STORIA ROMANA – A 2016-2017 Introduzione alla storia di Roma (17) La storiografia tra consenso e opposizione: da Augusto a Tiberio Seneca il Vecchio, Controversiae, X, Praef., 4-8 [4] De T. LABIENO interrogatis [...]. [5]. Libertas tanta, ut libertatis nomen excederet, et, quia passim ordines hominesque laniabat, Rabie(nu)s vocaretur. animus inter vitia ingens et ad similitudinem ingeni sui violentus et qui Pompeianos spiritus nondum in tanta pace posuisset. In hoc primum excogitata est nova poena; effectum est enim per inimicos, ut omnes eius libri comburerentur. res nova et inusitata, supplicium de studiis sumi. [… ] [7] Eius, qui hanc in scripta Labieni sententiam dixerat, postea viventis adhuc scripta combusta sunt, iam non malo exemplo, quia suo. Non tulit hanc Labienus contumeliam nec superstes esse ingenio suo voluit sed in monumenta se maiorum suorum ferri iussit atque ita includi, veritus scilicet, ne ignis, qui nomini suo subiectus erat, corpori negaretur. non finivit tantum se ipse sed etiam sepelivit. [8] Memini aliquando, cum recitaret historiam, magnam partem illum libri convolvisse et dixisse: haec, quae transeo, post mortem meam legentur. quanta in illis libertas fuit, quam etiam Labienus extimuit! Cassi Severi, hominis Labieno invisissimi, belle dicta res ferebatur illo tempore, quo libri Labieni ex senatus consulto urebantur: nunc me, inquit, vivum uri oportet, qui illos edidici. 4. Mi chiedete di Tito Labieno […] 5. La sua franchezza era tale da superare ogni limite, e poiché si scagliava contro uomini di tutti i ceti, gli aveva guadagnato il soprannome di Rabieno. Aveva un animo grande, pur fra i vizi, e impetuoso come la sua intelligenza, lui che in mezzo a una pace così assoluta non aveva ancora deposto gli spiriti pompeiani. Contro di lui per la prima volta fu escogitata una pena inaudita: i suoi nemici ottennero infatti che tutti i suoi libri venissero dati alle fiamme. Una cosa nuova, mai vista prima: la condanna a morte della cultura […]7. Colui che aveva condanato le opere di Labieno dovette vedere più tardi, ancora vivo, i suoi scritti al rogo – una puniizone di cui certo non poteva lagnarsi, visto che ne aveva fornito lui stesso il precedente. Quanto a Labieno, egli non tollerò l’ingiuria e non volle sopravvivere al proprio ingegno: diede ordine che lo portassero nella tomba di famiglia e lì lo serrassero, evidentemente nel timore che il fuoco appiccato alla sua fama fosse invece negata al suo corpo; con le sue mani non solo si uccise, ma si seppellì. 8. Ricordo che una volta, mentre leggeba in pubblico le sue Storie, riavvolse una gran parte del rotolo dicendo: “le cose che tralascio ora, si leggeranno dopo la mia morte”. Quanta franchezza doveva esserci in quelle parole, se persino Labieno ne ebbe paura! A quell’epoca circolava un’efficace battuta di Cassio Severo, uomo peraltro detestato da Labieno: mentre per decreto del Senato i libri venivano dati alle fiamme disse: “Ora dovete bruciare anche me, perché li so a memoria”. Tac., Annales, IV, 34-35 [34] Cornelio Cosso Asinio Agrippa consulibus Cremutius Cordus postulatur novo ac tunc primum audito crimine, quod editis annalibus laudatoque M. Bruto C. Cassium Romanorum ultimum dixisset. accusabant Satrius Secundus et Pinarius Natta, Seiani clientes. id perniciabile reo et Caesar truci vultu defensionem accipiens, quam Cremutius relinquendae vitae certus in hunc modum exorsus est: 'verba mea, patres conscripti, arguuntur: adeo factorum innocens sum. sed neque haec in principem aut principis parentem, quos lex maiestatis amplectitur: Brutum et Cassium laudavisse dicor, quorum res gestas cum plurimi composuerint, nemo sine honore memoravit. Titus Livius, eloquentiae ac fidei praeclarus in primis, Cn. Pompeium tantis laudibus tulit ut Pompeianum eum Augustus appellaret; neque id amicitiae eorum offecit. Scipionem, Afranium, hunc ipsum Cassium, hunc Brutum nusquam latrones et parricidas, quae nunc vocabula imponuntur, saepe ut insignis viros nominat. Asinii Pollionis scripta egregiam eorundem memoriam tradunt; Messala Corvinus imperatorem suum Cassium praedicabat: et uterque opibusque atque honoribus perviguere. Marci Ciceronis libro quo Catonem caelo aequavit, quid aliud dictator Caesar quam rescripta oratione velut apud iudices respondit? Antonii epistulae Bruti contiones falsa quidem in Augustum probra set multa cum acerbitate habent; carmina Bibaculi et Catulli referta contumeliis Caesarum leguntur: sed ipse divus Iulius, ipse divus Augustus et tulere ista et reliquere, haud facile dixerim, moderatione magis an sapientia. namque spreta exolescunt: si irascare, adgnita videntur.[35] Non attingo Graecos, quorum non modo libertas, etiam libido impunita; aut si quis advertit, dictis dicta ultus est. sed maxime solutum et sine obtrectatore fuit prodere de iis quos mors odio aut gratiae exemisset. num enim armatis Cassio et Bruto ac Philippensis campos optinentibus belli civilis causa populum per contiones incendo? an illi quidem septuagesimum ante annum perempti, quo modo imaginibus suis noscuntur, quas ne victor quidem abolevit, sic partem memoriae apud scriptores retinent? suum cuique decus posteritas rependit; nec deerunt, si damnatio ingruit, qui non modo Cassii et Bruti set etiam mei meminerint.' egressus dein senatu vitam abstinentia finivit. libros per aedilis cremandos censuere patres: set manserunt, occultati et editi. quo magis socordiam eorum inridere libet qui praesenti potentia credunt extingui posse etiam sequentis aevi memoriam. nam contra punitis ingeniis gliscit auctoritas, neque aliud externi reges aut qui eadem saevitia usi sunt nisi dedecus sibi atque illis gloriam peperere. 34. [25 d.C.]. Nell'anno del consolato di Cornelio Cosso e di Asinio Agrippa, venne sottoposto a processo Cremuzio Cordo con una imputazione nuova e inaudita: nei suoi Annali, appena pubblicati, aveva tessuto l'elogio di Marco Bruto e chiamato Gaio Cassio l'ultimo dei Romani. Lo accusavano Satrio Secondo e Pinario Natta, clienti di Seiano. Tale circostanza si rivelò fatale per l'accusato, ed era brutto segno il volto indurito di Cesare nell'ascoltare la difesa, che Cremuzio, sicuro di dover lasciare la vita, pronunciò in questi termini: “Si mettono sotto accusa, o padri coscritti, le mie parole: a tal segno sono prive di colpa le mie azioni. Ma esse non sono rivolte contro l'imperatore o la madre dell'imperatore, le sole persone protette dalla legge di lesa maestà. Mi si imputa di aver lodato Bruto e Cassio, quando molti ne hanno narrato le gesta, e nessuno senza celebrarne il ricordo. Tito Livio, il più grande di tutti per lo stile e il rigore storico, celebrò con tante lodi Gneo Pompeo che Augusto lo chiamava il Pompeiano, il che non offuscò la loro amicizia. E Scipione e Afranio e questo stesso Cassio e questo Bruto non li chiama banditi e parricidi, termini oggi di moda, ma li cita spesso come uomini insigni. Gli scritti di Asinio Pollione tramandano splendida memoria di loro; Messalla Corvino amava ricordare Cassio come suo comandante e l'uno e l'altro furono colmati di ricchezze e di onori. Al libro di Marco Cicerone, in cui Catone era innalzato alle stelle, in che altro modo diede una risposta il dittatore Cesare, se non con un altro discorso, quasi fossero davanti a dei giudici. Le lettere di Antonio, i discorsi di Bruto contengono giudizi feroci, anche se calunniosi, nei confronti di Augusto; leggiamo le poesie di Bibaculo e di Catullo piene di attacchi ai Cesari: eppure lo stesso divo Giulio, lo stesso divo Augusto le tollerarono senza intervenire, non saprei dire se per moderazione o più per saggezza. Si tratta di affermazioni che, se non raccolte, svaniscono; una reazione irosa la si legge come un'ammissione di verità. 35. Non voglio toccare i Greci, di cui non solo le manifestazioni di libertà, ma perfino gli eccessi restavano impuniti; e chi volle reagire, si vendicò delle parole con le parole. Ma soprattutto c'era piena libertà, senza opposizione alcuna, di pronunciare giudizi su quanti la morte aveva sottratto all'odio o all'amore. Infiammo forse il popolo alla guerra civile, mentre Cassio e Bruto occupano in armi la piana di Filippi? E come a settant'anni dalla loro morte li riconosciamo nelle statue, che neppure il vincitore ha osato abbattere, perché non possono avere la loro parte di ricordo nelle opere degli storici? La posterità conferisce a ciascuno l'onore che merita. E non mancherà, se mi colpisce la vostra condanna, chi si ricorderà non solo di Cassio e di Bruto, ma anche di me.” Poi uscì dal senato e si lasciò morire di fame. I senatori decretarono il rogo, per mano degli edili, dei suoi libri; ma sopravvissero, prima nascosti e poi divulgati. Un motivo in più dunque per deridere la bassezza di quanti, forti della loro potenza nel presente, credono che si possa estinguere anche il ricordo nel futuro. Al contrario anzi, l'ingegno perseguitato acquista autorità crescente. Infatti i re stranieri e quanti hanno fatto ricorso alla stessa intolleranza, sono riusciti solo a provocare disonore a sé e notorietà alle loro vittime. [Antologia delle fonti, II.1.2, T12] Suet., Caligula, 16 Spintrias monstrosarum libidinum aegre ne profundo mergeret exoratus, urbe submovit. Titi Labieni, Cordi Cremuti, Cassi Severi scripta senatus consultis abolita requiri et esse in manibus lectitarique permisit, quando maxime sua interesset ut facta quaeque posteris tradantur. Cacciò dall’Urbe, arrendendosi a stento alle preghiere di quelli che lo dissuadevano dal farli gettare nel mare, i cinedi, colpevoli di mostruose libidini. Lasciò che gli scritti di Tito Labieno, di Cremuzio Cordo e di Cassio Severo, già fatti distruggere da un decreto senatorio, fossero ricercati e andassero per le mani di tutti e fossero comunemente letti, perché molto gli stava a cuore che tutti gli eventi fossero tramandati ai posteri. [Antologia delle fonti, II.II.3, T30] Il regno di Tiberio Tac., Annales, I, 11 Versae inde ad Tiberium preces. et ille varie disserebat de magnitudine imperii sua modestia. solam divi Augusti mentem tantae molis capacem: se in partem curarum ab illo vocatum experiendo didicisse quam arduum, quam subiectum fortunae regendi cuncta onus. proinde in civitate tot inlustribus viris subnixa non ad unum omnia deferrent: plures facilius munia rei publicae sociatis laboribus exsecuturos. plus in oratione tali dignitatis quam fidei erat; Tiberioque etiam in rebus quas non occuleret, seu natura sive adsuetudine, suspensa semper et obscura verba: tunc vero nitenti ut sensus suos penitus abderet, in incertum et ambiguum magis implicabantur. at patres, quibus unus metus si intellegere viderentur, in questus lacrimas vota effundi; ad deos, ad effigiem Augusti, ad genua ipsius manus tendere, cum proferri libellum recitarique iussit. opes publicae continebantur, quantum civium sociorumque in armis, quot classes, regna, provinciae, tributa aut vectigalia, et necessitates ac largitiones. quae cuncta sua manu perscripserat Augustus addideratque consilium coercendi intra terminos imperii, incertum metu an per invidiam. Allora tutte le preghiere furono rivolte a Tiberio; ed egli discettava sulla grandezza dell’impero in confronto alla sua modestia. Solo la mente del divino Augusto era adeguata a una simile dimensione. Lui, Tiberio, quando era stato chiamato da questi a condividere i sui impegni, aveva imparato quanto fosse difficile e quanto dipendente dalla sorte il compito di governare il mondo. Riteneva che, in uno stato che godeva del sostegno di così tanti uomini illustri, non servisse dare tutto il potere a uno solo, ma che la fatica del governo potesse essere retta più facilmente dal lavoro di più persone insieme. Un simile discorso era più dignitoso che affidabile. Le parole di Tiberio, vuoi per indole vuoi per abitudine, erano sempre indirette e oscure, anche quando non voleva nascondere le sue intenzioni: allora che si sforzava di nascondere ogni traccia del sue reale pensiero, diveniva più intricato, ambiguo e incerto che mai. Ma i senatori, che avevano un solo timore, che fosse evidente che avevano compreso bene, scoppiarono in lamenti, lacrime e preghiere; tendevano le mani agli dei, all’immagine del divino Augusto, alle sue ginocchia, quando ordinò di produrre e pubblicare un documento: conteneva l’elenco delle risorse pubbliche, di quanti cittadini e alleati erano arruolati, di quante flotte, regni, province, tributi e tasse, spese e donativi che Augusto aveva registrato di propria mano; e vi aveva aggiunto il consiglio di non espandere ulteriormente l’impero, non si sa se per timore o invidia [Antologia delle fonti, II.I.2.1, T36] Suet., Tiberius, 26 Verum liberatus metu civilem admodum inter initia ac paulo minus quam privatum egit. Ex plurimis maximisque honoribus praeter paucos et modicos non recepit. Natalem suum plebeis incurrentem circensibus vix unius bigae adiectione honorari passus est. Templa, flamines, sacerdotes decerni sibi prohibuit, etiam statuas atque imagines nisi permittente se poni; permisitque ea sola condicione, ne inter simulacra deorum sed inter ornamenta aedium ponerentur. Intercessit et quo minus in acta sua iuraretur, et ne mensis September Tiberius, October Livius vocarentur. Praenomen quoque imperatoris cognomenque patris patriae et civicam in vestibulo coronam recusavit; ac ne Augusti quidem nomen, quanquam hereditarium, nullis nisi ad reges ac dynastas epistulis addidit. Nec amplius quam mox tres consulatus, unum paucis diebus, alterum tribus mensibus, tertium absens usque in Idus Maias gessit. Liberato alla fine dai suoi timori, nei primi tempi si comportò veramente come un normale cittadino e poco meno di un privato. In mezzo ad una quantità enorme di onori straordinari, ne accettò soltanto alcuni e senza esagerare. Poiché il giorno del suo compleanno cadeva durante la celebrazione dei giochi plebei, permise soltanto che lo si onorasse con l'aggiunta di un carro a due cavalli. Proibì che gli venissero consacrati templi, flamini, sacerdoti e perfino che gli venissero erette statue senza la sua autorizzazione, e quando lo permetteva, poneva come condizione che non venissero collocate in mezzo alle immagini degli dei, ma che figurassero come ornamenti degli edifici. Non volle che si giurasse per i suoi atti, che il mese di settembre fosse chiamato Tiberio e quello di ottobre Livio. Rifiutò il titolo di ‘imperatore’ e il soprannome di ‘Padre della patria’ e corone civiche nel suo vestibolo. Non aggiunse nemmeno al suo il nome di Augusto, che aveva ereditato, e lo usò soltanto nelle lettere ai re e ai sovrani. Non esercitò più di tre consolati, il primo per qualche giorno ( 18 d.C.), il secondo per tre mesi (21 d.C.) e il terzo, senza essere a Roma, fino alle idi di maggio (31 d.C.). Tac., Annales, I, 15,1 Tum primum e campo comitia ad patres translata sunt: nam ad eam diem, etsi potissima arbitrio principis, quaedam tamen studiis tribuum fiebant. neque populus ademptum ius questus est nisi inani rumore, et senatus largitionibus ac precibus sordidis exsolutus libens tenuit, moderante Tiberio ne plures quam quattuor candidatos commendaret sine repulsa et ambitu designandos. inter quae tribuni plebei petivere ut proprio sumptu ederent ludos qui de nomine Augusti fastis additi Augustales vocarentur. Allora per la prima volta le elezioni dei magistrati passarono dal Campo Marzio al senato: infatti fino a quel giorno, benché le cariche più elevate dipendessero dall'arbitrio del principe, alcune scelte si facevano rispettando le indicazioni delle tribù. Il popolo, espropriato di questo diritto, non protestò se non con sterili mormorii, e il senato, libero dalla necessità di ricorrere a donativi ed esentato da umilianti preghiere, fu ben contento di esercitarlo, anche perché Tiberio si poneva il limite di non raccomandare più di quattro candidati, [Antologia delle fonti, II.I.1.3, T27] Il regno di Claudio Tabula Clesiana (CIL, V 5050 = ILS 206 = FIRA, I2 nr. 71; cfr. E. Migliario, Il territorio trentino nella storia europea, vol. I, L’età antica, Trento 2011, pp. 165-168) M(arco) Iunio Silano, Q(uinto) Sulpicio Camerino co(n)s(ulibus) / idibus Martis, Bais in praetorio, edictum / Ti(beri) Claudi Caesaris Augusti Germanici propositum fuit id / quod infra scriptum est. / Ti(berius) Claudius Caesar Augustus Germanicus pont(ifex) / maxim(us), trib(unicia) potest(ate) VI, imp(erator) XI, p(ater) p(atriae), co(n)s(ul) designatus IIII, dicit: / Cum ex veteribus controversis petentibus aliquamdiu etiam / temporibus Ti(beri) Caesaris patrui mei, ad quas ordinandas / Pinarium Apollinarem miserat, quae tantum modo / inter Comenses essent, quantum memoria refero et / Bergaleos, isque primum apsentia pertinaci patrui mei, / deinde etiam Gai principatu, quod ab eo non exigebatur / referre, non stulte quidem, neglexserit; et posteac / detulerit Camurius Statutus ad me agros plerosque / et saltus mei iuris esse: in rem praesentem misi / Plantam Iulium amicum et comitem meum, qui / cum, adhibitis procuratoribus meis quisque in alia / regione quique in vicinia erant, summa cura inqui/sierit et cognoverit; cetera quidem, ut mihi demons/trata commentario facto ab ipso sunt, statuat pronun/tietque ipsi permitto. / Quod ad condicionem Anaunorum et Tulliassium et Sinduno/rum pertinet, quorum partem delator adtributam Triden/tinis, partem ne adtributam quidem arguisse dicitur, / tam et si animadverto non nimium firmam id genus homi/num habere civitatis Romanae originem: tamen, cum longa / usurpatione in possessionem eius fuisse dicatur et permix/tum cum Tridentinis, ut diduci ab is sine gravi splendi[di] municipi / iniuria non possit, patior eos in eo iure, in quo esse se existima/verunt, permanere beneficio meo, eo quidem libentius, quod / plerisque ex eo genere hominum etiam militare in praetorio / meo dicuntur, quidam vero ordines quoque duxisse, / nonnulli collecti in decurias Romae res iudicare./ Quod beneficium is ita tribuo, ut quaecumque tanquam / cives Romani gesserunt egeruntque, aut inter se aut cum / Tridentinis alisve, ratam esse iubeat, nominaque ea, / quae habuerunt antea tanquam cives Romani, ita habere is permittam. Durante il consolato di Marco Giunio Silano e Quinto Sulpicio Camerino (46 d.C.), alle idi di marzo, a Baia, nel pretorio, fu affisso l'editto di Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico che è trascritto qui sotto. Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico, pontefice massimo, durante la sua sesta potestà tribunizia, dopo la sua undicesima acclamazione a imperatore, padre della patria, console designato per la quarta volta, dice: poiché, fra le antiche controversie in corso già dai tempi di mio zio Tiberio Cesare, per dirimere le quali - a mia memoria, solo quelle che esistevano fra i Comensi e i Bergalei - egli aveva inviato Pinario Apollinare, e poiché costui, in un primo tempo per l'ostinata assenza di mio zio, in seguito anche sotto il principato di Gaio, trascurò - non certo da sciocco - di produrre una relazione su quanto non gli veniva richiesto; e poiché successivamente Camurio Statuto notificò a me che i terreni e le foreste sono per la maggior parte di mia personale proprietà: ho inviato sul posto Giulio Planta, mio amico e compagno, il quale, convocati i miei procuratori - sia quelli che stavano in altra regione, sia quelli in zona con la massima precisione condusse l'indagine e istruì la questione; per tutte le altre questioni, delego a lui di dirimere e di decidere, secondo le soluzioni a me prospettate nella relazione da lui prodotta. Per quanto riguarda la condizione degli Anauni, dei Sinduni e dei Tulliassi, una parte dei quali si dice che il denunciante abbia scoperto essere attribuita ai Tridentini, una parte nemmeno attribuita, anche se mi rendo conto che questa categoria di persone non fonda la cittadinanza romana su un'origine sufficientemente assodata, tuttavia, poiché si dice che ne siano stati in possesso per lungo periodo d'uso, e che si siano talmente fusi con i Tridentini da non poterne essere separati senza grave danno per lo splendido municipio, permetto che per mia concessione essi continuino a stare nella condizione giuridica che ritenevano di avere, e tanto più perchè parecchi della loro condizione si dice prestino servizio perfino nel mio pretorio, e che alcuni addirittura siano stati ufficiali della truppa, e che certuni inseriti nelle decurie a Roma vi facciano i giudici. Accordo loro tale beneficio, con la conseguenza che qualunque negozio abbiano concluso o qualunque azione giudiziaria abbiano intrapreso come se fossero stati cittadini romani, o fra di loro o con i Tridentini o con altri, ordino che sia ratificato; e i nomi da cittadini romani che avevano preso in precedenza, concedo loro di mantenerli (trad. E. MIGLIARIO). [Antologia delle fonti, II.I.2.2, T46] Tac., Annales, XI 23 A. Vitellio L. Vipstano consulibus cum de supplendo senatu agitaretur primoresque Galliae, quae Comata appellatur, foedera et civitatem Romanam pridem adsecuti, ius adipiscendorum in urbe honorum expeterent, multus ea super re variusque rumor. et studiis diversis apud principem certabatur adseverantium non adeo aegram Italiam ut senatum suppeditare urbi suae nequiret [...] Nell’anno del consolato di Aulo Vitellio e Lucio Vipstano si discuteva dell’opportunità di aumentare il numero dei senatori e i notabili della Gallia Comata, che in precedenza avevano ottenuto trattati e la cittadinanza romana, rivendicavano il diritto di ottenere cariche a Roma. Vi erano parecchie e varie opinioni al riguardo e nel consiglio del princeps il dibattito era animato in entrambi i sensi: l’Italia – si diceva – non era così moribonda da non essere in grado di fornire nuovi senatori alla propria capitale [...] [ Antologia delle fonti, II.I.2.2, T. 47]. Tac., Annales, XI 24 His atque talibus haud permotus princeps et statim contra disseruit et vocato senatu ita exorsus est: 'maiores mei, quorum antiquissimus Clausus origine Sabina simul in civitatem Romanam et in familias patriciorum adscitus est, hortantur uti paribus consiliis in re publica capessenda, transferendo huc quod usquam egregium fuerit. neque enim ignoro Iulios Alba, Coruncanios Camerio, Porcios Tusculo, et ne vetera scrutemur, Etruria Lucaniaque et omni Italia in senatum accitos, postremo ipsam ad Alpis promotam ut non modo singuli viritim, sed terrae, gentes in nomen nostrum coalescerent. tunc solida domi quies et adversos externa floruimus, cum Transpadani in civitatem recepti, cum specie deductarum per orbem terrae legionum additis provincialium validissimis fesso imperio subventum est. num paenitet Balbos ex Hispania nec minus insignis viros e Gallia Narbonensi transivisse? manent posteri eorum nec amore in hanc patriam nobis concedunt. quid aliud exitio Lacedaemoniis et Atheniensibus fuit, quamquam armis pollerent, nisi quod victos pro alienigenis arcebant? at conditor nostri Romulus tantum sapientia valuit ut plerosque populos eodem die hostis, dein civis habuerit. advenae in nos regnaverunt: libertinorum filiis magistratus mandare non, ut plerique falluntur, repens, sed priori populo factitatum est. at cum Senonibus pugnavimus: scilicet Vulcsi et Aequi numquam adversam nobis aciem instruxere. capti a Gallis sumus: sed et Tuscis obsides dedimus et Samnitium iugum subiimus. ac tamen, si cuncta bella recenseas nullum breviore spatio quam adversus Gallos confectum: continua inde ac fida pax. iam moribus artibus adfinitatibus nostris mixti aurum et opes suas inferant potius quam separati habeant. omnia, patres conscripti, quae nunc vetustissima creduntur, nova fuere: plebeii magistratus post patricios, Latini post plebeios, ceterarum Italiae gentium post Latinos. inveterascet hoc quoque, et quod hodie exemplis tuemur, inter exempla erit. Claudio non si lasciò convincere da questi e da altri argomenti simili, ma subito li confutò e, convocato il senato, così parlò: «I miei antenati, il più antico dei quali Clauso di origine sabina fu accolto tanto nella cittadinanza romana quanto nel patriziato, mi esortano ad agire allo stesso modo nel governo dello stato, portando qui quanto di meglio vi sia altrove. So bene che i Giulii sono stati chiamati in senato da Alba, i Coruncanii da Camerio, i Porci da Tuscolo e, lasciando da parte l’antichità, altri ne vennero dall’Etruria, dalla Lucania e dall’Italia intera. L’Italia stessa ha di recente esteso i suoi confini fino alle Alpi, cosicché non solo individui, ma regioni e popoli interi si sono fusi con noi. Abbiamo goduto di una solida pace interna e della vittoria esterna quando i Transpadani sono stati accolti nella cittadinanza e noi con la scusa che le nostre legioni erano sparse per il mondo abbiamo aggiunto provinciali validissimi, risollevando le sorti di un impero in difficoltà. Dobbiamo forse pentirci del fatto che i Balbi siano giunti dalla Spagna e uomini non meno illustri dalla Gallia Narbonense? I loro discendenti sono qui e amano questa patria non meno di noi! Cos’altro causò la rovina di Ateniesi e Spartani, se non il fatto che, pur forti in guerra, trattavano i vinti come stranieri? Invece il nostro fondatore Romolo fu così saggio che, in più occasioni, vinse popoli ostili e li trasformò in cittadini nell’arco della stessa giornata. Alcuni nostri re erano stranieri, anche l’elezione alle magistrature di figli di liberti non è una pratica recente, come molti erroneamente credono, bensì comune nei tempi antichi. ‘Ma contro i Senoni abbiamo combattuto’, dite; e Volsci ed Equi non si sono mai schierati in battaglia contro di noi? ‘Siamo stati invasi dai Galli’; se è per questo, agli Etruschi abbiamo dato ostaggi e siamo passati sotto il giogo dei Sanniti. Tuttavia, se consideriamo tutte le nostre guerre, nessuna si è conclusa da meno tempo di quella contro i Galli: da allora la pace è stata continua e sicura. Si sono già assimilati a noi per usanze, cultura e parentele: lasciamo che ci portino anche il loro oro e le loro ricchezze, invece di tenerle separate! O padri coscritti, tutto quello che adesso ci sembra antichissimo una volta era nuovo: i magistrati plebei vennero dopo i patrizi, i Latini dopo i plebei, tutti gli altri popoli d’Italia dopo i Latini. Anche la presente innovazione invecchierà e ciò che ora giustifichiamo ricorrendo ai precedenti, diverrà un precedente» [ Antologia delle fonti, II.I.2.2, T. 47]. *Per la versione epigrafica del discorso di Claudio cfr. CIL, XIII 1668 = ILS 212 = FIRA, I2, nr. 43 [cfr. Antologia delle fonti, I.2, T27, I.2, T44, I.2, T46, II.3, T52, II.3, T9] Sen., Apocolokyntosis, 2, 2-3,3 Puto magis intellegi, si dixero: mensis erat October, dies III idus Octobris. Horam non possum certam tibi dicere, facilius inter philosophos quam inter horologia conveniet, tamen inter sextam et septimam erat. […] Claudius animam agere coepit nec invenire exitum poterat.[3] Tum Mercurius, qui semper ingenio eius delectatus esset, unam e tribus Parcis seducit et ait: "Quid, femina crudelissima, hominem miserum torqueri pateris? Nec unquam tam diu cruciatus cesset? Annus sexagesimus [et] quartus est, ex quo cum anima luctatur. Quid huic et rei publicae invides? Patere mathematicos aliquando verum dicere, qui illum, ex quo princeps factus est, omnibus annis, omnibus mensibus efferunt. Et tamen non est mirum si errant et horam eius nemo novit; nemo enim unquam illum natum putavit. Fac quod faciendum est: 'Dede neci, melior vacua sine regnet in aula.'" Sed Clotho "ego mehercules" inquit "pusillum temporis adicere illi volebam, dum hos pauculos, qui supersunt, civitate donaret (constituerat enim omnes Graecos, Gallos, Hispanos, Britannos togatos videre), sed quoniam placet aliquos peregrinos in semen relinqui et tu ita iubes fieri, fiat." Credo che si capirà di più se dirò: il mese era ottobre, il giorno il 13, l’ora non posso dirtela con precisione: più facilmente ci sarà accordo tra filosofi che tra orologi; e tuttavia era tra mezzogiorno e l’una […] Claudio cominciò a condurre fuori la sua anima, ma non riusciva a trovate l’uscita. Allora Mercurio, che si era sempre compiaciuto dell’intelletto di quello, prese in disparte una delle Parche e disse: “Perché, donna crudelissima, permetti che si tormenti un tale uomo? Non si riposerà mai, dopo essere stato così a lungo torturato? Sono sessantaquattro anni che lotta con la sua anima. Perché sei ostile a lui e allo Stato? Lascia che per una volta abbiano ragione gli astrologi, che da quando è principe ogni anno e ogni mese gli rendono gli onori funebri. E tuttavia non meraviglia il fatto che si sbaglino e che nessuno conosca la sua ultima ora, dato che nessuno lo ha mai considerato nato. Fa quello che bisogna fare: dagli la morte e lascia che uno migliore regni nella reggia liberata dalla sua presenza”. Ma Cloto: “Per Ercole – disse – avrei voluto accordargli ancora un poco di tempo da vivere, almeno finché non avesse concesso la cittadinanza a quei pochi che sono rimasti: infatti, si era posto come obiettivo di vedere togati tutti i Greci, i Galli, gli Spagnoli, i Britannici. Ma poiché è deciso che qualche straniero rimanga come semenza e tu così ordini, così sia”. [Antologia delle fonti, II.III.3.2, T53] Plin., Epist., VII, 29, 1-2 (la tomba di M. Antonius Pallas, procurator a rationibus di Claudio; cfr. anche ibid., VIII, 6, 1) C. Plinius Montano suo s(alutem). Ridebis, deinde indignaberis, deinde ridebis, si legeris, quod nisi legeris non potes credere. Est via Tiburtina intra primum lapidem — proxime adnotavi — monimentum Pallantis ita inscriptum: 'Huic senatus ob fidem pietatemque erga patronos ornamenta praetoria decrevit et sestertium centies quinquagies, cuius honore contentus fuit.' Gaio Plinio saluta il suo Montano. Riderai, poi ti indignerai, se leggerai ciò che se tu non lo leggessi non potresti credere. Sulla via Tiburtina, entro il primo miglio (or ora lo osserverai) c’è il monumento funebre di Pallante, con la seguente iscrizione: “ Per la sua fedeltà e devozione verso i patroni, a costui il senato conferì le insegne pretorie e quindici milioni di sesterzi, ma egli si accontentò del solo onore” [riferimento a senatusconsultum del 52 d,C.] [Antologia delle fonti, II.1.2, T45; cfr. Lex. Top. Urbis Romae – Suburbium, IV. 2006, p. 155, s.v. Pallantis Monumentum (Z. Mari)] CIL, XV, 7500 b = ILS 1666; cfr. Terme di Diocleziano: la collezione epigrafica, Milano 2012, p. 424, VI,76 (Roma, fistula da via IV Novembre) Narcissi Aug(usti) l(iberti) ab epistul(is) (scil. aqua). CIL, VI 920, cfr. 31203 e pp. 841, 3777 = 40416 (Roma, via del Corso, 51-52 d.C.) Ti(berio) Clau[dio Drusi f(ilio) Cai]ssasrsi s / Augu[sto Germani]csos, / pontific[i maxim(o), trib(unicia) potes]tsast(s e) Xs X I,s X / co(n)s(uli) VV, im[p(eratori) XXII (?), cens(ori), patri pa]tsrsias s i,s / senatus po[pulusque] Rs os[manus, q]us osds / reges Brit[annorum] Xs I s ds [iebus paucis sine] / ulla iactur[a devicerit et regna eorum] / gentesque b[arbaras trans Oceanum sitas] /prìmus in dicị[onem populi Romani redegerit]. CIL, VI 40852 (Roma, via Flaminia 52, 49 d.C.) 〈:in vertice〉Pomerium //〈:in fronte〉 Ti(berius) Claudius Drusi f(ilius) Caisar / Aug(ustus) Germanicus, / pont(ifex) max(imus), trib(unicia) pot(estate) / VV I VI VI VI V, imp(erator) XVI, co(n)s(ul) I VI VI VI V, / censor, p(ater) p(atriae), / auctis populi Romani / finibus, pomerium ampliavit terminavitq(ue). //〈:in latere sinistro〉CXXXIX. Suet., Divus Claudius, 25,4 Iudaeos impulsore Chresto assidue tumultuantis Roma expulit. [Antologia delle fonti, II.IV.3, T10] CIL, VI 40307 (Roma, piazza del Colosseo – scavo della Meta Sudans; 55-56 d.C.): 〈col. I〉Imp(eratori) Caisari Divi f(ilio) /Augusto, / pontifici maximo, co(n)s(uli) XVI V, / tribunicia potestat(e) XI. 〈col. II〉Neroni Claudio Divi / Claudii f(ilio), / Germanici Caisaris n(epoti), / Ti(beri) Caisaris Aug(usti) pron(epoti), / Divi Augusti abn(epoti), / Caisari Aug(usto) Germanico, pont(ifici) / max(imo), trib(unicia) potest(ate) I VI V, imp(eratori), co(n)s(uli). 〈col. III〉Ti(berio) Claudio Drusi f(ilio) / Caisari Augusto / Germanico, pontifici / maximo, tribunicia pot(estate), / imp(eratori), co(n)s(uli) I VI V. 〈col. IV〉Iuliae Au[gustae] / Agri[ppinae] / Germanic[i Caisaris f(iliae)] / divi Cla[udi uxori]. / <in una linea〉Aenatores, tubicines, liticines, cornicines {Romani}. /Romani. Tac., Annales, XV, 44, 2-5 (Nerone: l’incendio del 64 d.C. e le persecuzioni dei cristiani) Ergo abolendo rumori Nero subdidit reos et quaesitissimis poenis adfecit, quos per flagitia invisos vulgus Chrestianos appellabat. auctor nominis eius Christus Tibero imperitante per procuratorem Pontium Pilatum supplicio adfectus erat; repressaque in praesens exitiablilis superstitio rursum erumpebat, non modo per Iudaeam, originem eius mali, sed per urbem etiam, quo cuncta undique atrocia aut pudenda confluunt celebranturque. igitur primum correpti qui fatebantur, deinde indicio eorum multitudo ingens haud proinde in crimine incendii quam odio humani generis convicti sunt. et pereuntibus addita ludibria, ut ferarum tergis contecti laniatu canum interirent aut crucibus adfixi [aut flammandi atque], ubi defecisset dies, in usu[m] nocturni luminis urerentur. hortos suos ei spectaculo Nero obtulerat, et circense ludicrum edebat, habitu aurigae permixtus plebi vel curriculo insistens. unde quamquam adversus sontes et novissima exempla meritos miseratio oriebatur, tamquam non utilitate publica, sed in saevitiam unius absumerentur. Allora, per soffocare ogni diceria, Nerone spacciò per colpevoli e condannò a pene di crudeltà particolarmente ricercata quelli che il volgo, detestandoli per le loro infamie, chiamava cristiani. Derivavano il loro nome da Cristo, condannato al supplizio, sotto l'imperatore Tiberio, dal procuratore Ponzio Pilato. Momentaneamente soffocata, questa rovinosa superstizione proruppe di nuovo, non solo in Giudea, terra d'origine del flagello, ma anche a Roma, in cui convergono da ogni dove e trovano adepti le pratiche e le brutture più tremende. Furono dunque dapprima arrestati quanti si professavano cristiani; poi, su loro denuncia, venne condannata una quantità enorme di altri, non tanto per l'incendio, quanto per il loro odio contro il genere umano. Quanti andavano a morire subivano anche oltraggi, come venire coperti di pelli di animali selvatici ed essere sbranati dai cani, oppure crocefissi ed arsi vivi come torce, per servire, al calar della sera, da illuminazione notturna. Per tali spettacoli Nerone aveva aperto i suoi giardini e offriva giochi nel circo, mescolandosi alla plebe in veste d'auriga o mostrandosi ritto su un cocchio. Per cui, benché si trattasse di colpevoli, che avevano meritato punizioni così particolari, nasceva nei loro confronti anche la pietà, perché vittime sacrificate non al pubblico bene bensì alla crudeltà di uno solo. [Antologia delle fonti, IV.3, T11] L'incendio del luglio 64 d.C.