G It Diabetol Metab 2006;26:1-4 Editoriale Le controindicazioni all’uso della metformina: è tempo per una loro ridefinizione F. Santeusanio Dipartimento di Medicina Interna, Sezione di Medicina Interna e Scienze Endocrine e Metaboliche, Università degli Studi di Perugia, Perugia Corrispondenza: prof. Fausto Santeusanio, Cattedra di Endocrinologia, Dipartimento di Medicina Interna, Università di Perugia, via E. Dal Pozzo, 06126 Perugia e-mail: [email protected] G It Diabetol Metab 2006;26:1-4 Le biguanidi fecero la loro comparsa come farmaci ipoglicemizzanti alla fine degli anni ’50, ma il loro impiego clinico fu messo in discussione dopo la pubblicazione nel 1976 dei risultati dello studio “University Group Diabetes Program” (UGDP) per i possibili effetti collaterali a esse attribuiti. Infatti, l’uso preferenziale della fenformina spesso a dosaggi eccessivi, e in particolare la segnalazione di casi di acidosi lattica durante il trattamento, avevano suggerito particolare cautela per questa classe di farmaci, che fu addirittura bandita da alcuni Paesi (USA e Canada)1. Una serie di studi clinici condotti nei primi anni ’90 e le migliori conoscenze sui meccanismi di azione e sul profilo farmacocinetico, hanno riabilitato la metformina (MT), che oggi rappresenta il farmaco di prima scelta nella terapia del diabete di tipo 2 e della sindrome metabolica. La MT svolge la sua azione ipoglicemizzante soprattutto negli stati di insulino-resistenza, ripristinando la sensibilità dei tessuti all’azione dell’insulina senza influenzarne direttamente la secrezione. Di conseguenza agisce solo in presenza di insulina e di per sé non causa ipoglicemia in condizioni di euglicemia sia nei diabetici sia nei soggetti sani2. L’azione ipoglicemizzante della MT è stata attribuita da tempo alla sua capacità di inibire la funzione mitocondriale e di ridurre a livello epatico la fosforilazione ossidativa e il ciclo di Krebs3. Ne consegue, per una progressiva riduzione dei livelli intracellulari di ATP, un accumulo di coenzimi ridotti, NADH in particolare, e una riduzione del potenziale redox cellulare. La caduta dei livelli intracellulari di ATP stimola la via glicolitica nel tentativo di compensare il deficit energetico cellulare. Se da un lato tutto questo consente una diminuzione della produzione epatica di glucosio, contribuendo alla riduzione della glicemia nei diabetici, dall’altro produce un ulteriore accumulo di substrati gluconeogenetici, lattato, piruvato, alanina e glicerolo. Di qui si spiega l’aumento della produzione di lattato rilevato in corso di terapia con biguanidi, più evidente per la fenformina che per la MT. Infatti, il radicale metilico della MT conferisce a questa molecola una minore permeabilità di membrana rispetto alla fenformina, dotata di una maggiore lipofilia in virtù del suo radicale difenilico. Studi più recenti hanno focalizzato maggiore attenzione sulla MT, definendone meglio i suoi meccanismi di azione. L’effetto ipoglicemizzante della MT è più evidente sulla glicemia a digiuno, dal momento che il farmaco agisce soprattutto a livello epatico riducendo la gluconeogenesi4,5. Più recentemente il suo meccanismo d’azione cellulare è stato posto in relazione con l’attivazione del sistema AMPK (AMPmediated phosphokinase)6. Tale complesso enzimatico è un importante modulatore cellulare del metabolismo glucidico e lipidico. L’attività della AMPK aumenta in risposta alla deplezione delle scorte cellulari di energia e inibisce la gluconeogenesi epatica attraverso la soppressione dell’attività della acetil-CoA carbossilasi, ma è operativa anche a livello muscolare dove aumenta l’utilizzazione di glucosio7. Numerosi studi clinici hanno dimostrato la capacità della MT di ridurre la glicemia sia a digiuno sia post-prandiale nei pazienti con diabete di tipo 2 in misura non inferiore a quanto osservato con le sulfoniluree o i glitazonici, e di potenziare gli effetti di queste due classi di farmaci se usata in associazione con esse8. Rispetto alle sulfoniluree ha il vantaggio di non indurre ipoglicemie, se usata da sola, e di non determinare aumento ponderale. Inoltre, il miglior controllo glicemico osservato in corso di terapia con MT, si associa F. Santeusanio anche a una correzione di altri parametri notoriamente alterati nel diabete di tipo 2 e nella sindrome metabolica. Va segnalato il miglioramento del profilo lipidemico in rapporto probabilmente a una diminuzione della sintesi delle lipoproteine VLDL9. In particolare è stata osservata una diminuzione della lipemia postprandiale che di per sé ha effetti aterogeni. Il peso corporeo si riduce o più spesso viene stabilizzato dal trattamento con MT a differenza di altre modalità di terapia farmacologica, che invece ne inducono un significativo aumento10. Il calo ponderale è in relazione sia con un diminuito introito energetico per riduzione dell’appetito, sia con un’azione diretta sui depositi lipidici. La MT, infine, è in grado di modificare favorevolmente altri fattori di rischio cardiovascolare, spesso alterati in pazienti con diabete di tipo 2 o sindrome metabolica. Fra questi si ricordano la proteina C reattiva, l’inibitore dell’attivatore del plasminogeno (PAI-1), le molecole di adesione vascolari (VCAM-1) e i prodotti di glicosilazione avanzata (AGE)11. Questi effetti pleiotropici rafforzano il concetto che la MT può essere utile nella prevenzione delle complicanze croniche del diabete mellito di tipo 2 non solo per i suoi effetti benefici sul metabolismo glucidico, ma anche per la possibilità di influenzare favorevolmente i fattori di rischio cardiovascolare direttamente o attraverso la correzione della condizione di insulino-resistenza. È stato documentato da studi clinici che la MT riduce la morbilità e la mortalità cardiovascolare nel diabete mellito. Lo studio prospettico UKPDS, per quanto riguarda gli “end-point” cardiovascolari (infarto del miocardio, ictus, angina instabile), hanno mostrato risultati più favorevoli nel gruppo di soggetti diabetici e obesi trattati con MT rispetto ai gruppi sottoposti a trattamenti diversi (dieta, sulfoniluree o insulina)12. Più recentemente, uno studio retrospettivo condotto su circa 9000 pazienti con diabete di tipo 2 che iniziavano una terapia farmacologica orale ed erano seguiti in media per 5 anni, ha dimostrato una riduzione della mortalità totale e cardiovascolare di circa il 40% nei pazienti che assumevano MT in monoterapia o in combinazione rispetto a quelli trattati solo con sulfoniluree13. Merita di essere citata anche la segnalazione di una riduzione del rischio di sviluppare neoplasie maligne nei soggetti diabetici14. Sulla base di queste considerazioni si comprende perché la MT rappresenti oggi il farmaco di prima scelta nella terapia del diabete di tipo 2 e nella sindrome metabolica. Rimane tuttavia una serie di controindicazioni che certamente ne limitano l’uso. Ed è giusto quindi porsi la domanda se queste controindicazioni siano ancor oggi troppo restrittive e se sia tempo di aprire un dibattito, come hanno fatto recentemente Holstein e Stumvoll15, sulla possibilità di rivedere criticamente il problema. Fra le controindicazioni all’uso della MT si ricordano l’età avanzata, l’insufficienza renale cronica anche lieve, l’insufficienza epatica, l’insufficienza cardiaca e l’insufficienza respiratoria3. Le controindicazioni tengono conto soprattutto del rischio di acidosi lattica che potrebbe essere accentuato in queste condizioni cliniche dall’uso della MT. Infatti, la produzione di lattato aumenta in condizioni di ipossia tessutale o di rallentata eliminazione del metabolita. I limiti della creatininemia e del filtrato glomerulare che controindicano l’uso della MT sono variamente enunciati nelle raccomandazioni delle diverse società scientifiche, oscillando fra 1,20-1,50 mg/dl e < 40 ml/min15. Anche il limite di età è espresso vagamente. L’acidosi lattica, definita dalla presenza di un pH < 7,25 e dalla presenza di lattacidemia > 5,0 mmol/L, è la complicanza metabolica più temuta in corso di trattamento con biguanidi, poiché si associa a un elevato rischio di mortalità. I dati della letteratura indicano un’incidenza di acidosi lattica da fenformina pari a 40-64 casi per 100.000 anni-paziente16. Anche per la MT sono stati riferiti casi di acidosi lattica, ma in misura 10-20 volte inferiore16-20. Questo si giustifica, come è stato sopra ricordato, con il profilo farmacocinetico della MT più favorevole rispetto a quello della fenformina3. Ha un’emivita più breve della fenformina (1,5-5 vs 7-12 ore), è meno lipofilica per cui non si accumula nel fegato e viene eliminata immodificata attraverso il filtrato glomerulare e la secrezione tubulare. La fenformina aumenta il turnover del lattato e sopprime la sua ossidazione, facilitandone l’accumulo21, mentre la MT pur aumentandone le concentrazioni attraverso la riduzione della gluconeogenesi, ne favorisce l’ossidazione4. In genere sono esposti al rischio di acidosi lattica i pazienti più anziani in cui sono associate altre affezioni importanti, quali insufficienza renale avanzata, grave insufficienza epatica, scompenso cardiaco, infarto del miocardio e sepsi3. La mortalità riferita in questi casi è particolarmente elevata, ma secondo i dati della letteratura la gravità e la prognosi dell’acidosi lattica appaiono correlate più alla rilevanza delle malattie associate che alle concentrazioni plasmatiche di MT. Se si riesaminano gli studi in cui l’uso della MT era attuato nel rispetto rigoroso delle controindicazioni, non si segnalano casi di acidosi lattica. Per esempio, nello studio COSMIC (Comparative Outcome Study of Metformin Intervention vs Conventional), in cui si sono posti a confronto due ampi gruppi di pazienti con diabete di tipo 2 trattati con MT o con altre combinazioni farmacologiche, non si sono osservate differenze riguardo all’incidenza di acidosi lattica o di altre gravi malattie intercorrenti22. Altri studi osservazionali su ampie casistiche di pazienti con diabete di tipo 2 e trattati con MT riportano dati di incidenza di acidosi lattica assai bassi e comunque comparabili con l’incidenza di acidosi lattica osservata in ampie popolazioni di pazienti con diabete di tipo 2 non trattati con MT16,17,23-25. Per concludere, su questo aspetto si ricorda anche la metanalisi condotta su poco meno di 200 studi di confronto o di popolazione, che comprendono ampi numeri di soggetti con diabete di tipo 2 trattati con MT e 38.000 soggetti non trattati con MT. Non sono stati segnalati casi di acidosi lattica in entrambi i gruppi posti a confronto. Si sottolinea che il 16% dei soggetti in Le controindicazioni all’uso della metformina: è tempo per una loro ridefinizione terapia con MT aveva un’età superiore a 65 anni e il 44% aveva creatininemia > 1,5 mg/dl. Si segnalano altri studi in cui la MT è stata impiegata senza tenere particolare conto delle controindicazioni. Anche in queste casistiche raramente sono stati riferiti casi di acidosi lattica da MT26-28. Sulla base di questi dati si dovrebbero quindi rivedere le controindicazioni attuali all’uso della MT. Ciò consentirebbe di prescrivere correttamente questo farmaco, ma più diffusamente di quanto non si faccia ora e trarne i vantaggi clinici attesi. L’età avanzata non dovrebbe rappresentare una controindicazione se il paziente è in buone condizioni di salute, ha una normale funzione renale e non presenta patologie importanti associate. Pur senza trascurare i potenziali rischi della terapia con MT, il farmaco può essere utilizzato nei soggetti che abbiano creatininemia sino a 1,5 mg/dl e di GFR (glomerular filtration rate) ridotto sino a 40 ml/min. È chiaro che bisogna tener conto dell’età, dal momento che la creatininemia sovrastima la funzionalità renale nei soggetti anziani, così come in altre categorie di soggetti con ridotte masse muscolari. Una insufficienza cardiaca negli stadi I e II (NYHA) adeguatamente trattata non è da considerarsi controindicazione all’uso della MT. Ma il farmaco va sospeso se dovessero presentarsi eventi acuti, come un infarto del miocardio o altre patologie intercorrenti responsabili di ipossia o di insufficienza circolatoria. In queste circostanze il rischio di acidosi lattica potrebbe aumentare sensibilmente. Questi suggerimenti, come sottolineano Holstein e Stumvoll15, dettati dalla conoscenza più aggiornata della letteratura e guidati anche dall’esperienza del clinico, dovrebbero essere ripresi per un dibattito più ampio nell’ambito delle società scientifiche in modo da ridefinire le controindicazioni all’impiego della MT. Il farmaco tuttora si ripropone per i suoi effetti favorevoli, il suo ottimo profilo farmacocinetico, che ne limita i rischi di effetti collaterali, e i potenziali vantaggi nella prevenzione delle temibili complicanze cardiovascolari del diabete di tipo 2. Non vi è dubbio che i farmaci alternativi non sono privi di effetti collaterali. Le sulfoniluree sono spesso responsabili di imprevedibili episodi di ipoglicemia, pericolosi in soggetti anziani, e si associano ad aumento del peso corporeo29. I glitazonici, come la MT, agiscono migliorando l’azione insulinica, sia pure con meccanismi differenti, e svolgono effetti favorevoli sui fattori di rischio cardiovascolare30. In questo senso lo studio PROactive ha già fornito alcune indicazioni interessanti31. Tuttavia, anche i glitazonici hanno delle limitazioni, dal momento che il loro uso si associa ad aumento ponderale e sono sconsigliati nello scompenso cardiaco per i possibili effetti di ritenzione idrosalina. D’altro canto la MT può essere utilmente associata ai vari tipi di trattamento famacologico ipoglicemizzante (sulfoniluree, glitazonici, insulina) essendo comunque in grado di garantire un ulteriore miglioramento del controllo metabolico32. Bibliografia 1. Gregorio F, Santeusanio F. Le biguanidi: aspetti farmacologici ed impiego clinico. Giornale Italiano di Diabetologia 1993;13:43-60. 2. Schäfer G. Some new aspects of the interaction of hypoglycaemia-producing biguanides with biological membrane. Biochem Pharmacol 1976;25:2075-6. 3. Bailey CJ, Turner RC. Metformin. N Engl J Med 1996;334:574-9. 4. Stumvoll M, Nurjhan N, Perriello G, Dailey G, Gerich JE. 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