Protezionismo, un passo verso l`egemonia della Cina?

Commercio Mondiale – Protezionismo, un passo verso l’egemonia della Cina?
Marzo 2017
L’inizio del 2017 si sta caratterizzando per una serie di dati economici positivi,
provenienti sia da paesi dell’area “avanzata” che da paesi “emergenti”. Molti mercati
azionari, anche tra i principali, ne stanno risentendo positivamente ritoccando o
avvicinando i loro massimi storici.
In realtà sarebbe bene essere molto cauti. Quello che molti economisti (il sottoscritto
tra essi) hanno definito “New Normal” (un periodo prolungato di inflazione prossima
allo zero e tassi di crescita dell’economia contenuti per i paesi avanzati e in riduzione
per i paesi emergenti) è ancora vivo e vegeto, nonostante i dati indichino l’avvio di
un periodo di reflazione - dovuto più al recupero dei prezzi del petrolio che a una
ripresa di medio-lungo termine del tasso di crescita della produttività totale dei fattori
e dell’output potenziale. Piuttosto, i commenti di media e politici sembrano indicare
un progressivo adattamento psicologico al livello ridotto della dinamica
dell’economia, almeno per i paesi avanzati. Di conseguenza, quell’1,5%-2% di
crescita del PIL che fino a pochi trimestri fa appariva come testimonianza evidente
del prolungamento della crisi nei paesi OCSE, è oggi percepito (più correttamente, in
linea con l’ipotesi New Normal) come una prospettiva positiva.
Uno dei fattori strutturali dietro al ridotto dinamismo della crescita globale è la ormai
acclarata tendenza alla riduzione del ruolo di motore dell’economia mondiale
sostenuto negli ultimi decenni dalla crescita degli scambi commerciali. Nella sua
semplicità, il grafico 1 mostra sia come siano diminuiti i tassi di crescita
dell’economia e del commercio mondiale, sia come la riduzione dei tassi di crescita
delle esportazioni mondiali sia dovuta anche al più basso moltiplicatore del
commercio rispetto al PIL stesso (linea tratteggiata gialla). Come risultato, nel 2016
si è avuta una crescita del commercio globale stimabile intorno all’1,5%, valore che
Oxford Economics vede in miglioramento al 2,7% nel 2017, ma comunque molto al
di sotto della media di lungo termine del 5%.
I motivi principali della riduzione del moltiplicatore Export/Trade sono da ricercare:
a) nell’esaurirsi della riallocazione delle value-chain a livello globale; b) nella sempre
minor quota di domanda rivolta a prodotti ad alta intensità di scambi; c) nella politica
di diversificazione del modello di sviluppo cinese verso un’economia più orientata ai
servizi e al soddisfacimento dei consumi privati con produzione domestica.
Grafico 1 In questo quadro di crescita ancora moderata di PIL e commercio internazionale si
innestano le inquietudini di ampi strati della popolazione che hanno portato alla
Brexit prima e all’elezione di Donald Trump poi. L’avanzata in Europa dei
movimenti populisti è un ulteriore indicatore del riflusso verso il nazionalismo più
ostile nei confronti dello straniero, sia esso un migrante o un prodotto. Questi
avvenimenti hanno fatto materializzare lo spettro del ritorno al protezionismo - che
negli anni ‘30 sfociò nella seconda guerra mondiale. La ricerca di soluzioni facili a
problemi complessi può portare a scelte che invece finiscono con l’esacerbare i
problemi di fondo.
Un esempio di soluzione facile ma controproducente può essere individuato
nell’approccio protezionista di Trump e alle eventuali tariffe da imporre sulle
importazioni dei paesi da cui gli USA importano maggiormente. Un elemento
portante di tale approccio (sintetizzato in “America first”) è la volontà di rimpatriare
sostanziali quote di produzione attualmente localizzate all’estero in modo da far
ripartire l’economia e l’occupazione USA. In realtà i dati provenienti dal mercato del
lavoro USA indicano bassa disoccupazione (inferiore al 5%, tra i più bassi dagli anni
ottanta), e anche se il tasso di partecipazione è attualmente al 62,8%, ossia tra i più
bassi degli ultimi quaranta anni, in realtà è solo 2%-3% inferiore alle medie degli
ultimi decenni. Di conseguenza, in un contesto di mercato del lavoro alquanto solido,
un eventuale robusto aumento della produzione USA si tradurrebbe molto
probabilmente in un altrettanto robusto aumento dei prezzi interni (e il recente
messaggio della Fed sull’aumento dei tassi nel 2017 tiene già conto di una probabile
ripresa dei prezzi interni USA, a prescindere dalla politica protezionista).
Gli elementi più significativamente a sfavore della politica protezionistica indicata da
Trump sono però proprio quelli relativi all’impatto che essa potrebbe avere sul
commercio mondiale, sia in termini di valore complessivo che di riallocazione delle
quote e della direzione degli scambi. Il primo atto di stampo protezionistico adottato
da Trump è stata la mancata adesione USA al TPP (Trans Pacific Partnership),
un’area di scambio tra USA, Canada, Messico e 9 paesi del Pacifico. Il risultato di
questa decisione isolazionista rischia di essere un boomerang per gli USA, dato che
probabilmente al suo posto finirà per entrare la Cina che rinsalderà ulteriormente il
suo crescente ruolo di leader commerciale globale.
Ove Trump, dopo aver ritirato gli USA dal TPP decidesse di procedere anche
all’imposizione di tariffe significative all’import da Cina, Messico e altri paesi con
cui detiene deficit di conto corrente, la ritorsione di questi paesi sulle loro
importazioni dagli USA sarebbe inevitabile. Ne risulterebbe una contrazione violenta
del commercio globale (con maggiore produzione interna in sostituzione dei prodotti
importati, conseguente aumento dei prezzi e riduzione dell’efficienza dell’intero
sistema economico) e una revisione significativa dell’origine/destinazione degli
scambi. L’impatto di uno scenario di tipo fortemente protezionistico da parte degli
USA è stato quantificato in una riduzione di circa il 4% degli scambi globali mentre il
PIL mondiale sacrificherebbe circa il 2% nei soli primi tre anni, con gli USA tra i
paesi più colpiti con un taglio del PIL di circa il 5% entro il 2020. In sintesi, la scelta
protezionistica del Presidente (dovesse egli perseverare lungo questa strada per ora
più annunciata che realizzata, a esclusione dell’uscita dal TPP) si rivelerebbe
penalizzante proprio per l’economia e l’occupazione USA. Sulla base di queste
considerazioni appare altamente improbabile che il progetto di protezionismo come
presentato in campagna elettorale (o una sua versione poco edulcorata) venga messo
in pratica.
In realtà l’intenzione di Trump di rilanciare l’economia americana e allo stesso tempo
riportarne in surplus l’attuale deficit di conto corrente richiederebbe una revisione
profonda dei meccanismi su cui si basa il sistema economico globale. Dopo la
denuncia degli accordi di Bretton Woods da parte di Nixon e la fine della
convertibilità in oro del dollaro, la moneta USA ha assunto il ruolo di moneta di
riserva mondiale, a prescindere dalla garanzia di quantità sufficienti di oro. Negli
ultimi decenni, altre monete si sono affacciate come valuta di riserva (Euro, Yen,
Renminbi, ecc.), ma il ruolo del dollaro rimane fondamentale per l’equilibrio degli
scambi mondiali e ad oggi circa il 60% delle riserve delle banche centrali è
denominato in dollari. Il beneficio per gli USA consiste nella possibilità di finanziare
a basso costo il proprio deficit pubblico, in quanto la domanda di obbligazioni in
dollari è garantita dalla necessità per gli altri paesi di detenerne in quantità rilevanti.
Allo stesso tempo tuttavia, la domanda di dollari ne accresce strutturalmente il valore
al di sopra di quello che sarebbe il suo livello di equilibrio di mercato, determinando
in maniera pressochè strutturale (a meno di continui consistenti recuperi di
produttività nei confronti degli altri paesi) una scarsa competitività di prezzo dei
prodotti USA (a conferma si veda la linea blu del grafico 2). Per poter dunque
riportare in surplus il conto corrente USA senza sacrificare la domanda interna,
occorrerebbe che gli USA si facessero promotori di una revisione del sistema
monetario globale, chiamando le valute di altri paesi a condividere il ruolo di moneta
di riserva – e quindi condividendo con altri paesi l’egemonia planetaria. Forse stiamo
assistendo a un ulteriore passo della transizione storica da un mondo unipolare a uno
multipolare, o addirittura al passaggio di testimone dagli USA alla Cina. La domanda
che sorge spontanea è se Trump sia cosciente di quanto la sua politica protezionistica
possa accelerare la transizione….
Grafico 2
Emilio Rossi
Senior Advisor, Oxford Economics