Economia | Le ripercussioni del voto Usa L’elezione di Donald Trump ha suscitato dubbi e scalpore più negli ambienti politici che in quelli economici Il nuovo presidente ha diviso in due gli Stati Uniti ed ha vinto, dimostrando di sapere interpretare desideri e paure degli elettori. E la reazione positiva dei mercati fa pensare che la sua ricetta economica possa funzionare: meno tasse e dazi. Ma per gli scettici la prima vittima di quella politica sarà proprio la classe media bianca che l’ha votato Trump economics di Ugo Bertone cosa succederà? I l mondo non ha atteso il 20 gennaio per celebrare (o piangere) l’avvio dell’era Trump. La risposta dei mercati finanziari è stata immediata e altrettanto sorprendente dell’esito del voto. Non c’è guru che non prevedesse un disastro in caso di vittoria del tycoon newyorchese. Al contrario, le Borse compatte hanno festeggiato la grande sorpresa, stavolta davvero dirompente. Perché la scelta, come aveva previsto Nouriel Roubini, docente alla 24 OUTLOOK - GENNAIO/FEBBRAIO 2017 New York University e «profeta» della disgraziata crisi del 2008, stavolta passava da una nuova linea di confine, rispetto alla mappa elettorale tradizionale: «In America», aveva detto parlando a Milano a inizio novembre, «la divisione non passa più tra repubblicani e democratici. Ma tra vincitori e vinti». E non sono in pochi a pensare che, per paradosso, il trionfo del miliardario erede di una ragguardevole fortuna personale, sia dovuto proprio ai «loser», ai GENNAIO/FEBBRAIO 2017 - OUTLOOK 25 Mondo | Al centro del Medio Oriente Gli sforzi fatti dalla presidenza Obama per far ripartire l’economia hanno avuto l’effetto di un boomerang: «I frutti di quella crescita sono andati a relativamente pochi ricchissimi» scrive l’economista premio Nobel Joseph Stiglitz. E anche se Trump appartiene a quella categoria, a suo favore ha giocato il fatto di essere un outsider, estraneo ai circoli politici e alle lobby perdenti, le tute blue dell’America bianca, messa in crisi dalla globalizzazione e che si è ricompattata sotto le bandiere del protezionismo, del conservatorismo culturale, religioso e sessuale e del rifiuto della società globale e multietnica. Una sorta di tornado che non sarà facile capire o superare, vista la profondità delle divisioni tra le due Americhe che hanno di fatto favorito il successo di Trump e che hanno spiazzato, oltre ai sondaggisti, anche i commentatori più autorevoli, non solo quelli schierati sul fronte di Hillary Clinton (comunque in maggioranza). 26 OUTLOOK - GENNAIO/FEBBRAIO 2017 Tra di loro è iniziata una sorta di autocritica, prima e doverosa mossa per capire dove potranno andare gli Stati Uniti sotto la guida di questo miliardario, che si è rivelato abilissimo nel mercato immobiliare ma che ha alle spalle quattro fallimenti (il che in America non è un delitto), da cui è uscito senza danni anche grazie ai soldi del padre. «È senz’altro un imprenditore abile», ha detto Warren Buffett, economista e imprenditore statunitense, che non lo ama, «ma non è detto che per questo si riveli un buon politico: Harry Truman fu un disastro negli affari, ma fu un grande statista». Ma Trump ha dalla sua di avere dimostrato di sapere interpretare desideri e paure degli elettori, come aveva già fatto con i telespettatori (vedi il reality show «The Apprentice»). E questa sua sensibilità ha probabilmente fatto la differenza, come ha notato un critico a lui senz’altro ostile, il premio Nobel Joseph Stiglitz, da sempre schierato a sinistra: dietro il turnaround dell’economia celebrato dalle statistiche, esiste un malessere diffuso in un Paese che, salvo una porzione minoritaria di cittadini premiati dalla Borsa o dagli stipendi dei quadri della new economy, non ha ancora superato lo shock dei subprime. «Molti americani», ha scritto Stiglitz, «stanno peggio, da un punto di vista economico, di come stavano un quarto di secolo fa. Il reddito mediano degli occupati a tempo pieno di sesso maschile è più basso di quello che era 42 anni orsono, ed è sempre più difficile per coloro che hanno una istruzione limitata ottenere un posto di lavoro a tempo pieno con un salario decente: i salari reali (corretti per l’inflazione) nella parte più bassa della distribuzione del reddito sono grosso modo quelli che erano 60 anni fa. Un’amara realtà che coinvolge una fetta sempre più rilevante della classe media». Non è sorprendente, di fronte a queste considerazioni, comprendere il successo degli argomenti di Trump. La stessa uscita dalla recessione dell’economia americana, resa possibile dai tempestivi interventi del 2009 (vedi il piano Tarp a favore delle banche ma anche dell’industria dell’auto) e dall’azione della Federal Reserve, che ha innaffiato di quattrini il sistema per far ripartire l’occupazione, hanno avuto l’effetto di un boomerang a danno dell’establishment dell’epoca Obama: «L’economia degli Stati Uniti nel suo complesso è andata bene negli ultimi sei decenni: il Pil è cresciuto di circa sei volte», scrive ancora Stiglitz. «Ma i frutti di quella crescita sono andati a relativamente pochi ricchissimi». E quasi nulla ha contato il fatto che Trump appartenga da sempre alla categoria dei più privilegiati, destinata a trarre ancora maggiori vantaggi dai massicci sgravi fiscali che il neo presidente si propone di estendere e approfondire. A suo favore, piuttosto, ha giocato il fatto di essere un outsider, del tutto estraneo ai circoli politici e alle lobby emerse dalla corrispon- Dall’alto: Warren Buffett, economista e imprenditore statunitense; il premio Nobel Joseph Stiglitz; la candidata democratica Hillary Clinton, uscita sconfitta dalle urne. A sinistra: Donald Trump, 45° presidente degli Stati Uniti GENNAIO/FEBBRAIO 2017 - OUTLOOK 27 Economia | Le ripercussioni del voto Usa La Comunità europea risulta indebolita dalle scelte politiche del neo presidente Usa, a cominciare da quelle nei confronti della Russia. Pesa l’incognita di un distacco dal maggiore alleato, punto di riferimento, politico, economico e culturale insostituibile da oltre 70 anni. L’Ue, stremata da infinite discussioni sulle crisi dei Paesi membri, rischia di essere la prossima vittima dell’onda populista e della minaccia di disgregazione denza segreta di Hillary Clinton, a quelle ricette politiche ed economiche che avrebbero dovuto assicurare prosperità per tutti (come le liberalizzazioni del commercio e della finanza) e che non l’hanno prodotta. Neanche lontanamente. «E coloro i cui standard di vita sono rimasti stagnanti o sono calati», conclude l’economista, «hanno raggiunto una semplice conclusione: i dirigenti dell’America non sapevano di cosa stavano parlando o mentivano, o tutte e due le cose». Fin qui una diagnosi convincente che, con opportuni correttivi, potrebbe valere anche per interpretare il no inglese all’Unione europea, che ha assunto un altro significato dopo l’irruzione sulla scena di Trump il disruptor: Londra, che sembrava destinata a una navigazione senza le opportune sponde commerciali e nell’isolamento finanziario, può ora trattare da una posizione più solida con Bruxelles. La Comunità europea risulta indebolita dalle scelte politiche del neo presidente Usa (non ultime, quelle nei confronti della Russia), e pesa l’incognita di un distacco dal maggiore alleato, punto di riferimento, politico, economico e culturale insostituibile da settant’anni e più. Facile pensare che la sfida sarebbe assai più agevole se l’Europa avesse attivato, vuoi con l’emissione di Eurobond vuoi con un atteggiamento più energico sul fronte della crisi bancaria, gli strumenti a sua disposizione per affrontare la crisi e così far meglio capire ai 600 milioni di europei il valore dell’unità sotto le bandiere dell’euro. Invece così, stremata da infinite discussioni sui vari dossier di una crisi infinita (il dramma greco, ad esempio, è ben lungi dall’essere risolto), l’Europa rischia pesantemente di essere la prossima vittima dell’onda populista e della minaccia di disgregazione. A meno che le ricette di Trump, fino a pochi mesi fa snobbate con grande sufficienza da tecnici e politici, non costringano l’Unione europea a rivedere le sue scelte, a partire da un forte aumento degli investimenti nella difesa fino a una maggiore flessibilità nella gestione della spesa degli Stati membri, e, ancor più importante, all’avvio o all’accelerazione dei piani comuni per le infrastrutture, di cui il Vecchio Continente ha grande bisogno. Sotto questo profilo, l’effetto Trump ha già prodotto consenso anche tra osservatori insospettabili. Tipo sir Robert Skidelsky, il più autorevole biografo di John Maynard Keynes, che ha ammonito che non va sottovalutata la portata del messaggio del nuovo presidente degli Stati Uniti in una situazione economica così asfittica: «Trump», dice, «ha promesso un piano di infrastrutture nell’ordine di 800-1.000 miliardi di dollari da finanziare sul mercato obbligazionario, assieme a un 28 OUTLOOK - GENNAIO/FEBBRAIO 2017 robusto taglio delle tasse con l’obiettivo di creare 25 milioni di posti di lavoro grazie all’accelerazione della crescita. Una sorta di piano keynesiano aggiornato ai nostri giorni che, al di là delle tante questioni irrisolte, ha comunque il merito di sfidare l’ossessione neoliberista sulla riduzione di deficit e debito in cui per sostenere l’economia non si fa ricorso ad altro che al quantitative easing, ormai esausto». Guai, ammonisce Skidelsky, se i liberal non sapranno cogliere questa sfida, ora che Trump e la sua squadra dovranno passare dalla teoria alla pratica. «La cosa migliore è sfidare la Trumpeconomics sui fatti, cercando di capire e di influenzare le sue mosse. Guai ad arroccarsi dietro l’ironia o il rifiuto pregiudiziale. L’obiettivo di un liberale dev’essere quello di mettere le premesse per una rivincita liberale contro il protezionismo salvando il più possibile dei nostri principi. Ma senza farsi illusioni: nei prossimi anni dovremo pagare comunque un prezzo in termini di libertà. Vale per gli Stati Uniti, ma anche per il Regno Unito». Ma qual è il cuore della Trumpeconomics? Il suo pro- gramma è per due terzi il tradizionale manifesto repubblicano (deregulation, aliquote fiscali più basse finanziate da meno detrazioni, politica monetaria basata su regole e non discrezionale) e per un terzo populista (immigrazione e tariffe doganali). «Per quanto riguarda il protezionismo», dice Alessandro Fugnoli di Kairos Partners, «Trump ha smesso da cinque mesi di proporre il ripudio unilaterale dei trattati commerciali multilaterali e parla ora semplicemente di rinegoziarli. Per farlo in modo efficace, dice, bisogna spaventare gli interlocutori, in particolare la Cina. Una Cina che, comunque vadano le cose, avrà dalla deglobalizzazione un fortissimo impulso a rafforzare la riconversione della sua economia verso il mercato interno. Anche qui, come si vede, non tutto il male viene per nuocere». In realtà, il tema del protezionismo minaccia di provocare più di un mal di pancia, non fosse per la difficoltà a smontare le reti lunghe che si sono create nell’economia globale. Buona parte dei prodotti oggi è il frutto di competenze e produzioni che si sviluppano in mezzo mondo o anche più. Inoltre, sembra impossibile o comunque anacronistico pensare al rimpatrio di competenze che spesso in Usa non esistono più. Verrà però sicuramente messo un dazio sulle reimportazioni dall’estero effettuate dalle società americane che delocalizzano. Ovvero, chi produce in Cina o in Messico per poi vendere i prodotti sul territorio americano dovrà pagare un dazio. Anche per questo la politica fiscale, che prevede sgravi sia per le persone fisiche sia per le società, in realtà non porterà automaticamente a una esplosione del debito. In compenso, per quanto riguarda le spese «Trump», commenta ancora Fugnoli, «adora inaugurare i suoi alberghi, come ha fatto di recente, raccontando che sono stati realizzati sotto budget. Per tutta la campagna elettorale ha promesso di contribuire di tasca sua con 100 milioni di dollari e alla fine ha vinto mettendocene solo 50. Si è poi scelto come vice Mike Pence, uno dei governatori più risparmiosi d’America. Questo significa che Trump riuscirà probabilmente a trovare un accordo con i conservatori fiscali del Congresso. Ci saranno nuove infrastrutture che Dall’alto: Alessandro Fugnoli, di Kairos Partners; Lucrezia Reichlin, economista, già responsabile dell’ufficio studi della Bce; Donald Trump durante la campagna elettorale GENNAIO/FEBBRAIO 2017 - OUTLOOK 29 Economia saranno costruite con meno sperperi del solito. Il disavanzo aumenterà, ma almeno questa volta non sarà per spese correnti e welfare ma per qualcosa di duraturo. Inflazione e tassi aumenteranno, ma non drammaticamente». La prima reazione dei mercati, del resto, è stata positiva: il nuovo paradigma economico è stato giudicato alla stregua di una grande occasione di reflazione, benedetto dal forte aumento dei rendimenti obbligazionari. È la conferma che i mercati sono pronti a sostenere con entusiasmo lo stimolo fiscale di Trump che comporterà, beneficio non secondario per noi europei, un forte apprezzamento del dollaro, come ci spiega Giuseppe Sersale, strategist di Anthilia Capital: «Lo stimolo fiscale in arrivo in Usa, coniugato col protezionismo ed erogato su un’economia vicina alla piena occupazione, non potrà che provocare un’accelerazione dell’inflazione e un inasprimento della politica monetaria con relativo rialzo dei tassi, che offrirà supporto all’ascesa del 30 OUTLOOK - GENNAIO/FEBBRAIO 2017 La prima reazione dei mercati è stata positiva, la conferma che sono pronti a sostenere lo stimolo fiscale di Trump, che comporterà un forte apprezzamento del dollaro, un beneficio non secondario per noi europei dollaro». In realtà occorrerà attendere almeno sei mesi per vedere i primi effetti dello stimolo fiscale su ciclo e inflazione. Ma nel frattempo dollaro e petrolio, che agiscono più rapidamente sui prezzi, si stanno già muovendo in direzione opposta: il primo sta ai massimi da 11 mesi e il secondo ha fatto i minimi da agosto. Insomma, il discorso fila, O forse no, ammoniscono gli scettici, tra cui spicca Lucrezia Reichlin, già capoeconomista della Bce, che ha dedicato al neo presidente un lungo intervento dall’eloquente titolo «America, un errore illudersi». La spesa pubblica finanziata a debito, scrive, «è uno strumento potente per far fronte alla bassa crescita associata a tassi di interesse e di inflazione vicini allo zero. Una bella differenza di vedute rispetto alla tesi per cui la spesa pubblica finanziata a debito ha effetti incerti sull’attività economica o addirittura negativi». Ma sarà difficile, se non impossibile, mobilitare il trilione di investimenti in infrastrutture attraverso partnership pubblico-privato alimentate da crediti d’imposta. E così il piano, secondo l’economista, resterà in buona parte sulla carta mentre decollerà il gigantesco piano di taglio delle tasse, circa 440 miliardi di dollari, il doppio di quelli fatti da Reagan, più di quattro volte quelli fatti da George Bush nel 2001. È assai dubbio, poi, che i tagli si traducano in effetti di stimolo all’offerta (incentivi alle imprese) o in sostegno alla domanda di consumo e di investimento. Al contrario, come accadde ai tempi di Reagan, il meccanismo provocherà un girone di ritorno caratterizzato da una inevitabile stretta fiscale. La pensa così anche Martin Wolf, chief economist del «Financial Times», per il quale la prima vittima della Trumpeconomics sarà proprio la classe media bianca che l’ha votato: la combinazione dollaro e tassi alti finirà con il danneggiare l’attività produttiva che le eventuali misure protezionistiche non colmeranno. Nel frattempo saranno loro a pagare le conseguenze dei tagli alla spesa (a partire dall’Obama Care). Per non parlare dell’abolizione dell’agenzia per la protezione dei consumatori o delle regole meno strette sull’ambiente e la tutela del risparmio. Ci saranno vantaggi per gli addetti alle grandi opere e, più in generale, un iniziale effetto di stimolo per l’economia. «Ma nel lungo termine», ammonisce Martin Wolf, «le conseguenze saranno molto spiacevoli, soprattutto per i sostenitori, tanto arrabbiati quanto insensati, del presidente. E così in futuro, loro saranno ancora più furiosi con la politica e il sistema: mi terrorizza l’idea di dove può portare questa situazione». La vittoria dei loser rischia di avere il fiato corto. •