cool maggio

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anno IV
numero 37
maggio 2007
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CoolClub.it
La favola del sud che hanno cercato di venderti è finita, quella favola è una mezza verità. Da un po’ di anni a questa
parte, occupati a recuperare una tradizione che io ammetto di aver scoperto con il resto dell’Italia e a vendere il
sogno in crinoline di un Salento miraggio, l’agiografia di una terra, abbiamo perso il senso della normalità inventandoci
la salentinità. Ci siamo dimenticati che questa è anche e purtroppo una terra di mafia, di morti ammazzati, di traffici,
di nulla riempito da paradisi artificiali con biglietti di sola andata. La vita non è una sagra, una notte e via, la vita è
ogni giorno, la vita è cronaca e non solo costume e società. Ci apprestiamo felici e scontenti alla transumanza estiva
sulle coste, molti pronti con la pantomima della terra incredibile, con la qualità della vita alle stelle, con la gente
accogliente, con i sapori, con la musica, con le feste sulla spiaggia. Altri no.
C’è chi ha deciso di raccontare un altro Salento che non deve essere dimenticato. Una strana coincidenza che non
può essere solo un caso, ma probabilmente l’urgenza di parlare di un altro sud. Il collettivo Fluid video Crew e Edoardo
Winspeare ci hanno fatto vedere (in passato) un sud, quello che volevamo e volevano vedere. I primi quello delle
piccole stazioni ferroviarie, delle cartoline, dei personaggi, della storia. Il secondo quello della pizzica, delle credenze
popolari. Ma oggi entrambi scelgono di raccontare quello che ironicamente abbiamo chiamato The dark side of the...
sud.
Fine pena mai dei Fluid Video Crew narra la drammatica vita di Antonio Perrone, la sua affiliazione alla sacra
corona unità, uno spaccato drammatico della nostra terra. Edoardo Winspeare sta invece per iniziare le riprese de I
Galantuomini, storia d’amore tra un giudice antimafia e la moglie di un picciotto della mala.
Lo stesso sud raccontato da Omar di Monopoli nel suo bellissimo romanzo Uomini e Cani. È arrivato il momento di fare
ammenda, confessione. Noi di Coolclub.it ci prepariamo così all’estate, con questo numero sull’altro lato del Salento.
Un lato oscuro che oltre ai peccati nasconde le cose belle che non sono sotto i riflettori. Anche di questo parliamo in
queste pagine con le nostre recensioni, le interviste, le segnalazioni.
Buona lettura
Osvaldo Piliego
CoolClub.it
Via De Jacobis 42 73100 Lecce
Telefono: 0832303707
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Sito: www.coolclub.it
Anno IV Numero 37
maggio 2007
Iscritto al registro della stampa
del tribunale di Lecce il
15.01.2004 al n.844
Direttore responsabile
Osvaldo Piliego
Collettivo redazionale
Dario Goffredo, Pierpaolo Lala,
C. Michele Pierri, Cesare Liaci,
Antonietta Rosato
4 Fine Pena
Mai
In copertina: Ugo Lops sul set di
Fine Pena Mai dei Fluid Video
Crew (foto Maurizio Buttazzo)
7 Edoardo
Winspeare
Hanno collaborato a questo
numero: Franco Farina, Mauro
Marino, Dino Amenduni,
Bob Sinisi, Gennaro Azzollini,
Livio Polini, Anna Puricella,
Valentina Cataldo, Enrico
Martello, Nicola Pace,
Giancarlo Bruno, Gianpaolo
Chiriacò, Ilario Galati,
Vincenzo Schirosi, Rossano
Astremo, Silvestro Ferrara,
Maria Grazia Piemontese,
Stefania Ricchiuto, Stefano
Donno, Willy De Giorgi,
Francesca Vantaggiato,
Sabrina Manna
Ringraziamo Maurizio Buttazzo,
le redazioni di Musicaround.
net, Blackmailmag.com,
Primavera Radio di Taranto
e Lecce, Controradio di
Bari, Mondoradio di Tricase
(Le), Ciccio Riccio di Brindisi,
L’impaziente di Lecce,
QuiSalento, Pugliadinotte.net,
Rete Otto e SuperTele.
Progetto grafico
dario
Impaginazione
Danilo Scalera
Stampa
Martano Editrice - Lecce
Chiuso in redazione.... ei fu
siccome immobile....
L’abbonamento al giornale
varia dai 10 ai 100 euro. Per
informazioni 3394313397.
9 Keep Cool
19 Simone
Cristicchi
21 Kama
22 Salto
nell’indie
23 Coolibrì
26 Omar Di
Monopoli
29 Be Cool
35 Appuntamenti
31 Valeria
Golino
38 Fumetto
}
CoolClub.it C
Non è che andare per set sia proprio divertente. La cosa migliore
che ti può capitare è di fare il palo nel punto più remoto della
situazione. Quello, per capirci, da dove non si vede niente se non
un andirivieni di tecnici che imprecano, quasi sempre perché con
la tua presenza stai ostruendo una percorribilità invisibile ad occhio
non allenato. Ore e ore di attesa in questo stato d’imbarazzante
intromissione: e sì, perché sul set non è come al cinema che le scene si susseguono con un senso ed una regolarità tali da motivare
la tua permanenza sulla poltrona. Sul set, le scene hanno un ordine tutto loro, quasi mai cronologico. E comunque sono talmente
spezzettate in dettagli apparentemente insignificanti nell’economia della visione d’insieme, che l’unica sensazione che ti può confortare è di stare perdendo il tuo tempo. La prima volta che sono
stato sul set di Fine pena mai, il film di Davide Barletti e Lorenzo
Conte dei Fluid Video Crew ispirato al libro di Antonio Perrone Vista
d’interni (Manni), era una notte buia e tempestosa. Le riprese del
film erano iniziate da meno di una settimana e, alla faccia dell’inverno mite e delle stagioni che non ci sono più, quelli erano giorni
in cui non faceva altro che piovere. Si girava in una masseria nella
campagna tra Galatina e Copertino. Il che, tradotto in termini di
memoria sintetizzabile in due parole le cui iniziali coincidono cabalisticamente con quelle del mio nome, significava Freddo e Fango.
La scena era un interno notturno che riproduceva il rifugio di un
evaso. Lo spazio al chiuso talmente ingombro che era impensabile sostare all’interno già affollato dalla troupe. Non fosse stato
per Biagino Bleve e Maurizio Buttazzo, probabilmente quella notte
sarei tornato a casa solo con un inizio d’influenza. Ma devo invece
a loro il conforto di un’accoglienza tutt’altro che formale, nonché
alcune dritte per riuscire ad entrare nello spirito del film da un ingresso meno complicato. Della storia sapevo abbastanza. Avevo
già letto diversi anni prima il libro e ne ero rimasto lacerato, nella
dualità di un racconto di un detenuto in regime speciale che rivive
le circostanze che hanno determinato la sua reclusione con cinica
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lucidità. Sapevo che Davide voleva farne un film per riflettere sugli
anni psichedelici del Salento. Quelli, cioè, in cui tutta una generazione di giovani borghesi ci andava giù pesante con le droghe,
molto spesso non disdegnando di lasciarsi coinvolgere in situazioni
di criminalità, non sempre e non solo per procurarsela. Gli anni,
insomma, che erano stati spazzati via dai maxi processi e sostituiti
con scaltrezza dagli slogan Salentu-mare-jentu che anticipavano
il paradiso-inferno del turismo di massa su cui, probabilmente, ci
ritroveremo a riflettere tra qualche tempo. Ma torniamo al set. Dicevo dell’accesso nascosto. Che prese forma nella visita guidata
di Sabrina Balestra, scenografa del film. Sabrina mi portò in un androne della masseria, dove tutto il film (o quasi) era raccontato
dai mobili che sarebbero serviti ad arredare questa storia d’amore
e malavita. Mobili ordinari, quelli della prima parte, e sempre più
ricercati, mano a mano che il racconto procedeva nella spirale
del delirio di onnipotenza dei protagonisti. Mi colpì una poltrona,
di quelle tipicamente anni Ottanta, con la base in acciaio lucido
che rifletteva come uno specchio tutto l’ambiente circostante: su
quel trono, Claudio Santamaria (nella parte di Antonio) avrebbe
regnato nell’effimero impero allucinogeno destinato ad infrangersi di lì a poco.
Ecco, io credo che questo specchio distorto, questo riflesso alterato di una realtà su cui nessuno si era mai soffermato abbastanza prima d’ora, costituisca il primo punto di forza di questo film. E
la mia presenza sul set, quella notte, me ne persuase senz’altro.
Insieme alla sensazione che, sebbene fossi entrato da una porta
secondaria, ero stato testimone consapevole di una scommessa
tutta giocata su un modo diverso di fare cinema su questo territorio, troppo spesso favorito solo dalla logica estetica di location
assolate sulle quali incombe, però, l’ombra necessaria di una coscienza con cui tutti, prima o poi, dovremo fare i conti.
Francesco Farina
CoolClub.it C
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È difficile parlare dei film senza
aver visto immagini o letto la
sceneggiatura. Ci si fida delle parole
dei protagonisti, del regista, degli
autori. E anche per loro è difficile
raccontare ciò che ancora non è
stato girato ma è stato solo pensato
e immaginato. La parola scritta è
una cosa, il rendere tutto l’inchiostro
in immagini e suoni, fotografia e
sensazioni è opera complessa.
In questi ultimi anni il Salento si è
trasformato in una ambita meta di
turismo: mare, sole, vento, muretti
a secco, notte della taranta, pizzica, caldo e afa. Ma questa
terra deve fare i conti con il suo passato, con i difficili anni dei
morti ammazzati per strada, delle sparatorie in pieno centro,
dei comuni commissariati per la collusione con la malavita, dei
maxiprocessi, della droga, degli sbarchi dei clandestini. E non è un
caso che i due registi più rappresentativi di questa terra, Davide
Barletti dei Fluid Video Crew ed Edoardo Winspeare, abbiamo
deciso di raccontare storie d’amore che abbiamo come sfondo
questi anni.
A settembre tra il Salento e l’altra sponda dell’Adriatico
prenderanno il via le riprese de I Galantuomini scritto da Winspeare
con Andrea Piva (fratello del regista Alessandro e coautore delle
sue pellicole) e con il salentino Alessandro Valenti (già interprete
di Sangue Vivo e regista di numerosi cortometraggi).
Dopo l’ambientazione tarantina de Il Miracolo, in concorso
alla Mostra del Cinema di Venezia, Winspeare torna a girare
nella provincia di Lecce, come per Sangue Vivo e Pizzicata.
“Raccontiamo una storia d’amore fra un magistrato, figlio di
un’ottima famiglia leccese, di quelle con il palazzo sul corso,
e una ragazza figlia di contadini che erano cresciuti insieme.
Si ritrovano dopo molti anni. Lui è un uomo di legge, lei nel
frattempo è diventata una criminale e ha sposato un affiliato
della Sacra Corona Unita”. La storia si dipana tra i primi anni ’70,
quando i due protagonisti sono dei ragazzi, e gli anni ’90 quando
si reincontrano.
“Abbiamo volutamente saltato gli anni ’80. In questo salto
tra i decenni abbiamo cercato di raccontare la perdita
dell’innocenza di questa terra; non che tutto fosse idilliaco, ma
la nascita della sacra corona unita è un po’ la metafora della
perdita dell’innocenza. È un film sulla legge morale: è lecito
innamorarsi di una donna che ha deciso di stare dalla parte del
male?”. Il racconto è ancorato alla realtà ma è di pura finzione.
“La realtà a volte è molto più incredibile della nostra creatività.
Ci siamo documentati molto, ci siamo confortati con giornalisti
e forze dell’ordine con i magistrati Cataldo Motta, Leonardo
Leone De Castris e Alberto Maritati”. Da questa ricostruzione
esce fuori una Sacra Corona Unita molto diversa dalla Mafia.
“La Scu poggia su un terreno poco fertile. Da queste parti non
c’è una mentalità mafiosa. Nonostante quanto è accaduto le
nostre comunità sono ancora integre, ci sono solidarietà, rispetto.
È una criminalità organizzata che si è macchiata di reati efferati
ma dove, ad esempio, non c’erano le grandi famiglie che
volevano gestire il potere in maniera piramidale”. Da una parte
la malavita e una ragazza, moglie di un picciotto ammazzato,
che nonostante provenga da una famiglia di lavoratori si lascia
corrompere dal crimine, e dall’altra invece la borghesia leccese,
quella Lecce bene dei notabili e dell’avvocatura. Il protagonista
Ignazio De Rao, figlio di Oronzo e Irene (e anche qui è tutto un
programma), sarà intepretrato da Fabrizio Gifuni, una delle realtà
più interessanti del cinema italiano. “Nel Salento sono davvero
a mio agio anche perché per metà la mia famiglia è pugliese,
precisamente di Lucera in provincia di Foggia. Credo che questa
terra, al di là del boom degli ultimi anni sia una terra straordinaria,
variegata e ricca di storia, cosa che mi rende molto più facile
stabilire un contatto con un salentino piuttosto che ad esempio
con un siciliano. Purtroppo per il mestiere che faccio mi riesce
sempre difficile venire qui al di fuori del periodo vacanziero perchè
il teatro, spesso e volentieri e per ragioni che io ignoro stenta a
varcare la soglia di Napoli. In ogni caso ho avuto modo di venire a
Lecce e recitare ai Cantieri Koreja che ritengo una delle realtà più
interessanti e dinamiche del panorama italiano”. E adesso questo
film con Winspeare. “Era parecchio che non leggevo un copione
così coinvolgente e non ho esitato ad accettare la proposta.
Inoltre c’è un’aria che mi pone in sintonia col personaggio, forse
perché oltre alle mie origini pugliesi anche nella mia famiglia c’è
una lunga tradizione di giuristi”. La protagonista femminile sarà
invece Donatella Finocchiaro, già interprete di Perduto Amor
di Franco Battiato, Il regista di Matrimoni di Marco Bellocchio e
Angela di Roberta Torre. Nel cast, conferma il regista, ci saranno
anche numerosi attori salentini. (pila e picimi)
Keep Cool
Pop, Alternative, Metal, Elettronica, Lounge,Italiana, Indie
la musica secondo coolcub
Arctic Monkeys
Favourite worst nightmare
Domino
rock / ****
Le scimmie sono tornate. E questa, se
vogliamo, è già la notizia. Hanno fatto in
fretta, non sono passati neanche 16 mesi
dal loro (già) classico Whatever people
say i’m, that’s what i’m not (e dire che nel
frattempo hanno anche pubblicato un EP).
Copertine, premi, statistiche entusiasmanti
(360000 copie nella prima settimana di
vendita, record assoluto nel Regno Unito),
senza soluzione di continuità. Ma era il
primo album e tutti noi (i cinici critici in
testa) attendevamo questo quartetto di
Sheffield, età media 20 anni, al varco. Ma
provateci voi a fare un album così solido
con tutte queste pressioni. Provatelo a farlo
rapidamente, mantenendo la freschezza,
migliorando anche il sound complessivo
(i concerti non possono che far bene);
provate a farlo con un bassista (Andy
Nicholson) già tutto esaurito (sostituito da
Nick O’Malley); provate a mantenere quello
standard di “realismo sociale” e di ironia
nei testi, merito di Alex Turner, il cantante,
al momento il vero fattore aggiunto della
band. Provate a farlo in questo periodo
in cui la copertina di Nme vale sempre
meno in senso assoluto, sempre di più in
termini di promozione. Quella stessa rivista
che ha puntato tutto su di te, dopo aver
puntato tutto sui Franz Ferdinand, dando
a entrambi i gruppi una buona mano a
esplodere (anche se tutto sommato, forse
sarebbero esplosi comunque). Loro ci
hanno provato, senza star lì a pianificare
più di tanto: difficile stabilire se questo
album è più frutto di questo “peggior
incubo preferito”, quello di essere una rockstar che deve dimostrare subito qualcosa
e voleva confrontarsi con sé stessa e
con il suo pubblico, o semplicemente
della voglia di suonare, cosa che l’età
giustificherebbe pienamente. Da qualsiasi
movente sia originata, è la velocità l’arma
in più delle Scimmie. La consapevolezza di
ciò spinge a un nuovo artwork futuribile ma
soprattutto alla scelta del primo singolo,
che non a caso è anche la traccia di
apertura dell’album: Brianstorm. La ascolti
e pensi subito che sono in formissima.
Una bomba energetica, che tutti saremo
costretti a ballare. L’album si porta avanti
gradevolmente, con buone tracce (Teddy
Picker), riff da 10 in pagella (If you were
there, beware, davvero ottima), qualche
tentativo di rallentare il ritmo (Only ones
you know), per 37 minuti di rock che
lascia poco spazio a dubbi: i ragazzi sono
bravi. Se il vostro fattore ordinatore della
realtà è il caos, e avete bisogno di novità
sconvolgenti, potete anche ignorare questo
album, per tutti gli altri, salite sul carro dei
vincitori. Le Scimmie vincono, il mio augurio
è che si prendano un po’ più tempo per
sfornare il terzo album. Tanto Favourite
Worst Nightmare metterà a tacere tutti.
Ora la possono anche cambiare questa
storia del rock contemporaneo, no?
Dino Amenduni
KeepCool
10
Modest Mouse
We were dead before the ship even
sank
Sony
indie / *****
Blonde Redhead
23
4 AD
indie pop / *****
Cosa ci fa Johnny Marr (mitico chitarrista
degli Smiths) con i Modest Mouse? Un
disco bellissimo. Un piccolo miracolo
discografico. Un gruppo sicuramente
poco incline a mode e tendenze sforna un
disco che scala le classifiche americane.
Qual è il segreto? Le canzoni (anche il
passaggio alla major fa il suo). I Modest
Mouse non sbagliano un colpo, senza
concedere niente, fedeli alla loro stile
sbilenco, alla teatralità, all’intimismo, alla
sperimentazione. In March in to the sea ci
sono echi di un Waits o un Cave in ottima
forma ma è solo un attimo, We’ve got
Everything è un funky alla Talkin heads
irresistibile. La chitarra di Marr è un collante
a presa rapida e si incastona tra rumore
e melodia. Come non lasciarsi trascinare
da Dashboard brano disco 80 che sembra
omaggiare Bowie. Ed è solo un assaggio,
piccoli indizi di un disco da avere. La
corale Missed the boat è il nuovo inno
indie. (O.P.)
Quante storie ci sono dietro il numero 23, quanti significati, e quanto si è accumulato
alle spalle dei Blonde Redhead in questi anni. Anni di cambiamenti, di incidenti, ma
sono ancora qui rifioriti, in continua crescita, mutazione, verso una forma canzone
assoluta. L’estetica del pop, tutta la grammatica del rock, l’essenzialità, la complessità
è tutta in loro, in questo nuovo album. Il passato delle atmosfere vintage, afflato di
una passione sempre forte per l’Europa e le colonne sonore. Il futuro che respirano
ogni giorno e che dosano con parsimonia in pillole di elettronica. È tutto nelle tracce
di 23 nuova evoluzione del loro sound cangiante. Rock, indie, post, dreampop,
shoegaze poco importa. Di fronte ai Blonde Redhead poco gioca la sequela dei
generi, le gabbie della classificazione. Perché alla fine è tutto così semplice e ricco
che può essere solo bello.
(O.P.)
Travis
The boy with no name
independiente
pop / ***
Nonostante la lunga carriera i più li
hanno conosciuti nel 2001 con il singolo
tormentone Sing. Dopo qualche anno di
silenzio i Travis tornano con un disco che
ben si muove nel solco già tracciato dalla
band. Il pop di matrice inglese domina
le tracce di questo The boy with no
name. Closer, primo singolo estratto ha il
potenziale delle loro precedenti hit. Ma c’è
una leggerezza, una rilassatezza ritrovata
che rende l’intero disco placido, raffinato
grazie anche alla presenza di sua maestà
Godrich e Brian Eno ai controlli. Falsetti alla
Coldplay (qualche trovata vagamente
Sondre Lerche) si adagiano su chitarre
raggianti e cristalline. Le ballad come 3
time and you loose sono l’asse portante
di un disco che alza il tiro in episodi come
Selfish jean e Eyes wide open senza perdere
la gentilezza tipica della band scozzese.
Sembrano trovarsi proprio a loro agio nei
vestiti che si sono cuciti addosso in questi
anni, vestiti caldi, un po’ trasandati, buoni
per l’autunno. (O.P.)
Wilco
Sky blue sky
Nonesuch
indie country / ****
Jeff
Tweedy
sta
meglio,
dopo le vicissitudini personali, la lotta contro le dipendenze di cui il
precedente A
Ghost is born
era impregnato, il leader dei
Wilco ritrova
colore e limpidezza nelle composizioni. I Wilco sembrano aver messo da parte le divagazioni di
alcuni precedenti episodi, per acquisire un
approccio più classico. L’alternative country con quelle sue venature rock, il piglio
indie, il folk, le sonorità southern sono tutti lì,
tra le tracce articolate con maestria, nelle
trovate sempre in discesa che fanno scivolare i brani in atmosfere sempre diverse,
intense. Tra le collaborazioni quella di Jim
O’Rourke, ormai uno di famiglia, e quella
del chitarrista Nels Cline capace di dare
carattere all’intero album. Per gli amanti
della tradizione con un orecchio sempre
proiettato verso il futuro. (O.P)
KeepCool
Nine inch Nails
Year zero
Nothing/Interscope
rock / ***
Come si fa a non trepidare ogni volta
che il signor Reznor mette alle stampe un
nuovo album. Ancora fa male il calcio
nei denti che fu, anni e anni or sono, il
suo rivoluzionario The Downward Spiral.
Niente dopo di allora è stato uguale,
neanche Trent Reznor e la sua creatura
Nine inch Nails. Fortunatamente verrebbe
da dire. Ascoltate, the Good soldier
e godete: il beat sincopato, la voce
in gabbia, la chitarra abrasiva...tutto
distorce a perfezione, satura fino al limite
e diventa magma sonoro in cui i sinth
sono contrappunti melodici. Bentornati nel
futuro gente, i Nine inch Nails sono qui per
raccontarci il presente e l’america con
spietatezza chirurgica. Questo è l’anno
zero, benvenuti. (O.P.)
11
Mauro Ermanno Giovanardi
Dinosaur Jr
Il percorso artistico di Mauro Giovanardi
sembra andare a ritroso. Dopo aver spinto,
con i La Crus, il cantautorato italiano
verso futuribili forme canzone, Mauro
ha cominciato a guardarsi indietro a
riscoprire, anzi a svelare le sue passioni. Si
è messo a nudo, lo ha fatto con l’intensità
dei suoi sentimenti, cantando e recitando
di cuore. Cuore a nudo, è vero, toccante
cronaca di un viaggio, quello di uno
spettacolo portato in giro in tutta Italia, e
racconto di una vita attraverso le canzoni
ma non solo. C’è poesia, teatro una
Girovagando su youtube
m’imbatto
in
un nuovo video
dei Dinosaur jr,
e realizzo che J
Mascis ha riportato alla luce i
suoi
dinosauri
per un nuovo
disco.
Non ho mai visto
di buon occhio
le reunion, e fa sempre un po’ strano vedere gli eroi della propria gioventù, capelli
bianchi e chitarra al collo, che provano a
ricordare i bei tempi che furono. Ma poi
vedo che la formazione è quella dei bellissimi tempi che furono (Lou Barlow e Murph), ascolto il disco e cambio un po’ idea.
Torna quindi chi, negli anni ’80, ha gettato
le basi del sound degli anni ’90. Tornano
i rumorosi chitarroni multistrato spalmati
su quelle giocose melodie pop. Tornano i
deliranti assolo, debordanti come secchi
dell’immondizia vuotati nei giardinetti del
virtuosismo. Torna quella voce indolente e
un po’ stonata, inconfondibile, anche se J
Mascis sembra ormai più un hippie sopravvissuto che un giovane slacker. Tornano i
miei idoli dell’adolescenza e lo fanno con
11 ispiratissime canzoni, ed io non gli resisto. Quattro stellette per il valore, mezza
per la nostalgia.
Giovanni Ottini
Cuore a Nudo
Radio Fandango
canzoni / ***
cornice musicale scarna ed essenziale e
un faro puntato su un uomo e la sua voce.
Voce che ha i segni del tempo, la bellezza
delle cose profonde e misteriose. Più che
cover vere e proprie dichiarazioni d’amore
alla canzone italiana e alla letteratura. C’è
Tenco, Tondelli, De Andrè, Pasolini. C’è
un grande interprete ed emozioni che fa
bene riascoltare. (O.P.)
Pop Levi
The return to form black magick
party
Counter
old-fi / ****
“I’m like Prince making out with Dylan in
Syd Barrett’s bedroom”
Questa è la storia di un viaggiatore del
tempo, il suo nome è Jonathan. Nasce a
Londra, in giovane età è già un provetto pianista, ascolta i dischi di Scott Joplin
e George Gershwin, raggiunge un coro
gospel e a nove anni scrive la sua prima
canzone. Intanto scopre nuove emozioni
sonore, grazie ai Carpenters, ai Beatles,
ai Pink Floyd. Si sposta successivamente
a Liverpool, dove fonda i Super Numeri,
collettivo modern progressive rock dalla
resa ottimale soprattutto nelle espressioni
live, che realizza per la label Ninja Tune un
manciata di album. Poi il nostro, nome in
codice Pop Levi, nel 2004 inizia a suonare il basso per il gruppo electro pop Ladytron, prima di trasferirsi a Los Angeles. Dove inizia a partorire
il progetto che si concretizza ora in The Return To Form Black
Magick Party. Jonathan diventa misteriosamente (quali sostanze
avrà mai assunto?) un riassunto umano delle attitudini musicali di
Prince, Beck, Bob Dylan, Syd Barrett, Jimi Hendrix, Robert Plant,
Jim Morrison, Marc Bolan e Marvin Gaye. Ascoltare per credere il giocoso cocktail old-fi composto di glam, cosmic folk, soul,
garage e pop che il nostro snocciola nelle 11 tracce del lavoro,
Beyond
Fat Possum
indie-rock / ****½
licenziato per la Counter, nuova sub
label della già citata Ninja Tune, dedicata alle sonorità rock.
Sin dalla prima, Sugar Assault Me Now, si
è introdotti in un suggestivo universo psichedelico, in un party hippy tardi anni
‘60. La solita, inutile revisione storica?
Assolutamente no, Pop Levi rielabora e
rimescola efficacemente quarant’anni
di musica senza risultare mai noioso, né
tanto meno clone provvisto esclusivamente di carta carbone. È di fatto un
artista desideroso di fare rivivere sensazioni ed emozioni del passato traghettandole nel nuovo millennio. Dietro le
quinte, peraltro, si muove l’attivissimo
Thom Monahan (Pernice Brothers), già
collaboratore di un menestrello folk
catapultato dalla macchina del tempo ai giorni nostri, Devendra Banhart.
La gestazione del disco ha coinvolto
Jonathan per un lunghissimo periodo:
quando l’ispirazione lo coglieva, lui si
metteva a registrare. Medio Oriente,
Grecia, States, nei contesti più incredibili: il bagno di un aereo,
una chiesa, una nave... Mister Levi ha già lasciato intendere di
avere pronto il suo prossimo album (titolo compreso, Never Never Love), verrà inciso a giugno e sarà completamente diverso
da The Return To Form Black Magick Party. Chissà chi diavolo
avrà intenzione di reincarnare nella prossima occasione, anche
perché il britannico ha affermato di non amare praticamente
nulla della musica attuale...
Bob Sinisi
KeepCool
12
Alex Delivery
Star destroyer
Jagjaguwar/Wide
space-rock / ***½
Kings of Leon
Lush Rimbaud
Riunione di famiglia. I tre fratelli Followill convocano il primo cugino Matthew e
tornano in studio per il terzo album, dopo il meraviglioso debutto di Youth and Young
Manhood (2003) e Aha Shake Heartbreak (2005). Meno timidi e più sicuri rispetto al
passato: considerando la open track, Knocked Up (ben 7 minuti di musica), sembra
abbiano accantonato la rabbia di sempre. Ma poi arriva la scheggia di Charmer,
che rimbalza su My Party e sulla potente Black Thumbnail, e ti accorgi che sono
proprio loro. Perfettamente in grado di sconvolgerti e poi cullarti con le melodie di
The Runner, con i cori di Trunk e con il forte accento del Sud del vocalist Caleb. Due
anni fa il magazine Harp li ha definiti a pieno titolo “una ventata di freschezza nel
panorama della musica moderna, dopo la rivoluzione del punk rock”. Because of the
Times prende il nome dalla conferenza annuale dei pastori della Chiesa americana,
che i ragazzi frequentavano assiduamente da piccoli, essendo figli di un ministro
pentecostale. I riferimenti alla religione e a Gesù non mancano neppure in questo
album. Perché la famiglia, si sa, non si dimentica mai.
Anna Puricella
Questo collettivo di
5 ragazzi di Brooklyn
(Alex non è, come
potrebbe pensare
qualcuno, il nome
del
titolare
del
progetto) di certo
ne hanno ascoltata
di roba vecchia.
Chissà quanti vinili
raccattati ai mercatini, vinti di notte su
ebay, o magari rubati dalle librerie dei
genitori (magari); di certo non arriva dal
nulla questa esplosione di rumorismi retrofuturistici, queste atmosfere di angoscia,
di rabbia, di furore, di confusione, e di
spaesamento, di trans-porto. Di certo ne
hanno consumati di krauti, ma anche
porzioni abbondanti di prog, industrial,
elettro ’80, e poi lo-fi anni novanta, postrock, e digital-pop di fine millennio. In
questo disco, fatto di sei pezzi di cui tre
di circa 10 minuti, c’è tutto questo: per
qualcuno potrà sembrare una ruffianata,
ma a me è piaciuto. Molto spaziali…
Gennaro Azzollini
Action From The Basement
Bloody sound/fromScratch/Sweet
Teddy
noise, garage / ***½
Album ufficiale e
d’esordio per la
band marchigiana
Lush
Rimbaud,
oltre trentaquattro
minuti di violenta
agitazione elettrica.
Dopo alcuni cdr
autoprodotti
ed
un 7”, arriva (con
la
coproduzione
di ben tre etichette) Action From The
Basement, disco composto da otto
tracce, vere e proprie scariche elettriche.
Tommaso Pela (voce e chitarra), insieme
a David Cavalloro e Marco Giaccani
(rispettivamente chitarra e basso, oltre che
voci) e a Michele Alessandrini (batteria),
pare abbiano le idee molto chiare di
cosa voglia dire suonare della buona
musica. La band, formatasi a Falconara
nel 1998, sembra muoversi nella giusta
direzione. Brani altamente coinvolgenti
come Action/Basement o Are You Sure
That Totally Insured Means Totally Insured?
solo per fare alcuni nomi o la magnifica
track di chiusura, più tranquilla ma non per
questo meno malata, Flashing Elevetor.
Sono questi tutti indizi che fanno capire
quanto il disco in questione sia valido,
indubbiamente un buon esordio.
Livio Polini
Ceephax
Volume One
Rephlex
electronica, experimental / ***
Da un artista proveniente dall’etichetta
di AFX Aphex Twin voi cosa vi sareste
Because of the Times
RCA Records
rock / ***
aspettati? Ti fermi
a guardare quella
foto in cui Ceephax
è seduto su una
sedia in una piccola
stanza, circondato
da tastiere synth e
tastierine, mixer e fili
ingarbugliati e vari
aggeggi un po’
vintage ed un po’
artigianali, e pensi
subito che ti trovi di fronte ad un malato
di febbre elettronica, un feticista del suono
sintetico. La foto, molto curiosa, rende
subito il personaggio simpatico. C’è da
dire che Andy Jenkinson, fratello del noto
Squarepusher, non ha avuto originalità nello
scegliere il titolo per il suo album. Stessa cosa
si può dire delle sue composizioni, carine,
ma non particolarmente impressionanti,
ed oltretutto un po’ ripetitive. Alle
battute elettroniche (spesso veloci) si
accompagnano e si fondono rumorini,
interferenze, distorsioni, irregolarità a volte
esplicite e a volte quasi impercettibili.
Il problema, allora, è forse aspettarsi
qualcosa in più? Tutto sommato un lavoro
discreto.
Livio Polini
Kech
Good Night For A Fight
Black Candy/Audioglobe
indiepop / ***½
Nuovo album per la band indiepop
lombarda
Kech.
Dopo
importanti
esperienze in tour (in Italia, ma anche
all’estero) e dopo due buone prove con
i precedenti album, il nuovo e terzo disco
Good Night For A Fight (il secondo targato
Black Candy) sembra proporci un’ulteriore
indicazione riguardo le buone qualità
del quintetto monzese. Dieci brani pop
cantati in lingua inglese, dove la voce,
molto gradevole, è quella di Giovanna
Garlati, a cui si aggiunge (novità) quella
del chitarrista Nicola Perego. Melodie
fresche, vivaci, immediate, ritmi allegri in
brani spesso contagiosi, dal sapore british,
oltre che stelle e strisce. Non mancano,
poi, momenti riflessivi e di maggiore
ricercatezza, ed è proprio per questo che
il disco sembra ben riuscito. Irresistibili sono
canzoni come l’allegra e coinvolgente
Tidoung e la stessa Good Night For A Fight
che dà il nome all’album, l’emozionante
The Coup, la sensibile quanto elegante
track di chiusura Things. Una sola parola:
irresistibili.
Livio Polini
KeepCool
13
Faithless
To the all new arrivals
Umg
trip-pop / ***½
A volte (ri)tornano.
Erano stati dati per
finiti. Voci del 2005 li
davano per sciolti,
e la quasi contemporanea dipartita
dei Moloko, gemelli
portabandiera
di
un’Inghilterra elettronica d’esportazione, ha reso verosimile ogni speculazione. Esce anche il
Greatest Hits a confonderti (per 8 mesi nelle classifiche inglesi). Poi, la bolla esplode.
Nessuno sconvolgimento, nessun cambio
di formazione. Anzi, si (ri)lanciano in pista.
Tornano i Faithless, quelli del cantante spoken-poet (Maxi Jazz), del DJ dai grandi numeri (Rollo) e della tastierista trance (Sister
Bliss). Rollo (ri)porta la sorella Dido, ed è
show: Last This Day è canzone perfetta per
ogni compilation. Fiammate insospettabili
da Robert Smith che rifà Lullaby trasformandola in Spiders, Crocodiles & Kyrptonite. (Ri)scopriamo Cat Power, in forma eccellente in A kind of peace. Per il resto, la
formula è quella consolidata, un po’ meno
dance, un po’ più pop. Un album per tutti
coloro i quali non li conoscevano. Noialtri,
possiamo (ri)tornare ad amarli.
Dino Amenduni
The sea and cake
Everybody
Thrill Jockey Records
post-pop / ****
Feist
The reminder
Interscope
Pop ****½
Si dice che esistano album che ti cambiano la
vita. E io da questo The
reminder,
sicuramente,
ho imparato tante cose.
Ho imparato quanto sia
gratificante mettersi comodi, il piacere della
calma, di ascoltare le
cose dall’inizio alla fine
non concentrandosi su
altro. Ascoltando questo
cd di fretta, a intermittenza, tra una telefonata
e l’altra, vi sembrerà una
petulante accozzaglia. Il
90% degli album attuali (2
tracce buone e tanta fuffa) li puoi ascoltare così,
distrattamente. Questo
no: mi sono fermato. E
si è schiuso un piccolo
paradiso. Leslie Feist, dal
Canada, aiutata dai due
connazionali
Gonzales
e Mocky, e da Jamie Lidell, è una diva pop (ma
la cosa rimarrà fra noi,
temo). Voce sensazionale, appeal assoluto, sensibilità sopra la media. Un album suonato benissimo, dove però nulla è più importante della grazia di questa cantante eccezionale. Basterebbero la coppia traccia 5, The Water, laddove sperimenta un viaggio fra
numerose ottave di estensione vocale, più traccia 6, una cover di Sea Lion Woman di
Nina Simone. Dove la grazia non basta, serve coraggio. Ma il meglio è dietro l’angolo:
numero 8, The limit to your love. Inciso a Parigi in fretta e furia (due settimane), fa scomparire sia la fretta, sia la furia. Imperdibile.
Dino Amenduni
Kim Novak
Shitdisco
Hanno preso in prestito il nome da una
splendida
attrice
degli anni 50, ma
hanno un suono
che sembra innamorato degli anni
‘80. Sono francesi
questi cugini degli
Interpol al loro esordio discografico. A
la page si dice dalle loro parti, in sintonia
con quella che ormai sembra il suono di
questi anni, questa onda nuova spogliata
di tragedie esistenziali e un po’ più “cool”. I
Kim Novak sembrano guardare con interesse e sensibilità tanto all’America (ascoltate
la bellissima In the mirror e il suo retrogusto così The National) quanto all’Inghilterra
(Cure, Echo and the Bunnymen, qualche
chitarrina molto The Smiths). Certamente
più valevoli di band molto più pompate e
blasonate dalla stampa, i Kim Novak hanno dei picchi di stile e piccole cadute nel
ritrito. Aspettiamo fiduciosi la maturità, intanto ce li godiamo così. (O.P.)
Rullanti, battiti di
mani e una voce
grave a pronunciare termini incomprensibili,
poi
urla isteriche e una
confusione technodance ipnotizzante.
Per non parlare del
titolo, Kung fu. Questa la first track un
po’ pazzerella di un lavoro che a quanto
a pazzia non è da meno (chi ben inizia è
a metà dell’opera…). Loro sono gli Shitdisco e già il nome è tutto un programma.
C’è chi a questo proposito asserisce che
l’intento dei quattro ragazzi di Glasgow sarebbe proprio quello di apparire più pazzi e
fuori dagli schemi di quanto non siano, ma
a sentirli suonare il dubbio ci resta. Anche
Reactor paty, seconda traccia delle dieci
dell’album appare degna di un rave party
allucinogeno e psichedelico. E questo vale
per gran parte delle tracce, tanto che la
stampa specializzata inglese li ha etichettati come nuovo simbolo di quel New Rave
tutto anglosassone capitanato da tali
Luck & Accident
Talitres records
brit/french pop / ***
Sopravvissuti al calderone post-rock e
cresciuti bene in una città come Chicago
The sea and cake sono una di quelle
band controverse. Una voce fuori dal
coro, tra loro una delle menti pensanti dei
Tortoise, un sound che lontano dalle fughe
intellettualoidi o minimal degli anni 90 ha
sempre seguito una melodia dimessa e
ricca di piccole divagazioni che sfiorano il
jazz, indie, il pop stereolabico ma sempre
con discrezione, con un delicatezza
che naturalizza il tutto, lo rende fluido
e scorrevole. Ed è questa l’impressione
che si ha ascoltando questo Everybody,
che tutti “appunto” possano lasciarselo
scorrere addosso. Sensibili ma significative
le percettibili variazioni che vestono i brani
e li rendono sinuosi, con richiami sparsi e un
touch così delicato da sembrare french.
Lasciatevi accarezzare da Everybody,
tutti. (O.P.)
Kingdom of fear
Fierce Panda
new rave / ****
KeepCool
14
osannati Xlaxons (avete presente Myths
of The Near Future?? Ecco…). Kingdom Of
Fear è stato prodotto dall’etichetta inglese
Fierce Panda, è un album divertente se hai
voglia di saltare schizzato per casa. Non ci
resta che vedere cosa faranno in seguito
questi quattro scozzesi scalmanati. Per ora
sono impegnati in un lungo e intenso tour
promozionale.
Valentina Cataldo
Van Der Graaf Generator
Real Time
Fie Records/Self
dark-progressive / *****
I Van Der Graaf Generator sono stati
sin dai primi anni
settanta una delle
poche formazioni
fedeli al verbo progressivo, stile musicale che in loro è
depurato ed oserei
dire
emancipato
dagli stereotipi tipici del rock.
Certamente i Generator sono non poco
debitori nei confronti dell’estrosa personalità di P.Hammil, figura artisticamente
eccelsa anche da solista. La musica dei
V.D.G.G. è sempre stata una miscela sonora essenzialmente cupa e decadente,
ricca di atmosfere gotiche e stranianti. Protagonisti assoluti dei trip allucinati, sviscerati dalla band, sono synth, piano elettrico,
flauto e sax, i quali alternano melodie dall’umore sepolcrale a sincopi e controtempi, realizzando architetture anthemiche e
solenni. Dopo Present, album della storica
reunion, avvenuta nel 2005, il gruppo ha intrapreso un fortunato ed appagante tour
mondiale. Real Time, di fatto, rappresenta
integralmente la notte londinese che a visto la rinascita, in sede live, dei V.D.G.G,
nello storico teatro Royal Albert Hall. È inutile, quindi, illustrare e chiarire la materia di
questo doppio live, realeses che vede nel
suo intimo alcuni fra vecchi e nuovi successi riproposti in maniera onesta, senza nessun ritocco da studio.
Nicola Pace
Hic Niger Est
Primo Parallelo
EW Records
rock, noise / ****
Secondo album per
la band Salentina,
Primo Parallelo è
un ottimo riassunto
di esperienze noise
e acid-rock. Grazie
alla collaborazione
di Giorgio Canali
si rispecchiano le
influenze di gruppi
storici quali i CSI
e PGR, specie nella voce graffiante e
accattivante del singer Gianni Garofalo,
in un mix di grinta ed enfasi. Il set sonoro
è lo schema classico presente nel noise,
ovvero un turbine di chitarre distorte
accompagnate da uno scroscio di
vibrazioni travolgenti. La scaletta si
svolge in modo scorrevole e sostenuto
ma con il giusto contrappunto creato in
connubio a brevi parentesi riflessive, utili
all’accrescimento di uno stato ansiogeno.
Componente portante di questo lavoro
è il caos, dettato da una struttura sonora
suggestiva, dissonate, uno scroscio di
note partorite di getto. Il viaggio prosegue
imperterrito tra sprazzi di incubo e delirio.
In definitiva un album concepito con la
dovuta accuratezza e con il bisogno di
esternare il disagio di un’incomunicabilità
che facilmente sfocia in ira.
Enrico Martello
Amethista
Realitale
Chaos Path/Mastrepiece
melodic-black-metal / ***
Debutto discografico per i torinesi
Amethista,
band
con musicisti non
proprio agli esordi;
segnaliamo, infatti,
la presenza di Aeretica, ex Dismael,
Alexandros, ex Higlord e Carlos, ex
Skylark. La band
esegue un ferocissimo melodic-black-metal dalle penetranti venature gotiche, ingredienti che non possono non riportarci
alla mente i Cradle Of Filth del fastoso e
fondamentale periodo di Crulty and the
Best. La brama della band, però, è di dare
origine ad uno stile autentico e personale,
legando classic-heavy, black e goth, nel
miraggio di concretizzare un nuovo e rigenerato black-metal. In Realitale, evidentemente, lo scopo prefissosi è stato appena
sfiorato, ma le premesse per un futuro più
roseo ci sono tutte.
Nicola Pace
A.C.T.
Silence
Inside Out/Audioglobe
hard-rock progressivo / ***½
L’hard-rock degli anni ottanta
non è morto,
lo
testimonia
la formazione
svedese degli
A.C.T. Giunti al
quarto capitolo
discografico il
gruppo è riuscito a dare prova
tangibile della
propria
preparazione tecnica, riuscendo a realizzare
venti composizione dall’indiscutibile valore. Silence sfiora a dir poco la perfezione
produttiva, compositiva, espressiva e tecnica. Molto coinvolgenti sono le parti cantate, soprattutto nella ricerca di chorus appetibili e coinvolgenti. Chi ascolterà il disco
mi darà ragione, gli A.C.T. sono dei grandi
musicisti, ma soprattutto magnifici arrangiatori, capaci di elaborare e plasmare,
come fosse materia concreta, eccellenti e
complesse idee circoscritte in pochi minuti,
senza inseguire, per forza di cose, la strada
della lunga durata. L’unica composizione
di ampia estensione è Consequenses (the
long one), episodio diviso in nove piccole
cellule musicali, le quali mettono in luce
l’attitudine progressiva della band, alla
prese, in questo frangente, con fraseggi
intricati e trascinanti. Tuttavia, non posso
parlare di Silence come di un master, cioè,
di un lavoro che passerà alla storia, poiché
in se ha rimandi, inconsci e forse indiretti,
ad altre realtà dalla gloriosa carriera.
Nicola Pace
Von Spar
Von Spar
Tomlab
??? / ****
Davvero uno strano disco questo. Roba tedesca, e si sente:
due soli lunghissimi brani per
lo più strumentali, avventurosi
e psicanalitici. Una intro claustrofobica da 2001 odissea
nello spazio, poi un crescendo
tribale angosciante, delle urla
lancinanti, lame taglienti, bisbigli da horror-movie anni ‘70,
elettronica da primissima warp,
rumorismi da sperimentazione
di metà ‘900 (Bartok, Ligeti),
chitarre lancinanti che provengono dallo spazio profondo.
Poi una evoluzione verso una
ossessiva new wave dei primi
‘80. Il tutto prolungato fino alla
pazzia. Un primo pezzo questo, intitolato Xaxapoya, che ti mette alla prova psicofisicamente. ma allo stesso tempo è splendido. Il secondo brano, Dead voices in the
temple of error, seppur si sviluppi ancora magnificamente nei territori misteriosi dell’inconscio, pecca per un evitabilissimo siparietto dark ghotic brutale(ma questo è un
giudizio personale: dopo tutto anche questo genere ha come caratteristica quello
di risvegliare sensazioni profonde e nascoste della psiche). A parte questo il lavoro è
davvero interessante.
Gennaro Azzollini
KeepCool
At swim two birds
Returnuing to the scene of the
crime...
Green Ufos
indie / ***
Se dovessi pensare
a una reazione, sarebbe il silenzio. Non
mi è mai piaciuto
urlare, neanche la
disperazione,
mi
piace assaporarla e
raccontartela, solo
a te, a bassa voce.
Potrebbero essere
queste le parole di
Roger Quigley per spiegare la sua musica.
Uno di quei perdenti ed eterni maledetti,
padroni di una voce e di una poetica rare.
Una sorta di moderno Morrisey, rauco per
le troppe sigarette, fedele a una chitarra e a quel poco che basta per scrivere
canzoni. Dopo l’esperienza con i Mongolfier brothers e una carriera solista sceglie il
nome di At Swim two birds per nascondersi
e sempre e solo la musica per svelarsi a noi.
Questo Returning to the scene of the crime
è intriso di uno spleen che è sincero. Non è
un disco facile ma è qui a dimostrare che
nulla, alla fine, lo è. (O.P.)
Hiromi Uehara
Time Control
Telarc
free-jazz-fusion / ***
Ventiquattro anni
e classe da vendere, al quarto album e due mani
al plutonio Hiromi
si presenta con un
album duro alle
orecchie
pigre;
tanta tecnica, forse troppa, la pianista si avventura in
percorsi molto contorti nella composizione
ma anche nell’esecuzione dei brani che
vedono un ruolo di primo piano anche
per la chitarra (per la prima volta strumento stabile) di David “Fuze” Fiuczynski che
imprime un approccio più marcatamente
fusion. Naturalmente non mancano gustosi guizzi elettronici con synth di stampo
techno, ma in complesso si può dire che lo
spessore artistico della sua discografia non
si è alzato di molto, forse Hiromi ha solo aggiunto un buonissimo lavoro zeppo di esercizi e rompicapo per musicisti professionisti
e aspiranti tali.
Giancarlo Zanca Bruno
Ivan Vicari
Colpo di coda
Club Records
jazz / ***
Colpo di coda è piacevole, ben congegnato, quantunque non sia un lavoro
eccellente. Il suono di Ivan Vicari all’hammond è imponente, e difatti risulta più
efficace nella creazione di tappeti sonori
- ricordando un po’ il Gregg Rolie dei primi
dischi dei Santana -; gli intrecci ritmici delle congas di Karl Potter (un autentico ve-
15
terano, e non solo
della scena italiana) contribuiscono
a un sano groove;
e peccato per un
sassofono troppo
spesso privo di smalto. L’auto-definizione di afro jazz trio
è un po’ artefatta
ma rende l’idea di
un disco che pittura un’atmosfera rovente
e sudata. Anche se mancano grossi picchi, Colpo di coda, nel complesso, svolge
la sua funzione di rilettura, offrendo una
contaminazione di alcuni classici (tra cui
Billies’s Bounce di Charlie Parker, Mimosa di
George Benson) e una manciata di temi
originali (da ascoltare la maliziosa Starter)
con sonorità moderne, etnicamente ispirate, e un piglio tipicamente soul jazz.
Gianpaolo Chiriacò
Raffaele Vasquez
Giuliano
Autoproduzione
contemporanea / ****
Una breve rassegna di quello che
Raffaele Vasquez
sa fare; e un assaggio di quello
che farà. Pianista,
compositore e ironico interprete di
se stesso, Vasquez
attinge al vasto
campionario delle
colonne sonore contemporanee (a quelle
di Michael Nyman in primis), con un lirismo
mai circoscritto, né autoreferenziale, bensì
aperto, suggestivo e arioso. I brani si sviluppano attraverso piccole variazioni delle
melodie, parsimoniose e acute, lasciando
alle note il compito di colorare spazi emotivi e di imprimersi nella memoria. Il nostro si
muove in maniera leggera, ma senza tralasciare la lezione di Steve Reich giacché
è in grado di spostare di continuo (e forse
anche inconsapevolmente) il senso ritmico
delle sue frasi. Il violoncello di Redi Hasa,
poi, sostiene e approfondisce senza mai invadere lo spazio del protagonista principale. Raffaele, dal canto suo, non è ancora
un professionista completo: dovrà lavorare
ancora per rischiarare lo stile, per arricchire
la varietà delle sue creazioni, per rendere
più sicura l’esecuzione; ma l’incoscienza,
il coraggio, l’understatement, il talento - e
una buona dose di humour, messa in mostra dal vivo - lo accompagneranno in un
percorso che pare già avvincente.
Gianpaolo Chiriacò
Ratafiamm
Pausa
Promo Music
cantautorale Italiana / ****
Si accoglie con grande piacere il nuovo
passo compiuto dai Ratafiamm. Una voce
più lacerata, arrangiamenti più accurati,
le squisite interpolazioni del violino, e una
volontà rafforzata dalla vittoria al concorso
nazionale dedicato alla memoria di Piero
Ciampi sono le nuove armi della band.
La loro crescita è sotto gli occhi di tutti:
vengono meno le impurità, le insicurezze
ed emerge una delicata attenzione per
i volumi - quel sapiente ondeggiare tra
forte e piano, in sintonia con il testo e
(soprattutto) con l’interpretazione del
vocalist che troppo spesso in Italia viene
trascurato. Qui, invece, i Ratafiamm non
solo ne fanno un tratto stilistico fondativo,
ma ne approfittano per dilatare il significato
delle preziose parole e della grana vocale
Jonny Greenwood
The controller
Trojan
reggae / ***½
Il reggae e i Radiohead: due mondi paralleli? Niente di più sbagliato.
A mescolare le carte ci aveva già
pensato il progetto Radiodread degli Easy Star All Stars, che avevano
riarrangiato Ok Computer. Ora le
linee parallele si incrociano in modo
ineludibile con questa compilation
celebrativa per i 40 anni della Trojan,
l’etichetta-simbolo del genere. Jonny, chitarrista (e molto, molto di più)
dei Radiohead, fan accanito della
musica dub, ha pescato 17 tracce
dall’infinito archivio della label e ha
costruito una tracklist che farà felici
molti dj in previsione dell’estate, stagione “eletta” per le dance hall. Su
tutte, due tracce meritano menzione: I’m still in love di Marcia Aitken, perché se vi è piaciuta la versione di Sean Paul, qui impazzirete, e Fever di Junior Byles, che non teme confronti con l’oramai classico pop di Peggy Lee. Poi, bastano i nomi: Gregory Isaacs, Lee
Scratch Perry, Marcia Griffiths. Esplorate tutte le dimensioni (standard, roots, dub) di un
genere che ha fatto la storia della musica e continua a farla. Un po’ come i Radiohead.
Magari Thom Yorke non si farà crescere dreadlocks, ma forse qualche sigaretta corretta
in più se la fumerà. Indispensabile per gli appassionati, fortemente consigliato anche ai
novizi. (e date un’occhiata alla copertina!).
Dino Amenduni
KeepCool
16
Neil Young
Live At Massey Hall 1971
Reprise/Wea
Folk / *****
di Enrico Cibelli. Lo stile continua a essere
imperniato su un continuo rollio (tempi
composti, per gli addetti ai lavori), che
restituisce un’immagine circolare di
ciascuna canzone e favorisce l’oscillazione
di cui sopra. Dopo il demo uscito nel 2005,
un promo di quattro canzoni nel 2007,
speriamo di non dover attendere altri due
anni per il primo ellepì ufficiale.
Gianpaolo Chiriacò
Jimi Tenor & Kabu Kabu
Joystone
Sahko
funky-jazz-lounge / ****
Dopo aver collaborato al disco
soul più bello di
questi ultimi anni
(Keep’reachin’up
di Nicole Willis)
Jimi Tenor, uno dei
compositori
più
eclettici
attualmente sulla piazza,
mirabolante miscelatore di generi, torna
con un disco che dichiara amore spudorato agli anni 70 e alle colonne sonore. Per
farlo, non rinunciando in questo modo alla
sua propensione verso la sperimentazione, fa incontrare alcuni trai migliori jazzisti
finlandesi e Kabu kabu, trio di percussionisti africano. Mai matrimonio così assortito
e ben riuscito. L’effetto è sorprendente: il
disco si muove tra funky, orgasmiche e sinuose atmosfere da b movies, l’africa di
Fela Kuti, il jazz, ritmi più latin. Un tuffo nel
passato fatto di suoni supersonici, progressioni sincopate e ritmo, tanto ritmo. Ironico,
avvincente anche per le orecchie più esigenti Joystone è energia, tutta quella che
Dopo essere partito direttamente dal secondo volume tralasciando di sana pianta il primo, Neil Young continua coerentemente (si fa per dire) a scavare nei suoi archivi con la pubblicazione di un terzo volume che raccoglie una celebre esibizione
datata 19 gennaio 1971 che vede il canadese in solitaria sul palco del Massey Hall
di Toronto, supportato unicamente dalla
chitarra acustica o dal pianoforte. Oltre a
pezzi che all’inizio del ’71 sono già piccoli
classici (Down By The River, Cowgirl In The
Sand, Ohio, I am a Child) Neil presenta
canzoni fino a quel momento inedite, che
dopo qualche mese vedranno la luce su
uno degli lp più celebrati e discussi della storia del rock. Quell’Harvest di cui questo concerto porta i prodromi perché, per dirla con Bertoncelli, “Neil in quel momento pensava
solo a quel disco”. Certo che si rischia di rimanere stecchiti durante l’interpretazione al
piano del medley A Man Needs a Maid/Heart Of Gold (la seconda sarà la canzone più
rappresentativa del cavallo pazzo per almeno un ventennio, la prima sarà nel disco in
studio drammaticamente affogata dagli archi di quel pazzo fottuto di Jack Nietsche).
Certo che, quando Neil intona la prima strofa di Heart Of Gold bisogna essere proprio
dei cuori di pietra per non sciogliersi. Succede pure con The Needle and The Damage
Done, la più celebre autodenuncia mai fatta da un junkie, che oggi molti di noi considerano quasi un clichè ma al Massey Hall, quel 19 gennaio di 36 anni fa, era come un
bimbo che muoveva i primi passi e scandiva con fatica le prime parole. Insomma, un
live essenziale, con passaggi magnifici e una resa sonora non eccelsa ma accettabile.
Non solo per fan dunque, perché a conti fatti questo dischetto rappresenta un piccolo
pezzo di storia di uno di quei musicisti che - caso raro - ha influenzato quasi tre generazioni di rockers.
Ilario Galati
un decennio ( i 70) ha saputo esprimere.
Tutto in 12 tracce da non perdere. (O.P.)
David Vandervelde
The Moonstation House band
Secretly Canadian
glam / ***
E se Marc Bolan mettesse un banjo a
sostegno di un riff tagliente e deciso?
Se tutto questo a distanza di anni
suonasse ammaliante come un tempo
affogato in un andamento trascinato
e trascinante? Beh, saremmo a casa di
David Vandervelde, distesi tra i vinili del
miglior Bowie. Questo suo The moonstation
house band è un salotto di memorabilia
vintage veramente confortevole. Come
la bellissima ballad Feet of a Liar lontana
come i 70 che annega tra archi, echi e
tintinnii. Da qualche parte fanno capolino
anche le asprezze di un Lennon romantico.
Ascoltate il funambolico giro di basso di
Can’t see your face no more per capire
che il rock and roll è motore immobile da
cui tutto parte e si trasforma. In questo
caso il risultato è un disco godibilissimo per
nostalgici o hippy dell’ultima ora. (O.P.)
The Second Grace
The Second Grace
OTR Music
folk–pop / ****
The Second Grace è un fiore sbocciato tra
le pietre, quattro palermitani con un animo
folk, un approccio nordico e sangue
mediterraneo. I nomi citati per descrivere il
gruppo sono molti e altisonanti, Nick Drake,
Bob Dylan, etc. ma il loro è un piccolo
carillon che funziona perfettamente da
solo senza bisogno di paragoni. The Second
KeepCool
Grace è il primo album ufficiale del gruppo,
e tutti i brani sono stati composti dal bel
cantante e chitarrista acustico Fabrizio
Cammarata che in queste quattordici
bomboniere trasmette tanta dolcezza
e benessere senza concessioni a facili
banalità; la scelta della lingua inglese, poi,
si rivela assolutamente appropriata per
l’armoniosità del cantato. La formazione
(due chitarre, basso e batteria) standard
e compatta esprime lo stesso calore del
disco anche dal vivo e accompagna
attraverso storie dipinte con caldi colori ad
acquarelli dai contorni dolcemente sfocati;
brani come Antamanarine (il singolo che
accompagna anche uno spot televisivo di
tortellini), Rainbow as my Hat, Like a Juliet
o Little Boy Sayin sono fresche perle che
brillano di luce propria. Consigliatissimo.
Giancarlo Zanca Bruno
Naked Musicians
A sicilian way of cooking mind
Improvvisatore Involontario
avanguardia / ***
Non sono mai stato
un grande amante
dell’improvvisazione,
né del jazz in generale,
pertanto non sarei
proprio il tipo adatto
per recensire questo
disco, ma il progetto
in sé è interessante,
e il prodotto finale
neanche tanto malvagio, tanto più se si
pensa che si tratta di soli musicisti siciliani
più un sardo (ma questo è un pregiudizio,
la Sicilia ha da sempre sfornato musicisti
buono-ottimi, e inoltre, se gli italiani con il
rock stanno proprio frecati, in ambito jazz e
avant hanno più di una carta da giocarsi).
Insomma c’è questo Francesco Cusa che,
come ci spiega nelle note introduttive del
disco, ha raccattato tutta una serie di
compagni e colleghi sparsi nell’isolotto e li
17
ha convinti a eseguire in due giorni questa
cosa che lui definisce ‘conduction’, cioè
un sistema non convenzionale di direzione:
in pratica, non pura improvvisazione, ma
una esecuzione libera fondata non su una
successione di note bensì di simboli inventati
ex-novo. Il risultato è simpatico e per
fortuna manca di quella spocchia che di
solito caratterizza i musicisti intellettualoidi.
C’è poi questa citazione di Reich (quella
di Zorn è abbastanza evidente) in In morte
al sistema mal temperato (ma anche nel
sottotitolo: music for 24 musicians), che me
lo ha reso simpatico subito.
Gennaro Azzollini
Libera Velo
Riffa
Octopus Records
pop, folk, elettronica / ***
Dopo
la
collaborazione
con i 24 Grana,
la singer Libera
Velo si dedica al
progetto solista
Riffa.
Resta
vivo il rapporto
esecutivo
e
stilistico
della
vecchia band
(grazie comunque alla produzione artistica
del batterista Renato Minale). Il disco
mostra una moltitudine di sfaccettature
grazie ad un efficace intreccio di
momenti analogici ed elettronici: tappeti
psichedelici e batterie campionate
aderenti a chitarre elettriche, spesso
rockeggianti, utili ad intorpidire l’ambiente
sonoro.La voce regna enfatica ed
eclettica spaziando tra influssi di jazz Sottile
piacere ed etnica – partenopea Mura
antiche, in un mix che rimarca nomi illustri
quali Meg ed Erika Badu. Ma la costante
dell’album è il suo aspetto prettamente
mediterraneo, tra onde di sperimentazione
elettronica We dance in a baton charge
accostata armoniosamente a set acustici
e folleggianti Ballata Felix.L’atmosfera si
riscalda nel progressivo ascolto dell’opera.
Come un sentiero che parte dalle periferie
di Napoli, passa tra le mura dell’Officina
99 e si dirama nei meandri di un labirinto
composto da compartimenti di musica
d’autore ed accuratezze atmosferiche.
Molto gradevole all’ascolto.
Enrico Martello
Museo Kabikoff
Brilliant Cagnara
Videoradio/Erazero
rock / ***
Citano Primus, Tom Waits, Tool, Vinicio
Capossela e Alfred Jarry come influenze,
cantano in italiano pur essendo anni luce
lontani da “costruzioni cantautoriali”,
fanno un discreto rumore e scrivono testi
essenziali ma significativi su architetture
sbilenche e progressive. Brilliant Cagnara
dei milanesi Museo Kabikoff non è un disco
che lascia certo indifferenti. Potranno non
piacere, potranno essere faticosi da seguire
nei loro sali-scendi vorticosi, ma hanno
innegabilmente più di qualche freccia al
loro arco. E la consapevolezza di queste
innegabili qualità è già bene evidente
a partire dall’incipit di Specchi Rotti. In
altri casi le melodie non sono proprio di
prim’ordine e la voce della brava Chiara
Oakland Castello rischia di farci arrivare alla
traccia conclusiva piuttosto esausti, ma di
sicuro i loro pezzi stimolano, provocano e
seguono la strada meno facile pur di uscire
dagli schemi stantii del rock italico.
Ilario Galati
May I Refuse
Weather Reports
Black Candy Records
emorock, indie / *****
La Black Candy è
una delle maggiori
colonne
portanti
nel panorama italiano dell’indie rock
(Tra le sue produzioni: Milaus, Fine
BeforeYou Came,
Kech). Una delle
ultime novità partorite da questo magico grembo è quella dei
May I Refuse, un perfetto esempio di musica scaturita dall’animo, dove ogni nota
segue la scia delle emozioni e si dilegua
nella dimensione del sogno. Il punto fermo
di questo lavoro è un’atmosfera soffusa,
sospirata ma dal forte impatto emotivo
grazie a degli arrangiamenti che non hanno nulla da dimostrare, completamente
convenzionali, ma con un set di strumenti
che si suddividono le parti come i fili di un
ricamo. è la musica che prende il sopravvento grazie a delle melodie intense che
sfiorano la pelle fino a sfociare in un brivido
lungo la schiena. è un viaggio lungo diste-
KeepCool
18
se sconfinate che picchiano un orizzonte
lentamente abbracciato dal sole mentre
tramonta. Cercare di etichettare con uno
stile questa band è un lavoro del tutto funzionale, utile per un qualunque archivio X,
in modo da poterli catalogare accanto ai
nomi dei grandi giganti del pop-rock alternative targato UK. Ma va dato atto ai
quattro giovani fiorentini che, aldilà del genere, la loro musica è dettata dal cuore e
dalla ricercatezza delle loro chiavi espressive. Un progetto dagli ottimi propositi che,
con la dovuta maturazione, potrà aspirare
a raggiungere il prestigio di artisti come Radiohead o Jeff Buckley.
Enrico Martello
Joyfull Family
Pop corn
Re>>vox
house /***
Si intitola Pop
Corn il singolo per
l’estate 2007 del
gruppo leccese
di dj e producer
Joyfull
Family.
Il
progetto,
completato
dal
remix
di
S t e r e o v o x
(Andrea Bertolini
e Ivano Coppola), si ispira al leggendario
e
omonimo
brano
strumentale
pubblicato nel 1972 da La Strana
Società (cinque milioni di copie vendute,
quattordici settimane di permanenza
al primo posto in Hit-Parade e sigla
ufficiale della Domenica Sportiva per 2
anni di fila). Il lavoro del team salentino,
anche se concettualmente si ispira
all’omonima traccia degli anni 70, risulta
un adattamento in chiave house, con
palesi riferimenti al filone trance, di un
complesso tema melodico costruito ex
novo e incastrato in una stesura ritmica
semplice e dritta che lascia intendere
chiaramente forti influenze derivate dal
genere deep statunitense. Anche questa
volta l’etichetta che ha pubblicato
l’ultima fatica di Cristian Carpentieri,
Guido Nemola e Chico Perulli sarà la
milanese Re>>vox, la label italiana più
importante del settore.
Matteo Micelli (Time Music Milano)
Calvin Johnson & The Sons Of
The Soil
Calvin Johnson & The Sons Of The
Soil
K-Records
indie / ***1/2
Con questo disco Calvin scava nelle
radici della musica americana, quelle
radici che è possibile trovare solo dopo
una lunga escursione tra le polverose
città di quel west magico-mitico, sempre
grande fonte di ispirazione. L’apripista
del disco è Lies Goodbye un Rockabilly
anestetizzato che sembra essere una
danza indiana propiziatoria per il richiamo
degli spiriti. In Love Travel Faster la voce
atonale, cavernosa di Calvin marchia
indelebilmente un percorso introspettivo
a ritroso che approda all’America degli
anni ’50, sotto la cui facciata erano già
in azione, quasi segretamente, quegli
insetti decompositori che priveranno pian
piano le generazioni future dei propri
valori. È un’operazione nostalgica quella
di Calvin, è il desiderio di ritrovare quel
fuoco di bivacco, quelle atmosfere rurali,
di un tempo spensierato ormai lontano.
Banana Meltdown è un R&B indiavolato e
bruciato da una chitarra che sembra quasi
un sax in bassa definizione, Cattle Call Pt1
& 2 sono discussioni sul folklore americano
e What Was Me è l’ultima traccia dove
Calvin si allontana in quel sotterraneo che
è la cultura indipendente americana, che
sembra essere oggi, un serpente che si
morde la coda.
Vincenzo Schirosi
KeepCool
Stato di grazia per Simone Cristicchi.
L’affermazione al Festival di Sanremo
(meritata e condivisa da pubblico e critica,
come non succedeva da molti anni) ha
scaturito un effetto domino grazie al quale
il cantante romano può ora sperimentare
diverse soluzioni artistiche. Ne è la prova il
suo Centro di Igiene Mentale, spettacolo
a metà strada tra il teatro e la musica. Il
tour ha fatto tappa anche in Puglia (Bari,
Teatro Piccinni, 29 aprile).
Ciao Simone, come stai vivendo il rapporto
con il successo? Cominci a sentire la
pressione o riesci ancora a divertirti?
Non parlerei di pressione, perché il successo
ha tante sfumature. C’è il successo di
pubblico, ma anche le gratificazioni
quotidiane, le possibilità che ti si aprono,
che ti permettono di amare il tuo lavoro e
divertirsi.
Come pensi che il tuo pubblico “nuovo”,
quello del Festival di Sanremo, più adulto,
percepirà il tuo lato più ironico, che è parte
del tuo modo di far musica allo stesso
modo di quello impegnato?
In realtà il pubblico è cambiato del tutto.
Soprattutto per quanto riguarda Centro di
19
Igiene Mentale, in cui oltre alla musica ci
sono dei monologhi in cui interpreto lettere
e discorsi di malati mentali: è capitato il
bambino che ha aspettato fino all’ultimo la
canzone spensierata, che non c’è stata.
Quale la traccia del tuo nuovo album
Dall’altra parte del cancello a cui sei più
legato?
Legato a te. È dedicata a Piergiorgio
Welby, alla sua vicenda personale. Infatti
nel testo della canzone ho immaginato un
dialogo tra Welby e la macchina che lo
teneva in vita anche contro la sua volontà.
Una macchina che per molti anni è stato
l’unico legame con la vita stessa.
Pensi che il tuo impegno in problematiche
a forte rilevanza sociale si focalizzerà
ulteriormente sul tema della malattia
mentale o pensi di poterti o volerti
occupare di altre tematiche?
È difficile dirlo da adesso. Di sicuro il mio
presente è completamente focalizzato sul
tema della malattia mentale, lo dimostrano
la canzone di Sanremo, il documentario, lo
spettacolo teatrale. Mi piace analizzare
molto bene le cose di cui mi occupo,
e farei così anche in futuro se dovessi
concentrarmi su altre tematiche. Però non
lo escludo, l’esperienza e le opportunità
potrebbero aiutarmi in questo senso.
Sei un profondo conoscitore ed amante
della Bossanova: la ascolti correntemente?
Ti influenza nel tuo essere cantante e
musicista?
Si, sono un grandissimo amante di
Caetano Veloso. E anche le nuove leve,
Marisa Monte e Adriana Calcanhotto, mi
piacciono molto. Un richiamo alle sonorità
brasiliane è presente anche in Manet
(canzone dell’ultimo album) e anche
nel mio primo album c’era una canzone
samba. Ma soprattutto, sto studiando
chitarra cercando di acquisire la grazia e
la dolcezza della bossa.
Come o dove ti immagini fra 10 anni?
Non saprei! Come ti dicevo prima,
molto dipenderà dalle possibilità e dalle
opportunità che mi si apriranno. Comunque
sia, a parte la carriera da cantautore, mi
vedo bene a gestire un agriturismo! (ride,
n.d.r.)
Dino Amenduni
20
Fiorentini, nati alla fine degli anni 90, i May I Refuse giungono con
Weather Reports al secondo lavoro in studio.
Perchè May I Refuse?
Perchè ci siamo ritrovati a ricostituire la band e non avevamo un
nome. Al tempo ero particolarmente affascinato dallo spazio e,
per l’appunto, c’era la stazione orbitante MIR. Di lì a poi May I
Refuse, nome molto adatto all’hard core-punk che suonavamo
allora, genere a cui siamo ancora affezionati.
Quindi le vostre radici non riguardano tanto l’indie o la scena alternative britannica...
No, non molto. Non sono influenze che sentiamo particolarmente.
Certo, suonando siamo portati a non avere influenze dirette, ma
magari a livello “inconscio” queste ci sono. Io mi limito ad ascoltare gli Smiths ed i Clash.
Allora parlatemi dei vostri inizi...
Beh è la solita storia di un gruppo di ragazzini di 16-17 anni che
hanno un sacco di tempo da perdere e tanta voglia di divertirsi. Il
Punk rock fu una scelta obbligata, era la musica più presente nell’aria in quel momento. Personalmente mi ci sento ancora legato,
gli altri decisamente no.
A cosa è dovuta quindi questa vostra dipartita dal punk?
Innanzi tutto il cambiamento di stile è dettato da una forma di
maturazione, ha contribuito anche l’inserimento nel line-up di Davide, il nostro nuovo chitarrista, che ha portato nuove influenze.
Ho notato che non amate particolarmente essere etichettati come
genere, come vi definireste?
Non saprei? Sexy rock? Il fatto è che spesso e volentieri veniamo etichettati come gruppo Emo, che forse è una peculiarità del
nostro primo disco. Ma non amiamo porre dei paletti alle nostre
composizioni, preferiamo definirci quattro ragazzi che semplicemente fanno musica.
E parlando di musica, come nascono i vostri brani?
In sala prove, ognuno di noi propone dei frames o dei giri e sviluppiamo man mano le parti. Bisogna comunque dare atto a Poldo,
il nostro singer, di essere il punto di riferimento maggiore in ambito
compositivo.
Parliamo un pò di Weather Reports, com’è strutturato?
KeepCool
Diciamo che si tratta di un mezzo concept, ovvero un filo conduttore legato al clima e al tempo, solo che non raccontiamo un’unica storia. Le canzoni si susseguono concettualmente ma possono
essere anche slegate dal contesto. Ciò è dovuto al fatto che i
pezzi sono stati scritti in momenti diversi, ed ogni composizione ha
risentito dei propri tempi di scrittura
Quali sono le novità rispetto al lavoro precedente?
Sono lavori profondamente diversi. Nel primo disco c’era una certa irruenza, era un disco di “stomaco”. Quest’ultimo è più cerebrale, più studiato. Sicuramente presenta una cura maggiore per
l’arrangiamento, un attenzione a certi dettagli che prima, un po’
per ingenuità ed un po’ per scelta, non avevamo. E decisamente
un maggiore apporto melodico.
Come vedete il panorama musicale italiano in rapporto alle band
emergenti?
Trovo che ci siano gruppi con un grande potenziale come ad
esempio i Velvet Score e A Toys Orchestra. Il tutto sta nel vedere
come vengono accolti dal pubblico e quali possibilità avranno
per essere ben visibili. Questo è il grande problema del mercato
musicale indipendente italiano. Puoi anche essere un musicista
in gamba, ma se hai poche possibilità di suonare, difficilmente il
mondo si accorgerà di te
Com’è il vostro rapporto con la promozione telematica (myspace,
you tube...)?
Molto buono, sono dei mezzi particolarmente efficaci per dare ad
un artista emergente visibilità ed un notevole feedback da parte
degli ascoltatori. Non siamo una band attivissima su internet, ma
siamo somunque ben presenti.
Chiudo con una domanda di rito: progetti futuri?
Suonare, divertirci e conquistare l’Italia. Stiamo per altro iniziando a scrivere i pezzi del nuovo lavoro, ma ma sembra prematuro
parlarne. Speriamo inoltre che alcune delle nostre date tocchino
il Salento anche perchè ci mancano da morire i vostri rustici, mi
hanno rovinato la vita, da queste parti non si trovano.
Lasciami un’ultima perla
Rustico is the reason!
Enrico Martello
Ho detto a tua mamma che fumi è il titolo
del primo cd di Kama, nomignolo dietro al
quale si nasconde Alessandro Camattini
che, dopo una lunga carriera come
batterista in giro per l’Italia, è approdato a
questo lavoro solista, uscito per la Eclectic
Circus. Undici canzoni che denotano ironia
e intelligenza nei testi e poliedricità nelle
musiche.
Perché questo titolo per il tuo cd?
Il titolo è venuto alla luce un po’ per caso.
Alebasso se ne è arrivato in studio con
questo Ho detto a tua mamma che fumi
e ha colpito un po’ tutti. Ci pensai qualche
giorno e poi lo aggiudicai. Ancora adesso
mi piace, mescola tutti gli ingredienti
del disco: ironia, semplicità, criticismo,
bastardaggine… in più mi ricollega al
periodo delle medie, alle sigarette fumate
di nascosto a spasso per la mia città,
alle dozzine di caramelle alla menta
ingurgitate, alle annusate di mia madre…
Questo è un disco che parla di cose
semplici analizzate restando il più possibile
fuori dal coro, lontano dai luoghi comuni…
Imprevedibile come uno stronzo che dice
a tua mamma che fumi!
Raccontaci un po’ di te. Come inizia la
carriera di Kama, come proseguirà…
Ho suonato la batteria per tanti anni,
dapprima con alcune band poi come
turnista. Poi stanco decisi di smettere e
di dedicarmi ad altre priorità della mia
vita che avevo trascurato (l’amore,
l’università, il lavoro). Ma la musica è come
una di quelle gomme da masticare del
discount, che si attaccano al lavoro del
tuo dentista, alle dita, ai vestiti e che non
riesci a scrollarti di dosso… Così Alebasso
e Iki (attualmente bassista e chitarrista del
tour) dopo aver sentito le mie canzoni mi
spinsero a registrarle. Da lì ad un anno ho
firmato il contratto con Eclectic Circus… il
primo singolo e video (Ostello Comunale)…
MTV… il disco… il tour… etc etc… Qualche
giorno fa è uscito il terzo singolo/video,
Sapore sapido (lo potete trovare sul mio
sito www.alekama.it) che presto verrà
programmato in radio e in tv. Poi tour e
intanto si pensa al secondo disco.
Nel tuo disco ci sono numerose influenze
(almeno quelle che ho percepito io) dagli
anni ‘60 alle nuove e vecchie generazioni
della musica d’autore (Rino Gaetano,
Moltheni, Bugo e Amerigo Verardi), dai
Beatles a Beck. Qual è il tuo percorso, quali
sono i tuoi punti di riferimento?
Sono cresciuto ascoltando i Beatles, Mozart
e tutta la scuola dei cantautori italiani...
erano gli anni buoni, quelli di Gaetano,
Bennato, De Gregori, Bertoli, Graziani,
Nannini, De Andrè, Dalla. Una serie infinita
di capolavori che mi son portato fino ad
oggi. L’abbigliamento di un fuochista di De
Gregori, per esempio, che ho registrato con
Bugo, l’ho cantata a memoria nonostante
non l’ascoltassi più da 15 anni! Insomma
mi piacerebbe essere annoverato tra i
cantautori italiani moderni, perché trovo
anacronistico suonare ancora le canzoni
“all’italiana” facendo finta che Beck e i
Radiohead non siano mai esistiti. La loro è
stata una rivoluzione copernicana…
Ho letto da qualche parte che saresti
interessato a scrivere musica per i film.
Con quali registi ti piacerebbe lavorare e
collaborare?
Vorrei scrivere musiche per una commedia
italiana. Mi piacciono i film italiani, (anche
se smetterei di chiamare sempre Margherita
Buy e Stefano Accorsi…), quelli che parlano
di adolescenti mai cresciuti, di mogli in
rivolta, di grandi amicizie che finiscono e poi
ricominciano… Mi piacerebbe cimentarmi
nella scrittura di canzoni dedicate ad
immagini, sarebbe una novità, mi darebbe
nuovi stimoli. Credo che le mie canzoni si
prestino particolarmente… (poi magari il
risultato sarà pietoso, ma che c’entra!)
Cosa ascolti? Quali sono le realtà più
interessanti nel panorama italiano secondo
te?
Credo che Samuele Bersani abbia
dimostrato che la canzone italiana sia
capace di rinnovarsi, di unire generazioni
lontane, gusti differenti, anche scrivendo in
maniera elaborata ed intelligente. Rifugge
dai luoghi comuni, scrive musiche semplici
e allo stesso tempo nuove, diverte…
Dalla musica indipendente italiana, in
questo momento, mi sento molto poco
rappresentato
I tuoi testi sono molto ironici. È una tua
necessità?
Hai mai avuto a che fare con dei bimbi?
Imparano giocando perché giocando si
pongono domande che altrimenti non si
sarebbero mai manifestate. Gli adulti sono
ancora di più sulla difensiva, competitivi,
piuttosto
presuntuosi,
autocentranti.
Credo che per penetrare questa diffusa
barriera di diffidenza non ci sia altro modo
che ridere tutti insieme delle idiozie che
reiteriamo giornalmente. Ridi oggi ridi
domani, il dubbio si insinua…
Qual è oggi il ruolo del cantautore? È una
definizione che ti piace?
Indubbiamente una domanda tosta…
Mi piace molto la definizione e mi piace
immaginare che le canzoni siano opere
che abbelliscono il mondo. Spero che
il mio passaggio sulla terra e i miei dischi
lascino questo pianeta un pochino più
bello di prima. Forse è un po’ presuntuoso,
ma è quello che dà significato alle mie
giornate.
Pierpaolo Lala
22
Il viaggio della nostra rubrica Salto nell’Indie, dedicata alle
etichette indipendenti, prosegue con la My Honey.
Miele e musica, un’associazione insolita. Ce ne parli?
Non così strana, se si pensa che mio padre è apicoltore, ed io sono
un appassionato di musica indiepop, probabilmente il genere
musicale più dolce che esista!
Quali sono le caratteristiche del vostro catalogo e quali quelle del
vostro miele?
È un catalogo decisamente Indiepop, i nostri eroi locali sono
i bresciani Le man avec les lunettes, poi tanti gruppi stranieri:
dalle adorabili Rough Bunnies, agli elettropoppers Mutt Ramon,
alla deliziosa Soda Fountain Rag fino agli shoegaze Mixtapes &
Cellmates. Usciranno a breve i chiacchieratissimi My Awesome
Mixtape, una promettente band bolognese. Per quanto riguarda
il miele, produciamo principalmente castagno, acacia, millefiori,
tiglio e melata, tutti mieli tipici delle valli bresciane.
Un’etichetta nata per appagare più sensi, indipendente, aperta al
mondo…come vi muovete? Da dove siete partiti?
È nata inizialmente per promuovere e sponsorizzare i Le man avec
les lunettes, poi la cosa mi è piaciuta ed ora in catalogo ci sono
molti artisti stranieri. Ho scoperto la maggior parte di questi gruppi
attraverso internet, e grazie a siti come indiepop.it e ad altri blog
specializzati.
Sembra che il vostro marchio di fabbrica sia comunque il pop,
nelle sue varie forme ma comunque pop. Cos’è, secondo voi,
oggi, il pop?
La parola pop è vista molto spesso come un termine negativo
all’interno della scena indie. Viene erroneamente confusa con
la musica da classifica, mentre in realtà il mondo dell’indiepop
è veramente sotterraneo, e credo che il saper scrivere una bella
melodia molto semplice di questi tempi è una cosa rara e da non
sottovalutare.
Dove nasce l’idea di una compilation come Let it bee? Come
avete coinvolto tutti i partecipanti?
Volevo fare una compilation diversa dai soliti sampler, e così
ho chiesto ad alcuni gruppi che stimavo, di scrivere un pezzo
a tema, ed il tema naturalmente è quello delle api, del miele e
dell’apicoltura in generale. I gruppi li ho coinvolti in modo molto
semplice: via e-mail e con myspace. In questi casi internet aiuta
molto!
Come definiresti Le man avec le Lunettes? È la vostra prima
produzione full lenght?
Loro si autodefiniscono come un progetto italiano con un nome
francese che canta in inglese! Il loro è un suono decisamente
indiepop con influenze ’60 e sono molto apprezzati anche
all’estero (hanno suonato al prestigioso festival di Emmaboda,
in Svezia). Le man avec le Lunettes ? è il primo disco sulla lunga
distanza dei Lmall e della My Honey.
Indie band e indie label italiane che vi piacciono?
Tra le band: Yuppie Flu, Fitness pump, Giardini di Mirò, mr. 60 e
tanti altri. Tra le etichette: Best Kept Secrets, Kirsten’s postcard,
Homesleep, Unhip, Zahr, Wallace…
Osvaldo Piliego
KeepCool
KeepCool
Torna anche quest’anno l’appuntamento con uno dei festival
internazionali più esaltanti dell’estate, il Primavera Sound di
Barcellona. Nell’avveniristico spazio sul mare del Forum si
susseguiranno centinaia di artisti dai grandissimi ai più piccini.
Tanto per buttare giù qualche nome si va da nomi di richiamo
come Smashing Pumpkins o White Stripes a classici del passato
come Buzzcocks, Billy Bragg, Fall, Patty Smith (e tanti altri) e nuovi
classici come Wilco, Spiritualized, Low; da dj della caratura di
Luke Slater, Dj Hell, Kid Koala, Luomo, David Carretta ai nomi
più piccanti della odierna scena indipendente come Explosions
in the sky, Klaxons, Mùm, fino ad arrivare a decine di piccole
entità sotterranee da scoprire. Il cartellone è davvero immenso
e variegato, e ce n’è di tutti i gusti, pertanto vi invito caldamente
a visitare il sito www.primaverasound.com giusto per farvi un’idea
di cosa rischiate di trovarvi a sentire. Tuttavia questa edizione si
distingue per la particolare decisione di invitare alcune importanti
band del recente passato per riproporre per intero il loro album
più significativo, quello che gli ha resi famosi in tutto il mondo e
che ha segnato i tempi dell’evoluzione musicale. Si tratta dei
Melvins con il loro Houdini, gli Slint (nella foto) con Spiderland, i
Dirty Three con Ocean Songs, i Comets on fire con Blue Cathedral
e i Sonic Youth con Day Dream Nation.
Un’ iniziativa davvero interessante e che meritava attenzione. In
particolare per l’esser riusciti a riportare sul palco i mitici Slint. Una
edizione dunque dal forte impatto emozionale, che gioca sui bei
ricordi di suoni che non si ascoltavano da tempo o che avevamo
sempre sognato di ascoltare dal vivo. Probabilmente qualche
malalingua starà già bisbigliando che sembra proprio una furba
operazione di marketing, ma il punto è che, fosse anche così, si
tratterebbe di una gran bella operazione, e speriamo proprio che
economicamente ciò possa avere grandi riscontri. Buon per loro.
Da parte nostra so solo che avremo modo di rispolverare vecchie
dolci emozioni di gioventù e per questo non possiamo che
ringraziare immensamente i promotori del festival. Se si considera
poi che gli Slint non esistono più (ma già si vocifera di un loro
possibile ritorno), e i Sonic Youth sono lì lì per mollare tutto dopo i
deludenti riscontri commerciali dell’ultimo disco (non brutto, solo
troppo consueto, non necessario), allora l’appuntamento appare
davvero impedibile.
Gennaro Azzollini
Coolibrì
Narrativa, Noir, Giallo, Italiana, Sperimentale
la letteratura secondo coolcub
Manituana
Wu Ming
Einaudi
Non è un romanzone western, anche se ci
sono gli indiani, gli scalpi, le canoe. Non è
un romanzo di guerra, anche se ci sono le
battaglie, i morti, i feriti, i cannoni e i fucili.
Non è un romanzo di viaggi, anche se ci
sono lunghe marce, esodi, attraversamenti
dell’atlantico. Non è un romanzo criminale,
anche se ci sono i bassifondi londinesi, le
gang di tagliagole e i locali malfamati.
Non è un romanzo storico anche se date,
ambientazioni, personaggi e avvenimenti
sono storici. O meglio, Manituana, l’ultima
fatica del collettivo Wu Ming, forse è tutto
questo e qualcosa d’altro.
Ambientato nell’epoca della guerra
di indipendenza americana, la narra
dal punto di vista degli indiani delle sei
nazioni irochesi che vi ebbero una parte
non indifferente. In Manituana ritroviamo
alcuni dei punti di forza del collettivo
bolognese. Personaggi strepitosi, come
Phlip Lacroix, 50 per cento indiano, 50
per cento francese, 50 per cento inglese,
anche se la somma fa più di cento, e
più di cento vale questo personaggio,
da qualcuno paragonato ad Atos, da
altri ad Achille. Un personaggio destinato
certamente ad entrare nell’immaginario
collettivo. E poi c’è Esther, inglese che
sceglie di rinascere indiana, che rifiuta la
sua famiglia biologica per unirsi a quella
che lei stessa sceglie. Ci sono i grandi
guerrieri Mohawak, il Popolo della Selce.
E poi ci sono i grandi personaggi storici:
sir William Johnson che aleggia per tutto il
romanzo, Joseph Brant, Thayendanega, il
grande capo di guerra che guiderà il suo
popolo verso il destino che lo attende.
Ricostruzioni storiche perfette, grazie alla
indiscussa maestria dei cinque Wu Ming
nello studiare, capire, rivivere e ricostruire
momenti, paesi, uomini e donne che
fanno la storia, la vivono, ne partecipano,
la cambiano. Non è un romanzo western.
Non ci sono buoni e cattivi contrapposti
come il bianco e il nero. È inevitabile
che le simpatie vadano verso una delle
due parti, e verso certi personaggi in
particolare, ma non c’è l’eroe buono con
il quale identificarsi al cento per cento.
C’è la Storia, senza manicheismi e senza
facilonerie. I buoni e i cattivi convivono da
entrambe le parti, spesso le stesse persone
sono buone e cattive, compiono gesta
eroiche e infrangono tabù, si elevano al di
sopra della mediocrità e compiono azioni
esecrabili. Ma è la Storia, e a Wu Ming non
resta che raccontarla con quella capacità
di renderla viva e reale che nessuno può
togliergli. È la storia di Gemello Destro e di
Gemello Sinistro, antica leggenda indiana
che permea del suo significato tutto il
romanzo. Manituana è il romanzo che stavo
aspettando da molto tempo, e il successo
di vendite che sta avendo mi fa sognare
sulle buone sorti della letteratura italiana e
sulle buone sorti dei lettori italiani.
Dario Goffredo
Coolibrì
24
24
Scogliera
Olivier Adam
minimum fax
Il più dolce delitto
Giancarlo Onorato
Sironi
Era la fine degli anni ’90. Ero studente universitario
ed un mio amico, nel nostro continuo scambiarci
musica e libri da leggere, mi regalò una cassetta
del cantautore Giancarlo Onorato: Io sono
l’angelo. Ora ho tra le mani questo suo romanzo, Il
più dolce delitto, pubblicato di recente da Sironi.
L’ho letto nei giorni di tregua pasquale. Ho ritrovato
nelle pagine del libro la stessa intensa, estrema
ed ossessiva vena lirica presente nell’unico suo
album da me ascoltato. Il romanzo racconta la
storia del Dottor Marlo, giovane medico inviato
in una clinica psichiatrica situata nel cuore della
Svizzera, per far luce su presunti abusi e violenze ai
danni delle pazienti. Non solo gli abusi in questione
sono presenti, ma lo stato di salute mentale di molte pazienti è davvero al limite
del sopportabile. Tra queste c’è Geli, adolescente gracile ed inavvicinabile. Marlo
s’innamorerà perdutamente di lei. E tutta la storia ruoterà attorno a questa indicibile,
incontrollabile ed inspiegabile relazione che imprigionerà medico e paziente.
C’è un elemento che più di ogni altro colpisce nella storia in questione: la densità
emotiva della scrittura di Onorato. In questo gorgo violento nel quale normalità e
pazzia sembrano essere non più agli antipodi, ma perdere rigidità di definizione, per
scontrarsi con l’inesplicabilità della vita, Onorato riesce a mettere a nudo, con pagine
di un lirismo straziante, la complessità dell’animo umano, la perfettibilità dell’uomo, il
suo continuo azzerare convinzioni e verità, per mettersi continuamente in discussione,
toccando anche i bassi gradini del lecito, lasciandosi trascinare in perversioni, a volte,
inspiegabili, in questo dominio assoluto della passione che tutto obnubila e annulla:
“Lei sembrava già oltre ogni cosa. Pensai che la sua bellezza fosse un dono dei morti.
La neve che le faceva da sfondo il letto immacolato dal quale si fosse alzata”. Un
altro assaggio: “Ancora le strisce morbide delle tue labbra sotto le mie dita incredule,
ancora un fine scivolare sulle tue anche le natiche le ginocchia che reggono con
tanta abilità il tuo terrore trasformandolo in desiderio. E questo in delitto”. Infine: “Così
il furore di vederla appassire dal di dentro mi ha agitato in una disperazione sorda,
l’appartamento mi è parso denso di un gas che volesse esplodere, e in quel boato
interiore le mie vene davanti al suo dolcissimo sonno hanno vibrato. Le ho toccato le
labbra socchiuse, le ho alitato sul petto, soffrivo troppo”. Nell’epoca dei libri prodotti
e consumati con troppa furia, Il più dolce delitto si distingue poiché mette in scena
una storia che va annusata lentamente. Si legge non con l’ansia di andare avanti
per vedere come tutto va a finire, ma con la voglia di tornare indietro per soffermarsi
su quella frase così piena di significati che non si può lasciarla andare via, senza
riattraversarla nuovamente.
Rossano Astremo
Manuale per sopravvivere
agli Zombi
Max Brooks
Einaudi
Gli zombi camminano tra noi, e
questi morti viventi
sono la peggiore minaccia per
l’umanità - dopo
l’umanità
stessa,
beninteso. Le vittime più fortunate
vengono divorate,
le ossa completamente spolpate, la
carne consumata;
quelle meno fortunate passano dalla parte degli aggressori,
trasformandosi in putridi mostri carnivori. Contro queste creature le strategie di
guerra e il pensiero tradizionali non servono
a nulla, ecco perché è stato scritto questo libro. Dalle sue oltre trecento pagine
imparerete a riconoscere i vostri nemici,
a scegliere le armi giuste, a eliminare gli
aggressori, a organizzarvi e improvvisare in
situazioni di difesa, fuga e attacco. Preziosissima la sezione storica, che documenta,
data per data, la storia degli attacchi zom-
bi dal 60.000 avanti Cristo ad oggi. Compratelo, studiatelo e non createvi false
speranze: se tutto ciò fosse mera finzione,
ci sarebbe quantomeno da inchinarsi alla
fantasia a dir poco esuberante di questo
autore.
Silvestro Ferrara
Cunnilingusville
Augusten Burroughs
Mondadori
Omosessuale,
ironico,
strampalato.
Credo che questi siano gli aggettivi giusti
per definire Augusten Burroughs, che in
Cunnilingusville ci parla apertamente di
sé attraverso 28 racconti. Partendo dalla
descrizione di quella che sembrava essere
una giornata di scuola come tante, ci
informa della sua passione per i transessuali
e per tutto ciò che luccica, come le star,
si snoda tra gli episodi più esilaranti ed
eccentrici della sua vita fino a condurci
nella sua dimensione odierna, quella di
pubblicitario gay felicemente innamorato
e convivente. La forza di questo libro,
curioso sin dal titolo, risiede nel suo essere
un’autobiografia senza veli né paura di
mostrare troppo, ma anzi, così spontanea
e diretta che, giunti alla fine, sembra di
conoscere Augusten da sempre.
Maria Grazia Piemontese
Come il protagonista di Alla ricerca del
tempo perduto, il quale, dopo aver
imbevuto nel tè la madeleine che soleva
mangiare da piccolo la domenica mattina,
riesce a riappropriarsi di tutto il mondo
della sua infanzia, di tutto il tempo vissuto
a Combray quand’era bambino, così l’io
narrante di Scogliera, romanzo di Olivier
Adam, appena pubblicato da minimum
fax, nella visione notturna dell’illuminata
scogliera dalla quale vent’anni prima si
scagliò sua madre, privandosi della vita,
riporta a galla i momenti tragici dei primi
anni della sua esistenza. Con le dovute
differenze. Se in Proust i ricordi sembrano
affluire copiosi, in Adam la memoria sembra
giocare brutti scherzi. Dei primi nove anni
di vita nessuna immagine nitida. Tutto
sembra aggrovigliarsi attorno ai mesi in cui
la malattia psichica della madre ha subito
una brusca accelerazione. Sino all’estremo
gesto. La vita del protagonista è segnata
indissolubilmente da questo evento
tragico. Tutto ruota attorno alla mancanza
della madre: “Vivevo circondato da
paesaggi di ovatta, in una zona indistinta
del mio cervello, del tutto estranea alla
vita reale e come su un altro pianerottolo,
in un’altra stanza, in un passato continuo
in cui mia madre non era morta”. Unico
legame forte quello con il fratello Antoine.
La descrizione della loro adolescenza non è
altro che un porre in evidenza una comune
voglia autodistruttiva. Il padre, sconvolto
dalla perdita della moglie, si chiude
in un burbero mutismo. Il legame con
Antoine, però, non può durare in eterno.
Antoine fugge via da quella situazione
opprimente. Il protagonista perde non
solo il fratello, ma anche Lorette, la sua
dolce fidanzata, rinchiusa in una clinica
per anoressiche. Tutto sembra costringerlo
alla più totale solitudine. Anche lui va via
da casa. Senza avvisare il padre. Trova
lavoro in un albergo. S’innamora di Léa.
Vivono una storia estrema, fatta di sesso,
abbracci e lacrime interminabili, sino al
suicidio della ragazza. È l’incontro con
Claire a determinare una svolta definitiva.
Nonostante la vita dissoluta che lui
conduce, la caduta violenta nell’alcolismo,
è lei a tenerlo vivo, ad aiutarlo a lottare
contro i suoi vividi fantasmi. La nascita di
Chloé è il punto più alto della rinascita del
protagonista: “Ho trentun anni e la mia
vita comincia. Non ho avuto un’infanzia
e una qualunque ormai andrà bene. Mia
madre è morta e tutti i miei familiari se ne
sono andati. La vita mi ha messo di fronte
Coolibrì
a una tavola rasa a cui siedo con Claire, e
dove Chloé si è autoinvitata con un sorriso
tenero all’angolo delle labbra”. La vita
ci consegna la morte, ma da ogni morte
ci si può sollevare, con fatica, evitando i
cortocircuiti solipsistici della mente. Una
storia dolente come poche, scritta in una
prosa nitida e a tratti lirica.
Rossano Astremo
All’ombra del melograno
Tariq Alì
Baldini Castoldi Dalai editore
Nella Granada
del 1499 i re
cattolici impediscono ai musulmani di Spagna di professare liberamente
la loro religione,
venendo meno
agli accordi di
sette anni prima.
L’arcivescovo Ximenes
de
Cisneros,
uomo implacabile e violento,
obbliga i sovrani a convertire forzatamente
gli infedeli, o in caso di resistenza a sterminarli senza pietà. I Banu Hudayl, aristocratici islamici del tempo, assistono impotenti al
rogo dei libri depositari della loro sapienza,
alla messa al bando della loro lingua, alla
censura della loro musica, e all’improvviso
la furia feroce della Storia costringe questi
uomini alteri a confrontarsi con le uniche
tre alternative alla loro distruzione, tutte
difficili e sofferte: la fuga, la lotta, la conversione. Con struggimento d’amore, la
vecchia balia Ama ricerca da sola un senso agli accadimenti, affidando i pensieri e
confidando le scelte ai melograni che da
secoli abitano un antico giardino. All’om-
Syd Barrett
Alessandro Bratus
Editori Riuniti
Tra le mille cose che si
possono raccontare sulla
contorta e stupefacente
persona che è stata Syd
Barrett degno di nota
è sicuramente il suo immaginario
fiabesco,
magico, che attingeva
dal reale per renderlo
speciale. Leggendo le
parole di Syd Barrett se
ne percepisce la sensibilità, la stessa che lo costringerà ad eclissarsi, a
scomparire dopo un solo
disco con i Pink Floyd e qualche episodio solista. Come se non potesse essere
altrimenti. Questo nuovo episodio della
collana pensieri e parole pubblicata da
editori riuniti ne ripercorre la vita attraverso le canzoni, le citazioni nascoste tra le
parole, le divagazioni metafisica. Un’altra doverosa pubblicazione dedicata a
una delle personalità più brillanti e preziose del rock. (O.P.)
2325
bra del melograno - appunto - la donna
registra i dettagli di un’epoca incerta in cui
l’intolleranza cela inquietudini profonde, e
realizza che l’incapacità della convivenza
e la diffidenza nei confronti dell’altro non
possono essere “solo” frutto di giochi di potere. Intanto le scintille dei fuochi censori
volteggiano nell’aria, e disperdono in cenere le pagine preziose di una cultura che
fu. “Era come se le stelle stessero versando
in lacrime tutto il loro dolore”. Con questo
romanzo storico, scritto con sensualità e
suggestione, Tariq Alì ci permette di rintracciare in altri secoli le insicurezze dei nostri
giorni, e di rinnovare il lontano timore che
ciò che è stato spesso si ripete, inesorabilmente si ripete.
Stefania Ricchiuto - Il Passo del Cammello
Lo
spettacolo
cosmico.
Scrivere il cielo: lezioni di
astronomia visiva
Franco Piperno
DeriveApprodi
La conoscenza è l’atto che presume
di definire l’esistente dando il nome ad
ogni cosa, in modo da fissare dei confini
opportuni e di renderci padroni dell’
“altrimenti sfuggevole”. Nel tempo e da
sempre, l’uomo ha applicato questa sua
tensione al nome anche alla volta celeste presunta infinita e per questo più pericolosa
- sbizzarrendosi, oltre che a “nominare”
il cielo, anche nel “descriverlo”. E lo ha
fatto legando le stelle tra loro, attraverso
immaginati
punti
di
congiunzione,
costruendo così le costellazioni e “scrivendo
sul cielo” una rinnovata relazione con la
terra. Il gusto di creare narrazioni collettive
e celesti, però, si è smarrito con il passare
delle sapienze, e oggi sono in pochi,
tecnici e appassionati, a dilettarsi con la
contemplazione dell’universo. Questo libro,
insieme di svelte lezioni sulla bellezza dello
sguardo all’insù, mira proprio a riportare
The Doors
Fabio Rapizza
Editori Riuniti
Sono passati 40 anni e
le porte sono ancora
aperte. Quelle scardinate dai Doors, da Jim
Morrison e compagni
capaci di offrire al mondo un nuovo modo di
intendere musica e vita.
su tutti lui, una delle icone del rock, il poeta di
una e di tutte le generazioni, l’incarnazione del
nuovo decadentismo:
Jim Morrison. Ma insieme a lui una band che
ha prodotto musica assolutamente innovativa, che ha creato un nuovo stile del
rock, che lo ha accostato al teatro lo ha
reso profetico, enfatico, sessuale. E tutto
questo è raccontato e spiegato con minuzia da Fabio Rapizza, ce ripercorre la
storia della band californiana album per
album. Ben curato, scorrevole, tecnico.
Per non dimenticare e per saperne ancora un po’ di più. (O.P.)
in auge il sentimento dell’osservazione
di quel mistero immenso che è il cielo,
soprattutto notturno. E lo fa invitando il
lettore ad orientarsi con il sole, la luna, le
stelle, ma anche a recuperare il piacere
delle storie che quell’orientamento,
anticamente, ha creato. Per questo nel
testo si avvicendano pagine curatissime
con mappe facilitate per il riconoscimento
degli astri ad occhio nudo, e paragrafi
di cosmogonie, mitologie e racconti
profetici, che sembrano appartenere
ad un’altra pubblicazione. Il tutto reso
con una scrittura sublime e da preziosa
divulgazione, che mai si riduce a banale
tecnica manualistica. Franco Piperno
è docente di Astronomia visiva presso
L’Università della Calabria, ha insegnato
Fisica in numerosi atenei italiani e presso
le più prestigiose realtà accademiche
americane, e ai tempi del suo Assessorato
alla Comunicazione presso il Comune di
Cosenza si è impegnato per l’ideazione e
la costruzione del nuovo planetario. È noto,
altresì, per la sua partecipazione attiva alle
vicende politiche che hanno caratterizzato
l’Italia degli anni ‘70.
Stefania Ricchiuto - Il Passo del Cammello
Follie di Brooklyn
Paul Auster
Einaudi tascabili
Nathan Glass sta cercando solo un posto
tranquillo dove morire. Per questo decide
di tornare a Brooklyn, sua città natale. Per
fare il punto di una vita, la sua, indebolita
dal cancro ai polmoni e giunta a suo
avviso al termine. Per ingannare il tempo
Nathan si mette a scrivere una raccolta
di aneddoti sulla follia umana. Quasi a
voler impacchettare la vita in tutte le sue
sfumature, con l’illusione di poter così
affrontare la morte. Ma la vita colpisce in
tutta la sua imprevedibilità. Si materializza
nell’incontro con l’annoiato nipote Tom,
e prende i volti di Harry Brightman, libraio
e truffatore, della nipotina Lucy e di sua
madre perduta in chissà quale Stato
americano, della B.P.M., la Bellissima e
Perfetta Madre. Vite apparentemente
slegate che invece si aggrovigliano con
rapidità sempre maggiore, e lasciano
Nathan il più delle volte sconvolto. Incontri
apparentemente casuali che cambiano il
corso degli eventi. Perché la follia umana
non si può catalogare in un libro, è tutta
intorno a noi. E non a caso il libro si chiude
proprio la mattina dell’11 settembre 2001,
a pochi minuti da una strage che quella
follia l’ha eretta a normalità.
Anna Puricella
Coolibrì
26
Uomini e cani è il primo romanzo di Omar
Di Monopoli. Classe 1972 vive e lavora a
Manduria, nella patria del Primitivo. Nel
2004 aveva firmato la sceneggiatura di
La caccia, cortometraggio inserito nel
lavoro collettivo A Levante prodotto dalla
Provincia di Lecce e dalla Saietta Film di
Edoardo Winspeare.
Nel tuo libro parli di un sud che ci è
familiare ma anche di un sud nascosto che
si scopre sfogliando le pagine, come si è
svolto questo percorso a scavare?
Mah, il sud che descrivo io è assolutamente
iperbolico, esasperato sino allo spasimo
tanto da diventare un ‘non-luogo’. Non
mi sono posto il problema se un sud così
crudele e violento rappresentasse davvero
quello che tutti i giorni si muove attorno
a me. Volevo raccontare un western
contemporaneo e così ho preso il Salento
che conosco io – che sicuramente è diverso
da quello oleografico che le associazioni
turistiche hanno imparato a propinarci
– e ne ho esagerato alcune pecche,
ingrossando a dismisura quell’incuria
(anche morale) che probabilmente è
parte integrante nel nostro Mezzogiorno.
I cani compaiono spesso nella narrazione,
ne sono cornice, protagonisti. C’è un
significato altro nell’associare “uomini e
cani”?
A parte il portato letterario che si porta
appresso un titolo siffatto (Uomini e topi
di Steimbeck ma anche Uomini e no
di Vittorini), è evidente il tentativo di
racchiudere in due parole l’intera materia
del romanzo: quell’umanità “scalena
e abnorme” che finisce, appunto, per
somigliare ai propri cani, a reagire alle
sollecitazioni esterne con una ferocia e
un’irrazionalità che è tipica degli animali
(animali braccati, aggiungerei!).
Una delle cose che mi ha colpito molto è
la tua capacità di accostare il gergo e il
dialetto a un italiano letterario e ricco, un
contrasto che funziona. È un effetto voluto
o semplicemente sono due tuoi registri?
È frutto di una ricerca meticolosa, per
la verità. Perché, a parte la moltitudine
di modelli letterari che ogni scrittore si
porta appresso, ho cercato di guardare
allo spaghetti-western rifacendomi in
qualche modo al grande Sergio Leone,
da cui ho cercato di mutuare una serie
di accorgimenti (inquadrature sghembe
reiterate
all’infinito,
tema
musicale
ricorrente, rumori e spari che diventano
parte di un complesso panorama filmico)
per sintetizzare una cifra stilistica che
fosse funzionale alla mia storia. Ed è per
questo che il mio romanzo suona qua e
là volutamente “barocco” e, nonostante
questo, estremamente ritmico.
L’intreccio delle scene e il loro alternarsi è
rocambolesco, filmico quasi. È vicino, per
alcuni versi, ad alcuna narrativa italiana
(mi viene in mente Come dio comanda
di Ammaniti, giusto per l’avvicendarsi di
personaggi e scene), anche il genere è
“al passo con i tempi” se così si può dire.
Quanto la tv, il cinema e le nuove forme
di comunicazione influenzano la tua
scrittura?
Guarda, ho appena detto di Sergio
Leone cui probabilmente andrebbero
aggiunti miliardi di influenze televisive e
cinematografiche (io poi faccio il grafico,
e sono cresciuto a pane e fumetti Marvel),
ma la vera differenza sta nel fatto che, a
dirla tutta, credo di appartenere a quella
categoria di scrittori “visuali” che invece
di pensare per blocchi, scalette e sviluppo
dei personaggi pensa soprattutto per
“immagini”, ed è per questo che il mio
romanzo sembra (me lo hanno detto in
molti) un trattamento cinematografico!
Ammaniti se devo essere sincero non lo
amo granché, però da più parti mi giunge
voce di alcuni tratti comuni. Forse è solo un
caso.
Come uomo del sud che guarda alle cose
belle ma anche a quelle brutte della sua
terra, qual è, secondo te, il nostro più
grande male oggi?
Non ne ho idea. Io in fondo sono stato
fortunato a riuscire a esprimere attraverso
un romanzo (un prodotto “artistico”, quindi)
un mio personalissimo grido di dolore per
una terra che amo ma che non capisco.
In Uomini e cani ho cercato d’infilare – tra
un ammazzamento e l’altro – le estreme
contraddizioni di questo sud che splende
di bellezza e che al tempo stesso canta
la propria morte tra dissalatori pirata,
termovalorizzatori assassini e abusivismo
diffuso.
“Restare qua. E resistere. Come ho sempre
fatto. Affrontare chiunque a testa alta.
Perché di questo è fatto l’uomo. Di orgoglio,
perdio. E di niente altro”. È una frase del tuo
libro che mi ha molto colpito. Racchiude
il senso di appartenenza a questa terra,
ma anche il ritorno (raccontato anche nel
romanzo). Ce ne parli?
Bhè,
appartenendo
anch’io
a
quell’accolita di persone che ha studiato
fuori (a Bologna nel mio caso) sperando
di trovare altrove ciò che forse possedevo
già, alla fine sono tornato quaggiù spinto
dall’amore per il mare e il sole (lo so, è un
po’ banale, ma è anche questa una forma
di orgoglio). Mi ritengo quindi a pieno
diritto una di quelle “anime fuori-sede”
che non riescono a decidersi su dove è
la loro casa. E forse, oggettivamente, al
giorno d’oggi comprenderlo appieno si
è fatto impossibile. Comunque il ritorno è
importante, credo.
Coraggiosa operazione quella di Isbn che
ha sporcato la sua solita veste grafica con
il sangue. Quanto sangue c’è in questo
libro, quanto cuore e quanta passione
Coolibrì
nello spingere giovani autori da parte degli
editori?
Io ho lavorato per anni coi piccoli editori,
e conosco bene i meccanismi editoriali
(ho anche curato per la Besa gli esordi
della rivista Tabula Rasa). Ma ciò che ha
fatto la differenza - credo di poterlo dire,
spero, senza timore d’essere tacciato di
presunzione - è la qualità del lavoro. Per
anni ho inviato racconti e romanzi in giro per
l’Italia, senza che nessuno mi considerasse
di striscio. Stavolta ho avuto numerose
offerte, segno che evidentemente la mia
scrittura era maturata al punto giusto.
Alla fine ho scelto quelli di ISBN perché
sono giovani e in gamba, hanno creduto
in me e soprattutto mi hanno fatto capire
l’importanza di uno sguardo “a lunga
distanza”. Mettere a segno un libro è un
conto, cominciare a percepirti come uno
scrittore è tutt’altra cosa.
Quali scrittori ti hanno folgorato, quali
formato?
Tutti quelli che hanno cercato di raccontare
il difficile, difficilissimo transito di un luogo
o di un popolo verso una modernità che
sembra non arrivare mai: William Faulkner
(assolutamente irraggiungibile!), Flannery
O’Connor ma anche il nostro straordinario
Beppe Fenoglio, che nel periodo postresistenziale (in specie nella raccolta Un
giorno di fuoco) ha saputo descrivere
in maniera esemplare la fatica di una
popolazione (quella dell’Italia dopo la
guerra) a crescere e mettersi la violenza
alle spalle.
Domanda, per noi, di rito: cosa ascolti in
questo momento? Quali dischi girano nel
tuo lettore?
Le chitarre dei Grinderman, il nuovo
gruppo di Nick Cave, sono assolutamente
un toccasana per gli animi inquieti come
il mio.
Osvaldo Piliego
27
Scoprire la casa editrice
Meridiano Zero è stata
veramente un bella sorpresa, Tutti i miei amici
sono super eroi (nostro libro del mese di marzo) ci
ha conquistato. Abbiamo
parlato delle nuove uscite con il fondatore della
editrice Marco Vicentini.
Sbirciando tra i vostri titoli sembra che l’ironia sia
una sorta di leit-motiv o
per lo meno un elemento importante...cosa ne
pensi?
È vero. L’ironia è una
cosa che in genere mi
conquista ed è facile
che mi faccia prendere
dall’autore che la sa usare con intelligenza.
Come si pone Meridiano Zero nel sovraffollato mondo dell’editoria?
Si pone come il tentativo di far affiorare,
in un mondo già parecchio affollato, delle
scelte di qualità. (Alla fine sono sempre i
lettori che stabiliscono queste cose, e che
possono determinare la riuscita o meno di
una casa editrice).
Come nasce la vostra casa editrice?
Come si articola?
Meridiano Zero nasce 10 anni fa dal tentativo di creare una casa editrice che pubbli-
Actarus. La vera storia
di un pilota di robot
Claudio Morici
Meridiano Zero
Operazione davvero fuori dal normale quella
compiuta da Claudio Morici con il suo nuovo
romanzo, Actarus. La vera storia di un pilota di
robot, edito da Meridiano Zero. Come prendere
uno dei cartoon culto per i bambini nati negli
anni ‘70 e trasformarlo in una storia grottesca.
Perché Actarus, il pilota di Goldrake, non ne può più di lottare contro Vega. Stanco,
come non gli era mai capitato, decide di volersi prendere una pausa, magari una
bella vacanza a Fleed, dove regna la pace suprema e dove per entrare all’Ikea basta
spendere uno yen e poi puoi comprare tutto quello che vuoi. Sì, vorrebbe prendersi
una bella vacanza, ma il Dottore non è consenziente. C’è da sconfiggere il nemico.
Vega è pronta a scagliare sulla terra le sue armi distruttive. La salvezza dell’umanità
è nelle mani di Actarus, il quale, non sopportando tutta questa responsabilità beve
come un dannato. Actarus è un alcolista e la cosa più assurda è che l’unica cosa
che riesce a bere è la birra Peroni. Questa situazione davvero insopportabile continua
sino all’incotro con Roberta, una stupenda ragazza, che vende ad Actarus quaranta
confezioni di margherita, una sorta di infuso i cui proventi andranno poi ai bambini
poveri. E sarà proprio Roberta a dare una svolta alla vita di Actarus. In fondo, non
esiste solo il bene dell’umanità. Oltre alle alabarde spaziali e ai missili perforanti c’è
una vita da portare avanti. Actarus parte da Roberta per ricominciare a vivere. Ma
le donne, come si sa, nascondono insidie impensabili. E il povero Actarus non regge
quest’altro colpo tremendo. Con Actarus Claudio Morici si conferma uno tra i più folli
scrittori della nuova generazione. Per chi volesse addentrarsi in duecento pagine di
puro divertimento, ecco il romanzo giusto.
Rossano Astremo
casse esattamente i libri
che vorrei leggere. Sperando ovviamente che
i miei gusti siano condivisi da molte persone. Si
articola in due collane
principali che ne sono
l’ossatura e altre collane o libri fuori collana
che si sono alternati in
questi anni, sempre tutti
di narrativa. Ma la spina
dorsale della casa editrice resta sempre il noir,
con cui ho incominciato e che è la mia vera
passione.
In catalogo italiani e
stranieri, come avviene
la scelta?
Scelgo personalmente
tutti i titoli. Per convincermi devono comunicarmi qualcosa, devono farmi scattare il
clic dell’entusiasmo. Io cerco libri che abbiano una buona potenza narrativa, in cui
la storia abbia una posizione importante,
ma dove ci sia anche modo di narrare
personale e coinvolgente. Insomma stile e
storia, qualità e intrattenimento.
Nonostante siate una piccola realtà in giro
si parla molto di voi, potenza della comunicazione, dei titoli o cosa?
Non credo che si possa capire, altrimenti sarebbe fin troppo facile identificare il
meccanismo: “perché si parli di una casa
editrice bisogna fare così…”, e a quest’ora
sarebbero già in molti a farlo. In fondo spero che sia un segno che le scelte editoriali
sono apprezzate…
Ci parli un po’ dei vostri ultimi titoli? Delle
nuove uscite?
L’uscita più importante è la prossima
Quando cala la nebbia rossa di Derek Raymond (nella foto in alto), il sesto libro della
sua serie più famosa, quella della Factory.
È un noir che ha tutte le caratteristiche
che hanno reso famoso Raymond: il cinismo e la durezza che l’autore trasfonde
nel protagonista, le storie immerse in una
coreografia di disperazione. Delle ultime
uscite un’altra che amo molto è La lunga
notte di Berlino, che trasferisce i ritmi e la
tensione del noir alla Ellroy in Europa, nella
Berlino d’oggi. Un’atmosfera magistrale,
un ritmo incalzante, una scrittura di classe:
rappresenta tutto quello che cerco in un
buon noir.
Non credi ci siano più libri che lettori?
Certo, ne sono convinto. Ma con una situazione che si sta involvendo (la diminuzione del numero dei lettori, l’innalzamento dell’età media dei lettori), in cui nessun
organismo, statale o privato, elabora alcuna proposta in grado di cambiare la scena, si sta ricadendo nel meccanismo del
supermercato: vendere subito e al resto
ci penseremo poi. Meccanismo diabolico
perché chi non lo accetta viene tagliato
fuori, in tutti i sensi.
Osvaldo Piliego
28
Se di esordio dobbiamo parlare, in questo caso occorre andarci con i piedi di
piombo, perché Luciano Pagano, l’autore di Re Kappa edito dalla Besa editrice, con la scrittura ha un rapporto di
osmosi pulsionale portato avanti da anni
con metodo e rigore. Non solo ha prodotto interventi di carattere poetico, ma
anche sul piano della saggistica (facciamo riferimento, tra quelli più recenti, al
suo intervento nel libro La transe dell’artista a cura di Vincenzo Ampolo e Luisella
Carretta con la prefazione di Georges
Lapassade per i tipi di Campanotto Editore) e della critica letteraria sia come
redattore della rivista Tabula Rasa sia
come direttore del sito www.musicaos.it,
ma anche in altre prestigiose sedi cartacee e on-line. E Re Kappa rappresenta un’operazione editoriale
coraggiosa sia dal punto di vista linguistico, con un procedere
periodale fortemente pausativo, secco e incalzante, sia per ciò
che concerne strettamente l’intera architettura della trama. Se
qualcuno volesse ad esempio trascorrere un po’ del suo tempo a
cercare di trovare un editing diverso al testo in esame in questa
sede, o riflettere su altre possibilità testuali ed extra/para-testuali,
magari eliminando o aggiungendo questo o quel dato periodo,
una frase o una parola, si accorgerebbe subito che l’intera impalcatura crollerebbe, non per debolezza o inconsistenza, ma per
simmetria bilanciatissima da intendersi more geometrico. Re Kappa, romanzo di Luciano Pagano, di cui si parlerà molto in futuro,
non analizza tanto la realtà editoriale salentina, che è pur presente nella storia ma si capisce che è solo un pre-testo, quanto il
vivere una determinata realtà (non importa se centro o periferia)
sincopata, quasi claustrofobica, ricca di personaggi grotteschi,
carichi di un’umanità velenosa, attraverso le relazioni esistenti tra
tre personaggi chiave: l’io narrante, un giovane scrittore alle prese febbrili con il suo percorso di ricerca, Gastone Gallo, editore
inquieto, sempre con nuove idee da condividere con maniacale
dovizia di particolari ai suoi collaboratori, e Michel Benoit, un critico di origini francesi, un imbroglione, un – per utilizzare un’espressione di Pagano a me cara anche se non puntualmente riferibile
al personaggio in questione – batonga di una dimensione culturale d’avanspettacolo.
E Benoit viene descritto dal nostro autore in maniera brillante, con
grande stile, mettendo in luce le zone d’ombra di un personaggio degno di essere chiamato “losco figuro”, un critico che non
ha mai fatto pubblicazioni degne di portare questo nome. Il suo
unico merito, forse, è quello di avere nelle sue grinfie, il manoscritto leggendario Volonté du roi Krugold di Louis-Ferdinand Céli-
Coolibrì
ne, testo di oltre novecento pagine sul quale l’autore di Viaggio
al termine della notte lavorò per molti anni, senza che lo stesso
potesse mai veder la luce, in quanto trafugato da mani maialesche, strumenti per l’occasione, di una volontà carica di livore nei
confronti di un genio come Celine in grado di produrre un’opera
d’arte come La volontà del Re Krugold. Ad ogni modo Pagano
rende in punta di penna, un mondo cancrenoso e canceroso, in
cui Benoit, rimandando continuamente la consegna dell’edizione
critica del manoscritto in questione, tiene in paranoico stand-by
l’editore Gallo, facendosi elargire gustose somme di denaro per
organizzare i suoi Festival di Poesia da cartolina nel Salento. L’odio
profondo del protagonista nonché il desiderio di poter avere un
rapporto onesto, sano e collaborativo con il suo editore, lo spingono a compiere l’impensabile. Un gesto che sa di grande valore
prometeico. E sarà proprio la ricerca del manoscritto misterioso
a far compiere alla narrazione la sua fuga verso un insolito ma
affascinante finale, tutto da godere. Pagano utilizza il romanzo
per descrivere le meccaniche sociali, quelle della realtà di ogni
giorno, con occhi che sanno guardare al buio, che sanno vedere spettrograficamente quello che sta prima di tutto questo. Ne
viene fuori una narrazione metaletteraria, un monologo che ha
una voce senza filtri, e che possiede la forza del desiderio, anzi
di un unico desiderio… quello trans-letterario, meta-etico, metapop, della verità a ogni costo. Re Kappa – dice Elisabetta Liguori
in suo intervento critico al volume di Pagano – è un lavoro che
comincia proprio quando la letteratura contemporanea italiana sembrerebbe fermarsi. “Pagano in via preliminare tratteggia
il suo ambiente: l’inquietante mondo pop delle lettere salentine.
Ambiente del quale intravede strani bagliori alla fine del canale
attraverso il quale è costretto a strisciare per arrivare a vedere
alla luce. Ma inquietante perché?! Certo a qualcuno verrebbe
di chiamare l’autore, di disturbarlo al suo cellulare, o di scrivergli
una mail, perché si sentirebbe coinvolto in prima persona (quanti
scheletri nell’armadio e quanti fantasmi in giro!!!) , quasi offeso
da qualche improbabile denuncia allo stato delle lettere e della
critica … solo Salentina? E questo qualcuno, vorrebbe addirittura
farsi scappare “… ma ti riferivi a me, quando scrivevi …?”, vorrebbe che Re Kappa non fosse sul mercato, per sfuggire a questa
voce forte e feroce di denuncia contro qualsivoglia malcostume
letterario. Forse perché a sfogliare le pagine del lavoro di Pagano,
ci si sente come scossi da una scarica elettrica, come se sorgesse
repentino un imperativo categorico che spinge a dedicarsi alla
parola, al suo modo d’incedere tra le righe, nel costituirsi fulmineo
dei periodi. Ma Re Kappa è questo e molto di più! Forse bisognerebbe ri-pensarlo nella sua totalità. O forse basterebbe leggerelo,
e ri-leggerlo, per non dimenticare nemmeno una virgola di tutte
queste parole scritte col sangue.
Stefano Donno
Be Cool
il cinema secondo coolcub
Salvador – 26 anni contro
Manuel Huerga
Istituto Luce
Una delle pagine più buie della recentissima
storia europea è raccontata da Salvador
– 26 anni contro, intenso ritratto di una
nazione sull’orlo del cambiamento, che
come spesso accade, è pagato col
sangue. In nomination come miglior film
agli ultimi premi Goya, il film di Huerga
racconta la vera storia di Salvador Puig
Antich, militante di estrema sinistra del
partito di liberazione spagnola durante il
regime franchista, ultimo condannato a
morte col barbaro strumento della garrota
(anello di metallo messo intorno al collo per
spezzare le vertebre cervicali) del periodo
dittatoriale. Siamo nel ‘73 e un gruppo di
ragazzi lotta per rendere libera la Spagna.
Durante una retata, degli agenti catturano
due militanti, ma durante il conflitto a fuoco
Salvador (David Brühl di Goodbye, Lenin)
viene ferito e un poliziotto ucciso. Poco
dopo verrà arrestato e usato come capro
espiatorio. Questa la storia di una pellicola
che, sebbene a tratti deludente e un po’
retorica, è estremamente interessante,
soprattutto per chi come noi viene da un
recente passato di controllo e negazione
e troppo spesso se ne dimentica, dando
pericoloso filo a revisionismi e nuove
interpretazioni storiche. Altro discorso, allo
stesso modo importante, è quello che
riguarda la pena di morte, pratica adottata
ancora in molti paesi del mondo e per la cui
abolizione l’Italia si batte ormai da tempo.
Il film si muove su due piani, uno fatto degli
ultimi momenti di vita del condannato,
l’altro dei continui flashback in cui dalla
galera, Salvador ricorda i momenti che lo
hanno portato a combattere il regime e a
vedere la sua vita spezzata a soli 26 anni.
Il film, che ha sicuramente un colorato
taglio giovanile adatto a un pubblico non
molto esigente, a volte si perde in lunghe e
meticolose descrizioni, ma dà il meglio di sé
nell’introspezione psicologica del padre di
Salvador e del rapporto tra il condannato
e il suo secondino, momenti che rendono
appieno il periodo provocando un sincero
disagio interiore. Una considerazione a
parte merita la bellissima colonna sonora,
composta tra gli altri da pezzi di Dylan e
Cohen, che sottolinea in maniera originale
anche i momenti più drammatici. Un
lavoro importante quindi, se non altro
per i temi trattati che rendono il suo
giudizio sicuramente più malleabile e un
film da vedere perché non c’è pezzo di
storia, anche la più drammatica, che a
cuor leggero possiamo permetterci di
dimenticare.
C. Michele Pierri
Be Cool
30
Le vite degli altri
Florian Henckel von
Donnersmarck
01 Distribution
Inizio degli anni ’80: Hauptmann Gerd
Wiesler (Ulrich Mühe) è un capitano
della Stasi, la polizia segreta della DDR di
Honecker. È un irreprensibile ingranaggio
della macchina spionistica più potente
del mondo. Uno Stato nelle Stato che
controlla minuziosamente le vite degli
altri, di tutti gli abitanti della Germania
Est, siano essi militari, politici, operai o
artisti come Georg Dreyman (Sebastian
Koch) noto drammaturgo filo-comunista
e la sua fidanzata, l’attrice Christa-Maria
Sieland (Martina Gedeck). La condotta
di Gorge è irreprensibile e sembra
preludere ad una archiviazione del caso
da parte di Wiesler, ma le avances di un
ministro verso Christa-Maria, il suicidio di
Jerska (Volkmar Kleinert), scrittore amico
di Dreyman, e una serie di altri piccoli
eventi, modificheranno i rapporti di
Mio fratello è figlio unico
Daniele Luchetti
Warner Bros Italia
Tratto dal libro di Antonio Pennacchi, Il
fasciocomunista, il nuovo film di Daniele
Luchetti (Il portaborse, La scuola) presenta
lo scontro tra due ideologie – quella
fascista e quella comunista - e due opposti
modi di vivere. Protagonista la Latina degli
anni ‘60 e ‘70, che assiste alle vicende e
al rapporto conflittuale tra due fratelli,
Manrico (Riccardo Scamarcio) e Accio
(Elio Germano). Il primo incastrato nel ruolo
del giovane ribelle di sinistra, tutto proteste
forza presenti e segnerà per sempre la
vita di Dreyman ma soprattutto aprirà
una breccia nella mente di Wiesler, che
sembrerà per la prima volta prendere
coscienza della sua vita e le cui certezze
cominceranno a scricchiolare insieme
a quel Muro che di lì a poco crollerà. E
proprio sui primi difficili mesi post-caduta,
il regista esordiente Florian Henckel von
Donnersmarck chiude il racconto. È un
film che lascia spazio alla riflessione e che
approfondisce un tema storico a lungo
oscurato (in questo è simile al Bechis
di Garage Olimpo) unendolo ad una
analisi psicologica su un personaggio
maniacale nella sua monotonia (ricorda
Titta, il protagonista de Le Conseguenze
dell’amore). Resta però un dubbio da
chiarire: come si fa a morire investiti da
un camioncino in pieno giorno a Berlino
Est quando per tutto il film non si vedono
altro che strade deserte? (al limite
qualche Trabant !)
Willj De Giorgi
studentesche prima e scioperi in fabbrica
poi, l’altro seminarista fallito e infine
iscritto al partito fascista. L’uno donnaiolo
e l’altro imbranato. Ma sempre fratelli,
capaci di guardare oltre le divergenze
politiche quando necessario e di amarsi
profondamente, di lottare per tenere unita
la famiglia, per strappare un sorriso alla
madre ormai troppo stanca di vita. Figli
di una rabbia di periferia, che in Manrico
e Accio esplode in maniera diversissima,
ma con la stessa dirompente energia. Film
ironico e triste allo stesso tempo, brillante nei
dialoghi (“Perché un fascista, in famiglia,
fa sempre comodo”). Grande merito alle
interpretazioni di Angela Finocchiaro e
Luca Zingaretti, e ad uno strepitoso Elio
Germano.
Anna Puricella
Still life
Jia Zhang-Ke
Shanghai Film Studios/ Xstream
Pictures
Still life, Leone d’Oro a Venezia, è il
docu-film rivelazione di Jia Zhang-Ke sul
devastante e violento impatto prodotto
dalla costruzione della diga delle Tre Gole.
Ambientato a Fengjie, antica città cinese
prima a naufragare nel bacino della diga,
racconta la storia più grande del rilancio
socio-economico della Cina e dei suoi
alti costi sociali servendosi di due storie
semplici, quotidiane, legate al piccolo
vissuto. Han Sanming è un minatore dello
Shanxi che si reca a Fengjie in cerca della
ex moglie che non vede da 16 anni e Shen
Hong è un’infermiera alla ricerca del marito
che non torna a casa da due anni. Le loro
storie avranno percorsi ed esiti diversi: di
integrazione attraverso la condivisione di
oggetti inanimati (Still life) e ancoraggio al
passato la prima e di chiusura con esso e
distacco la seconda. Incarnano il conflitto
e le contraddizioni che investono l’intero
Paese trattenuto da un passato radicato
e proteso verso un futuro agognato ma
portatore di distruzione. Lucido spaccato
di una regia invisibile, sobria e pregna
di simbolismi talvolta surreali, si avvale
di un montaggio lento, vicino allo stile
documentaristico, ritmato dal lavoro
ripetitivo degli operai. Egregio esempio
di cinema d’immagini e silenzi, accorda
armonicamente la toccante poetica della
fotografia e l’ efficacia della denuncia.
Francesca Vantaggiato
La vie en rose
Olivier Dahan
Mikado
La pellicola ripercorre la vita della celebre
cantante transalpina Edith Piaf (nel film
Marion Cotillard), dalla difficile infanzia nel
bordello della nonna alle canzoni che ne
hanno consacrato il successo mondiale.
Emozioni intense e indimenticabili per
una vita eccezionale. Nel cast Gerard
Depardieu.
Spiderman 3
Sam Raimi
Sony pictures
Terzo capitolo per la saga dell’uomo ragno
nato dalla matita del geniale Stan Lee.
Raggiunto finalmente l’equilibrio tra i suoi
doveri e la relazione con la sua amata,
il giovane Peter Parker (Tobey Maguire)
dovrà vedersela con Sandman, Venom
e Goblin. E con un nuovo e inaspettato
nemico: se stesso.
La ragazza del lago
Andrea Molaioli
Medusa Film
Valeria Golino e Toni Servillo sono gli
interpreti di questo sapiente mix di
dramma e thriller. Un uomo con problemi
mentali convince una bambina a salire
sul suo furgone e dopo qualche tempo
viene rinvenuto il corpo della bambina
insieme ad altri cadaveri. Un investigatore
è chiamato a fare luce sui fatti.
L’ottava edizione del Festival del Cinema
Europeo di Lecce, dal 17 al 22 Aprile, ha
visto come protagonista Valeria Golino,
sicuramente uno dei volti italiani più conosciuti e apprezzati nel panorama del cinema internazionale. A lei è stata riservata
una mostra fotografica: “ho scelto le foto
personalmente, tra quelle che avevo nella
mia cantina. Non mi piace tenerle in giro
per casa, soprattutto le copertine delle riviste. Alcune rappresentano scatti inediti,
appartenenti alla mia collezione privata e
mai state pubblicate”.
L’attrice quarantenne è stata soprattutto
omaggiata con una monografia ed una
retrospettiva: i sei film, anche questi scelti
da lei personalmente, segnano le tappe
fondamentali di una già longeva carriera, coronata da tre Nastri d’argento, una
Coppa Volpi e svariate candidature al
David e può vantare più di sessanta film
all’attivo. Inizia, infatti, appena diciassettenne, quando viene scelta da Lina Wertmuller per Scherzo del destino in agguato
dietro l’angolo come un brigante di strada (1983). La incontriamo a Lecce appena approdata al Festival, assediata dalla
stampa e dai fotografi, con il compagno
Riccardo Scamarcio.
Ti piace rivederti nei film che hai girato?
Solitamente provo grande imbarazzo a
rivedermi nei film. Soprattutto nei film che
ho fatto negli Stati Uniti, in cui sono stata
doppiata. Le pellicole che ho voluto mostrare al pubblico di questo festival sono
probabilmente le uniche che rivedo con
piacere, che per me hanno una maggiore
potenza emotiva, come Storia d’amore di
Citto Maselli, Respiro del 2002 di Emanuele
Crialese.
In quest’ultimo film interpreti una madre
atipica. Come ti rapporti a questo genere
di personaggio?
Spesso mi trovo in netto contrasto, mi ar-
rabbio con i miei personaggi. La madre
creata da Crialese, per Respiro ha grande voglia di incantarsi e, allo stesso tempo, ha bisogno quasi di essere “cresciuta”
dal figlio appena adolescente. Così come
anche i ruoli materni di L’albero delle pere
di Cristina Archibugi, in cui interpreto una
donna tossicodipendente, o di La guerra
di Mario di Antonio Capuano, in cui sono
il genitore adottivo di un bambino con
problemi comportamentali. Credo però
che nella realtà un pezzetto di ognuna di
queste donne possa creare la figura della
madre ideale.
Sei probabilmente l’attrice della tua generazione più conosciuta ad Hollywood.
Come mai negli ultimi anni hai messo un
po’ da parte quel tipo di cinema per tornare a lavorare quasi esclusivamente in
Europa?
Negli Stati Uniti sono stata benissimo e sono
riuscita a lavorare in molti film, affrontando
qualsiasi genere. Ho cominciato molto giovane, per caso, avevo appena ventidue
anni quando sono arrivata a Los Angeles
con un gruppo ristretto di amici. Una serie
di provini andati bene mi hanno permesso di lavorare prima con Dustin Hoffman in
Rain Man di Levinson, nei due episodi della commedia Hot Shot, in Lupo Solitario di
Sean Penn, film a cui sono profondamente
legata. Fino ad arrivare a Le cose che so
di lei di Garcia. La scelta di tornare non è
stata affatto meditata. È stato piuttosto un
passaggio graduale. Dapprima ho cominciato una relazione sentimentale, durata
dieci anni, con Fabrizio Bentivoglio, poi ho
scoperto che in Italia avrei avuto la possibilità di interpretare dei ruoli diversi rispetto
a quelli, da “straniera”, che mi venivano
proposti dai registi americani.
Con scadenze semestrali si parla di rinascita/crisi del cinema italiano…
Credo che non si possa parlare di “rina-
scita” solo quando tre dei cinquanta film
italiani che escono nelle sale fanno degli
incassi record. Questo tipo di pellicole non
possono assolutamente rappresentarci
all’estero. Nel nostro cinema ci sono molti registi, come Moretti o lo stesso Crialese
che, in paesi come la Francia, riescono a
portare nelle sale un pubblico vastissimo,
pur dedicandosi a prodotti “autoriali”.
Quali sono i tuoi progetti per i prossimi
mesi?
In questi giorni verrà presentato a Cannes, l’ultimo film di Valeria Bruni Tedeschi
Actress, in cui interpreto un piccolo ruolo.
Prossimamente uscirà nelle sale anche
l’opera prima di Fabrizio Bentivoglio, in cui
recito accanto ai fratelli Servillo e Sergio
Rubini. A partire dal mese prossimo, sarò sul
set di Caos calmo di Grimaldi, con Nanni
Moretti, tratto dal bellissimo libro di Sandro
Veronesi. Mi aspetta anche un film alla
Ocean’s eleven con Jean Renò Cash, di
Erik Benhar, in cui interpreto una poliziotta
manipolatrice. Mentre ad ottobre girerò
finalmente con Anghelopoulos The Dust
of time, uno shooting molto tormentato, rimandato già più volte, a fianco di Harvey
Keitel.
Con quali registi ti piacerebbe lavorare in
futuro?
Sicuramente con i registi della Fluid Video
Crew. A dire la verità, ci è mancato davvero poco a girare un film con loro. Ero stata
contattata per realizzare il loro ultimo lavoro Fine pena mai, per un ruolo che è stato
poi affidato alla bravissima Valentina Cervi. Ho sentito di dover rifiutare la parte perché penso di essere troppo in là con l’età
per quel tipo di personaggio. Sono sicura
che comunque non mancherà occasione
per una collaborazione futura.
Sabrina “Zero Project” Manna
Be Cool
32
Risalgono già alla seconda metà degli
anni cinquanta le prime incursioni in Puglia
da parte del cinema italiano e non solo.
Da Roberto Rossellini e Pierpaolo Pasolini,
fino ad arrivare alle ultime generazioni,
molti registi hanno scelto questa regione
come set ideale per sviluppare le proprie
storie. Autori italiani come Cristina
Comencini, Edoardo Winspeare, Sergio
Rubini e Alessandro Piva, hanno fatto si che
prendesse vita un nuovo tipo di cinema,
pensato, ambientato e realizzato in questa
regione.
A tutto ciò si aggiungono anche i set della
fiction di media serialità e dei film destinati
alla televisione, che negli ultimi periodi si
susseguono sempre in maggior numero
su questo territorio. Le produzioni non
rivolgono il proprio interesse al sud solo ed
esclusivamente per fattori estetico-artistici,
ma piuttosto per riduzioni consistenti dei
costi giornalieri della fase di shooting,
dall’affitto delle stesse location e degli
alloggi.
Inoltre, il personale proveniente dalla Puglia,
viene spesso utilizzato a supporto dei vari
reparti. Ultimamente però si sta verificando
una spiacevole controtendenza. Le case
di produzione preferiscono infatti arrivare
sul territorio con delle troupe complete di
assistenti, nonché di location manager,
rinunciando
quindi
all’ingaggio
di
maestranze locali. Ciò deriva dalla quasi
totale assenza di enti che si rivolgono
esclusivamente al marketing territoriale e
alla promozione degli operatori del settore.
Inoltre le scuole di formazione hanno i
propri poli di eccellenza a Roma e Torino,
per quanto riguarda il cinema e Milano per
la televisione.
Da questa serie di problematiche è sorta dunque l’esigenza di istituire la Apulia
Film Commission. Silvia Godelli, assessore
al Mediterraneo della Regione Puglia, è
attualmente presidente del neonato ente
regionale: “È stato necessario un
anno per costituirlo a livello giuridico
e per stilare uno
statuto completo.
Tuttora però si sta
cercando di chiudere il cerchio intorno a quello che
sarà il futuro consiglio di amministrazione. Solo da
questo momento
in poi si potrà far
partire l’attività ordinaria della Film
Commission.
Sin
dall’inizio è stata prevista la presenza attiva
delle Province e dei capoluogo, anche se
tuttora tardano ad arrivare da quest’ultimi
le sottoscrizioni al documento ufficiale. Una
prima importante risposta è comunque ar-
rivata dalla Confindustria di Lecce che ha
aderito come soggetto economico.”
“La Fondazione Film Commission”, aveva
sottolineato il presidente della Provincia
di Lecce Giovanni Pellegrino, “è stata
fortemente voluta dall’Amministrazione
Provinciale che ha collaborato con la
Regione Puglia sin dalle prime fasi di
stesura dello Statuto e del Regolamento.
Si tratta di implementare la significativa e
positiva esperienza del Salento Film Fund,
che a questo punto cessa la sua attività
confluendo in questo progetto regionale
che potrà meglio affrontare le sfide
che i processi di trasformazione in atto
nell’industria del cinema e dell’audiovisivo
pongono ai territori”. Proprio grazie
all’esperienza maturata in questi anni
dalla Provincia di Lecce nel campo degli
audiovisivi ad essa è stata riconosciuta la
facoltà di esprimere il vice presidente della
Fondazione indicato da Pellegrino nella
figura del responsabile dell’Ufficio Cultura,
Luigi De Luca.
Oltre all’attività di
ricerca e offerta
location e servizi,
si dovrebbe però
puntare maggiormente alla valorizzazione
delle
nostre maestranze
e dei tecnici. Sempre secondo l’assessore “la Puglia
intende diventare
nei prossimi anni
un
importante
polo
produttivo per il digitale.
Vuole infatti specializzarsi soprattutto nelle neotecnologie,
dell’High Definition e della grafica e animazione 3d”.
Non solo, ma esiste anche il progetto
di una maggiore e migliore fruizione
delle sale cinematografiche, soprattutto
quelle esistenti sul nostro già da qualche
decennio, ristrutturandole e adibendole
esclusivamente alle proiezioni in HD. Nel
mese scorso è stato infatti inaugurato
uno delle primi centri di questo tipo a
Santo Spirito a Bari. Il primo passo verso
il compimento di questo importante
progetto deve necessariamente partire
dalla costituzione di un numero consistente
di corsi e scuole di formazione in loco,
non tanto indirizzate verso i settori della
artistici del cinema, come la regia o la
recitazione, ma piuttosto atte a formare
tecnici e, soprattutto, esperti e capireparto
di fotografia, macchinisti o addetti alla
produzione che riescano ad operare agli
stessi livelli di quelli che provengano dalla
“scuola” romana e, negli ultimi anni, da
quella torinese.
Pochi giorni fa inoltre è stato firmato
un protocollo d’Intesa, tra il Consiglio
Internazionale del Cinema, della televisione
e della Comunicazione audiovisiva presso
l’UNESCO (CICT-UNESCO), la Regione
Puglia, il Comune di Specchia e l’Istituto
di Culture mediterranee della Provincia
di Lecce (ICM), per la realizzazione di una
Mediateca Multifunzionale per l’area Euro
Mediterranea con sede nel Castello del
piccolo borgo salentino.Il progetto condurrà
alla realizzazione di un progetto destinato
a dotare l’UNESCO di una piattaforma
satellitare per trasmettere programmi
educativi, culturali, scientifici e diffondere
in tal modo i principi fondamentali
che animano l’attività dell’Agenzia,
contribuendo al raggiungimento di uno
degli obiettivi dell’ONU. E proprio Specchia
dovrebbe ospitare la nuova edizione del
Cinema del Reale, la rassegna dedicata
al documentario, organizzata da BigSur e
diretta dal regista Paolo Pisanell (nella foto)
i all’interno di Salento Negroamaro.
Sabrina “Zero Project” Manna
CoolClub.it
Philip Glass sarà l’ospite principale della
quarta edizione di Sound Res, festival di
musica contemporanea organizzato da
Loop House e Coolclub, sotto la direzione
artistica di Alessandra Pomarico e David
Cossin, e inserito nell’articolato programma
di Salento Negroamaro, rassegna delle
culture migranti della Provincia di Lecce.
Il musicista statunitense si esibirà giovedì
28 giugno nell’atrio di Palazzo dei Celestini
in un concerto esclusivo affiancato
dalla violoncellista Wendy Sutter e dal
percussionista David Cossin. Glass, che era
già stato nel Salento due anni fa con la
sonorizzazione dal vivo di Koyaanisqatsi di
Geoffrey Reggio, resterà in residenza in una
masseria per una settimana per concludere
la composizione di un’opera per la San
Francisco Opera House.
Sound Res, forte del successo della prime
tre edizioni e della crescente reputazione
conquistata all’estero, manterrà anche
quest’anno (dall’8 al 30 giugno) la sua solita
struttura con una serie di concerti, workshop,
lezioni magistrali, masterclass e laboratori
per ragazzi.
In residenza ci saranno il contrabbassista
33
Robert Black, il chitarrista Mark Stewart,
il violoncellista Felix Fan, il percussionista
Roberto Pellegrini, il chitarrista/artista Steve
Piccolo, il collettivo multimediale Vision
into Art composto dalla compositrice
Paola Prestini, dal violoncellista Jeff Zeigler
(Kronos Quartet), dalla cantante iraniana
Haleh Abghari, e dal sound designer Brian
Mohr (Kronos Quartet).
In questa edizione ai musicisti si
aggiungeranno anche degli artisti visivi,
che collaboreranno alla creazione di
percorsi sonori, installazioni e mostre di
sculture sonore. Questa sezione a cura
dall’artista Luigi Negro, si arricchisce
della presenza di Cesare Pietroiusti, Emilio
Fantin, Giancarlo Norese, Steve Piccolo
- musicista e artista -e Davide Faggiano
come artista locale. Tra gli ospiti anche Ira
Glass, noto conduttore del popolarissimo
programma radiofonico e ora anche
televisivo This American Life, sulle frequenze
e i canali nazionali statunitensi, porterà
alla registrazione di un programma sul
Salento.
Info 0832303707 – www.soundres.com
– www.coolclub.it
CoolClub.it C
34
CoolClub.it
MUSICA
da giovedì 10 a domenica 13 / L’alternativa
a... a Corigliano d’Otranto (Le)
venerdì 11 / Enzo Favata trio al Teatro
Paisiello di Lecce
venerdì 11 / Giardini di Mirò all’Arci Novoli
sabato 12 / Serena Spedicato e Marco
Della Gatta alla Saletta della Cultura di
Novoli (Le)
La vocalist Serena Spedicato e il pianista
Marco Della Gatta saranno i protagonisti
del nuovo appuntamento della rassegna
Tele e Ragnatele della Saletta della Cultura
di Novoli. La canzone americana è da
sempre la più grande fonte musicale. Le
più popolari commedie musicali di scena
a Brodway si sono rivelate ideali trampolini
per improvvisazioni di grandi solisti, da
Louis Armstrong a Cole Porter ai maggiori
songwriters quali Gershwin e Berlin. Ad
uno dei maestri della canzone america
Frank Loesser il duo ha voluto dedicare
un’antologia musicale con alcune tra
le canzoni dell’indimenticabile autore
dove emerge la sensibilità per le melodie
classiche ed il gusto stravagante e un po’
retro dei primi anni ’50. Inizio ore 21.30. Info
347 0414709 – [email protected]
sabato 12 / Lucio Dalla a Brindisi
sabato 12 / Inti Illimani a Galatina (Le)
sabato 12 / Miranda ai Sotterranei di Copertino (Le)
sabato 12 / Arè rock festival a Barletta
sabato 12 / DJ set house per Maggiovani a
35
venerdì 18 / Zu + Stearica all’Istanbul Cafè di Squinzano
(Le)
Venerdì 18 maggio la rassegna Keep Cool si chiude
all’Istanbul Café di Squinzano (Le) con l’esibizione di Zu
e Stearica. Gli Zu sono uno dei gruppi più attivi e quotati
dell’avanguardia post-rock contemporanea. Uno stile
vulcanico che oscilla tra il free più evoluto e il rock estremo
ma mai in forma autoreferenziale. Ne emerge un suono
urbano e modernissimo, che incrocia epoche e stili, i maestri
del free jazz, i pionieri della No New York, la generazione
noise-core con il misticismo di Coltrane, la nevrosi dei DNA e l’iconoclastia dei Big Black.
Gli Zu, trio di Roma, dal ‘97 hanno registrato 8 album e girato per l’Europa ed Usa in
centinaia di concerti in diversi tour in solo e con The Ex, No Means No, The Vandermark
5, Dkv Trio, Ruins, Fantomas, Otomo Yoshihide, Chris Cutler, Fred Frith, Tom Cora, Han
Bennink, Dalek, Eugene Chadbourne, Mats Gustafsson ed altri. Chitarra, basso e batteria
la base del suono degli Stearica. Molto di più di questi tre elementi il suono che ne risulta.
La band ha divorato decine di migliaia di km, suonando da luoghi storici dello stivale
sino al principale festival baltico nella città di Liepaja, organizzato da Zona, la stessa
label che distribuisce negli ex paesi sovietici, mostri sacri come Robert Wyatt, Pixies, Joy
Division, Dead Can Dance... per citarne solo alcuni. Appena terminati i missaggi del loro
primo disco ufficiale che vanta ospiti straordinari come Dälek MC e Oktopus producer
(Dälek), Amy Denio (Fred Frith, Derek Bailey, Matt Cameron, The Tiptons, etc. ), Jessica
Lurie (Bill Frisell, Nels Cline, The Indigo Girls, The Tiptons, etc. ), Massimo Pupillo (ZU, The
Original Silence, etc. ), Nick Storring (Damo Suzuki network, Picastro). Inizio ore 23.00.
Ingresso 5 euro. Info www.myspace.com/zuband, www.coolclub.it – 0832303707.
Corigliano d’Otranto (Le)
giovedì 17 / Squartet al Matisse di Bari
venerdì 18 / Miss Fraulein all’El Royo di Alezio
(Le)
venerdì 18 / Jam Session al Solaire di Marina
di Andrano (Le)
Roberta & Carlo presentano Jam Session,
un live itinerante dedicato ai musicisti
appassionati di tutti i generi. Dodici
appuntamenti per dodici locali tra le
province di Lecce e Brindisi. Ingresso
gratuito.
sabato 19 / Germano Bonaveri alla Saletta
della Cultura di Novoli (Le)
CoolClub.it C
36
Si intitola Magnifico il cd d’esordio dello
scrittore e musicista Germano Bonaveri che
sarà presentata alla Saletta della Cultura
Gregorio Vetrugno di Novoli all’interno della
rassegna Tele e ragnatele. Un cantautore,
già fondatore dei Resto Mancha, nel
senso classico del termine. Impegnato e
musicalmente essenziale. “Il percorso del
mio scrivere e comporre musica è scandito
dal quotidiano”, sottolinea Bonaveri.
“Scrivo di getto cercando di essere il
tramite tra l’esperienza e la canzone con
la solida certezza di non avere risposte ai
tanti interrogativi che mi pongo. Mi piace
immaginare di poter dare voce e parola
alle emozioni delle persone che ascoltano e
trovarmi a parlarne alla fine di un concerto”.
Ingresso 5 euro. Inizio ore 21.30. Info 347
0414709 – [email protected]
sabato 19 / Leitmotiv al Teatro Antoniano di
Lecce
La rassegna Suoni a Sud, organizzata da
Teatro Antoniano e L’orchestrina, si chiude
con il live dei tarantini Leitmotiv freschi
vincitori delle selezioni regionali di Italia
Wave. Le loro canzoni, che coprono i
generi più diversi, sono in italiano, francese
ed inglese. È dall’incontro e dallo scontro
del locale con il globale che la loro musica
prende vita e creatività, nelle sonorità e nei
contenuti testuali, cercando un difficile trait
d’union tra la forza e l’impatto del rock, la
tradizione cantautoriale e l’animosità della
musica mediterranea. La band è composta
da Giorgio Consoli (voce), Dino Semeraro
(batteria), Giovanni Sileno (chitarra e
piano), Giuseppe Soloperto (basso). Il Teatro
Antoniano è in Via Monte San Michele, 2 a
Lecce. Inizio ore 21.00. Ingresso platea 10
euro (8 ridotto) – galleria 5 euro. informazioni
e prevendita 0832.392567
sabato 19 / Finale Szigest Festival on tour al
Teatro Kismet di Bari
sabato 19 / Radici nel Cemento a Tricase
(Le)
sabato 19 / Altri talenti, Fernando Conte,
I ragazzi disobbedienti e Sostanza per
Maggiovani a Corigliano d’Otranto (le)
domenica 20 / Exploited al Teatro Kismet di
Bari
Il gruppo si formò nel 1980 a Edimburgo e fin
da subito si buttò a capofitto in un’incessante
attività live, spesso segnata da risse e
violenza e caratterizzate dal front-man
Wattie Buchan che indossava magliette
con la svastica, insultava il pubblico e
incitava alla violenza. Comunque sia gli
anni ‘80 si rivelano il periodo d’oro della
band, infatti dopo aver firmato un contratto
con la Secret Records cominceranno ad
incidere una serie impressionante di album
di studio, EP, LP, album live e una manciata
di raccolte per fermarsi solo brevemente
nel 1990. Gli anni ‘90 saranno un periodo
relativamente calmo, per quanto riguarda
l’aspetto discografico, per la band che in
una decina di anni pubblica solo un paio di
album in studio, una manciata di raccolte e
qualche live album. Apriranno Los Fastidios,
Non Toccate Miranda e Payback.
lunedì 21 / Apres la Classe a Casarano (Le)
venerdì 25 / Shank + Cast thy Eyes + Warknife
all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le)
Sonorità pesanti
per questo venerdì
dell’Istanbul.
Sul palco uno dei
gruppi più longevi
e importanti della
scena metal salentina. Gli Shank,
che presenteranno i nuovi brani, saranno affiancati dai Cast
thy Eyes (brutal post metalcore) e Warknife
(trash metal).
sabato 26 / Sparklehorse a Bari
sabato 26 / Skarlat + Vallanzaska a Corigliano
d’Otranto (Le)
La manifestazione “Maggiovani – mica tanto
x...” si chiude con un concerto carico di ritmi
in levare. I salentini Skarlat condivideranno
infatti il palco con i Vallanzaska. La band
si impone da anni grazie al mix di ska,
rocksteady, pop, reggae, punk e rock. Tutto
accompagnato da testi ironici, sarcastici,
dissacranti. Ingresso libero. Inizio ore 21.00.
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Info www.maggiovani.it
sabato 26 / Lorenzo Hengeller alla Saletta
della Cultura di
Novoli (le)
A dispetto del cognome, Hengeller
è napoletano. Nel
1998 esce il suo
primo cd, “Hengellers” . Nel 2004 con
l’etichetta Polosud
pubblica il suo secondo disco: “Parlami Mariù... ma non d’amore!”, che spinge Stefano Bollani a dichiarare: “Lorenzo rivitalizza
le canzoni dell’epoca di sua/nostra nonna
con un occhio affettuoso e l’altro ironico...”.
Ingresso 5 euro.
sabato 26 / Daemonia a Santa Maria di
Leuca (Le)
sabato 26 / Rita Marcotulli per Archeo jazz
hall a Cavallino (Le)
sabato 26 / Ludmilla ai Sotterranei di Copertino (Le)
domenica 27 / Dr. Blues & Soul Brothers a
Carmiano (Le)
venerdì 1 giugno / Disguise, Clinicamente
Morti me Darkest Insania all’Istanbul Cafè di
Squinzano (Le)
teatro
venerdì 18 maggio / Da Bussotti a Cocteau
ai Cantieri Koreja di
Lecce
Da Bussotti a Cocteau
presso i Cantieri Teatrali
Koreja sarà l’evento
“straordinario”
del
Festival
Oltrepasso
2007, soprattutto per
la presenza del grande
compositore
italiano
Sylvano
Bussotti:
l’irrequietezza artistica e culturale di un genio
che scrive disegnando la “sua” musica in
pentagrammi desueti portandoci su pianeti
inesplorati per provocare con essa sensi
irripetibili tra teatro, danza e ancora musica.
La regia del concerto è pensata per dare al
pubblico una visione esclusiva e intimistica
di un personaggio complesso per la varietà
e l’estro multiforme che lo hanno portato
ad essere uno dei capisaldi della musica
“classica moderna”. Lo spettacolo celebra
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con Bussotti anche i compositori della
“musica in scena” del Novecento, oltre a
brani musicali e vocali di Debussye, Ravel,
Poulenc e lo stesso Bussotti Toni Candeloro,
per la prima volta come attore si immerge
nell’ambiguo monologo al telefono La
voice umane di Jaene Cocteau a cui
l’intera regia dello spettacolo si ispira. Alla
fine della presentazione sarà consegnato il
premio “La Provincia di Lecce premia l’Arte”
al M.tro Sylvano Bussotti. Biglietto intero €
10,00 - ridotto (sotto i 25 e sopra i 60) € 7,00.
info 0832.242000
sabato 26 e domenica 27/ Zerogrammi ai
Cantieri Koreja di Lecce
Questo lavoro vuole raccontare la leggerezza, il vuoto, dire niente, noi di fronte a noi
stessi, svegliarsi la mattina e tutto quello che
c’è in una giornata un po’ inutile. In mezzo all’arrabattarsi in mille modi hanno preso
forma due personaggi, drammatici malgrado essi stessi. Che ci prospettano un mondo
sub-reale là dove nulla accade, dove tutto
è così leggero da non esistere, quel nulla
beckettiano che potrebbe sopraffare un
uomo qualunque che cammina lungo una
strada qualunque.
Proviamo a raccontare un’esperienza umana, la coesistenza, un qualunque momento
di una qualunque giornata in un qualunque
luogo dove due vite si incontrano, si contrappuntano, si affezionano, si infervorano
convinte di Essere e segnare tracce del proprio passaggio per ripetersi in realtà grottescamente inconcludenti. Ingresso 10 euro (ridotto 7). Sipario ore 20.45. Info 0832242000.
Mostre
23 maggio 23 giugno / Looks di Sergio
Perrone al Caffè Letterario di Lecce
Dal 23 maggio al 23 giugno al Caffè
Letterario di Lecce in Via Paladini 46, espone
Sergio Perrone, giovane fotografo leccese.
Looks è il titolo della mostra che si sviluppa in
due capitoli. Il primo è un attento “sguardo”
su oggetti di produzione industriale che
perdono la funzione per la quale sono stati
creati per acquisirne un’altra. Il secondo
capitolo è il racconto di un viaggio a New
York. Anche qui lo spazio è protagonista.
L’ambiente urbano sapientemente ritratto
è lo scenario in cui i protagonisti della
quotidianità newyorchese agiscono.
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Vi sono sette entità preposte ad altrettanti aspetti dell’esistenza umana: Destino,
Morte (Death), Sogno (Dream), Distruzione, Desiderio, Disperazione e Delirio, l’ultimogenita di quest’inconsueta famiglia,
gli Eterni. Essi non sono divinità ma concetti incarnati, sorti assieme alle creature viventi all’alba dei tempi e che al loro
termine svaniranno. Il terzogenito Sogno
ha trascorso tutto il ventesimo secolo imprigionato nelle segrete d’un maniero
inglese, a causa della follia d’un massone che ha pasticciato con oscuri riti. Alla
morte di questo, Morfeo (uno dei suoi
innumerevoli nomi) è nuovamente libero, tuttavia il regno dei sognatori, dalle
dorate sabbie, giace in rovina, devastato dall’assenza del suo monarca e molti
altri inquietanti eventi sono accaduti nel
mondo degli uomini durante tale periodo. The Sandman, la più prestigiosa delle
testate pubblicate dalla Vertigo (la linea
editoriale adulta della D.C. Comics), si
apre con la ritrovata libertà dell’emaciato Sogno e con il suo tentativo di ristabilire l’equilibrio infranto dalla sua prigionia;
Morfeo è metodico e del tutto ligio alle
proprie responsabilità poiché egli è il suo
lavoro, letteralmente. Egli è il signore delle
storie, in quanto cosa sono i sogni se non
frammenti ancestrali della “grande narrazione condivisa”? E Morfeo ne è l’ispirato
custode, affetto da una tale abnegazione al proprio ruolo da essere, apparentemente, il meno umano trai suoi fratelli
e sorelle, assieme a Destino, saccente e
polveroso incappucciato, che vaga cieco ed indifferente nelle vie del proprio
giardino, incatenato al libro degli eventi.
Sono molto più vicini alle mediocrità ed
alle virtù umane, l’androgino Desiderio,
dallo sguardo e dal sorriso affilati come
voluttuose lame; egli/ella è tutto ciò che
ogni essere umano brama e la sua mancanza sprofonda nel nebuloso reame
della sua deforme gemella Disperazione,
che osserva da infinite finestre le amenità
delle nostre vite. Delirio, al contrario, non
ha alcun sentore delle altrui sofferenze:
simile ad una “punkabbestia” dai capelli
colorati, la più piccola degli Eterni ha un
occhio verde ed uno blu nel quale sguazzano pesciolini argentei, simboli della sua
follia. Un tempo era Delizia ma poi gli uomini furono cacciati dall’Eden e venne
l’ora del cambiamento che li portò tra le
braccia di Death; incapace di accettare
ciò, ella impazzì divenendo Delirio. Mentre
Distruzione con l’avvento della Rivoluzione industriale, resosi conto che gli uomini
non avevano bisogno del suo lavoro, se
n’è andato lasciando le proprie mansioni
per tentare la carriera creativa (!) come
un semplice mortale, nascondendosi dal-
a maggio inaugurazione terrazze
la sua ingombrante famiglia. Attraverso i
dieci cicli che costituiscono la saga di The
Sandman lo sceneggiatore Neal Gaiman
ha tessuto un affresco nel quale il lettore
è avvinto dalla bellezza dei personaggi
sopra presentati e dalla straordinarietà di
trame che lasciano il segno. Gaiman ci
accompagna nel ’600 elisabettiano, durante la prima rappresentazione di Sogno
d’una notte di mezza estate inscenata da
un intimorito Shakespeare di fronte ai veri
Oberon e Titania ed all’intero popolo fatato, in procinto di abbandonare il nostro
mondo perché gli umani non credono più
in loro; nell’Africa dell’età del mito dove
una splendida mortale osò rifiutare l’amore di Sogno, che la condannò a indicibili
torture nell’inferno di Lucifero, dal quale
andrà a riscattarla, dopo aver saggiato
egli stesso una dura prigionia, trovandolo però vuoto; nella Grecia delle divinità
dell’Olimpo, durante l’infausto matrimonio di Euridice ed Orfeo, figlio della musa
Calliope e di Sogno, che segnerà il fato
di quest’ultimo, profondamente. Gaiman
stupisce con la sua smisurata conoscenza
del Mito d’ogni luogo del pianeta, tuttavia
questa è soltanto una delle qualità della
sua prosa; attraverso la lettura di Sandman si ha quasi un’esperienza terapeutica dalla forte valenza catartica, da cui
si esce riappacificati con noi stessi e con
l’intero genere umano… Basta soltanto
accennare alla figura di Death, la morte,
così lontana dall’iconografia popolare:
una ragazzina solare e dalla saggezza
zen e dal look dark, che ha sempre una
parola di conforto per coloro che deve
“prendere” ed il cui film preferito è Mary
Poppins! Sin dal suo esordio nell’episodio
Il suono delle sue ali, nel quale riprende il
fratello Morfeo (colpevole d’essere caduto in un’immotivata depressione), Death
ha conquistato i lettori con la sua personalità risoluta e brillante (ella non ama gli
inutili fronzoli di cui adorniamo le nostre
vite, essendo fin troppo consapevole di
quanto sia alto il costo di esse), divenendo una delle creazioni più riuscite dello
sceneggiatore inglese. Potrei scrivere decine di pagine su The Sandman, fumetto
che ha suggellato definitivamente il mio
amore per tale medium, ma vi dirò soltanto ciò: Gaiman ha lo stesso dono di artisti
come Lynch e Battiato, ovvero la capacità di conquistare qualsiasi tipologia di
persona, al di là del suo background culturale grazie alle corde che tocca con la
propria scrittura. Ancor oggi, a distanza di
dieci anni dalla conclusione della sua lettura, quando m’addormento flebilmente
prego d’incontrare Morfeo sulle spiagge
dei lidi del Sogno.
Roberto Cesano
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