Ascari, clandestini e meticci: mobilità sociale e migrazioni nel secondo dopoguerra. Il colonialismo italiano ricorse al pari di altri colonialismi europei a varie figure di intermediari per imporre il proprio dominio alle società africane comprese entro i confini di quelle che furono le colonie di Eritrea, Somalia, Libia e poi dell’Africa orientale italiana (AOI). L’intermediazione e le diverse figure che a questo ambito vanno ricondotte possono essere lette e analizzate nei termini di maggiore prossimità ai centri del potere coloniale, problematizzando la classica dicotomia tra colonizzati e colonizzatori, tra sudditi e cittadini. Al di là dei sistemi amministrativi e delle politiche di governo che misero accenti differenti sui gruppi o sugli individui, come fu il caso rispettivamente del colonialismo inglese e di quello francese, gli africani che prestarono servizio agli europei utilizzarono spesso strategicamente la loro influenza e autorità per accrescere il loro benessere personale, potere politico e status. Capitalizzando interazioni privilegiate negli ambiti del lavoro, dell’istruzione e dell’amministrazione coloniale, gli intermediari contrattarono la collaborazione con il potere europeo e furono i protagonisti della complessità “domestica” delle diverse situazioni coloniali. In modo simile a quanto avvenne altrove in Africa, il dominio italiano introdusse in colonia alcuni elementi di modernità attraverso l’istruzione, l’esercito, l’industria leggera, l’agricoltura capitalistica che rappresentarono altrettanti ambiti di intermediazione, tuttavia i processi di contrattazione furono disciplinati da una serie di elementi peculiari propri dello spazio coloniale italiano: un sistema amministrativo orientato a ricercare i collaboratori più fidati tra le élite tradizionali piuttosto che tra gli évolués della società coloniale; il limite imposto all’istruzione dei sudditi che potevano al massimo conseguire la terza elementare (nel 1926 venne introdotto un quarto anno) secondo un preciso intento di inculcare la subordinazione e limitare la partecipazione dei colonizzati ai livelli più bassi della società; la legislazione razziale che a partire dal 1937 sancì la separatezza dei sudditi attraverso sanzioni penali che andavano al di là di ogni razzismo coloniale fatto di pregiudizi, comportamenti e ideologie; infine l’emigrazione di coloni alla ricerca di una promozione sociale difficile da ottenersi nella madrepatria che si trovarono spesso a competere con gli africani alla base della società coloniale per lavori anche molto umili che in altri contesti coloniali sarebbero stati destinati ai sudditi africani. Considerando una società coloniale informata da tali specificità che agirono da altrettanti vincoli alla mobilità sociale, un importante gruppo di intermediari fu quello degli ascari (soldati) coloniali. Come è stato ampiamente dimostrato per il caso dell’Eritrea, gli ascari rispondevano all’esigenza di costruire una prassi di collaborazione indotta con il potere europeo, ma al tempo stesso l’arruolamento costituiva anche una delle rare occasioni offerte ai sudditi coloniali per accedere a un processo di mobilità sociale spesso esteso anche ai figli dei soldati. Gli ascari in Eritrea costituirono una élite di fatto in ragione della loro paga che, specialmente durante le campagne militari, era senza dubbio superiore alla media di quanto gli eritrei potevano guadagnare sul mercato coloniale del lavoro. Più in generale si comprende bene l’importanza degli ascari per lo studio delle dinamiche di potere all’interno della società coloniale se si considera che il colonialismo italiano fu impegnato in una lunghissima teoria di imprese militari praticamente senza soluzione di continuità fino alla sconfitta nella seconda guerra mondiale (le due guerre italoetiopiche, la guerra di Libia – la più lunga dell’intera storia dell’Italia unita – e le operazioni di polizia coloniale in Somalia). A partire dal 1912 furono impiegati in Libia almeno 60 mila ascari eritrei ed etiopici, mentre oltre 100 mila furono quelli eritrei, somali e libici che presero parte alla seconda guerra italo-etiopica nel 1935-36. La sconfitta dell’Italia nella seconda guerra mondiale e l’occupazione delle colonie da parte delle truppe inglesi e del Commonwealth posero fine al dominio coloniale italiano in Africa, salvo l’appendice specialissima (1950-60) dell’Amministrazione fiduciaria italiana della Somalia (Afis), e conseguentemente misero in discussione quel sistema che individuava negli ascari uno dei gruppi principali di intermediazione: gli effetti conseguenti furono diversificati e in alcuni casi inaspettati. La nuova Italia cercò di trasformare il legame coloniale con gli ascari in un nuovo legame politico per farne in Africa dei potenziali sostenitori dell’influenza italiana, ma le tante continuità coloniali, in Italia e in Africa, inficiarono un tale disegno all’interno di un rapporto nel quale gli ascari insieme ad altri sudditi dimostrarono di non essere meramente soggetti destinatari o strumenti di decisioni maturate altrove, ma al contrario furono capaci di contrattare e perseguire obiettivi loro propri all’interno di un rapporto con l’ex madrepatria che non può ridursi dunque alla sola collaborazione, ma si inscrive una volta in più nel paradigma di una pragmatica intermediazione. Antonio M. Morone