TERAPIE Interrompere le cure Solo il paziente può decidere quando dire basta Gli oncologi si interrogano su come scegliere le cure nei momenti finali della vita di una persona. Ancora non esiste una risposta univoca, ma tutte coinvolgono il paziente, che deve essere protagonista della scelta a cura di DANIELA OVADIA i è un momento, nella vita di alcuni pazienti malati di cancro e dei loro medici, in cui la domanda sorge spontanea: le cure alle quali il malato è sottoposto sono davvero utili per allungargli la vita? E, soprattutto, il periodo di vita in più che gli viene concesso è di una qualità adeguata alle aspettative del malato? Queste domande costituiscono uno dei problemi principali dell’oncologia clinica e riempiono intere sessioni nei congressi scientifici, anche se discuterne solo tra medici potrebbe non avere senso, perché non esiste una risposta univoca alla domanda “quando una cura oncologica diventa inutile?” V “La risposta potrebbe essere: quando il rapporto tra benefici ed effetti collaterali non è più a favore dei primi” dice Maurizio D’Incalci, direttore del Dipartimento di oncologia dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano. Per quanto scientifica suoni questa affermazione, tradurla in comportamenti concreti è tutt’altro che semplice, perché i benefici sono percepiti diversamente da ciascun paziente e, in sostanza, ogni caso fa storia a sé. PAESE CHE VAI, USANZA CHE TROVI In un editoriale pubblicato nel 2011 su Annals of Oncology e considerato una sorta di linea guida in materia, Sofia Braga, oncologa medica dell’Istituto portoghese di oncologia di Lisbona, faceva un quadro della situazione nei diversi Paesi europei, dimostrando come le differenze di tratta- mento tra un luogo e l’altro, a parità di stadio della malattia e di tipologia di tumore, potessero essere davvero molto ampie. Uno studio svedese, per esempio, dimostrava che circa il 25 per cento dei malati affetti da tumori solidi aveva ricevuto una chemioterapia nell’ultimo mese di vita, percentuale che corrisponde più o meno alla media continentale, con però variazioni molto grandi. In Portogallo è il 37 per cento dei terminali a essere ancora in cura con farmaci che sono riservati a una diversa fase della malattia. Negli Stati Uniti è solo il 15 per cento. Due studi italiani, effettuati in due diversi centri oncologici, mostravano dati ancora differenti: in uno era in cura il 23 per cento dei malati terminali, nell’altro il 15. In Corea uno su due viene trattato, mentre la percentuale più bassa si registra in Gran Breta- In questo articolo: chemioterapia cure palliative decisioni di fine vita gna: solo l’otto per cento dei pazienti considerati terminali ha ricevuto una terapia. Lo studio britannico, pubblicato nel 2006 sul British Journal of Cancer, è anche l’unico ad aver registrato le cause di morte, scoprendo che, tra i pazienti curati con chemioterapici, il 7,5 per cento era deceduto per tossicità da farmaci e il quattro per cento circa per sepsi neutropenica (infezioni non controllate per mancanza di meccanismi immunitari di difesa), due possibili effetti della somministrazione di sostanze che hanno bisogno di una buona conservazione dei sistemi di metabolizzazione dei farmaci e di eliminazione delle sostanze tossiche: in pratica fegato e reni ben funzionanti. L’IMPORTANZA DEI SISTEMI SANITARI NAZIONALI “Dietro queste cifre ci sono certamente differenze di tipo culturale su ciò che significa prendersi cura di chi non ha più speranza di guarigione” spiega Livio Garattini, direttore del Centro di economia sanitaria Angelo e Angela Valenti (CESAV) dell’Istituto Mario Negri. “Nei Paesi mediterranei c’è una documentata tendenza a usare più farmaci, a volte con un eccesso di cure, mentre nei Paesi del Nord questa tendenza è più limitata. I casi della Gran Bretagna e degli Stati Uniti fanno però storia a sé e dipendono molto dall’organizzazione sanitaria del luogo. In Gran Bretagna, per esempio, la libertà di prescrizione da parte del medico è molto ridotta ed esistono linee guida stringenti che dicono fino a quando il Sistema sani- tario pubblico copre economicamente un certo trattamento. Questo spiega perché solo pochi ne hanno diritto negli ultimi mesi”. Negli Stati Uniti, invece, dove non esiste un sistema sanitario pubblico, bisogna che il malato abbia un’assicurazione che paghi e, in genere, laddove il paziente o il curante tendono a prolungare la terapia anche per ragioni psicologiche e umane, interviene un perito esterno che si limita a studiare le carte e a decidere se vale ancora la pena provarci oppure no. Il medico gioca comunque un ruolo importante nella scelta, in tutti gli scenari: non a caso i parametri che determinano più facilmente il profilo di chi viene curato più a lungo sono la giovane età (perché si fa di tutto per salvare i più giovani), lo stato di avanzamento delle metastasi (che sono il problema clinico principale da affrontare), il tipo di tumore e la sua sensibilità ai trattamenti: se risponde bene, ovviamente si continua nella cura. La forma di tumore trattata più a lungo, almeno negli Stati Uniti, è quella polmonare: il 43 per cento dei malati è curato nell’ultimo mese di vita e il 20 per cento addirittura nelle ultime due settimane. SE IL TROPPO STROPPIA Anche se queste cifre possono sembrare aride, sono in realtà necessarie ai medici per capire se stanno esagerando nel prendersi cura di un malato, per quanto assurdo questo possa suonare. “Non è vero che è sempre utile curare: a volte i farmaci fanno più male che bene, danno effetti collaterali che rovinano anche le ultime settimane di vita e inoltre obbligano il paziente a spostarsi continuamente per visite, esami e terapie invece di trascorrere il tempo a casa propria, con la famiglia” continua D’ Incalci. Provare troppe terapie, pur sapendo che hanno scarse possibilità di funzionare, può anche precludere l’uso di una terapia sperimentale, come spiega ancora l’oncologo, che ha seguito molte sperimentazioni di nuovi farmaci: “I test di fase 1, quelli effettuati su pochi pazienti per verificare se una nuova sostanza è sicura per l’uomo, sono spesso proposti alle persone per cui le terapie tradizionali sono state inefficaci perché hanno molto da guadagnare se per caso la molecola funziona meglio di quelle vecchie. Il problema è che non si possono fare sperimentazioni su soggetti che hanno usato troppe terapie diverse. In Italia, purtroppo, sono i medici stessi a essere poco abituati a questo tipo di studi – perché se ne fanno pochi – e, quindi, non riescono a cogliere appieno l’opportunità che rappresentano”. sono alcune domande che il medico deve porsi, la prima delle quali è: quale sarà il beneficio per il paziente? Per rispondere, però, bisognerebbe avere uno strumento efficace in grado di stimare la prognosi: tutti gli studi effettuati in materia dicono invece che i medici non sono bravi estimatori della sopravvivenza del loro paziente e che in genere tendono a essere ottimisti, sia perché sono emotivamente coinvolti sia perché sottostimano le possibili complicanze. Per questa ragione sono stati messi a punto degli algoritmi (come l’indice di Karnofsky o quello dell’Organizzazione mondiale della sanità) che sono molto usati in medicina palliativa e che tengono conto anche di sintomi invalidanti come la mancanza di appetito, la perdita di peso, i disturbi della deglutizione e del respiro. Vi sono poi altri esami sul sangue che possono dare un’idea dello stato di salute generale della Un terapia sperimentale può essere una buona scelta DOMANDE CRUCIALI Secondo Sofia Braga, vi OTTOBRE 2013 | FONDAMENTALE | 25 TERAPIE Interrompere le cure RIFIUTO TERAPEUTICO SE IL PAZIENTE NON VUOLE osa accade se è il paziente a voler sospendere le cure? La legge attuale prevede che se una persona è capace di intendere e di volere (e di esprimere il proprio parere), il medico non può imporre alcun trattamento, nemmeno quello salvavita come la rianimazione. Se però lo stesso paziente diventa incosciente o non è più in grado di dire a che cosa acconsente, il medico è tenuto a intervenire con ogni mezzo salvavita, anche se il malato è in una fase terminale della sua malattia. Se l’intervento salvavita (per esempio il collegamento a una macchina per sostenere la respirazione) è già in atto, interromperlo, anche su esplicita richiesta del malato, può esporre il medico all’arresto e a un procedimento d’indagine. Da molti anni si discute delle cosiddette direttive anticipate, cioè di quei documenti (tra i quali vi è anche il testamento biologico) in cui la persona esprime la propria volontà in merito alle cure (non solo quelle salvavita o terminali) nell’eventualità in cui non sia più in grado di esprimersi. Tali documenti possono essere presi in considerazione dal medico (sempre che questo ne venga a conoscenza) ma non sono vincolanti, come invece accade in altri Paesi. In sostanza la scelta resta nelle mani del curante. C persona. Nessuno di questi metodi si è però rivelato davvero efficace nel prevedere con ragionevole certezza la sopravvivenza e quindi l’utilità di continuare con le chemioterapie. “La maggior parte delle linee guida in materia ha usato un sistema empirico” spiega ancora Braga nel suo lavoro. “Dopo che tre diverse linee di terapia sono fallite, è molto improbabile che la quarta funzioni, a meno che non si tratti di un farmaco del tutto nuovo o sperimentale”. Anche a questa regola, però, ci sono eccezioni, come per esempio nel caso dei tumori del seno HER-2 positivi, che possono rispondere anche a diversi tipi di sostanze. LA VOLONTÀ DEL SINGOLO Esiste una domanda cardi- 26 | FONDAMENTALE | OTTOBRE 2013 ne, che dovrebbe stare al centro della decisione, come spiega Stein Kaasa, esperto di cure palliative dell’Università di Trondheim, in Norvegia, in uno speciale dedicato proprio al tema delle cure inutili pubblicato su Cancer News, la rivista della European School of Oncology: cosa vuole il paziente? Vi sono infatti importanti differenze culturali anche tra i pazienti e desideri diametralmente opposti. C’è chi vuol tentare sempre il tutto e per tutto e chi preferisce lasciar perdere e affidarsi alle sole cure palliative. “Anche negli hospice e nei centri di palliazione si usa la chemioterapia, ma con combinazioni e dosaggi diversi da quelli della fase di cura” spiega Kaasa. Alcuni chemioterapici, infatti, possono essere utili anche contro il dolore, come per esempio il 5-fluorouracile nei tumori solidi. “Bisogna però essere certi che il dolore non possa essere controllato con farmaci più semplici e più gestibili” continua Kaasa. sono le diverse opzioni e che cosa ci si può ragionevolmente attendere da ciascuna di esse. Non è vero che i malati e i familiari non sono in grado di affrontare questo tipo di comunicazioni: spesso è il medico che non sa come trasmetterle in modo empatico ed efficace”. E infatti uno studio britannico pubblicato nel 2008 sulla rivista JAMA afferma che solo il 39 per cento dei pazienti ha discusso la prognosi con il proprio medico, mentre tra i ricoverati in un grande hospice solo il 39 per cento dei malati e il 62 per cento dei familiari riferisce di aver discusso della gestione degli ultimi momenti della vita con un medico o uno psicologo. E proprio i familiari giocano un ruolo importante, perché vi possono essere conflitti tra di loro o tra la loro visione e quella del paziente, che deve comunque sempre prevalere, anche se questo complica la gestione del caso. Alla fine, secondo Stein Kaasa, la soluzione per una gestione ottimale degli ultimi momenti di vita non è molto diversa da quella che si usa per curare e guarire: si deve puntare a una medicina personalizzata, perché nessuna cura è inutile se il paziente la sceglie e la desidera, mentre tutte sono inutili se il paziente preferisce un approccio meno invasivo che lo lasci tornare, finché possibile, alle sue attività e relazioni familiari. La soluzione è una gestione condivisa delle cure IMPARARE A COMUNICARE Quello che manca, in Italia, è una cultura della condivisione della decisione e l’abitudine a parlare apertamente di quelle che vengono chiamate decisioni di fine vita, come spiega Egidio Moja, docente di psicologia clinica all’Università degli studi di Milano. “Esistono delle linee guida, e delle tecniche precise, per la gestione di colloqui così delicati e particolari” spiega. “Bisogna che i medici abbiano tempo, scelgano un luogo appartato dove non verranno disturbati e siano pronti a spiegare, per quanto possibile, quali