Attribuire una mente a individui e gruppi - In-Mind

Attribuire una mente a individui e gruppi
In-Mind Italia
IV, 8–13
http://it.in-mind.org
ISSN 2240-2454
Giulio Boccato
Università degli Studi di Bergamo
Keywords
Mentalizzazione, dementalizzazione, infraumanizzazione, agency, experience
Questo articolo parla della nostra capacità di percepire la mente degli altri. Quali meccanismi psicologici sono alla base della percezione di mente? Quali sono i fattori che influiscono sull’attribuzione di
mente? Quali dimensioni di giudizio utilizziamo per
decriptare la mente altrui? E se fallissimo nella percezione di mente, non riconoscendola a chi ce l’ha?
Mentalizzazione
La capacità di leggere la mente degli altri mi ha
sempre affascinato, forse per gli elementi di magia e
misticismo associati alla sua immagine. Non è sorprendente che all’incirca tutti gli esseri umani possiedano questa capacità (esclusi quelli con meno di
cinque anni o quelli con una lesione alla corteccia
prefrontale mediale)? Riconoscere una mente agli
altri individui è una componente essenziale della vita
sociale nelle società umane, necessaria per raggiungere due importanti obiettivi per la sopravvivenza
della specie: comprendere, prevedere, e controllare
il comportamento degli altri e sviluppare una connessione sociale con i membri del proprio gruppo.
Il bisogno di controllo e di connessione sociale sono
i fattori principali che aumentano la necessità di
percepire accuratamente la mente degli altri: l’incertezza, l’ambiguità nell’attribuzione causale, un
aumentato bisogno di controllo (e sufficienti risorse
cognitive), da un lato, il bisogno di appartenenza e il
desiderio di essere connessi con altre entità, dall’altro, sono i motori della percezione di mente (Waytz,
Gray, Epely, & Wegner, 2010).
Il processo di percezione di mente è stato chiamato mentalizzazione (Frith & Frith, 2003). La mentalizzazione consiste nell’inferire l’esistenza di stati
mentali ed eventi interni sulla base di indici esterio-
Fig. 1. Leggere la mente.
ri o di una simulazione dell’esperienza dell’altro. La
percezione di mente varia lungo un continuum. Ad
un estremo, gli individui falliscono nel riconoscere
nell’altro intenzioni, cognizioni, ed emozioni; questa
tendenza viene chiamata dai ricercatori “dementalizzazione.” All’estremo opposto del continuum, gli
individui riconoscono pienamente gli stati mentali
degli attori sociali, ciò che viene chiamato “mentalizzazione.” Sebbene si parli principalmente di attori
Corrispondenza:
Giulio Boccato
Dipartimento di Scienze Umane e Sociali
Università degli Studi di Bergamo
Piazzale S. Agostino, 2 24129, Bergamo, Italy.
E-mail: [email protected]
La percezione di mente
sociali, l’attribuzione di mente non è circoscritta ai
soli esseri umani ma può essere accordata anche ad
altre entità: un gruppo sociale, uno strumento tecnologico, Dio, una persona morta, o in stato vegetativo, etc. Si pensi che in Spagna la maggior parte del
Parlamento ha riconosciuto agli scimpanzé alcuni
diritti umani, proprio per le loro evidenti capacità
mentali (Abend, 2008). Quotidianamente, mi capita di discutere con il computer su cui sto lavorando
ora. Con SPSS (il software statistico che permette di
verificare i risultati di una ricerca), ho condiviso dei
momenti di forte felicità e rabbia [sic!]. È probabilmente capitato anche a voi di interagire con un essere inanimato, ad esempio il computer o l’automobile,
addirittura attribuirgli responsabilità, come se avesse una mente: non preoccupatevi, non è un segnale
di disturbo psichico ma più semplicemente una forma di antropomorfismo (Epley, Waytz, & Cacioppo,
2007; si veda glossario). È più preoccupante invece
non percepire la mente in chi ce l’ha: se ad un essere
umano viene negata la mente, di conseguenza gli
sono negati anche i diritti umani e può essere trattato come un animale o un oggetto (Haslam, 2006). È
quindi importante conoscere i meccanismi psicologici che portano a percepire la mente dell’altro.
Gli individui attribuiscono una mente a sé e agli
altri. Quando pensano agli altri in termini di credenze, atteggiamenti, pensieri, o emozioni ma anche quando cercano di prevedere il comportamento
altrui sulla base di caratteristiche mentali siamo di
fronte all’attribuzione di mente. Noi esseri umani
non possiamo percepire direttamente gli stati mentali di un altro, ma possiamo solo inferirli sulla base
di metodi indiretti, quali l’osservazione del comportamento, il resoconto degli altri, o l’intuizione. Il
primo meccanismo per conoscere la mente dell’altro
sembra essere una simulazione egocentrica. Come
diceva Piaget (1932/2009), i bambini fino ai cinque
anni non sono consapevoli che le percezioni degli
altri siano diverse dalle proprie; difficilmente un
bambino comprende che la visione di un oggetto
possa essere diversa dalla propria, ad esempio per
una persona che vede lo stesso oggetto da una posizione diversa (Flavell, 1986). Gli adulti mantengono questa prospettiva egocentrica come punto di
partenza nei giudizi sociali. Durante lo sviluppo
apprendono una serie di informazioni sociali sugli
altri o su gruppi di altri: stereotipi, aspettative, e teorie ingenue su come funzioni la mente forniscono
il secondo meccanismo per intuire gli stati mentali
degli altri. La ricerca nelle scienze cognitive (Epley,
2008) suggerisce che la propria prospettiva serva da
punto di partenza quando cominciamo a considerare
la mente di un altro; le informazioni sociali entrano
in gioco solo in un momento successivo, per aggiu-
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stare o correggere l’iniziale valutazione egocentrica:
un’euristica di ancoraggio e aggiustamento (Tversky
& Kahneman, 1974; si veda glossario).
Sebbene in età adulta il default egocentrico possa essere corretto, risorse cognitive permettendo
(Kruger, 1999), la nostra percezione della mente
degli altri non è sempre accurata. Ciò può dipendere dal fatto che gli stereotipi che abbiamo appreso
sono inaccurati o dal fatto che emozioni, desideri,
e aspettative guidano la nostra percezione tanto da
rendere impossibile decriptare correttamente gli stati mentali altrui. Si pensi alle relazioni romantiche:
quando siamo interessati a iniziare una relazione intima tendiamo a sovrastimare le intenzioni amorose
nei comportamenti del partner (Vorauer & Ratner,
1996). Quando invece siamo insoddisfatti nella relazione, tendiamo a sovrastimare le intenzioni ostili
nei comportamenti del partner (Schweinle, Ickes, &
Bernstein, 2002).
I moderatori della percezione di mente sono coerenti con un modello di ancoraggio egocentrico e
successivo aggiustamento. È più probabile che ci
affidiamo ad una prospettiva egocentrica quando
attribuiamo una mente a persone che percepiamo
come simili a noi piuttosto che diverse da noi: un
processo chiamato “proiezione sociale” (Krueger,
2007; si veda glossario). Inoltre, le persone che vivono in culture che enfatizzano la prospettiva dell’altro (cioè, le culture collettivistiche) sono più abili a
superare il default egocentrico, rispetto alle persone
che vivono in culture che enfatizzano il sé (cioè, le
culture individualistiche) (Wu & Keysar, 2007).
Mente, simpatia, e gruppi
Forse non vi sorprenderò dicendovi che troviamo
più facile considerare la mente delle persone che
ci piacciono (McPherson-Frantz & Janoff-Bulman,
2000). Ciò può derivare sia da un effetto di familiarità sia da attribuzioni positive (Malle & Pearce,
2001): in ogni caso, siamo più motivati a credere
che le persone che ci piacciono abbiano maggiori
capacità mentali. Ad esempio, Kozak, Marsh, e Wegner (2006) hanno condotto una serie di studi per
verificare se la simpatia influenzasse la percezione
di mente: i partecipanti leggevano un brano che parlava di Mike, uno studente immaginario descritto, a
seconda della condizione, in modo da indurre simpatia oppure antipatia; poi valutavano Mike sulla base
delle affermazioni presentate in una scala costruita
ad hoc: la Mind Attribution Scale misura quanto un
target sia in grado di provare emozioni, cognizioni,
e intenzioni. Come ipotizzato, il Mike simpatico riceveva maggiori punteggi di mente in tutte e tre le
dimensioni. In uno studio successivo, si manipolava
Boccato
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la sofferenza del target. I partecipati leggevano la
storia di Mike, uno studente che stava affrontando
delle difficoltà economiche e sociali. La storia aveva due finali diversi: uno che portava all’aggravarsi
delle condizioni e a una forte sofferenza, l’altro era
un finale positivo. I risultati mostrano che il Mike
sofferente era meno gradito di quello con finale positivo. Inoltre, al Mike sofferente venivano attribuite
meno intenzioni e cognizioni. Quest’ultimo risultato
apre una riflessione su una possibile natura difensiva della dementalizzazione: alcune ricerche hanno mostrato come il dolore di vittime o entità che
soffrono possa essere sminuito negando le capacità
mentali (Castano & Giner-Sorolla, 2006; Loughnan,
Bratanova, & Puvia, 2012). Infatti, se un soggetto
non possiede la mente non ha la capacità di sentire
il dolore, e ciò ci libera dallo stress che deriva dalla consapevolezza dell’altrui sofferenza (Bandura,
Barbaranelli, Caprara, & Pastorelli, 1996).
Non vi sorprenderò nemmeno dicendovi che
troviamo generalmente più simpatici i membri dei
gruppi a cui apparteniamo (ingroup) rispetto ai
membri di altri gruppi (outgroup). Immaginate di
essere in un treno, siete stanchi e ci sono solo due
posti liberi, equidistanti: accanto ad uno, c’è un ragazzo bianco, accanto all’altro, un ragazzo nero.
Dove andrete a sedervi? Questo effetto viene chiamato dagli psicologi sociali ingroup favoritism bias:
una tendenza sistematica a preferire e favorire i
membri dell’ingroup rispetto a quelli dell’outgroup,
che si esprime in valutazioni positive, allocazioni
di risorse, desiderio di contatto, e molti altri modi
(Hewstone, Stroebe, Jonas, & Voci, 2010; Hogg
& Vaughan, 2012). Si attribuisce anche più mente
all’ingroup che all’outgroup? Sebbene la ricerca sul
tema sia ancora ad uno stadio iniziale, si può dire
che gli individui attribuiscano all’ingroup più emozioni complesse (Leyens et al., 2007) ed alcuni stati mentali tipicamente umani (Haslam, 2006), che
all’outgroup. I membri dell’outgroup possono essere associati ad animali con ridotte capacità mentali
(Boccato, Capozza, Falvo, & Durante, 2008; Capozza, Boccato, Andrighetto, & Falvo, 2009). Inoltre,
i membri di gruppi estremamente negativi (ad es.,
tossicodipendenti e homeless) non attivano la corteccia prefrontale mediale (Harris & Fiske, 2006),
una regione cerebrale coinvolta nell’attribuzione di
mente. Infine, quando l’attenzione è focalizzata sul
corpo di una persona, a questa sono attribuite meno
capacità mentali, un fenomeno chiamato oggettivazione (Loughnan et al., 2010).
Nel contesto della teoria dell’infraumanizzazione (Leyens et al., 2001, 2007), è stato dimostrato
che gli individui assegnano una specifica capacità
mentale complessa maggiormente ai membri del
proprio gruppo. Si distingue tra emozioni primarie
ed emozioni secondarie: le emozioni primarie (ad
es., gioia e rabbia) sono provate sia dagli animali
che dagli esseri umani, mentre le emozioni secondarie (ad es., entusiasmo e nostalgia) sono provate
unicamente dagli esseri umani. Al fine di definire il
proprio gruppo come più umano e relegare gli altri
gruppi ad uno status “diversamente umano,” gli individui attribuiscono più emozioni secondarie all’ingroup; non emergono differenze nell’attribuzione
di emozioni primarie. Boccato, Cortes, Demoulin,
e Leyens (2007) hanno condotto uno studio da cui
è emerso che l’infraumanizzazzione dell’altro avviene in modo automatico. In questo studio, i partecipanti eseguivano un compito di categorizzazione
di persone (Blair & Banaji, 1996): sullo schermo
del computer, apparivano delle foto di volti dell’ingroup (bianchi) e dell’outgroup (neri); ogni foto era
preceduta da una parola, che poteva essere un’emozione primaria o un’emozione secondaria. I risultati
hanno confermato che i partecipanti erano più rapidi nel riconoscere i volti dell’ingroup, rispetto a
quelli dell’outgroup, quando preceduti da emozioni
secondarie. Nessuna differenza è emersa nel riconoscimento dei volti quando preceduti da emozioni
primarie.
Più recentemente, Boccato e Capozza (2012) hanno esteso questo effetto anche alle cognizioni. I partecipanti eseguivano un compito di identificazione di
nomi: sullo schermo del computer apparivano nomi
di persona dell’ingroup (italiani) e dell’outgroup
(marocchini); ogni nome era preceduto da una parola, che poteva essere una cognizione primaria (ad
es., istinto e percezione) o una cognizione secondaria (ad es., introspezione e analisi). Come nello
studio precedente, i partecipanti erano più rapidi
nell’identificare i nomi dell’ingroup, rispetto a quelli
dell’outgroup, quando questi erano preceduti da una
cognizione secondaria o unicamente umana. Nessuna differenza è emersa nel caso delle cognizioni
primarie.
E per quanto riguarda le intenzioni?
Agency e Experience
Nella ricerca in psicologia, si assume generalmente
che la percezione di mente avvenga lungo un’unica
dimensione, cioè un’entità ha più o meno mente. Gli
studi su come gli scimpanzé (Premack & Woodruff,
1978) e i pazienti con autismo (Baron-Cohen, 1995)
percepiscano la mente, utilizzano diversi indicatori, ma nessuno riconducibile a dimensioni distinte.
Kozak e colleghi (2006), come anche noi in questo
articolo, hanno utilizzato tre dimensioni per caratterizzare la mente: emozioni, cognizioni, e intenzioni.
La percezione di mente
Loughnan e colleghi (2010) hanno utilizzato quattro
dimensioni: percezioni, emozioni, cognizioni, e intenzioni. Quali dimensioni utilizziamo quando pensiamo alla mente?
Gray, Gray e Wegner nel 2007 hanno svolto uno
studio per rispondere a questa domanda. Più di 2000
persone hanno partecipato allo studio, completando un questionario on-line (prova anche tu: https://
research.wjh.harvard.edu/mind/). I partecipanti valutavano le capacità mentali (ad es., la capacità di
provare dolore) di diversi target (esseri umani, animali, e altre entità). Dall’analisi dei dati sono emerse
due dimensioni di percezione di mente: la capacità
di sentire, chiamata “experience” (ad es., dolore e
piacere), e la capacità di fare, pianificare, chiamata
“agency” (ad es., autocontrollo e pianificazione). È
emerso, ad esempio, che Dio viene giudicato basso
in experience e alto in agency; animali e bambini
alti in experience e bassi in agency; un robot basso
in experience e moderatamente alto in agency; infine, uomini, donne, e il partecipante stesso (“you”)
alti sia in experience che in agency.
Questa distinzione tra agency e experience sembra rispecchiare dimensioni di giudizio già note nelle scienze sociali. Si pensi alla classica distinzione
aristotelica tra agente morale (le cui azioni possono
essere giudicate moralmente) e paziente morale (che
ha diritti morali). Nel giudizio sociale (Fiske, Cuddy,
Glick, & Xu, 2002), si utilizzano le due dimensioni
fondamentali: calore (simile a experience) e competenza (simile a agency). Nella teoria dell’infraumanizzazione (Leyens et al., 2001), si distingue tra
caratteristiche condivise da animali ed esseri umani (emozioni primarie) e caratteristiche unicamente
umane (emozioni secondarie). Nelle più recenti teorizzazioni sulla deumanizzazione (Haslam, 2006), si
distingue tra tipicamente umano (ad es., l’emotività)
e unicamente umano (ad es., la moralità).
Parlando di gruppi sociali (Loughnan & Haslam,
2007), la negazione di tratti tipicamente umani porta ad una deumanizzazione meccanicistica (ad es.,
un manager viene assimilato ad un robot), mentre
la negazione di tratti unicamente umani porta ad
una deumanizzazione animalistica (ad es., un artista viene assimilato ad un animale). Si può dire lo
stesso per agency e experience? Sebbene queste due
dimensioni di percezione di mente si siano rivelate utili nelle scienze cognitive e sociali (Waytz et
al., 2010), l’attribuzione di agency e experience ai
gruppi sociali rimane un tema inesplorato (ma vedi:
Waytz & Young, 2012). Attualmente, stiamo conducendo nei nostri laboratori una serie di studi per
esaminare come le persone percepiscano la mente
di diversi gruppi sociali, e se l’appartenenza ad un
gruppo possa moderare l’attribuzione di agency e
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experience ad ingroup e outgroup.
Conclusione
Nessun altra specie sul pianeta è capace di leggere la
mente degli altri come gli esseri umani (Hare, 2007).
Questa capacità si è evoluta perché ci permette di
prevedere il comportamento e formare le relazioni
sociali necessarie all’appartenenza di gruppo, elementi necessari alla sopravvivenza. Leggiamo la
mente degli altri partendo da una simulazione egocentrica dell’esperienza mentale altrui e poi correggendola sulla base di ulteriori informazioni, che
abbiamo appreso durante il corso della nostra vita.
A questo punto, si pongono due questioni importanti: c’è molta variabilità intra- ed inter-individuale
nell’accuratezza con cui decifriamo la mente degli
altri e il fallimento nel percepire la mente può portare alla negazione di umanità, un fenomeno ben descritto dai tragici eventi, quali i genocidi, che hanno
caratterizzato la storia dell’umanità. È quindi necessario continuare a studiare la percezione di mente al
fine di comprendere tale variabilità e proporre delle
strategie per migliorare questa abilità. Lo sviluppo
di questa linea di ricerca dovrebbe essere volto a delineare un quadro teorico completo che integri i diversi approcci scientifici all’interno di una struttura
generale, che tenga conto dei progressi nelle neuroscienze (Gallese, Keyers, & Rizzolati, 2004; Marsh
et al., 2010), delle inferenze sulla mente di agenti
non-umani (Waytz, Epley, & Cacioppo, 2010), delle
conseguenze del fallimento ad attribuire una mente
ad individui e gruppi (Haslam, 2006), delle implicazioni per il benessere individuale (Gilbert, 2006)
e per le relazioni terapeutiche e di cura (Haque &
Waytz, 2012).
Glossario
Antropomorfismo. L’antropomorfismo è il processo di
attribuzione di caratteristiche unicamente umane ad altri
animali, entità non animate, fenomeni, oggetti tecnologici, o altri concetti astratti quali organizzazioni, governi,
o entità sovraordinate. Il termine deriva dalla combinazione dei termini greci ánthrōpos (umano) e morphē
(forma).
Euristica. Le euristiche sono scorciatoie o strategie cognitive che forniscono alle persone la capacità di produrre inferenze abbastanza accurate; nei processi decisionali, le euristiche aiutano a tradurre un problema complesso
in più semplici operazioni di giudizio. Le euristiche più
studiate sono quelle della rappresentatività, della disponibilità, ancoraggio e accomodamento.
Proiezione sociale. La proiezione sociale è la tendenza
ad aspettarsi delle somiglianze tra sé e gli altri. Partendo
dalle proprie disposizioni o preferenze, le persone fanno
rapidamente delle previsioni su come sono gli altri o su
cosa hanno intenzione di fare. Più gli altri sono valuta-
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ti come simili (ad es., i membri dell’ingroup) più alta la
proiezione delle proprie caratteristiche nel giudicarli.
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Giulio Boccato si è laureato all’Università di Padova in Psicologia Sociale e del Lavoro ed ha ottenuto il
dottorato in Scienze Psicologiche
all’Università Cattolica di Lovanio,
in Belgio. Attualmente, è ricercatore
all’Università di Bergamo dove insegna Metodologia di Ricerca e Psicologia dei Gruppi.
Tra gli interessi di ricerca, oltre all’infraumanizzazione,
la negazione di mente a gruppi stigmatizzati. Giulio è
editor di In-Mind Italia.