che a fronte di premi maturati nell’esercizio sottoposto a revisione l’azienda decida di postergare il minor ricavo all’esercizio successivo Il conseguimento di tale obiettivo di revisione comporta lo svolgimento di molteplici procedure tese ad accertare aspetti che influenzano la valutazione dei crediti o, meglio, del fondo svalutazione crediti. Un aspetto critico che spesso contraddistingue le PMI è quello di non avere una procedura formalizzata per la determinazione del fondo svalutazione crediti. La prassi invalsa è quella di determinare il fondo svalutazione crediti sulla base della normativa fiscale. In queste circostanze il revisore procede, spesso, con approccio di tipo mirato, a rideterminare l’ammontare del fondo svalutazione crediti. A tale scopo una delle procedure percorribili è quella di indagare: • i crediti in contenzioso; • i crediti scaduti per fascia di anzianità; • i crediti non scaduti (cosiddetti vivi). L’ANALISI DEI CREDITI IN CONTENZIOSO A tale fine, il revisore deve acquisire l’elenco delle pratiche dei crediti in sofferenza dall’azienda, sia se passati al legale, ad agenzie di recupero o meno, con l’indicazione delle svalutazioni effettuate dall’azienda. Il revisore dovrà, quindi, esaminare se la valutazione del presumibile valore di realizzo fatta dall’azienda sia adeguata o meno. Una procedura di revisione fondamentale a tale fine è l’acquisizione diretta dai legali di informazioni sullo stato del contenzioso. ESEMPIO DI LETTERA DA INVIARE AI LEGALI SUI CREDITI IN CONTENZIOSO Carta intestata (Luogo, data) Spettabile Studio legale _______________________ _______________________ Alla c.a. dell’Avvocato ______ PEC: __________________ il nostro revisore legale: Dott. AB Indirizzo _______________ Telefono n. _________ Fax n. _________ e mail _________ PEC: __________________ sta effettuando la revisione del nostro bilancio al 31 dicembre 20XX per cui La preghiamo di fornirgli le seguenti informazioni: 1. un elenco al 31 dicembre 20XX di tutte le controversie e cause in corso, delle controversie intimate o di imminente inizio, di ogni altra passività potenziale e di qualsiasi evento successivo a tale data che sia connesso a quanto detto, dei quali Lei è a conoscenza in virtù di uno specifico incarico professionale conferito dalla Società, ovvero in virtù di informativa fornitaLe ai fini del possibile conferimento di un incarico; 2. la preghiamo di indicare per ogni pratica elencata: - la descrizione della controversia, della situazione attuale e, se relativa a recupero di nostri crediti, la possibilità di recupero del credito. L’evidenziazione delle passività potenziali, ecc., valutando il rischio di soccombenza alla luce della seguente classificazione: rischio probabile, rischio possibile ovvero rischio remoto; - la sua opinione riguardo al presunto esito finale, con la quantificazione dell’eventuale onere per la società (includendo anche le spese processuali, le spese legali, ecc.), nonché l’eventuale coinvolgimento in giudizio di soggetti con i quali la società ha stipulato una polizza assicurativa; 3. l’importo dei Suoi onorari e delle spese maturate a nostro carico per i quali alla data del 31 dicembre 20… non sia stata ancora emessa fattura o altro documento di addebito. Il completamento della verifica da parte del nostro revisore richiede che la Sua risposta pervenga al revisore entro il _____. Ai sensi del d.lgs. 196/2003, Vi informiamo che i dati assunti dal revisore saranno utilizzati esclusivamente ai fini della revisione contabile del nostro bilancio. Società ___________________ Legale rappresentante ___________________ Dall’analisi delle risposte fornite dai legali e dalle altre informazioni reperite il revisore potrà formarsi un giudizio circa la congruità degli stanziamenti a fondo svalutazione crediti operati dall’azienda. 89 Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 90 L’ANALISI DELL’AGEING DEI CREDITI Altro step per la verifica della corretta determinazione del fondo svalutazione crediti e di conseguenza del valore dei crediti esposto in bilancio è quello dell’esame dell’anzianità dei crediti. Di norma il revisore acquisisce un tabulato riportante i crediti per fascia di anzianità, del tipo: • non scaduti; • scaduti da 3, 6, 9 mesi; • scaduti da 1 anno; • scaduti da più di 1 anno; • incassi avvenuti nel corso dell’esercizio successivo. Poiché il tabulato è fornito dalla società, il revisore dovrà operare appositi test, anche a campione, per verificare se lo stesso mostri dati corretti. Tale analisi va effettuata selezionando alcuni clienti e verificando la corretta esposizione del relativo credito nella pertinente fascia di scaduto. È evidente che i crediti scaduti da più tempo hanno una maggiore probabilità di insolvenza ma, in periodi di crisi, è bene porre la dovuta attenzione anche ai crediti non scaduti. Potrebbe, infatti, accadere che l’impresa cliente abbia subito effetti negativi dalla crisi e sia caduta in situazioni di potenziale insolvenza. Il revisore procede, dunque, ad analizzare la congruità del fondo svalutazione crediti stanziato dalla società rispetto all’analisi dello scaduto, utilizzando, magari, come benchmark le perdite storiche subite dalla società nel triennio o quinquennio precedente. L’ANALISI DEI CREDITI VIVI E LA DETERMINAZIONE DELLA RISERVA GENERICA Raramente accade che nelle società, soprattutto di minori dimensioni, si proceda a stimare una quota di inesigibilità che potrebbe essere insita nei crediti non ancora scaduti alla chiusura del bilancio. In realtà, il principio contabile nazionale di riferimento (OIC 15) richiede anche tale tipo di analisi. Ragion per cui il revisore di norma procede a determinare l’eventuale quota di inesigibilità raffrontando le perdite storiche con i crediti e applicando la percentuale scaturente ai crediti vivi alla chiusura di bilancio (non incassati successivamente) o tramite altre tecniche che mettono, ad esempio, a raffronto con le perdite storiche i ricavi al posto dei crediti. L’ACCERTAMENTO DELLA CORRETTA COMPETENZA ECONOMICA DELLE OPERAZIONI CHE HANNO GENERATO I CREDITI (IL TEST DI CUT OFF) Le procedure per accertare il rispetto del principio di competenza economica sono del tutto analoghe a quelle che si applicano per il monitoraggio delle giacenze di magazzino (test di cut off). Il revisore dovrà innanzitutto determinare quale periodo temporale prendere a base per verificare la competenza economica delle vendite. Il periodo da assoggettare a verifica dipende, di norma, dalla tipologia di business aziendale (consegne con tempi lunghi, tipo export) e dalla contrattualistica usata nelle spedizioni o consegne (clausole cosiddette Incoterms: FOB, CIF, Ex Works, ecc.). Definito l’intervallo temporale da prendere a base, il revisore dovrà acquisire: • i documenti di trasporto relativi alle merci spedite immediatamente prima e dopo la chiusura dell’esercizio; • le fatture a clienti emesse immediatamente prima e dopo la chiusura dell’esercizio; • le condizioni contrattuali di vendita (rilevabili, tra l’altro, da ordini del cliente e conferma d’ordine). ESEMPIO TEST DI CUT OFF VENDITE ABC SPA wp C-33 31-dic-15 Cut-off vendite 2015 Prep. da: MR Prep. da: AB gg/mm/aa gg/mm/aa Prep. da: SG gg/mm/aa Euro Lavoro svolto: come previsto dal programma di lavoro, abbiamo richiesto alla società il dettaglio delle vendite effettuate nei mesi di novembre e dicembre 2015 (vedi wp C-34) ed abbiamo selezionato le fatture selezionate negli ultimi due mesi dell'esercizio di seguito elencate, con l'obiettivo di verificare la rilevazione delle stesse nel 2015, nel rispetto del principio della competenza. Per i criteri e i metodi di selezione si rinvia a wp C-34. Per le verifiche relative alle registrazioni manuali e/o inusuali ed ai contratti significativi, si rinvia a wp C-35. Fattura Item Importo Documento uscita Controlli Data No Cliente Numero 1 03/11/15 …….. 158.400 …………………… v x Data w …….. 2 08/11/15 …….. 172.300 …………………… v …….. x z …….. 3 09/11/15 …….. 212.400 …………………… …….. v x w …….. 4 09/11/15 …….. …….. …….. …………………… v x w …….. 5 …….. …….. …….. …….. …………………… v x w …….. 6 …….. …….. …….. …….. …………………… v x w …….. 7 …….. …….. …….. …….. …………………… v x w …….. …….. 8 …….. …….. …….. …………………… v x w …….. …….. 9 …….. …….. …….. …………………… v x z …….. …….. 10 …….. …….. …….. …………………… v x w …….. …….. 11 …….. …….. …….. …………………… v x w …….. …….. 12 …….. …….. …….. …………………… v x w …….. …….. 13 …….. …….. …….. …………………… v x w …….. …….. 14 …….. …….. …….. …………………… v x z …….. …….. v Vista fattura di vendita, in linea con la registrazione contabile selezionata. x Verificato documento uscita merce. La vendita risulta di competenza 2015. w Vista conferma d'ordine. Niente da rilevare, la vendita risulta rilevata per competenza. Visto il contratto con il cliente. La vendita risulta rilevata per competenza, dalla lettura del contratto non z sono emerse condizioni o clausole anomale. Commenti e conclusioni: dalle verifiche effettuate non sono emersi rilievi o anomalie. Le vendite risultano rilevate in bilancio nel rispetto del principio della competenza. ANALISI DELLE NOTE DI CREDITO EMESSE E DELLE NOTE DI DEBITO RICEVUTE NELL’ESERCIZIO SUCCESSIVO Un altro importante controllo che deve effettuare il revisore per accertare la competenza economica dei ricavi è quello di analizzare le note di credito emesse dall’azienda e le note di debito ricevute che fanno riferimento all’esercizio oggetto di revisione. Tale controllo, utile anche per la posta di bilancio delle rimanenze (resi su vendite; premi ecc.), consente al revisore di indagare sui motivi che hanno determinato l’emissione del documento contabile e sul corretto trattamento contabile e di bilancio. Può accadere, soprattutto nei periodi di crisi, che la società, al fine di migliorare i propri risultati e lo standing creditizio, abbia contabilizzato ricavi a fronte di consegne non fatte o per importi superiori a quelli concordati. Potrebbe anche accadere che la società non abbia proceduto a contabilizzare il debito per note credito da emettere a fronte di premi, sconti e abbuoni maturati dai clienti a fronte di ricavi contabilizzati nell’esercizio oggetto di revisione. Ai fini del controllo dell’asserzione della completezza, il revisore procede anche alla verifica dei contratti dai quali possono scaturire premi, abbuoni, ecc., per sincerarsi che le obbligazioni scaturenti siano state riflesse correttamente e in modo completo in contabilità e in bilancio. 91 Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 92 L’ACCERTAMENTO DELLA CORRETTA ESPOSIZIONE IN BILANCIO • l’evidenziazione di vincoli, garanzie, ecc., sui crediti; • l’esistenza di saldi creditori compensati nel saldo totale. Il controllo degli obiettivi di esistenza e corretta valutazione dei crediti di norma consente al revisore di raccogliere adeguati e sufficienti elementi probativi anche per l’obiettivo della corretta esposizione in bilancio, secondo le norme di legge e gli statuiti principi contabili. Alcuni elementi sui quali porre particolare attenzione sono: • la corrispondenza tra la descrizione della voce di bilancio e i crediti in essa iscritti (crediti verso clienti, verso società controllate, collegate, ecc.); L’ACCERTAMENTO DELL’UNIFORMITÀ DEI PRINCIPI CONTABILI La verifica di questo obiettivo di revisione avviene mediante opportuni raffronti tra: • contenuto e classificazione delle voci iscritte tra i crediti; • metodi adottati per la valutazione dei crediti e quindi per la determinazione delle perdite su crediti e dell’accantonamento al fondo svalutazione crediti. / Temi professionali 06 Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 6. Temi professionali 94 DELITTI IN MATERIA DI DOCUMENTI E PAGAMENTO DI IMPOSTE E DISPOSIZIONI COMUNI: LE NOVITÀ DEL DLGS. 158/2015 Dopo aver dato conto nel precedente articolo di come il DLgs. 24.9.2015 n. 158 ha significativamente modificato il sistema dei reati fiscali in tema di dichiarazione, questo intervento illustra la rimodulazione dei delitti in materia di documenti e pagamento di imposte; il nuovo sistema di incentivazione al pagamento, totale o parziale del debito tributario; le circostanze del reato, la prescrizione e la confisca. / Stefano COMELLINI * DELITTI IN MATERIA DI DOCUMENTI E PAGAMENTO DI IMPOSTE I “delitti in materia di documenti e pagamento di imposte” (Titolo II - Capo II del DLgs. 74/2000) sono stati oggetto di revisione per una rimodulazione delle fattispecie di cui agli artt. 10 (“Occultamento o distruzione di documenti contabili”), 10-bis (“Omesso versamento di ritenute dovute o certificate”), 10-ter (“Omesso versamento di IVA”) e 10-quater (“Indebita compensazione”) intervenuta, talora sotto il profilo della rilevanza penale, per l’innalzamento della soglia di punibilità; talora sotto il profilo repressivo, per l’aggravamento della sanzione detentiva. * OCCULTAMENTO O DISTRUZIONE DI DOCUMENTI CONTABILI (ART. 10) L’art. 10 del DLgs. 74/2000 punisce, salvo che il fatto costituisca più grave reato, “chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ovvero di consentire l’evasione a terzi, occulta o distrugge in tutto o in parte le scritture contabili o i documenti di cui è obbligatoria la conservazione, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume di affari”. All’esito della revisione normativa1, la fattispecie ha mantenuto inalterata la struttura dell’illecito – che risale all’art. 4 lett. b) della previgente L. 516/1982 – con una condotta punibile, di tipo commissivo, che consiste ancor oggi nella distruzione o nell’occultamento, totale o parziale, delle scritture e dei documenti obbligatori. Avvocato 1 Relazione illustrativa al DLgs. 158/2015, p. 2: “La circostanza che la legge di delegazione parli di «revisione», e non già di «riforma» o di «riscrittura» del diritto penale tributario, lascia intendere come l’intervento debba comunque muoversi entro le coordi- Sul punto, la Giurisprudenza è costante2 nel ritenere la portata delle distinte condotte di distruzione e occultamento, affermando che, a differenza della “distruzione”, ipotesi di reato istantaneo che si consuma al momento della soppressione della documentazione, l’“occultamento” – quale temporanea o definitiva indisponibilità della documentazione da parte degli organi verificatori – costituisce un reato permanente che si integra nel momento dell’ispezione, ovvero finché ne è consentito il controllo da parte degli organi verificatori, allo spirare dei termini previsti dalle leggi tributarie per l’accertamento dell’ammontare dei redditi o del volume d’affari. Un’isolata, discutibile, pronuncia della Suprema Corte ha ricondotto alla fattispecie in esame anche il mero rifiuto di esibizione3. Non vi rientra, invece, la mancata tenuta delle scritture contabili obbligatorie che è sanzionata, in via meramente amministrativa, dall’art. 9 del DLgs. 471/1997, come modificato dallo stesso DLgs. 158/20154. La legge di revisione si è limitata ad un innalzamento della pena, ora da un anno e sei mesi fino a sei anni di reclusione. La natura permanente del reato di “occultamento” comporterà l’applicazione della più gravosa sanzionabilità per tutte quelle condotte in corso all’entrata in vigore della revisione. OMESSO VERSAMENTO DI RITENUTE DOVUTE O CERTIFICATE (ART. 10-BIS) L’intervento sull’art. 10-bis del DLgs. 74/2000 ha riguardato, da un lato, l’oggetto della condotta punibile che ora concerne l’omesso versamento – oltre che delle ritenute certificate ai sostituiti – anche di quelle dovute sulla base della dichiarazione annuale del sostituto; dall’altro, l’innalzamento della soglia di punibilità da cinquantamila a centocinquantamila euro per ciascun periodo di imposta. La modifica della fattispecie – ripresa anche nella rubrica dell’articolo – deriva, come è stato correttamente evidenziato 5, dal contrasto creatosi all’interno della giurisprudenza di legittimità in ordine alla prova dell’elemento costitutivo del reato. Si era, infatti, affermato6 che, per il reato di omesso versamento di ritenute certificate, spettasse all’accusa l’onere di provare i due elementi costitutivi della fattispecie – effettuazione della ritenuta e successiva emissione della certificazione – senza potersi avvalere del solo contenuto del Modello 770, idoneo a provare il mancato versamento delle ritenute ma non il rilascio delle certificazioni. Tale orientamento si poneva in palese contrasto rispetto a quella consolidata giurisprudenza per la quale la modalità di prova del rilascio delle certificazioni poteva essere liberamente fornita dall’accusa, testimonialmente o anche mediante il solo Modello 770, non rispondendo a criteri logici dichiarare quanto non è stato corrisposto e, per ciò stesso, certificato7. La modifica normativa – con l’estendere la condotta omissiva, oltre che alle ritenute “certificate”, anche a quelle “dovute” – ha inteso risolvere il contrasto giurisprudenziale. Tuttavia, come si è correttamente osservato, l’intervento di revisione della fattispecie potrebbe ravvivare sul punto la questione del ne bis in idem in materia penal-tributaria. Infatti, a fronte dell’illecito penale in esame, vi è la fattispecie tributaria di cui all’art. 13 comma 1 del DLgs. 471/1997 8, ove si prevede nate di fondo del sistema vigente, delineate dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, a cominciare da quelle della preminente focalizzazione della risposta repressiva sul momento dell’«auto-accertamento» del debito di imposta, ossia della dichiarazione”. 2 Da ultimo, Cass. pen. 22.1.2015 n. 2859, in Banca Dati Eutekne. 3 Cass. pen. 28.10.2010 n. 38224, in Banca Dati Eutekne. 4 Cass. pen. 6.7.2015 n. 28581, in Banca Dati Eutekne. 5 Corte di Cassazione, Ufficio del Massimario - Settore penale - Rel. n. III/05/2015 del 28.10.2015, p. 25. 6 Cass. pen. 1.10.2014 n. 40526, in Banca Dati Eutekne. 7 Cass. pen. 11.1.2013 n. 1443, in Banca Dati Eutekne. 8 Come modificato dal DLgs. 158/2015: “Chi non esegue, in tutto o in parte, alle prescritte scadenze, i versamenti in acconto, i versamenti periodici, il versamento di conguaglio o a saldo dell’imposta risultante dalla dichiarazione, detratto in questi casi l’ammontare dei versamenti periodici e in acconto, ancorché non effettuati, è soggetto a sanzione amministrativa pari al trenta 95 Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 96 la sanzione amministrativa per l’omissione dei versamenti dovuti “alle prescritte scadenze”. La materia era già stata valutata in autorevole sede9 con la conclusione di una legittima coesistenza, in termini di progressività, tra le due fattispecie, tributaria e penale, nelle quali – pur a fronte di una identità parziale dei requisiti (erogazione di somme comportanti l’obbligo di effettuazione delle ritenute alla fonte e di versamento delle stesse all’erario con le modalità stabilite) e della condotta (omissione di uno o più dei versamenti mensili dovuti) – si ravvisava una divergenza strutturale dovuta, tra l’altro, al requisito della “certificazione” delle ritenute, richiesto per il solo illecito penale. Tuttavia, la Corte europea dei diritti dell’uomo10, considera violato il principio del divieto di bis in idem, sancito dall’art. 4, Prot. 7, CEDU, qualora imputato in un procedimento penale sia un soggetto già sottoposto, per il medesimo fatto, a un procedimento per l’applicazione di una sanzione che, ancorché formalmente non qualificata come penale dall’ordinamento interno, abbia “natura” di sanzione penale11. D’altronde, il primo comma dell’art. 19 (“Principio di specialità”) del DLgs. 74/2000, lasciato immutato dalla revisione normativa in esame, nel prevedere che se un determinato fatto è idoneo a configurare la violazione di due disposizio- ni che prevedono una sanzione amministrativa ed una penale deve essere applicata quella che presenta caratteri di specialità rispetto all’altra, risponde (in linea con il dictum del legislatore europeo, ma anche dell’art. 649 c.p.p.), alla medesima ratio del principio del ne bis in idem, volendo essa evitare che lo stesso soggetto possa essere sanzionato due volte per lo stesso fatto. Da ultimo, si rilevi che il cospicuo innalzamento della soglia di punibilità – da cinquantamila a centocinquantamila euro – comporterà, in pendenza del procedimento penale, il proscioglimento dell’agente per sopravvenuta irrilevanza penale della condotta 12. OMESSO VERSAMENTO DI IVA (ART. 10-TER) L’art. 10-ter del DLgs. 74/2000 è stato interessato dall’intervento del legislatore delegato, al di là di una diversa formulazione lessicale dovuta allo sganciamento sanzionatorio dalla fattispecie di cui al precedente art. 10-bis, per il solo innalzamento della soglia di punibilità da cinquantamila a duecentocinquantamila euro per ciascun periodo di imposta. Il legislatore delegato ha ritenuto, infatti, sufficienti, al di sotto della soglia, le sanzioni amministrative di cui all’art. 13 del DLgs. 471/199713; “sanzioni che in base al corrente orientamento per cento di ogni importo non versato, anche quando, in seguito alla correzione di errori materiali o di calcolo rilevati in sede di controllo della dichiarazione annuale, risulti una maggiore imposta o una minore eccedenza detraibile. Per i versamenti effettuati con un ritardo non superiore a novanta giorni, la sanzione di cui al primo periodo è ridotta alla metà. Salva l’applicazione dell’articolo 13 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472, per i versamenti effettuati con un ritardo non superiore a quindici giorni, la sanzione di cui al secondo periodo è ulteriormente ridotta a un importo pari a un quindicesimo per ciascun giorno di ritardo”. 9 Cass. pen. SS.UU. 12.9.2013 n. 37425, in Banca Dati Eutekne. 10 Corte Europea dei diritti dell’uomo 4.3.2014 n. 18640/10, Grande Stevens e altri c. Italia, in Banca Dati Eutekne. Sull’importante pronuncia, cfr. Flick G.M., Napoleoni V. “Cumulo tra sanzioni penali e amministrative: doppio binario o binario morto? «Materia penale» giusto processo e ne bis in idem nella sentenza della Corte EDU del 4 marzo 2014 sul market abuse”, www.aic.it, 3, 2014; Desana E. “Procedimento CONSOB e ne bis in idem: respinta l’istanza di rinvio”, Giur. It., 2014, p. 7 ss.; Allena M. “Il caso Grande Stevens c. Italia: le sanzioni Consob alla prova dei principi Cedu”, Giorn. dir. amm., 2014, p. 1053 ss.; Galantini N. “Divieto di bis in idem - Il principio del bis in idem tra doppio processo e doppia sanzione”, Giur. It., 2015, p. 215 ss.; Lavarini B. “Corte europea dei diritti umani e ne bis in idem: la crisi del «doppio binario» sanzionatorio”, Dir. pen. e proc., Speciale CEDU e ordinamento interno, 2014, p. 82 ss. 11 La questione dei rapporti tra doppio binario sanzionatorio e principio del ne bis in idem, riferibile alla concorrenza delle disposizioni penali e tributarie alla luce della giurisprudenza europea, ha ripetutamente occupato la giurisprudenza interna. Si vedano, fra tutte, Cass. pen. 15.1.2015 n. 1782, in Banca Dati Eutekne, in tema di abuso di informazioni privilegiate; Cass. 21.1.2015 n. 950 (manipolazione di mercato), ivi; Trib. Torino 27.10.2014 (omesso versamento di ritenute certificate), ivi; Cass. pen. 20.7.2015 n. 31378, ivi, per cui non viola il divieto di bis in idem la previsione di un doppio binario sanzionatorio per l’omesso versamento di ritenute previdenziali. Da ultimo, Cass. pen. 15.1.2016 n. 1376, di cui dà conto Artusi M.F. “Beni della persona fisica confiscati per reati tributari nell’interesse dell’ente”, Il Quotidiano del Commercialista, www.eutekne.info, 18.1.2016. 12 Ci sia permesso richiamare più ampie argomentazioni sul punto in Comellini S. “Dichiarazioni infedeli, omesse e fraudolente: le novità apportate al sistema penale tributario dal DLgs. 158/2015”, in questa Rivista, 12, 2015, pp. 102-118. 13 Cfr. nota 8. della giurisprudenza di legittimità, si cumulano alla pena prevista dall’articolo 10-ter del decreto legislativo n. 74 del 2000”14. Parimenti, anche qui l’innalzamento della soglia di punibilità – da cinquantamila a duecentocinquantamila euro – comporterà il proscioglimento dell’imputato per sopravvenuta irrilevanza penale della condotta. INDEBITA COMPENSAZIONE (ART. 10-QUATER) Nel testo previgente, la fattispecie di “indebita compensazione” (art. 10-quater) era concepita mediante un doppio rinvio normativo, prevedendosi che la disposizione di cui al precedente art. 10-bis si applicasse, nei limiti di soglia di punibilità ivi previsti, anche a chiunque non versasse le somme dovute, utilizzando in compensazione, ex art. 17 del DLgs. 241/199715, crediti “non spettanti” o “inesistenti”16. Il legislatore delegato, pur mantenendo inalterata la soglia di punibilità (euro cinquantamila), ha riformulato l’art. 10-quater, scomponendo la fattispecie con diverse conseguenze sanzionatorie a seconda che si portino in compensazione crediti “non spettanti” (reclusione da sei mesi a due anni) ovvero crediti “inesistenti” (reclusione da un anno e sei mesi a sei anni). L’attuale diversità delle sanzioni detentive comporta, pertanto, la doverosa analisi delle distinte nozioni di credito “non spettante” e credito “inesistente”, anche con l’ausilio della giurisprudenza formatasi sul testo previgente della disposizione in esame. In particolare, si è precisato che per credito “non spettante” debba intendersi quel credito che, pur certo nella sua esistenza ed esatto ammontare, sia, per qualsiasi ragione normativa, ancora non utilizzabile, ovvero non più utilizzabile, in operazioni di compensazione fra il contribuente e l’erario17. Il credito “inesistente” è, invece, stato riferito al credito del quale non sussistono gli elementi costitutivi e giustificativi18, ivi compreso quello che spetta a soggetto diverso; quello sottoposto a condizione sospensiva, fintanto che questa sia pendente; quello venuto meno per il verificarsi della condizione risolutiva19. Il DLgs. 158/2015 ha inserito la disciplina tributaria dell’utilizzo in compensazione di un credito inesistente all’interno del già esaminato20 art. 13 del DLgs. 471/1997, ove ora (comma 5 u.p.), con un’indicazione ristretta all’ambito oggettivo, si definisce “inesistente” il credito “in relazione al quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo e la cui inesistenza non sia riscontrabile mediante controlli di cui agli articoli 36-bis e 36-ter del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e all’articolo 54-bis del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633”. LE “DISPOSIZIONI COMUNI” Il Titolo III (“Disposizioni comuni”) del D.Lgs 74/2000 è contraddistinto da un’evidente e diffusa prospettazione di favore per le esigenze dell’erario rispetto a quelle meramente repressive e sanzionatorie. Ne scaturisce un impianto normativo per il quale l’estinzione del debito può consentire di evitare la condanna (art. 13) o di diminuire la pena (art. 13-bis), e l’impegno 14 Così la Relazione illustrativa del Governo, p. 9. 15“Norme di semplificazione degli adempimenti dei contribuenti in sede di dichiarazione dei redditi e dell’imposta sul valore aggiunto, nonché di modernizzazione del sistema di gestione delle dichiarazioni”. 16 Per un’analisi generale della compensazione in materia tributaria, si vedano Messina S.M. “La compensazione nel diritto tributario”, Giuffrè, Milano, 2006; Basilavecchia M. “Applicabilità immediata della compensazione tributaria”, Corr. Trib., 2007, p. 40 e ss.; Biondo P. “L’istituto della compensazione in ambito tributario e la presunta indisponibilità dell’obbligazione tributaria”, Rass. trib., 2007, p. 958 e ss.; Girelli G. “La compensazione tributaria”, Giuffrè, Milano, 2010. 17 Cass. pen. 9.9.2015 n. 36393, in Banca Dati Eutekne. 18 Cass. pen. 26.6.2014 n. 3367 (in cui è stato ritenuto penalmente rilevante l’utilizzo nella dichiarazione IVA, di un credito esistente ma detraibile solo nell’anno successivo), in Banca Dati Eutekne, confermata da Cass. n. 36393/2015, cit. 19 Cass. n. 3367/2014, cit. 20 Retro, p. 96. 97 Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 98 ad estinguere il debito può permettere di evitare la confisca (art. 12-bis comma 2). L’incentivazione a condotte resipiscenti passa per un sistema complesso che si può sintetizzare come di seguito. L’estinzione del complessivo debito tributario, a seguito di ravvedimento operoso o di presentazione della dichiarazione omessa entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo, e comunque prima che l’autore del reato abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali, rende non punibili i reati di falsa e omessa dichiarazione di cui agli artt. 4 e 5 DLgs. 74/2000 (art. 13 comma 2). Prima dell’apertura del dibattimento di primo grado, l’integrale estinzione del debito tributario, da un lato, rende non punibili i reati di cui agli artt. 10-bis, 10-ter e 10-quater comma 1 del DLgs. 74/2000 (art. 13 comma 1); dall’altro, comporta un’attenuazione di pena fino alla metà per gli altri reati tributari di cui allo stesso decreto (art. 13-bis comma 1). Qualora le pendenze con l’Amministrazione risultino in fase di estinzione mediante rateizzazione, può richiedere un termine di tre mesi per il pagamento del debito residuo (art. 13 ultimo comma). Prima della pronuncia della sentenza definitiva di condanna, l’integrale estinzione del debito tributario permette di evitare la confisca, mentre la sua parziale estinzione consente di diminuire proporzionalmente il quantum vincolabile; e tali risultati – ex art. 12-bis comma 2 – sono oggi rispettivamente praticabili anche a fronte un “impegno” ad estinguere in tutto o in parte il debito tributario. IL PAGAMENTO DEL DEBITO TRIBUTARIO QUALE CAUSA DI NON PUNIBILITÀ (ART. 13) Uno dei punti qualificanti dell’intervento di revisione è di certo contenuto nel corpo del nuovo art. 13 che ora è rubricato “Causa di non punibilità. Pagamento del debito tributario”. Il pagamento del debito tributario che nel testo previgente costituiva il presupposto di circostanza attenuante della pena diviene ora, se integrale e corredato dall’assolvimento delle sanzioni amministrative e degli interessi, una speciale causa di non punibilità per alcuni reati del DLgs. 74/2000. Si tratta, in primis (art. 13 comma 1), dei reati di cui agli articoli 10-bis (“Omesso versamento di ritenute dovute o certificate”), 10-ter (“Omesso versamento di IVA”) e 10-quater, comma 1, (“Indebita compensazione” per crediti “non spettanti”). La Relazione governativa spiega la causa di non punibilità per tali fattispecie in considerazione della loro particolare natura, concernente inadempimenti di debiti tributari preventivamente e correttamente indicati; così che, a fronte della successiva integrale regolarizzazione nei termini prescritti, è parsa sufficiente la sola sanzione amministrativa. Affinché operi la causa di non punibilità per detti reati è necessario, come supra si è anticipato, che prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari, comprese le sanzioni amministrative e gli interessi, siano stati estinti mediante l’integrale pagamento degli importi dovuti, anche utilizzando le speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie, nonché il ravvedimento operoso. Invece, per i reati di cui agli artt. 4 (“Dichiarazione infedele”) e 5 (“Omessa dichiarazione”), la causa di non punibilità richiede, oltre al pagamento integrale del debito tributario, comprese le sanzioni e gli interessi, che il ravvedimento operoso o la presentazione della dichiarazione omessa, entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo, siano frutto di spontanea resipiscenza; vale a dire, che si realizzino prima che l’autore del reato abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali (art. 13, comma 2). Secondo la nuova formulazione dell’art. 13 del DLgs. 74/2000, il termine prescrizionale è sospeso, qualora venga concesso, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, il termine di tre mesi, eventualmente prorogabile per una sola volta, per il saldo del pagamento, già rateizzato, del debito tributario21. LE CIRCOSTANZE DEL REATO (ART. 13-BIS) Il primo comma del nuovo art. 13-bis DLgs. 74/2000 prevede che l’estinzione del debito tributario intervenuta prima dell’apertura del dibattimento, mediante integrale pagamento degli importi dovuti (anche a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione previste dalle norme tributarie), fuori dai casi in cui integra la causa di non punibilità di cui al precedente art. 13, costituisce una circostanza attenuante ad effetto speciale22 – con riduzione sino alla metà della sanzione edittale – ed esclude l’applicazione delle pene accessorie previste all’art. 12. Il secondo comma conferma il previgente limite all’istituto dell’applicazione della pena su richiesta (art. 444 c.p.p., c.d. “patteggiamento”), condizionandolo al pagamento del debito tributario ovvero al ravvedimento operoso23. La previsione riguarda solo le fattispecie diverse da quelle di cui agli artt. 10-bis, 10ter e 10- quater, per le quali il pagamento complessivo del debito tributario intervenuto prima della dichiarazione di apertura del dibattimento vale già come causa di non punibilità (art. 13 comma 1); nonché per i delitti di dichiarazione infedele ed omessa dichiarazione, quando il ravvedimento interviene spontaneamente, prima della formale conoscenza dell’accertamento o del procedimento (art. 13 comma 2). Non compare più, all’esito della revisione, il divieto per il giudice di tenere conto della diminuzione di pena conseguente all’attenuante del pagamento del debito tributario ai fini della sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria, ex art. 53 L. 24.11.1981 n. 689. LA CIRCOSTANZA AGGRAVANTE DELL’ELABORAZIONE PROFESSIONALE DI MODELLI “SERIALI” DI EVASIONE (ART. 13-BIS COMMA 3) Il legislatore delegato ha introdotto una specifica circostanza aggravante che aumenta della metà le pene stabilite per i reati previsti nel DLgs. n. 74/2000 qualora il reato sia commesso, in concorso con il soggetto agente, da un professionista o da un intermediario finanziario o bancario, nell’esercizio dell’attività di consulenza fiscale svolta attraverso l’elaborazione o la commercializzazione di modelli di evasione fiscale (art. 13-bis comma 3). La questione del concorso del professionista nel reato, tributario ma non solo, del cliente è stata ampiamente considerata in ambito giurisprudenziale. La necessità della consulenza in materia fiscale, derivante dalla crescente complessità normativa e dalla continua necessità di aggiornamento tecnico, costringono il contribuente ad avvalersi dell’opera di un professionista, vuoi per evitare sanzioni, vuoi per contenere, attraverso operazioni lecite, l’importo del contributo da versare. Ne deriva che al consulente potrebbe estendersi, a determinate condizioni, l’eventuale responsabilità penale, quale extraneus nel reato proprio del cliente. La giurisprudenza, formatasi sotto la vigenza della L. 516/1982, aveva più volte affermato che il professionista che si spinge oltre ai suoi doveri deontologici e giunge a consigliare la formazione piuttosto che prestarsi personalmente a costruire mezzi fraudolenti finalizzati ad un abbattimento del reddito imponibile, risponde assieme al contribuente della relativa fattispecie penale. Il contributo del consulente può costituire un apporto materiale qualora consista in un in- 21 Infra, in tema di prescrizione, p. 100 ss. 22 Art. 63 co. 3 u.p. c.p.: “Sono circostanze ad effetto speciale quelle che importano un aumento o una diminuzione della pena superiore ad un terzo”. 23 La Corte Costituzionale (sent. n. 95/2015) ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 13 co. 2-bis del DLgs. 74/2000 nel testo previgente, con riferimento all’applicabilità del “patteggiamento” solo a fronte del pagamento del complessivo debito tributario. 99 Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 100 tervento empirico che agevoli l’esecuzione del reato 24. Nessuna responsabilità può invece essere imputata al professionista che si limita ad illustrare al cliente diverse soluzioni possibili, mettendo in evidenza gli effetti positivi e negativi della scelte affinché il cliente possa autodeterminarsi con consapevolezza. In quest’ultimo caso, in capo al professionista sarebbe semmai configurabile una mera connivenza, intesa come conoscenza del consulente della circostanza che il cliente intende porre in essere un illecito e l’esclusione di responsabilità discende dall’inesistenza in capo al professionista di una posizione di garanzia25, ossia del dovere di impedire un reato. La riflessione sulla fattispecie concorsuale deve riguardare anche la natura dei reati tributari, contraddistinti dal dolo specifico di evasione. Sia la Dottrina che la Giurisprudenza di legittimità ritengono concordemente che ai fini della configurabilità del concorso nei reati tributari (e in generale nei delitti a dolo specifico) è sufficiente che la finalità specifica sia perseguita da almeno uno dei concorrenti. Pertanto, nel caso in cui si dimostri che il cliente abbia agito per un fine di evasione è ininfluente la finalità che ha animato il consulente nella sua condotta agevolativa rilevando esclusivamente che egli fosse cosciente del proprio comportamento e di interagire con la condotta del contribuente. Pertanto, ai fini della configurazione di un concorso è necessario non solo che il professionista contribuisca con la propria condotta, materiale o morale, ad agevolare ma che egli, quale extraneus, abbia la consapevolezza di concorrere in un reato proprio e, di conseguenza, sia consapevole – come non può non essere – della qualifica dell’intraneus. In questo contesto, il legislatore delegato ha previsto una specifica circostanza aggravante ad effetto speciale per il professionista e per l’intermediario finanziario o bancario che concorra nel reato fiscale del cliente. Per “professionista” devono intendersi tutti coloro che siano abilitati a fornire consulenza fiscale: quindi, non solo i dottori commercialisti e gli esperti contabili, ma anche avvocati, notai, ecc.), ed anche a prescindere all’iscrizione o meno in Albi, associazioni o registri. L’individuazione dell’intermediario finanziario o bancario non genera, invece, particolari problematiche. Indeterminata – e in ambito penalistico è pur sempre ragione di criticità – rimane, invece, la nozione di “elaborazione o commercializzazione di modelli di evasione fiscale” su cui neppure la relazione governativa ha inteso soffermarsi demandandone la determinazione all’ambito giurisprudenziale. Si può ipotizzare che il riferimento sia, ad esempio, alla messa a disposizione del cliente di società filtro, missing traders e buffers nell’ambito delle “frodi carosello”, finalizzate all’evasione dell’IVA; ovvero, l’attività di creazione e di offerta al cliente di particolari strutture giuridiche, quali trust, società anonime, ecc., per operazioni simulate o fittizie. LA PRESCRIZIONE (ART. 17) La revisione normativa ha lasciato inalterato il testo dell’art. 17 del DLgs. n. 74/2000, non intervenendo sul regime della prescrizione dei reati tributari, come modificato a seguito del DL 13.8.2011 n. 138 26. Con l’inserimento del comma 1-bis nell’art. 17, il termine di prescrizione dei reati previsti dal DLgs. n. 74/2000 – con l’eccezione delle fattispecie di cui agli artt. 10-bis (“Omesso versamento di ritenute dovute o certificate”), 10-ter (“Omesso versamento IVA”), 10-quater 24 È stato ritenuto, ad esempio che “Ai fini della sussistenza del reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti non è necessario che sia conseguito il risultato di evasione fiscale, ma è sufficiente che esso costituisca lo scopo della falsità; tale scopo sussiste anche quando il contribuente si proponga soltanto di ritardare il pagamento della imposta dovuta e concorre perciò nel reato il commercialista che suggerisca al cliente l’emissione di fatture per operazioni inesistenti e la contemporanea emissione di note di accredito correttive, allo scopo di realizzare una temporanea evasione dell’imposta, differendone artificiosamente i tempi di versamento” (Cass. pen. 8.3.1991, Comm. Trib. Centr., 1991, II, p. 1921). 25 Art. 40 co. 2 c.p.: “Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”. 26 Conv. L. 14.9.2011 n. 148. (“Indebita compensazione”) e 11 (“Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte”) era stato elevato di un terzo rispetto al termine ordinario, passando da sei anni (art. 157 c.p.) ad otto anni, con applicazione ai fatti delittuosi “successivi alla data di entrata in vigore della legge di conversione” (art. 2 comma 36-vicies semel lett. m) e quindi per le sole violazioni penalmente rilevanti poste in essere dal 18 settembre 2011. La giurisprudenza ha avuto modo di precisare che il termine di prescrizione del reato di omessa dichiarazione (art. 5 del DLgs. 74/2000) decorre, non dal giorno in cui l’accertamento del debito di imposta diviene definitivo, ma dal novantunesimo giorno successivo alla scadenza del termine ultimo stabilito dalla legge per la presentazione della dichiarazione annuale27. Per quanto concerne, invece, il reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti (art. 8 del DLgs. 74/2000), la sua natura di reato “istantaneo” (di pericolo o di mera condotta) e il suo perfezionarsi nel momento di emissione della singola fattura, fa sì che ove si abbiano, nel corso del medesimo periodo d’imposta, plurimi episodi, esso si consumi nel momento di emissione dell’ultimo di essi 28. Più articolato il regime prescrizionale riguardo al reato di cui all’art. 10 del DLgs. 74/2000 (“Occultamento o distruzione di documenti contabili”), per il quale la giurisprudenza di legittimità distingue le due condotte ivi contemplate al fine di determinare il momento consumativo del reato e, conseguentemente, per l’individuazione del termine iniziale dal quale decorre il relativo termine di prescrizione: per il reato di distruzione, la prescrizione decorre dal momento nel quale i documenti sono distrutti; per il reato di occultamento, essa decorre dal momento in cui tale condotta è accertata dai verificatori, ovvero finché ne è consentito il controllo da parte degli organi verificatori, allo spirare dei termini previsti dalle leggi tributarie per l’accertamento dell’ammontare dei redditi o del volume d’affari29. Il termine prescrizionale subisce interruzione in conseguenza di un atto che segnali il concreto e attuale interesse dello Stato al perseguimento di un illecito penale che si assume commesso. Per il regime ordinario (art. 160 c.p.) si tratta di atti, specificamente individuati30, che manifestano la volontà, da parte dell’autorità giudiziaria, di rompere l’inerzia, posta a fondamento dell’istituto della prescrizione. Pertanto, gli atti interruttivi di cui alla disposizione codicistica in esame possono provenire esclusivamente dagli organi titolari della giurisdizione penale31. In tema di reati tributari, invece, l’art. 17 attribuisce efficacia interruttiva della prescrizione, oltre che agli atti indicati nell’art. 160 c.p., anche al verbale di constatazione redatto dalla Guardia di Finanza e all’atto di accertamento delle relative violazioni redatto dagli Uffici finanziari 32. Così come per gli atti di cui all’art. 160 c.p., la giurisprudenza ha affermato che è sufficiente l’emissione del processo verbale di constatazione, a prescindere dalla circostanza che 27 Cass. pen. 24.4.2015 n. 17120, in Banca Dati Eutekne. 28 Cass. pen. 7.3.2013 n. 10558, in Banca Dati Eutekne, ha ribadito che il termine di prescrizione del delitto di emissione di fatture per operazioni inesistenti inizia a decorrere non dalla emissione di ciascuna fattura, ma dall’ultima emissione. Nello stesso senso, Cass. pen. 11.3.2014 n. 11538. 29 Cass. pen. 7.2.2013 n. 5974, in Banca Dati Eutekne. 30“[1] Il corso della prescrizione è interrotto dalla sentenza di condanna o dal decreto di condanna. [2] Interrompono pure la prescrizione l’ordinanza che applica le misure cautelari personali e quella di convalida del fermo o dell’arresto, l’interrogatorio reso davanti al pubblico ministero o al giudice, l’invito a presentarsi al pubblico ministero per rendere l’interrogatorio, il provvedimento del giudice di fissazione dell’udienza in camera di consiglio per la decisione sulla richiesta di archiviazione, la richiesta di rinvio a giudizio, il decreto di fissazione della udienza preliminare, l’ordinanza che dispone il giudizio abbreviato, il decreto di fissazione della udienza per la decisione sulla richiesta di applicazione della pena, la presentazione o la citazione per il giudizio direttissimo, il decreto che dispone il giudizio immediato, il decreto che dispone il giudizio e il decreto di citazione a giudizio”. 31 Romano M., sub art. 160 c.p., in “Commentario sistematico del codice penale”, a cura di Romano M., Grasso G., Padovani T., vol. III, Giuffrè, Milano, 2011. 32 Cass. pen. 9.1.2014 n. 11977, CED Cassazione, 2014. 101 Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 102 l’atto, pur a natura recettizia per altri fini, sia stato notificato all’interessato o che sia portato a conoscenza dell’autorità giudiziaria. Deve, in altre parole, trattarsi di un’attività nel corso della quale gli Uffici finanziari o la Guardia di finanza prendono cognizione dell’esistenza del reato, in tal modo manifestandosi la persistenza della volontà punitiva dello Stato33. Ne consegue, per la giurisprudenza di legittimità, che non può negarsi validità interruttiva all’accertamento di una determinata ipotesi di reato, per il solo fatto che essa riguardi un soggetto diverso da quello nei cui confronti era stato compilato il processo verbale 34. A seguito dell’atto o degli atti interruttivi, la prescrizione ricomincia a decorrere ma il termine massimo non può superare, nel caso dei reati previsti agli articoli da 2 a 10 del DLgs. 74/2000, gli anni dieci (otto anni più un quarto di tale termine) mentre per le residue fattispecie il termine massimo è di sette anni e sei mesi (sei anni più il detto quarto). Secondo la nuova formulazione dell’art. 13 del DLgs. 74/2000, la prescrizione è, invece, sospesa, qualora venga concesso, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, il termine, ivi previsto, di tre mesi, eventualmente prorogabile per una sola volta, per il saldo del pagamento, già rateizzato, del debito tributario 35. IL SEQUESTRO, LA CONFISCA E LA CUSTODIA DEI BENI (ART. 12-BIS E ART. 18-BIS) La confisca, diretta o per equivalente, del pro- fitto o del prezzo di molti reati contenuti nel DLgs. 74/2000, era prevista, ancor prima dell’intervento di revisione, dall’art. 1 comma 143 della L. 24.12.2007 n. 24436 che estendeva alla materia penal-tributaria l’applicabilità dell’art. 322-ter c.p. (“Confisca”)37. Il combinato disposto delle due norme prevedeva che, a fronte dell’impossibilità di procedere alla confisca diretta del bene costituente prezzo o profitto del reato (ad es., in ipotesi di bene appartenente “a persona estranea” ad esso), si potesse procedere alla confisca di beni, nella disponibilità del reo, per un valore economico corrispondente a tale “prezzo” ovvero, dopo la modifica di cui all’art. 1, comma 75 lett. o) della L. 6.11.2012 n. 190 al “profitto”. La disposizione è stata ora abrogata dal DLgs. n. 158/2015 e l’istituto della confisca inserito, in una più organica collocazione normativa, nel corpus del DLgs. 74/2000, al nuovo art. 12-bis, ove si prevede, da un lato, l’applicabilità ai reati fiscali della confisca obbligatoria, anche per equivalente (primo comma) e, dall’altro, se ne dispone l’inoperatività per la parte che il contribuente s’impegna a versare all’erario (secondo comma). L’istituto ablativo è rimasto inalterato nella struttura, ma è ora applicabile, a differenza della disciplina previgente, a fronte della condanna o dell’applicazione di pena su richiesta (art. 444 c.p.p., c.d. “patteggiamento”), per tutti i reati tributari previsti dal DLgs. 74/2000, quindi anche per la fattispe- 33 Da ultimo, Cass. pen. 11.5.2015 n. 19358, in Banca Dati Eutekne. 34 Cass. n. 19358/2015, cit. 35 Supra, p. 98. 36“Nei casi di cui agli articoli 2, 3, 4, 5, 8, 10-bis, 10-ter, 10-quater e 11 del decreto legislativo 10 marzo 2000 n. 74, si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni di cui all’articolo 322-ter del codice penale”. 37“[1] Nel caso di condanna, o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’art. 444 del codice di procedura penale, per uno dei delitti previsti dagli articoli da 314 a 320, anche se commessi dai soggetti indicati nell’articolo 322-bis, primo comma, è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto. [2] Nel caso di condanna, o di applicazione della pena a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale, per il delitto previsto dall’articolo 321, anche se commesso ai sensi dell’articolo 322-bis, secondo comma, è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a quello di detto profitto e, comunque, non inferiore a quello del denaro o delle altre utilità date o promesse al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio o agli altri soggetti indicati nell’articolo 322-bis, secondo comma. [3] Nei casi di cui ai commi primo e secondo, il giudice, con la sentenza di condanna, determina le somme di denaro o individua i beni assoggettati a confisca in quanto costituenti il profitto o il prezzo del reato ovvero in quanto di valore corrispondente al profitto o al prezzo del reato”. cie di cui all’art. 10, precedentemente non contemplata38. Proprio la conformità alla normativa previgente consente di riprendere i costituti giurisprudenziali che, non senza contrasti, hanno fissato, nella materia penal-tributaria, i necessari requisiti dell’istituto. Per “profitto”, si deve, quindi, richiamare la definizione che l’intende quale “vantaggio economico ricavato in via immediata e diretta dal reato”39. In particolare, il sequestro, sia quello diretto che quello finalizzato alla confisca per equivalente, deve riferirsi all’ammontare dell’imposta evasa, quale vantaggio patrimoniale direttamente derivante dalla condotta illecita e, in quanto tale, riconducibile alla nozione di profitto del reato, costituito dal risparmio economico conseguente alla sottrazione degli importi evasi alla loro destinazione fiscale, nonché al mancato pagamento degli interessi e delle sanzioni dovute in seguito all’accertamento del debito tributario40. Il provvedimento ablatorio sarà poi “per equivalente” quando non sia possibile procedere alla confisca diretta dei beni che presentano un nesso di derivazione qualificata con il reato41. Sul punto, occorre richiamare l’importante arresto giurisprudenziale 42 per cui la confisca del profitto, quando si tratta di denaro o di beni fungibili, non è confisca per equivalente, ma confisca diretta che potrà intervenire su quanto di provenienza illecita sia stato depositato in banca ovvero investito in titoli 43. In altre parole, ai fini della confisca diretta, costituisce “profitto” del reato, non solo la somma che si identifica proprio in quella che è stata acquisita attraverso l’attività criminosa, ma anche l’impiego redditizio del denaro di provenienza delittuosa e i beni in cui questo è stato trasformato. Altro aspetto di particolare rilievo giurisprudenziale deriva dalla considerazione che tra i reati presupposto del DLgs. 8.06.2001 n. 23144, in tema di responsabilità amministrativa degli enti, non sono ricompresi quelli fiscali. Tuttavia, nella pratica giudiziaria questi ultimi vengono presi in considerazione indirettamente, come nel caso di reati transnazionali e di associazione per delinquere. In questi casi, il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente viene operato sui beni della società, in relazione alla possibile responsabilità di questa, appunto ex art. 19 del DLgs. 231/2001. Sull’ammissibilità di tale provvedimento ablatorio quando si procede per reati tributari commessi dal legale rappresentante della persona giuridica, la giurisprudenza di legittimità ha autorevolmente precisato45 che è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di denaro o di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al profitto di reato tributario commesso dagli organi di una persona giuridica, quando tale profitto (o beni direttamente riconducibili al profitto) sia nella disponibilità dell’ente. Il provvedimento di vincolo reale non è, invece, consentito nei confronti della persona giuridica qualora non sia stato reperito il profitto di reato tributario compiuto dai suoi organi, salvo che, la persona giuridica sia un “apparato fittizio”, utilizzato dal reo all’esclusivo fine di farvi confluire i profitti illeciti derivanti dai reati fiscali. 38 Cfr. Delsignore S., sub art. 12-bis, in “La riforma dei reati tributari. Le novità del d.lgs. n. 158/2015”, a cura di Nocerino C., Putinati S., Giappichelli, Torino, 2015, p. 289 ss., ove si avanza che, sul punto, il legislatore delegato abbia ecceduto la delega legislativa che non disponeva in tal senso. 39 Cass. pen. 26.7.2015 n. 31617, in Banca Dati Eutekne. 40 Così, Cass. pen. 23.11.2012 n. 45849, in Banca Dati Eutekne, ripresa da Cass. pen. 15.7.2015 n. 30484, ivi. 41 Cass. pen. 13.1.2016 n. 891, con nota di Artusi M.F. “Nuova soglia di dichiarazione infedele applicabile anche ai processi in corso”, Il Quotidiano del Commercialista, www.eutekne.info, 14.1.2016. 42 Cass. n. 31617/2015, cit. Cfr. anche Cass. pen. SS.UU. 5.3.2014 n. 10561, in Banca Dati Eutekne. 43 D’altronde, “la fungibilità del denaro e la sua funzione di mezzo di pagamento non impone che il sequestro debba necessariamente colpire le medesime specie monetarie illegalmente percepite, bensì la somma corrispondente al loro valore nominale”. Così, Cass. pen. SS.UU. 9.7.2004 n. 29951, in Banca Dati Eutekne. 44“Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300”. 45 Cass. n. 10561/2014, cit. 103 Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 104 Da ultimo, si è affermato come non sia consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti degli organi dell’ente per reati tributari da costoro commessi, qualora sia possibile il vincolo del denaro o di altri beni fungibili, o di beni direttamente riconducibili al profitto di reato tributario compiuto dagli organi della persona giuridica stessa, in capo a questi ultimi o a persona (compresa quella giuridica) non estranea al reato. Per “prezzo”, invece, si intende il compenso dato o promesso al soggetto agente quale corrispettivo per l’esecuzione dell’illecito46. Si è autorevolmente rilevato47 che pare improprio, stante la natura del reato fiscale, il riferimento alla confiscabilità, oltre che del “profitto” anche del “prezzo” dell’illecito. In realtà, pur se riconducibili a ipotesi di gran lunga residuali, non può escludersi che al soggetto che ha occultato o distrutto le scritture contabili (art. 10 del DLgs 74/2000) venga versato un compenso; ovvero che il “prezzo” venga individuato nel quantum corrisposto all’emittente di fatture per operazioni. L’“IMPEGNO A VERSARE” (ART. 12-BIS COMMA 2) Al secondo comma del nuovo art. 12-bis si prevede che “la confisca non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all’erario anche in presenza di sequestro. Nel caso di mancato versamento la confisca è sempre disposta”. La norma si colloca, a tutta evidenza, nel sistema predisposto a tutela della soddisfazione del credito erariale che connota l’intero intervento di revisione: in sostanza, il pagamento del debito tributario conduce alla non punibilità (art. 13) o alla diminuzione della sanzione penale (art. 13-bis), mentre l’“impegno” di estinguerlo permette di evitare, totalmente o parzialmente, la confisca (art. 12-bis). La disposizione recepisce alcuni arresti giuri- sprudenziali, ribaditi anche di recente, per cui “in tema di reati tributari, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, qualora sia stato perfezionato un accordo tra il contribuente e l’Amministrazione finanziaria per la rateizzazione del debito tributario, non può essere mantenuto sull’intero ammontare del profitto derivante dal mancato pagamento dell’imposta evasa, ma deve essere ridotto in misura corrispondente ai ratei versati per effetto della convenzione, poiché, altrimenti, verrebbe a determinarsi una inammissibile duplicazione sanzionatoria, in contrasto con il principio secondo il quale l’ablazione definitiva di un bene non può mai essere superiore al vantaggio economico conseguito dall’azione delittuosa”48. Inoltre, la disposizione si colloca sistematicamente in linea con quanto previsto al citato art. 19 del DLgs. 231/2001, ove, parimenti privilegiandosi la tutela della persona offesa, si esclude la confisca “per la parte che può essere restituita al danneggiato”. Il comma 2 dell’art. 12-bis consente ora di evitare, o limitare, il provvedimento ablatorio anche a fronte, come si è detto, del mero “impegno” nei confronti dell’erario. Tuttavia, la disposizione in esame, dalla formulazione eccessivamente sintetica e su cui la Relazione governativa poco si sofferma, genera molteplici dubbi interpretativi già opportunamente avanzati dai primi commentatori. Il punto di maggiore rilevanza riguarda certamente il significato di “impegno a versare”, di cui non viene data alcuna definizione o indicazione normativa, né vi soccorre la Relazione governativa. Si può tuttavia ritenere, con tranquillante sicurezza, che debba trattarsi, per la rilevanza delle conseguenze processuali, di un vero e proprio accordo formale con l’Amministrazione finanziaria, secondo le specifiche regole e procedure della normativa tributaria49. L’“impegno” deve essere formulato dal sog- 46 Cfr. Cass. pen. SS.UU. 6.10.2009 n. 38691, in Banca Dati Eutekne. 47 Cfr. “Riforma dei reati tributari: le note di indirizzo della Procura di Trento”, 8.10.2015, p. 12. 48 Cass. pen. 20.5.2015 n. 20887. 49 Cfr. “Riforma dei reati tributari: le note di indirizzo della Procura di Trento”, cit., p. 14. Nello stesso senso, Finocchiaro S. “L’impegno a pagare il debito tributario e i suoi effetti su confisca e sequestro. Commento all’art. 12-bis, comma 2, d.lgs. n. 74/2000 (introdotto dal d.lgs. n. 158/2015)”, penalecontemporaneo.it, p. 11. getto contribuente che può essere diverso dalla persona fisica sottoposta al procedimento penale, come nel caso di reato fiscale commesso dall’amministratore di società. Una volta che si sia documentato l’“impegno”, qualora questo sia di pagamento integrale del debito tributario, il giudice si asterrà dal disporre la confisca; altrimenti, il provvedimento ablatorio sarà parziale, per il residuo non considerato dal contribuente. Qualora dopo la sentenza di condanna (o di patteggiamento) l’impegno, totale o parziale, non venga onorato, verrà a evidenza il disposto dell’ultimo periodo della disposizione in esame: “nel caso di mancato versamento la confisca è sempre disposta”. In ipotesi di sentenza non definitiva, il provvedimento potrà essere disposto dal giudice di appello mentre, in caso di giudicato sarà competente il giudice dell’esecuzione ai sensi dell’art. 676 comma 1 c.p.p.50. Tuttavia, il sistema presenta, a fronte della stringatezza testuale, una certa criticità. Si è, infatti, correttamente osservato 51 che l’impegno al pagamento integrale del debito erariale e la successiva inapplicabilità della confisca comporta, altresì, la caducazione del sequestro preventivo finalizzato all’ablazione, con la conseguenza, a fronte della condanna dell’imputato e del suo mancato rispetto dell’obbligo assunto, della possibile vanificazione degli effetti della successiva confisca 52. Altra questione non risolta dal legislatore delegato riguarda l’ipotesi in cui l’imputato intenda avvalersi della causa di non punibilità (art. 13) o della circostanza attenuante conseguente al pagamento del debito tributario (art. 13-bis) pur essendo già stato disposto il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di beni che si vogliono destinare alla soddisfazione del debito tributario. In tal caso, sembra possibile la proposizione di un’istanza di dissequestro, totale o parziale, vincolata al pagamento del debito tributario e corredata dall’impegno formale di cui al secondo comma della disposizione in esame 53. CUSTODIA GIUDIZIALE DEI BENI SEQUESTRATI (ART. 18-BIS) L’art. 18-bis DLgs. n. 74/2000 prevede che “i beni sequestrati nell’ambito dei procedimenti penali relativi ai delitti previsti dal presente decreto e a ogni altro delitto tributario, diversi dal denaro e dalle disponibilità finanziarie, possono essere affidati dall’autorità giudiziaria in custodia giudiziale, agli organi dell’amministrazione finanziaria che ne facciano richiesta per le proprie esigenze operative”. Pur nel silenzio sul punto, si deve ritenere che l’affidamento in custodia debba essere oggetto di provvedimento dell’autorità giudiziaria, emesso dietro specifica e motivata richiesta di organi pubblici, e non impugnabile, in quanto ha l’esclusivo effetto di individuare il soggetto cui è rimesso l’ufficio di custode giudiziario54. CONCLUSIONI Come si è visto, l’intervento riformatore portato dal DLgs. 158/2015, il più incisivo dalla entrata in vigore del DLgs. 74/2000, ha modificato profondamente – oltre a diversi ambiti, estranei alla presente trattazione – la materia penal-tributaria, interessata in passato da opzioni normative spesso tra loro contraddittorie. 50“Il giudice dell’esecuzione è competente a decidere in ordine […] alla confisca o alla restituzione delle cose sequestrate”. Cfr. ampiamente sul punto, Finocchiaro S., cit., p. 13. 51 Finocchiaro S., cit., p. 16. 52 Per evitare tale conseguenza, certamente non voluta dal legislatore, si è proposto (Finocchiaro S., cit., p. 18 ss.) che la disposizione venga interpretata nel senso che “il giudice della condanna dovrebbe comunque disporre la confisca dell’intero profitto delittuoso accertato, esplicitando però contestualmente che essa non produce effetti («non opera») per quella somma che il contribuente si è impegnato a versare”. Nello stesso senso, cfr. “Riforma dei reati tributari: le note di indirizzo della Procura di Trento”, cit., p. 18. 53 Artusi M.F. “Sequestro e confisca problematici nella riforma dei reati tributari”, Il Quotidiano del Commercialista, www. eutekne.info, 31.10.2015, p. 8. 54 Così Cass. pen. 28.2.2013 n. 9727, CED Cassazione, 2013, in materia di reati relativi alle sostanze stupefacenti. 105 Con l’ultima “revisione”, il legislatore ha recuperato una giusta considerazione per il principio di sussidiarietà del diritto penale, riducendo l’ambito di intervento della sanzione punitiva per antonomasia alle sole condotte artificiose, fraudolente e simulatorie, ovvero al di sopra di elevate soglie quantitative, connotate da un particolare disvalore giuridico, oltre che etico e sociale, con effetti insidiosi anche per l’attività di controllo. DLgs. 74/2000 Testo in vigore fino al 21 ottobre 2015 Contestualmente, si è avanzata con decisione un’opzione normativa che potrebbe, peraltro, dimostrarsi sterile in un persistente contesto di difficoltà economica del Paese e, in particolare, dei contribuenti, chiamati questi, per evitare la condanna penale, a corrispondere entro precise deadlines processuali importi che l’innalzamento delle soglie di punibilità ha reso particolarmente cospicui. DLgs. 74/2000 Testo vigente Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 Capo II Delitti in materia di documenti e pagamento di imposte 106 Art. 8. Emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. 1. È punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque, al fine di consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, emette o rilascia fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. 2. Ai fini dell’applicazione della disposizione prevista dal comma 1, l’emissione o il rilascio di più fatture o documenti per operazioni inesistenti nel corso del medesimo periodo di imposta si considera come un solo reato. Art. 8. Emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. 1. È punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque, al fine di consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, emette o rilascia fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. 2. Ai fini dell’applicazione della disposizione prevista dal comma 1, l’emissione o il rilascio di più fatture o documenti per operazioni inesistenti nel corso del medesimo periodo di imposta si considera come un solo reato. Art. 9. Concorso di persone nei casi di emissione o utilizzazione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. 1. In deroga all’art. 110 del codice penale: a) l’emittente di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti e chi concorre con il medesimo non è punibile a titolo di concorso nel reato previsto dall’articolo 2; b) chi si avvale di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti e chi concorre con il medesimo non è punibile a titolo di concorso nel reato previsto dall’articolo 8. Art. 9. Concorso di persone nei casi di emissione o utilizzazione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. 1. In deroga all’art. 110 del codice penale: a) l’emittente di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti e chi concorre con il medesimo non è punibile a titolo di concorso nel reato previsto dall’articolo 2; b) chi si avvale di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti e chi concorre con il medesimo non è punibile a titolo di concorso nel reato previsto dall’articolo 8. Art. 10. Occultamento o distruzione di documenti contabili. 1. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ovvero di consentire l’evasione a terzi, occulta o distrugge in tutto o in parte le scritture contabili o i documenti di cui è obbligatoria la conservazione, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume di affari. Art. 10. Occultamento o distruzione di documenti contabili. 1. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ovvero di consentire l’evasione a terzi, occulta o distrugge in tutto o in parte le scritture contabili o i documenti di cui è obbligatoria la conservazione, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume di affari. Art. 10-bis. Omesso versamento di ritenute certificate. 1. È punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un ammontare superiore a cinquantamila euro per ciascun periodo d’imposta. Art. 10-bis. Omesso versamento di ritenute dovute o certificate. 1. È punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione o risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un ammontare superiore a centocinquantamila euro per ciascun periodo d’imposta. Art. 10-ter. Omesso versamento di IVA. 1. La disposizione di cui all’articolo 10-bis si applica, nei limiti ivi previsti, anche a chiunque non versa l’imposta sul valore aggiunto, dovuta in base alla dichiarazione annuale, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo. Art. 10-ter. Omesso versamento di IVA. 1. È punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo d’imposta successivo, l’imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale, per un ammontare superiore a euro duecentocinquantamila per ciascun periodo d’imposta. Art. 10-quater. Indebita compensazione. 1. La disposizione di cui all’articolo 10-bis si applica, nei limiti ivi previsti, anche a chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, crediti non spettanti o inesistenti. Art. 10-quater. Indebita compensazione. 1. È punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, crediti non spettanti, per un importo annuo superiore a cinquantamila euro. 2. È punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, crediti inesistenti per un importo annuo superiore ai cinquantamila euro. Art. 11. Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte. 1. È punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, al fine di sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi o sul valore aggiunto ovvero di interessi o sanzioni amministrative relativi a dette imposte di ammontare complessivo superiore ad euro cinquantamila, aliena simulatamente o compie altri atti fraudolenti sui propri o su altrui beni idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva. Se l’ammontare delle imposte, sanzioni ed interessi è superiore ad euro duecentomila si applica la reclusione da un anno a sei anni. 2. È punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, al fine di ottenere per sé o per altri un pagamento parziale dei tributi e relativi accessori, indica nella documentazione presentata ai fini della procedura di transazione fiscale elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi per un ammontare complessivo superiore ad euro cinquantamila. Se l’ammontare di cui al periodo precedente è superiore ad euro duecentomila si applica la reclusione da un anno a sei anni. Art. 11. Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte. 1. È punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, al fine di sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi o sul valore aggiunto ovvero di interessi o sanzioni amministrative relativi a dette imposte di ammontare complessivo superiore ad euro cinquantamila, aliena simulatamente o compie altri atti fraudolenti sui propri o su altrui beni idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva. Se l’ammontare delle imposte, sanzioni ed interessi è superiore ad euro duecentomila si applica la reclusione da un anno a sei anni. 2. È punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, al fine di ottenere per sé o per altri un pagamento parziale dei tributi e relativi accessori, indica nella documentazione presentata ai fini della procedura di transazione fiscale elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi per un ammontare complessivo superiore ad euro cinquantamila. Se l’ammontare di cui al periodo precedente è superiore ad euro duecentomila si applica la reclusione da un anno a sei anni. Titolo III DISPOSIZIONI COMUNI Art. 12. Pene accessorie. Art. 12. Pene accessorie. 1. La condanna per taluno dei delitti previsti dal 1. La condanna per taluno dei delitti previsti dal presente decreto importa: presente decreto importa: a) l’interdizione dagli uffici direttivi delle persone a) l’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese per un periodo non giuridiche e delle imprese per un periodo non inferiore a sei mesi e non superiore a tre anni; inferiore a sei mesi e non superiore a tre anni; b) l’incapacità di contrattare con la pubblica b) l’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione per un periodo non inferiore ad amministrazione per un periodo non inferiore ad un anno e non superiore a tre anni; un anno e non superiore a tre anni; c) l’interdizione dalle funzioni di rappresentanza e c) l’interdizione dalle funzioni di rappresentanza e assistenza in materia tributaria per un periodo non assistenza in materia tributaria per un periodo non inferiore ad un anno e non superiore a cinque anni; inferiore ad un anno e non superiore a cinque anni; d) l’interdizione perpetua dall’ufficio di componente d) l’interdizione perpetua dall’ufficio di componente di commissione tributaria; di commissione tributaria; 107 Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 e) la pubblicazione della sentenza a norma dell’articolo 36 del codice penale. 2. La condanna per taluno dei delitti previsti dagli articoli 2, 3, e 8 importa altresì l’interdizione dai pubblici uffici per un periodo non inferiore ad un anno e non superiore a tre anni, salvo che ricorrano le circostanze previste dagli articoli 2, comma 3, e 8, comma 3. 2-bis. Per i delitti previsti dagli articoli da 2 a 10 del presente decreto l’istituto della sospensione condizionale della pena di cui all’articolo 163 del codice penale non trova applicazione nei casi in cui ricorrano congiuntamente le seguenti condizioni: a) l’ammontare dell’imposta evasa sia superiore al 30 per cento del volume d’affari; b) l’ammontare dell’imposta evasa sia superiore a tre milioni di euro. 108 e) la pubblicazione della sentenza a norma dell’articolo 36 del codice penale. 2. La condanna per taluno dei delitti previsti dagli articoli 2, 3, e 8 importa altresì l’interdizione dai pubblici uffici per un periodo non inferiore ad un anno e non superiore a tre anni, salvo che ricorrano le circostanze previste dagli articoli 2, comma 3, e 8, comma 3. 2-bis. Per i delitti previsti dagli articoli da 2 a 10 del presente decreto l’istituto della sospensione condizionale della pena di cui all’articolo 163 del codice penale non trova applicazione nei casi in cui ricorrano congiuntamente le seguenti condizioni: a) l’ammontare dell’imposta evasa sia superiore al 30 per cento del volume d’affari; b) l’ammontare dell’imposta evasa sia superiore a tre milioni di euro. Art. 12-bis. Confisca. 1. Nel caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale per uno dei delitti previsti dal presente decreto, è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto. 2. La confisca non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all’erario anche in presenza di sequestro. Nel caso di mancato versamento la confisca è sempre disposta. Art. 13. Circostanza attenuante. Pagamento del debito tributario. 1. Le pene previste per i delitti di cui al presente decreto sono diminuite fino ad un terzo e non si applicano le pene accessorie indicate nell’articolo 12 se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari relativi ai fatti costitutivi dei delitti medesimi sono stati estinti mediante pagamento, anche a seguito delle speciali procedure conciliative o di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie. 2. A tale fine, il pagamento deve riguardare anche le sanzioni amministrative previste per la violazione delle norme tributarie, sebbene non applicabili all’imputato a norma dell’articolo 19, comma 1. 2-bis. Per i delitti di cui al presente decreto l’applicazione della pena ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale può essere chiesta dalle parti solo qualora ricorra la circostanza attenuante di cui ai commi 1 e 2. 3. Della diminuzione di pena prevista dal comma 1 non si tiene conto ai fini della sostituzione della pena detentiva inflitta con la pena pecuniaria a norma dell’articolo 53 della legge 24 novembre 1981, n. 689. Art. 13. Causa di non punibilità. Pagamento del debito tributario. 1. I reati di cui agli articoli 10-bis, 10-ter e 10-quater, comma 1, non sono punibili se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari, comprese sanzioni amministrative e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, anche a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie, nonché del ravvedimento operoso. 2. I reati di cui agli articoli 4 e 5 non sono punibili se i debiti tributari, comprese sanzioni e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, a seguito del ravvedimento operoso o della presentazione della dichiarazione omessa entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo, sempreché il ravvedimento o la presentazione siano intervenuti prima che l’autore del reato abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali. 3. Qualora, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, il debito tributario sia in fase di estinzione mediante rateizzazione, anche ai fini dell’applicabilità dell’articolo 13-bis, è dato un termine di tre mesi per il pagamento del debito residuo. In tal caso la prescrizione è sospesa. Il Giudice ha facoltà di prorogare tale termine una sola volta per non oltre tre mesi, qualora lo ritenga necessario, ferma restando la sospensione della prescrizione. Art. 13-bis. Circostanze del reato. 1. Fuori dai casi di non punibilità, le pene per i delitti di cui al presente decreto sono diminuite fino alla metà e non si applicano le pene accessorie indicate nell’articolo 12 se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari, comprese sanzioni amministrative e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, anche a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie. 2. Per i delitti di cui al presente decreto l’applicazione della pena ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale può essere chiesta dalle parti solo quando ricorra la circostanza di cui al comma 1, nonché il ravvedimento operoso, fatte salve le ipotesi di cui all’articolo 13, commi 1 e 2. 3. Le pene stabilite per i delitti di cui al titolo II sono aumentate della metà se il reato è commesso dal concorrente nell’esercizio dell’attività di consulenza fiscale svolta da un professionista o da un intermediario finanziario o bancario attraverso l’elaborazione o la commercializzazione di modelli di evasione fiscale. Art. 14. Circostanza attenuante. Riparazione dell’offesa nel caso di estinzione per prescrizione del debito tributario. 1. Se i debiti indicati nell’articolo 13 risultano estinti per prescrizione o per decadenza, l’imputato di taluno dei delitti previsti dal presente decreto può chiedere di essere ammesso a pagare, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, una somma, da lui indicata, a titolo di equa riparazione dell’offesa recata all’interesse pubblico tutelato dalla norma violata. 2. La somma, commisurata alla gravità dell’offesa, non può essere comunque inferiore a quella risultante dal ragguaglio a norma dell’articolo 135 del codice penale della pena minima prevista per il delitto contestato. 3. Il giudice, sentito il pubblico ministero, se ritiene congrua la somma, fissa con ordinanza un termine non superiore a dieci giorni per il pagamento. 4. Se il pagamento è eseguito nel termine, la pena è diminuita fino alla metà e non si applicano le pene accessorie indicate nell’articolo 12. Si osserva la disposizione prevista dal comma 3 dell’articolo 13. 5. Nel caso di assoluzione o di proscioglimento la somma pagata è restituita. Art. 14. Circostanza attenuante. Riparazione dell’offesa nel caso di estinzione per prescrizione del debito tributario. 1. Se i debiti indicati nell’articolo 13 risultano estinti per prescrizione o per decadenza, l’imputato di taluno dei delitti previsti dal presente decreto può chiedere di essere ammesso a pagare, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, una somma, da lui indicata, a titolo di equa riparazione dell’offesa recata all’interesse pubblico tutelato dalla norma violata. 2. La somma, commisurata alla gravità dell’offesa, non può essere comunque inferiore a quella risultante dal ragguaglio a norma dell’articolo 135 del codice penale della pena minima prevista per il delitto contestato. 3. Il giudice, sentito il pubblico ministero, se ritiene congrua la somma, fissa con ordinanza un termine non superiore a dieci giorni per il pagamento. 4. Se il pagamento è eseguito nel termine, la pena è diminuita fino alla metà e non si applicano le pene accessorie indicate nell’articolo 12. Si osserva la disposizione prevista dal comma 3 dell’articolo 13. 5. Nel caso di assoluzione o di proscioglimento la somma pagata è restituita. Art. 15. Violazioni dipendenti da interpretazione delle norme tributarie. 1. Al di fuori dei casi in cui la punibilità è esclusa a norma dell’articolo 47, terzo comma, del codice penale, non danno luogo a fatti punibili ai sensi del presente decreto le violazioni di norme tributarie dipendenti da obiettive condizioni di incertezza sulla loro portata e sul loro ambito di applicazione. Art. 15. Violazioni dipendenti da interpretazione delle norme tributarie. 1. Al di fuori dei casi in cui la punibilità è esclusa a norma dell’articolo 47, terzo comma, del codice penale, non danno luogo a fatti punibili ai sensi del presente decreto le violazioni di norme tributarie dipendenti da obiettive condizioni di incertezza sulla loro portata e sul loro ambito di applicazione. Art. 16. Adeguamento al parere del Comitato per l’applicazione delle norme antielusive. 1. Non dà luogo a fatto punibile a norma del presente decreto la condotta di chi, avvalendosi della procedura stabilita dall’articolo 21, commi 9 e 10, della legge 30 dicembre 1991, n. 413, si è uniformato ai pareri [Articolo abrogato] 109 Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 del Ministero delle finanze o del Comitato consultivo per l’applicazione delle norme antielusive previsti dalle medesime disposizioni, ovvero ha compiuto le operazioni esposte nell’istanza sulla quale si è formato il silenzio-assenso. Art. 17. Interruzione della prescrizione. 1. Il corso della prescrizione per i delitti previsti dal presente decreto è interrotto, oltre che dagli atti indicati nell’articolo 160 del codice penale, dal verbale di constatazione o dall’atto di accertamento delle relative violazioni. 1-bis. I termini di prescrizione per i delitti previsti dagli articoli da 2 a 10 del presente decreto sono elevati di un terzo. Art. 17. Interruzione della prescrizione. 1. Il corso della prescrizione per i delitti previsti dal presente decreto è interrotto, oltre che dagli atti indicati nell’articolo 160 del codice penale, dal verbale di constatazione o dall’atto di accertamento delle relative violazioni. 1-bis. I termini di prescrizione per i delitti previsti dagli articoli da 2 a 10 del presente decreto sono elevati di un terzo. Art. 18. Competenza per territorio. 1. Salvo quanto previsto dai commi 2 e 3, se la competenza per territorio per i delitti previsti dal presente decreto non può essere determinata a norma dell’articolo 8 del codice di procedura penale, è competente il giudice del luogo di accertamento del reato. 2. Per i delitti previsti dal capo I del titolo II il reato si considera consumato nel luogo in cui il contribuente ha il domicilio fiscale. Se il domicilio fiscale è all’estero è competente il giudice del luogo di accertamento del reato. 3. Nel caso previsto dal comma 2 dell’articolo 8, se le fatture o gli altri documenti per operazioni inesistenti sono stati emessi o rilasciati in luoghi rientranti in diversi circondari, è competente il giudice di uno di tali luoghi in cui ha sede l’ufficio del pubblico ministero che ha provveduto per primo a iscrivere la notizia di reato nel registro previsto dall’articolo 335 del codice di procedura penale. Art. 18. Competenza per territorio. 1. Salvo quanto previsto dai commi 2 e 3, se la competenza per territorio per i delitti previsti dal presente decreto non può essere determinata a norma dell’articolo 8 del codice di procedura penale, è competente il giudice del luogo di accertamento del reato. 2. Per i delitti previsti dal capo I del titolo II il reato si considera consumato nel luogo in cui il contribuente ha il domicilio fiscale. Se il domicilio fiscale è all’estero è competente il giudice del luogo di accertamento del reato. 3. Nel caso previsto dal comma 2 dell’articolo 8, se le fatture o gli altri documenti per operazioni inesistenti sono stati emessi o rilasciati in luoghi rientranti in diversi circondari, è competente il giudice di uno di tali luoghi in cui ha sede l’ufficio del pubblico ministero che ha provveduto per primo a iscrivere la notizia di reato nel registro previsto dall’articolo 335 del codice di procedura penale. Art. 18-bis. Custodia giudiziale dei beni sequestrati. 1. I beni sequestrati nell’ambito dei procedimenti penali relativi ai delitti previsti dal presente decreto e a ogni altro delitto tributario, diversi dal denaro e dalle disponibilità finanziarie, possono essere affidati dall’autorità giudiziaria in custodia giudiziale, agli organi dell’amministrazione finanziaria che ne facciano richiesta per le proprie esigenze operative. 2. Restano ferme le disposizioni dell’articolo 61, comma 23, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, e dell’articolo 2 del decretolegge 16 settembre 2008 n. 143, convertito, con modificazioni, dalla legge 13 novembre 2008, n. 181. 110 Titolo IV RAPPORTI CON IL SISTEMA SANZIONATORIO AMMINISTRATIVO E FRA PROCEDIMENTI Art. 19. Principio di specialità. 1. Quando uno stesso fatto è punito da una delle disposizioni del titolo II e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, si applica la disposizione speciale. 2. Permane, in ogni caso, la responsabilità per la sanzione amministrativa dei soggetti indicati nell’articolo 11, comma 1, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472, che non siano persone fisiche concorrenti nel reato. Art. 19. Principio di specialità. 1. Quando uno stesso fatto è punito da una delle disposizioni del titolo II e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, si applica la disposizione speciale. 2. Permane, in ogni caso, la responsabilità per la sanzione amministrativa dei soggetti indicati nell’articolo 11, comma 1, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472, che non siano persone fisiche concorrenti nel reato. Art. 20. Rapporti tra procedimento penale e processo tributario. 1. Il procedimento amministrativo di accertamento ed il processo tributario non possono essere sospesi per la pendenza del procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui accertamento comunque dipende la relativa definizione. Art. 20. Rapporti tra procedimento penale e processo tributario. 1. Il procedimento amministrativo di accertamento ed il processo tributario non possono essere sospesi per la pendenza del procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui accertamento comunque dipende la relativa definizione. Art. 21. Sanzioni amministrative per le violazioni ritenute penalmente rilevanti. 1. L’ufficio competente irroga comunque le sanzioni amministrative relative alle violazioni tributarie fatte oggetto di notizia di reato. 2. Tali sanzioni non sono eseguibili nei confronti dei soggetti diversi da quelli indicati dall’articolo 19, comma 2, salvo che il procedimento penale sia definito con provvedimento di archiviazione o sentenza irrevocabile di assoluzione o di proscioglimento con formula che esclude la rilevanza penale del fatto. In quest’ultimo caso, i termini per la riscossione decorrono dalla data in cui il provvedimento di archiviazione o la sentenza sono comunicati all’ufficio competente; alla comunicazione provvede la cancelleria del giudice che li ha emessi. 3. Nei casi di irrogazione di un’unica sanzione amministrativa per più violazioni tributarie in concorso o continuazione fra loro, a norma dell’articolo 12 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472, alcune delle quali soltanto penalmente rilevanti, la disposizione del comma 2 del presente articolo opera solo per la parte della sanzione eccedente quella che sarebbe stata applicabile in relazione alle violazioni non penalmente rilevanti. Art. 21. Sanzioni amministrative per le violazioni ritenute penalmente rilevanti. 1. L’ufficio competente irroga comunque le sanzioni amministrative relative alle violazioni tributarie fatte oggetto di notizia di reato. 2. Tali sanzioni non sono eseguibili nei confronti dei soggetti diversi da quelli indicati dall’articolo 19, comma 2, salvo che il procedimento penale sia definito con provvedimento di archiviazione o sentenza irrevocabile di assoluzione o di proscioglimento con formula che esclude la rilevanza penale del fatto. In quest’ultimo caso, i termini per la riscossione decorrono dalla data in cui il provvedimento di archiviazione o la sentenza sono comunicati all’ufficio competente; alla comunicazione provvede la cancelleria del giudice che li ha emessi. 3. Nei casi di irrogazione di un’unica sanzione amministrativa per più violazioni tributarie in concorso o continuazione fra loro, a norma dell’articolo 12 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472, alcune delle quali soltanto penalmente rilevanti, la disposizione del comma 2 del presente articolo opera solo per la parte della sanzione eccedente quella che sarebbe stata applicabile in relazione alle violazioni non penalmente rilevanti. 111 / Rassegna di giurisprudenza 07 SOCIETÀ OBBLIGAZIONI & CONTRATTI 7. Rassegna di giurisprudenza / a cura di Christina FERIOZZI / Legittimità DIRITTO SOCIETARIO Fallimento L’estinzione della qualità di imprenditore individuale non è subordinata alle formalità per le società. Può manifestarsi insolvenza anche se l’attivo supera il passivo La disciplina di cui all’art. 2495 c.c., secondo la quale l’iscrizione della cancellazione delle società di capitali e delle cooperative dal Registro delle imprese, avendo natura costitutiva, estingue le società, anche se sopravvivono rapporti giuridici dell’ente, non è estensibile alle vicende estintive della qualità di imprenditore individuale, il quale non si distingue dalla persona fisica che compie l’attività imprenditoriale, sicché l’inizio e la fine della qualità di imprenditore non sono subordinati alla realizzazione di formalità, ma all’effettivo svolgimento o al reale venir meno dell’attività imprenditoriale. Tale diversità di regime esclude anche l’applicabilità, all’accertamento dell’insolvenza dell’imprenditore individuale delle regole enunciate a proposito delle società poste in liquidazione. Lo stato di insolvenza richiesto ai fini della pronunzia dichiarativa del fallimento dell’imprenditore non è escluso dalla circostanza che l’attivo superi il passivo (per le consistenze immobiliari possedute dall’imprenditore individuale) e che non esistano conclamati inadempimenti esteriormente apprezzabili (cfr. Cass. n. 7252/2014). Il significato oggettivo dell’insolvenza, che è quello rilevante agli effetti dell’art. 5 L. Fall., deriva da una valutazione circa le condizioni economiche necessarie (secondo un criterio di normalità) all’esercizio di attività economiche, si identifica con uno stato di impotenza funzionale non transitoria a soddisfare le obbligazioni inerenti all’impresa e si esprime, secondo una tipicità desumibile dai dati dell’esperienza economica, nell’incapacità di produrre beni con margine di redditività da destinare alla copertura delle esigenze di impresa (prima fra tutte l’estinzione dei debiti), nonché nell’impossibilità di ricorrere al credito a condizioni normali, senza rovinose decurtazioni del patrimonio. Il convincimento espresso dal giudice di merito circa la sussistenza dello stato di insolvenza costituisce 113 apprezzamento di fatto, incensurabile in cassazione, ove sorretto da motivazione esauriente e giuridicamente corretta. Cass. 7.1.2016 n. 98 Amministratori Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 Il compenso non può essere approvato implicitamente in sede di bilancio 114 In merito alla determinazione della misura del compenso degli amministratori di società di capitali, ai sensi dell’art. 2389 comma 1 c.c. (nel testo vigente prima delle modifiche, non decisive sul punto, di cui al DLgs. 6/2003), qualora non sia stabilita nello statuto, è necessaria una esplicita delibera assembleare, che non può considerarsi implicita in quella di approvazione del bilancio, attesa la natura imperativa e inderogabile della previsione normativa, discendente dall’essere la disciplina del funzionamento della società dettata, anche, nell’interesse pubblico al regolare svolgimento dell’attività economica, oltre che dalla previsione come delitto della percezione di compensi non previamente deliberati dall’assemblea (art. 2630 comma 2 c.c., abrogato dall’art. 1 del DLgs. 61/2002). Ciò senza dimenticare la distinta previsione della delibera di approvazione del bilancio e di determinazione dei compensi (art. 2364 nn. 1 e 3 c.c.); la mancata liberazione degli amministratori dalla responsabilità di gestione, nel caso di approvazione del bilancio (art. 2434 c.c.) e il diretto contrasto delle delibere tacite ed implicite con le regole di formazione della volontà della società (art. 2393 comma 2 c.c.). Conseguentemente, l’approvazione del bilancio contenente la posta relativa ai compensi degli amministratori non è idonea a configurare la specifica delibera richiesta dall’art. 2389 c.c., salvo che un’assemblea convocata solo per l’approvazione del bilancio, essendo totalitaria, non abbia espressamente discusso e approvato la proposta di determinazione dei compensi degli amministratori (cfr. Cass. n. 20265/2013 e n. 17673/2013). Cass. 4.12.2015 n. 24768 Impresa familiare Gli utili ricavati vanno reimpiegati nell’attività e non redistribuiti tra i partecipanti La partecipazione ad un’impresa familiare, di cui all’art. 230-bis c.c., comporta che la stessa appartiene solo al suo titolare, e ciò anche nel caso in cui alcuni beni aziendali siano di proprietà di uno dei familiari, a differenza dell’impresa collettiva (come quella coltivatrice), la quale appartiene per quote, eguali o diverse, a più persone. Nello schema dell’impresa di cui all’art. 230-bis, gli utili non sono determinati in proporzione alla quota di partecipazione (ma alla quantità e qualità del lavoro prestato) e, in assenza di un patto di distribuzione periodica, non sono naturalmente destinati ad essere ripartiti tra i partecipanti, ma al reimpiego nell’azienda o all’acquisto di beni (v. Cass. n. 5448/2011 e n. 16477/2009). Pertanto, l’esclusione di una società (la quale, secondo Cass. SS.UU. n. 23676/2014, è incompatibile con l’istituto disciplinato dall’art. 230-bis c.c.) implica l’inesistenza di quote e utili da ripartire tra i pretesi soci. Cass. 2.12.2015 n. 24560 OBBLIGAZIONI E CONTRATTI Comunione ereditaria per i crediti La ripartizione di crediti e debiti in materia successoria segue strade diverse I crediti del “de cuius”, a differenza dei debiti, non si ripartiscono tra i coeredi in modo automatico in ragione delle rispettive quote, ma entrano a far parte della comunione ereditaria, essendo la regola della ripartizione automatica dell’art. 752 c.c., prevista solo per i debiti, mentre la diversa disciplina per i crediti risulta dal precedente art. 727 c.c., il quale, stabilendo che le porzioni debbano essere formate comprendendo anche i crediti, presuppone che gli stessi facciano parte della comunione, nonché dal successivo art. 757 c.c., il quale, prevedendo che il coerede al quale siano stati assegnati tutti o l’unico credito, succede nel credito al momento dell’apertura della successione, rivela che i crediti ricadono nella comunione, ed è, inoltre, confermata dall’art. 760 c.c., che escludendo la garanzia per insolvenza del debitore di un credito assegnato a un coerede, necessariamente presuppone che i crediti siano inclusi nella comunione; né, in contrario, può argomentarsi dagli artt. 1295 e 1314 c.c., concernendo il primo la diversa ipotesi del credito solidale tra il “de cuius” ed altri soggetti e il secondo la divisibilità del credito in generale. Conseguentemente, ciascuno dei partecipanti alla comunione ereditaria può agire singolarmente per far valere l’intero credito comune, o la sola parte proporzionale alla quota ereditaria, senza necessità di integrare il contraddittorio nei confronti di tutti gli altri coeredi, ferma la possibilità che il convenuto debitore chieda l’intervento di questi ultimi in presenza dell’interesse all’accertamento nei confronti di tutti della sussistenza o meno del credito. tuzione nell’ipotesi di sopravvenienza di un bisogno, ai sensi dell’art. 1809 comma 2 c.c. deve risultare contraddistinto dai requisiti della urgenza e della non previsione. Ed infatti ai sensi dell’art. 1809 comma 2 c.c., consegue che non solo la necessità di un uso diretto ma anche il sopravvenire d’un imprevisto deterioramento della condizione economica del comodante – che giustifichi la restituzione del bene ai fini della sua vendita o di una redditizia locazione – consente di porre fine al comodato, ancorché la sua destinazione sia quella di casa familiare, ferma, in tal caso, la necessità che il giudice eserciti con massima attenzione il controllo di proporzionalità e adeguatezza nel comparare le particolari esigenze di tutela della prole e il contrapposto bisogno del comodante (Cass. SS.UU. n. 20448/2014). Il contratto di comodato stipulato per esigenze familiari è un contratto a parti soggettivamente complesse e le obbligazioni che sorgono con il contratto sono tante quanti sono i titolari/destinatari degli effetti del contratto. Pertanto, la risoluzione di uno solo dei componenti della parte complessa non può realizzare effetti nei confronti di tutti gli altri. Cass. 1.12.2015 n. 24449 Cass. 3.12.2015 n. 24618 Contratto di comodato Il comodato a tempo indeterminato non può essere revocato ad nutum Ove il comodato di un bene immobile sia stato stipulato senza limiti di durata in favore di un nucleo familiare (nella specie: dal genitore di uno dei coniugi) già formato o in via di formazione, si versa nell’ipotesi del comodato a tempo indeterminato, caratterizzato dalla non prevedibilità del momento in cui la destinazione del bene verrà a cessare. In tal caso, per effetto della concorde volontà delle parti, si è impresso allo stesso un vincolo di destinazione alle esigenze abitative familiari idoneo a conferire all’uso il carattere implicito della durata del rapporto, anche oltre la crisi coniugale e senza possibilità di far dipendere la cessazione del vincolo esclusivamente dalla volontà, ad nutum, del comodante. La facoltà del comodante di chiedere la resti- Contratto di mediazione Il diritto alla provvigione può essere posticipato alla sottoscrizione del contratto definitivo La conclusione dell’affare, quale fonte del diritto del mediatore alla provvigione, coincide con il compimento di un’operazione di contenuto economico risolventesi in un’utilità di carattere patrimoniale e, cioè, di un atto in virtù del quale si costituisca un vincolo che dia diritto di agire per l’adempimento dei patti stipulati o, in mancanza, per il risarcimento del danno. Da ciò deriva che è sufficiente la conclusione di un contratto preliminare a fondare il diritto del mediatore alla provvigione (ex plurimis Cass. n. 4111/2001; Cass. n. 6599/2001). È questo il requisito minimo, essendo nella facoltà delle parti derogare alla disciplina legale e procrastinare l’acquisto del diritto alla provvigione al 115 momento della sottoscrizione del contratto definitivo (Cass. n. 9676/1997). L’indagine diretta a stabilire se le parti siano rimaste nell’ambito delle trattative ovvero abbiano concluso un contratto preliminare è rimessa al giudice di merito, il cui apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione logica, esauriente e non inficiata da violazione di norme di ermeneutica contrattuale (Cass. n. 2924/1996; Cass. n. 7871/1990). Cass. 30.11.2015 n. 24397 Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 Limitazione della responsabilità professionale 116 Il giudice può ritenere applicabile l’esimente per problemi di speciale difficoltà Il giudice può ritenere applicabile l’art. 2236 c.c., che limita la responsabilità del prestatore d’opera intellettuale nel caso di risoluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà (nel caso di specie pur ritenendo sussistente la colpa del professionista si trattava di un’imperizia di grado medio, che non assurgeva al rango di colpa grave, perché la risoluzione del quesito era stata reputata non semplice per un giovane avvocato). L’individuazione della difficoltà della prestazione non deve essere oggetto di eccezione di parte. Ciò in quanto nel nostro ordinamento le eccezioni in senso stretto, cioè quelle rilevabili soltanto ad istanza di parte, si identificano o in quelle per le quali la legge espressamente riservi il potere di rilevazione alla parte o in quelle in cui il fatto integratore dell’eccezione corrisponde all’esercizio di un diritto potestativo azionabile in giudizio da parte del titolare e che, quindi, per svolgere l’efficacia modificativa, impeditiva od estintiva di un rapporto giuridico, suppone il tramite di una manifestazione di volontà della parte (da sola o realizzabile attraverso un accertamento giudiziale). Non può, dunque, ritenersi eccezione in senso stretto, quella relativa alla “speciale difficoltà” della prestazione, con l’ulteriore conseguenza che il giudice ben può accertarne l’esistenza o l’inesistenza in concreto, ex officio, in base alle risultanze ritualmente acquisite. Cass. 22.12.2015 n. 25746 / Merito DIRITTO SOCIETARIO Progetto di bilancio di srl Deposito presso la sede sociale anche con termini ridotti senza ledere il diritto di informazione Il deposito del progetto di bilancio d’esercizio presso la sede della società, quanto meno nell’ambito delle srl, può avvenire, senza il rischio di conseguenze, negli otto giorni precedenti l’assemblea e non nel termine normativamente previsto di quindici giorni. L’art. 2429 comma 3 c.c. deve essere coordinato con le altre disposizioni del codice civile e, in particolare, con quelle che regolano il funzionamento degli organi deliberativi della società ovvero con l’art. 2479-bis comma 1 c.c., secondo cui l’assemblea, in assenza di diverse indicazioni, deve essere “convocata” almeno otto giorni prima della data dell’adunanza senza prevedere una diversa regolamentazione per l’ipotesi in cui l’assemblea sia funzionale all’approvazione del bilancio di esercizio. Dal combinato disposto di tali norme discende che è sufficiente che il progetto di bilancio venga depositato presso la sede sociale negli otto giorni precedenti l’assemblea, dovendosi così ritenere comunque garantito il diritto di informazione del socio. Trib. Latina 18.11.2015 n. 2771 Responsabilità amministratori e sindaci Il ricorso al credito in situazione di crisi comporta negligenza per amministratori e violazione della diligenza per i sindaci L’amministratore che, mascherando la situazio- ne di crisi o di insolvenza della società mediante alterazione dei documenti contabili, faccia ricorso al credito bancario e determini così un aggravamento del passivo patrimoniale, incorre nella responsabilità ex artt. 2392-2394 c.c., in quanto ha attuato una condotta negligente. Parimenti, detto ricorso abusivo al credito da parte degli amministratori è titolo di responsabilità anche per i sindaci ove questi, pur (dovendo essersi) avveduti dell’insostenibilità finanziaria dell’indebitamento verso terzi, omettano di azionare gli strumenti di tutela loro consentiti dall’ordinamento (artt. 2403-bis, 2406 e 2409 c.c.) o quantomeno di sollevare rilievi nelle relazioni ai bilanci d’esercizio, con ciò contravvenendo ai propri doveri di controllo contabile e di gestione (nel caso di specie i sindaci erano temporaneamente rimasti in due, ma a seguito di nomina del nuovo componente, questi ha prontamente azionato la denuncia al tribunale, essendosi avveduto delle irregolarità. Pur non potendo evitare il declino finale della società, a seguito della denuncia scaturisce la condanna agli amministratori, ai quali nel frattempo erano subentrati gli eredi, e dei vecchi membri del Collegio rimasti in carica, fatto salvo il sindaco denunciante). Il danno in tal caso dovrà considerare non solo l’importo complessivo dei finanziamenti ricevuti, ma piuttosto tutte le somme che la società avrebbe dovuto restituire alle banche finanziatrici in termini di spese, commissioni e interessi corrispettivi e di mora. Trib. Milano 25.9.2015 OBBLIGAZIONI E CONTRATTI Professionista Richiesta almeno diligenza media per l’adempimento di obbligazioni di mezzi Le obbligazioni inerenti l’esercizio di un’attività professionale sono, di regola, obbligazioni di mezzi e non di risultato, in quanto il professionista si fa carico non già dell’obbligo di realizzare il risultato (peraltro incerto e aleatorio) che il cliente desidera, bensì di quello di esercitare diligentemente la propria professione, che a quel risultato deve pur sempre essere finalizzata. Pertanto, l’inadempimento del professionista non può essere senz’altro desunto dal mancato raggiungimento del risultato utile avuto di mira dal cliente, ma va valutato alla stregua della violazione dei doveri inerenti lo svolgimento dell’attività professionale e, in particolare, del dovere di diligenza. Quest’ultima, peraltro – trovando applicazione in subiecta materia il parametro della diligenza professionale di cui all’art. 1176 comma 2 c.c., in luogo del criterio generale della diligenza del buon padre di famiglia – va commisurata alla natura dell’attività esercitata, sicché la diligenza che il professionista deve impiegare nello svolgimento dell’attività professionale in favore del cliente è quella media, cioè la diligenza posta nell’esercizio della propria attività dal professionista di preparazione professionale e di attenzione media (cfr. Cass. n. 2466/1995; Cass. n. 3463/1988). La responsabilità del professionista, perciò, può trovare fondamento in una gamma di atteggiamenti soggettivi, che vanno dalla colpa lieve al dolo, a meno che la prestazione professionale da eseguire in concreto involga la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, nel qual caso la responsabilità è attenuata, configurandosi solo nel caso di dolo o colpa grave (secondo l’espresso disposto dell’art. 2236 c.c.), ma non ove nella sua condotta si riscontrino i soli estremi della colpa lieve (cfr. Cass. n. 4152/1995; Cass. n. 8470/1994). In conseguenza dell’inadempimento del professionista, non può trovare accoglimento neanche la domanda riconvenzionale da esso proposta tesa ad ottenere il pagamento di compensi per l’attività professionale risultata malamente espletata. Trib. Lecce 6.11.2015 117 DIRITTO PENALE COMMERCIALE 7. Rassegna di giurisprudenza Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 / a cura di Maurizio MEOLI 118 / Legittimità RESPONSABILITÀ 231 Costituzione nel processo Reati tributari Rappresentante legale e conflitto di interessi Reato associativo transazionale e profitto confiscabile In relazione al sequestro finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti di un ente, a seguito della commissione da parte dei vertici aziendali di un reato associativo transnazionale finalizzato alla realizzazione di frodi fiscali, il profitto può consistere anche nel complesso dei vantaggi direttamente conseguenti dall’insieme dei reati fine. Pertanto, il delitto di associazione per delinquere può essere considerato in sé idoneo a generare un profitto, che è sequestrabile ai fini della successiva confisca per equivalente, in via del tutto autonoma rispetto a quello prodotto dai reati tributari commessi (ad oggi esclusi dal novero dei reati presupposto di cui al DLgs. 231/2001). Cass. pen. 23.11.2015 n. 46162 Il legale rappresentante di una società, indagato o imputato nel medesimo procedimento avverso l’ente, non è legittimato ad esprimere la volontà di quest’ultimo né a nominare il difensore di fiducia per lo stesso, ai sensi di quanto previsto dall’art. 39 del DLgs. 231/2001. Nel caso in cui si riscontri la sussistenza di un tale conflitto di interessi, deve dichiararsi la nullità assoluta di tutti i gradi di giudizio; nullità che può estendersi fino a travolgere l’udienza preliminare e il decreto che ha disposto il rinvio a giudizio dell’ente. Cass. pen. 21.12.2015 n. 50102 PENALE FALLIMENTARE Bancarotta fraudolenta per distrazione Presupposti per il concorso del sindaco In relazione al concorso del sindaco nel rea- to di bancarotta fraudolenta per distrazione dell’amministratore, occorre considerare che le regole ed i principi utilizzabili nell’ambito della responsabilità contrattuale non possono essere automaticamente trasferiti nel campo della responsabilità penale. In tale ultimo contesto, in particolare, occorre che il sindaco abbia dato un contributo giuridicamente rilevante, sotto l’aspetto causale, alla verificazione dell’evento e che abbia avuto la coscienza e la volontà di quel contributo, anche se solo a livello di dolo eventuale (a parte i casi in cui è richiesto l’elemento soggettivo del dolo specifico). Vale a dire che, in campo penale, non basta imputare e provare comportamenti di negligenza o imperizia, anche gravi, del sindaco, ma occorre la prova, anche indiziaria, del fatto che la sua condotta abbia determinato o favorito, consapevolmente, la commissione di fatti di bancarotta da parte dell’amministratore. Si deve, inoltre, considerare, da un lato, che non è necessaria la prova di un preventivo accordo tra amministratore e sindaco, e, dall’altro, che l’inerzia di quest’ultimo, quale sinonimo di omissione, come può essere frutto di mera negligenza, può anche essere animata dal dolo, in tutte le sue possibili graduazioni, ed essa, al pari dell’azione, costituisce una modalità esecutiva di un reato. È reputata, quindi, corretta la decisione di merito nella parte in cui apprezza l’inerzia dell’imputato rispetto alla situazione complessiva e non con riguardo a singole operazioni distrattive. Ciò che viene addebitato al sindaco, cioè, non è il previo concerto con l’amministratore, ma l’inerzia (pluriennale), consapevole e voluta, quale “condizione” degli eventi conseguiti a quelle condotte. Atteggiamento che non può non avere avuto, come effetto, il rafforzamento del proposito criminoso dell’amministratore, rassicurato dalla certezza che non sarebbero state sollevate questioni dal controllore dinanzi ai soggetti legittimati a reagire (gli altri soci, i creditori o il Pubblico Ministero). Il tutto integrando una forma di compartecipazione nel reato rilevante ex art. 110 c.p. Cass. pen. 16.12.2015 n. 49628 Bancarotta fraudolenta patrimoniale Natura di reato di pericolo La condotta sanzionata dall’art. 216 del RD 267/1942 – e, per le società, dal successivo art. 223 comma 1 – non è quella di avere cagionato lo stato di insolvenza o di avere provocato il fallimento, bensì – assai prima – quella di depauperamento dell’impresa, consistente nell’averne destinato le risorse ad impieghi estranei all’attività dell’impresa medesima. La rappresentazione e la volontà dell’agente debbono perciò inerire alla “deminutio patrimonii” (semmai, occorre la consapevolezza che quell’impoverimento dipenda da iniziative non giustificabili con il fisiologico esercizio dell’attività imprenditoriale). Tanto basta per giungere all’affermazione del rilievo penale della condotta, per sanzionare la quale è sì necessario il successivo fallimento, ma non già che questo sia oggetto di rappresentazione e volontà – sia pure in termini di semplice accettazione del rischio di una sua verificazione – da parte dell’autore. È del resto innegabile che ci si trovi dinanzi ad una fattispecie disegnata come reato di pericolo. Anzi, la bancarotta fraudolenta patrimoniale è, più propriamente, reato di pericolo concreto, dove la concretezza del pericolo assume una sua dimensione effettiva soltanto nel momento in cui interviene la dichiarazione di fallimento, condizione peraltro neppure indispensabile per l’esercizio dell’azione penale o per l’adozione di provvedimenti “de libertate”, ai sensi del combinato disposto degli artt. 7 e 238 del RD 267/42. Ecco spiegato perché rimane esente da pena il soggetto che impoverisca una società di risorse enormi, quando questa può comunque continuare a disporne di ben più rilevanti, idonee a fornire garanzia per le possibili pretese creditorie: in quel caso, a differenza dell’ipotesi dell’imprenditore che si renda responsabile di una distrazione modesta (ma a fronte di un patrimonio suscettibile di risentirne significativamente), il pericolo di un pregiudizio per i creditori non avrà assunto la concretezza richiesta dal dato normativo. 119 In sostanza, e in definitiva, l’imprenditore deve considerarsi sempre tenuto ad evitare l’assunzione di condotte tali da esporre a possibile pregiudizio le ragioni dei creditori, non nel senso di doversi astenere da comportamenti che abbiano in sé margini di potenziale perdita economica, ma da quelli che comportino diminuzione patrimoniale senza trovare giustificazione nella fisiologica gestione dell’impresa. Cass. pen. 16.12.2015 n. 49622 PENALE TRIBUTARIO Dichiarazione infedele Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 Effettività del risparmio d’imposta oggetto di sequestro (e confisca) per equivalente 120 Il profitto del reato fiscale, oggetto di sequestro preventivo per equivalente, può consistere in un risparmio di imposta, sempre che sia “effettivo” e non meramente “virtuale”, come finirebbe per essere una perdita minore rispetto a quella dichiarata in mancanza di elementi che consentano di “tradurre” la stessa in un risparmio di imposta per gli anni successivi. Nella specie, in particolare, il Giudice del riesame, nell’annullare il vincolo patrimoniale, aveva rilevato che, a fronte dei costi fittizi, l’infedele dichiarazione contestata avrebbe comportato, al più, la rettifica di una minor perdita. Tuttavia, pur dovendosi riconoscere la conseguente possibilità per il contribuente di un beneficio per gli anni successivi, era in atti del tutto carente ogni risultanza relativa a questi ultimi. Nel condividere l’argomentazione, la Suprema Corte adduce anche la nuova formulazione dell’art. 1 comma 1 lett. f) ultima parte del DLgs. 74/2000, come integrato a seguito della recente revisione del sistema penale tributario (DLgs. 158/2015), per il quale, secondo un’accezione ritenuta già implicita nel testo previgente, “non si considera imposta evasa quella teorica e non effettivamente dovuta collegata ad una rettifica in diminuzione di perdite dell’esercizio o di perdite pregresse spettanti e utilizzabili”. Cass. pen. 6.11.2015 n. 44644 Omesso versamento IVA Elemento soggettivo ed irrilevanza delle ulteriori motivazioni dell’omesso versamento Il reato di cui all’art. 10-ter del DLgs. 74/2000 è una fattispecie a dolo generico e non a dolo specifico, nel senso che l’elemento soggettivo da essa richiesto è la coscienza e volontà di presentare una dichiarazione IVA ed omettere il versamento entro il termine stabilito delle somme in essa indicate, nella consapevolezza che il tributo evaso supera la soglia di punibilità individuata dalla disposizione incriminatrice, a nulla rilevando eventuali ulteriori motivi della scelta dell’agente di non versare il tributo. Cass. pen. 10.11.2015 n. 45033 Indebita compensazione Collocazione della sede legale della società funzionale al riconoscimento di crediti d’imposta Ove una società abbia la sede legale al “sud” dell’Italia (in Sicilia), ma questa sia priva di uffici amministrativi o di dipendenti, nonché di unità produttive, stabilimenti o linee di produzione o reparti, mentre, al contempo, sussista una dichiarazione al Registro delle imprese circa l’esistenza di una sede operativa in centro Italia, dove si ritrovano anche il domicilio e la residenza del rappresentante legale, l’utilizzo dei crediti d’imposta di cui all’art. 1 commi 271 e 279 della L. 296/2006 – discendenti dalla acquisizione di beni strumentali destinati a strutture produttive ubicate, tra l’altro, nell’isola – può determinare l’accusa di indebita compensazione ex art. 10- quater del DLgs. 74/2000 e, per tal via, l’applicazione della misura del sequestro (anche per equivalente) del relativo profitto. Rispetto a ciò non rileva il fatto che la competente Commissione tributaria si sia espressa in senso contrario e, quindi, favorevole al diritto ad usufruire del beneficio fiscale e che i contributi INPS siano stati versati in Sicilia. Da una parte, infatti, non esiste una pregiudiziale di natura tributaria nell’ambito del giudizio penale, dall’al- tra, il versamento dei contributi costituisce “semplicemente” la logica conseguenza della collocazione della sede legale. Cass. pen. 12.11.2015 n. 45279 Omesso versamento di ritenute certificate Condizioni per il riconoscimento della forza maggiore zione per delinquere se alla commissione del reato ha contribuito, in tutto o in parte, un gruppo criminale organizzato, impegnato in attività criminali in più di uno Stato e configurabile anche alla luce delle indicazioni di cui all’art. 2 punti a) e c) della Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato del 15.11.2000 (c.d. “Convenzione di Palermo). Il gruppo criminale organizzato è un qualcosa di diverso rispetto al semplice concorso di persone e si diversifica anche dalla associazione a delinquere, perché può trattarsi di un insieme di persone legate da rapporti stabili che abbia costituito un’organizzazione autonoma e distinta da quella alla quale è riferibile il reato, impegnata in attività illecite in più di uno Stato, anche minimale e priva di una formale definizione di ruoli, sebbene non occasionale od estemporanea (cfr. Cass. SS.UU. n. 18374/2013). L’inadempimento dell’obbligazione tributaria può essere attribuito a forza maggiore solo quando derivi da fatti non imputabili all’imprenditore che non abbia potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico, escludendo che possa essere ascrivibile a forza maggiore la mancanza della provvista necessaria all’adempimento dell’obbligazione tributaria per effetto di una scelta di politica imprenditoriale volta a fronteggiare una crisi di liquidità. Cass. pen. 19.11.2015 n. 45935 Cass. pen. 18.11.2015 n. 45690 Omessa dichiarazione Emissione di fatture relative ad operazioni inesistenti Prova dell’evasione e del superamento della soglia, garanzie difensive e delega ad un professionista Concorso, elemento soggettivo e transnazionalità Il concorso nella emissione di fatture false comporta l’esistenza “in re ipsa” del dolo specifico del fine di consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi o dell’IVA, giacché la falsa fatturazione è intrinsecamente funzionale all’evasione fiscale. La transnazionalità di cui all’art. 4 della L. 146/2006: -- non è un elemento costitutivo di un’autonoma fattispecie, ma una qualità riferibile a qualsiasi delitto a condizione che sia punito con la reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni e presenti le ulteriori condizioni previste dalla norma citata; -- produce gli effetti sostanziali e processuali di cui agli artt. 10, 11, 12 e 13 della medesima legge; -- è applicabile anche al delitto di associa- La prova del reato di omessa presentazione della dichiarazione (art. 5 del DLgs. 74/2000) può essere acquisita attraverso l’elenco clienti e fornitori e le fatture rinvenute presso terzi in rapporti con l’imputato, se tale attività, ancorché svolta senza le garanzie difensive, sia avvenuta quando era rilevabile la sola omessa presentazione e non anche la condotta penalmente rilevante subordinata al superamento della soglia di punibilità. In base all’art. 220 disp. att. c.p.p., infatti, quando nel corso di attività ispettive o di vigilanza previste da leggi o decreti emergano “indizi di reato”, gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale sono compiuti con l’osservanza delle disposizioni del codice di procedura penale. La norma fa riferimento agli “indizi di reato”. E, quindi, l’obbligo previsto si perfeziona in un momento 121 Società e Contratti, Bilancio e Revisione 01 2016 122 antecedente al manifestarsi della comunicazione di notizia di reato al PM. Quest’ultimo si pone in relazione ad una fattispecie criminosa sufficientemente determinata nei suoi principali elementi oggettivi, anche se non nel dettaglio; mentre l’indizio di reato presuppone che, sulla base di uno o più fatti già rilevati, sia presumibile desumere l’esistenza di un reato (nel caso di specie, peraltro, la Suprema Corte, pur confermando il principio, respinge il ricorso dell’imputato rilevando che gli accertamenti compiuti – ricostruzione del volume di affari sulla base dell’elenco clienti e fornitori e, successivamente, mediante le fatture della società rinvenute presso terzi – attenevano comunque ad un momento in cui era rilevabile solo l’omessa presentazione della dichiarazione annuale, ma non era certo ipotizzabile il superamento della soglia di punibilità). L’accertamento induttivo compiuto dagli Uffici finanziari può rappresentare un valido elemento di indagine per stabilire, in sede penale, se vi sia stata evasione e se questa abbia raggiunto le soglie di punibilità previste dalla legge, a condizione che il Giudice non si limiti a constatarne l’esistenza e non faccia apodittico richiamo agli elementi in esso evidenziati, ma proceda a specifica e autonoma valutazione degli elementi nello stesso descritti comparandoli con quelli eventualmente acquisiti “aliunde”. Colui che abbia affidato ad un professionista l’incarico di compilare la dichiarazione non può dirsi, per ciò stesso, esonerato da responsabilità, sia perché la legge tributaria considera come personale il relativo dovere, sia perché una diversa interpretazione, che trasferisca il contenuto dell’obbligo in capo al delegato, finirebbe per modificare l’obbligo originariamente previsto per il delegante in mera attività di controllo sull’adempimento da parte del soggetto delegato (cfr. Cass. n. 9163/2010). Occultamento o distruzione di documenti contabili Cass. pen. 24.11.2015 n. 46500 Cass. pen. 26.11.2015 n. 46857 Modalità di occultamento L’occultamento delle scritture contabili che integra gli estremi del delitto può realizzarsi con qualsivoglia modalità e, quindi, sia con il materiale nascondimento nello stesso posto o in altro luogo rispetto a quello dove i documenti devono essere conservati, che con il mero rifiuto di esibirli. Cass. pen. 26.11.2015 n. 46851 Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture false Rilevanza ai fini IVA delle fatture soggettivamente false L’utilizzazione nella dichiarazione fiscale di fatture per operazioni “soggettivamente” inesistenti integra la fattispecie di cui all’art. 2 del DLgs. 74/2000 e legittima il sequestro, anche per equivalente, finalizzato alla confisca del profitto del reato. L’emissione della fattura da parte di un soggetto diverso da quello autore della cessione o prestazione non è collegabile alla nozione di “operazione effettuata” (art. 19 comma 1 del DPR 633/1972) e quindi non consente la detraibilità dell’IVA difettandone il presupposto. L’imposta sarà, pertanto, ex art. 21 comma 7 del DPR 633/1972, da considerarsi “fuori conto”, “estraniata” dal meccanismo di compensazione tra IVA “a valle” ed IVA “a monte” su cui si fonda la detrazione di imposta. Tuttavia, la detraibilità del tributo rimane consentita qualora il committente/cessionario ignori in buona fede di aver partecipato con il proprio acquisto all’illecito fiscale (cfr. Corte di Giustizia UE 21.6.2012, relativa alle cause riunite C-80/11 e C-142/11). UN ANNO DI VANTAGGI PER LA TUA PROFESSIONE, A UN PREZZO ESCLUSIVO Società e Contratti, Bilancio e Revisione Rivista mensile di diritto e pratica per la gestione delle imprese LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE Rivista bimestrale di diritto e pratica delle operazioni straordinarie OFFERTA RISERVATA AGLI ABBONATI UN ANNO DI VANTAGGI, A UN PREZZO ESCLUSIVO: L’aggiornamento e l’approfondimento completo in un unico servizio I consigli e le soluzioni operative adottate dai migliori esperti in materia L’archivio online di tutti i numeri arretrati in omaggio Scegli tu come consultare le riviste, con le formule: cartaceo + online o solo online FAX n. 011.562.76.04 E-MAIL [email protected] MODULO D’ORDINE (inviare a mezzo e-mail, fax o posta) QUOTE RINNOVO ABBONAMENTO 2016 Condizioni valide per i pagamenti perfezionati entro la data di scadenza dell’abbonamento “Società e Contratti, Bilancio e Revisione” Rivista mensile QUOTA RISERVATA ABBONATI S.I. 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