EDITORIALE La sottile linea rossa tra “uso e abuso” di documenti aziendali Una recentissima sentenza della Corte di Cassazione (n. 6501 del 15 marzo 2013) ha reso ancora una volta attuale il dibattito sulla legittimità (o meno) dell’utilizzo in giudizio dei documenti aziendali da parte del lavoratore. Nel caso di specie, la vicenda interessava un dipendente licenziato dopo aver presentato un esposto all’Autorità Giudiziaria per illeciti commessi dal datore di lavoro nell’esecuzione di un appalto e, dunque, un’ipotesi in cui i documenti della società erano stati allegati a dimostrazione della fondatezza delle accuse. I Giudici, confermando l’orientamento oggi prevalente, hanno stabilito che la produzione in giudizio di documenti aziendali, per finalità difensive, deve reputarsi legittima poiché, da un lato, la corretta applicazione della normativa processuale è idonea a impedire una vera e propria divulgazione della documentazione societaria, dall’altro lato, in quanto il diritto di difesa del lavoratore è prevalente rispetto alle esigenze di riservatezza dell’azienda. Il problema affrontato dalla sentenza discende, come risaputo, dalla possibilità di configurare la condotta del dipendente quale ipotesi di lesione del dovere di fedeltà, sancito dall’art. 2105 c.c., norma che testualmente impone al lavoratore: un divieto di concorrenza e - un divieto a divulgare notizie e informazioni attinenti l’organizzazione aziendale e i metodi di produzione (o comunque di farne uso in modo tale da recare danno alla società). In particolare, il divieto di divulgazione non interessa ogni notizia che possa riguardare a qualunque titolo il datore di lavoro, ma dovrebbe interessare solamente le informazioni attinenti i metodi e i processi produttivi, poiché la finalità della norma è quella di tutelare il datore di lavoro sia dai concorrenti, che potrebbero avvantaggiarsi delle notizie divulgate, sia da eventuali denigrazioni dell’immagine societaria. In poche parole, le notizie di cui il legislatore intende vietare la divulgazione sono solamente quelle la cui conoscenza pubblica ed indistinta potrebbe creare un pregiudizio (economico e non solo) alla società (in tal senso anche: Cassazione civile, sez.lav., n. 519/2001). Chiarito quanto sopra, è necessario ribadire che, se anche la giurisprudenza ammette il primato del diritto di difesa del dipendente (così definitivamente “archiviando” le più risalenti pronunce che diversamente avevano deciso sul punto: su tutte, Cassazione civile, sez.lav., n. 13188/2001), tale diritto non può certo giustificare e legittimare un uso incondizionato della documentazione aziendale, né tantomeno spingersi sino al punto di rendere tollerabili condotte di impossessamento delle informazioni aziendali, al limite della rilevanza penale. Quanto al primo aspetto, è utile osservare che molti dei documenti che il dipendente può usare a propria difesa in giudizio, in quanto contenenti informazioni riservate, sono soggetti alla normativa sulla tutela della privacy (“T.U. Privacy”, D.lgs. 196/2003). Perciò, se da un lato è lo stesso art. 24 del T.U. a riconoscere la facoltà di usare i dati riservati al fine di far valere o difendere un proprio diritto in sede giudiziaria, è però altresì vero che tale facoltà deve essere esercitata per il periodo strettamente necessario al suo perseguimento e nel rispetto dei principi di correttezza, pertinenza e necessità (Art. 11, D.lgs. 196/2003). Sul punto, anche la giurisprudenza ha in più occasioni riconosciuto che la produzione di documenti contenenti dati personali altrui è consentita ove necessaria per esercitare o tutelare il proprio diritto, ma tale facoltà deve essere esercitata nel rispetto dei doveri di correttezza, pertinenza e non eccedenza e, quindi, la legittimità delle allegazioni documentali deve essere valutata in base ad un bilanciamento tra il contenuto del dato utilizzato e le esigenze di difesa (tra le più recenti: Cassazione civile, sent. n. 3033/2011). Quanto invece alle modalità con cui il lavoratore sia venuto in possesso dei documenti aziendali, occorre tener a mente che, anche nelle decisioni più recenti, la Cassazione ha operato una distinzione tra il loro uso in giudizio e il diverso problema del loro impossessamento, da valutare volta per volta (da ultimo, anche: Cassazione, sez.lav., n. 12119/2012). Premesso che di impossessamento, anche nelle aule penali, si è soliti parlare ogni volta che un certo bene fuoriesca dalla sfera possessoria di un soggetto per entrare in quella di un un’altra persona, la liceità o meno della condotta di un lavoratore potrà in concreto essere valutata, anche ai fini disciplinari, tenuto conto, da un lato, delle caratteristiche fattuali della vicenda e, dall’altro, della natura delle informazioni contenute nei documenti. E così, è stata reputata legittima la condotta di chi, per esempio: - abbia prodotto in giudizio copia di documenti aziendali originariamente fotocopiati per mostrarli al solo datore di lavoro in sede di giustificazioni ex art. 7 St.lav. (si veda: Cassazione civile, sez.lav. n. 7993/2012), - abbia usato documentazione cui aveva avuto accesso per ragioni d’ufficio (Cassazione, sez.lav., n. 12528/2004); diversamente è stato ritenuto illecito: - il possesso di documenti sottratti al datore di lavoro mediante accesso non autorizzato ad una banca dati aziendale e non attinenti l’attività lavorativa del dipendente (Cassazione civile, sez.lav., n. 153/2007), - la sottrazione di documentazione, poi inoltrata ad una pubblica amministrazione esercitante funzioni di controllo sul datore di lavoro, al fine di far apparire, contrariamente al vero, che l’azienda induceva il lavoratori a violare norme di legge (Cassazione civile, sez.lav., n. 6352/1998). Infine, saranno sicuramente considerate contrarie al dovere sancito dall’art. 2105 c.c. la condotte di violazione del segreto aziendale (Art. 623 cp), condotte quest’ultime siffatto gravi che la stessa giurisprudenza neppure richiede che il datore di lavoro abbia subito un danno effettivo, bastando il pregiudizio potenziale (sul punto: Corte d’Appello di Ancona, 8 settembre 2011). Concludendo, ogniqualvolta il dipendente abbia allegato in giudizio documentazione aziendale, il datore di lavoro dovrà valutare se eccepire il mancato rispetto della normativa sulla tutela dei dati personali, nonché l’illiceità della condotta del lavoratore, valutando in questo caso anche la rilevanza e la pertinenza delle prove raccolte per dimostrare l’abuso del dipendente. In via preventiva, per meglio tutelare il proprio interesse alla riservatezza dei dati aziendali, le società potranno altresì considerare di redigere un apposito codice di condotta (in cui siano specificati gli obblighi discendenti dal dovere di riservatezza), oppure stipulare patti individuali di confidenzialità con i dipendenti che, in ragione delle loro mansioni, hanno accesso alle informazioni aziendali.