Daniele Balicco LAVORO INTELLETTUALE, CAPITALE, FORMA SAGGIO. NOTE SPARSE A PARTIRE DA FORTINI. Un sapere che non afferri la tua vita nella sua interezza vale poco o nulla. (L.FERRARI BRAVO) 1. Antonio Gramsci, in un celebre passo dei Quaderni, ha scritto che «tutti gli uomini sono intellettuali […]; ma non tutti gli uomini hanno nella società la funzione di intellettuali»1. Questo significa che se ogni persona esercita una funzione2 intellettuale - vale a dire una facoltà antropologica dell’esistere - quando cerca e formula risposte per interpretare il senso della propria vita e di quanto accade nel mondo, non tutte le persone, tantopiù in una società come quella moderna che ha portato alle estreme conseguenze la divisione sociale del lavoro, sono intellettuali di mestiere, vale a dire persone che occupano, nella divisione del lavoro, un ruolo sociale definito dall’uso pubblico della conoscenza e della parola.3 Questo mestiere possiede infatti, come ogni altra attività lavorativa, delle qualità tecniche e delle mansioni specifiche che non appartengono, come dato 1 A.GRAMSCI, Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, Einaudi, Torino 1947, p.6. È bene chiarire subito l’equivoco derivante dalla citazione: Gramsci definisce funzione ciò che in questo discorso verrà sempre definito con il termine ruolo: il ruolo, infatti, indica, come nel discorso di Gramsci, la posizione occupata dai lavoratori intellettuali come gruppo, nella divisione sociale del lavoro; la funzione si riferisce, all’opposto, all’attitudine genericamente umana, dunque antropologica, di cercare il senso dell’esistere individuale nel significato dell’esperienza collettiva; e viceversa. 2 immediato, al senso comune, ma sono piuttosto esito di un complesso processo di formazione e di selezione che ne determina lo skill. Gramsci è molto chiaro: La capacità dell’intellettuale di professione di combinare abilmente l’induzione e la deduzione, di generalizzare senza cadere nel vuoto formalismo, di trasportare da una sfera ad un’altra di giudizio certi criteri di discriminazione, adattandoli alle nuove condizioni ecc., è 4 una «specialità», una «qualifica», non è un dato volgare del senso comune. Per intendere per quale ragione questo tipo di attività lavorativa - la capacità tecnica di astrarre, di giudicare, di progettare, di comprendere - abbia occupato una posizione centrale, e per più di un secolo, nel dibattito filosofico, artistico e politico occidentale; e per capire, nello stesso tempo, il significato attuale dell’eclissi di questo stesso dibattito, è bene considerare, almeno a grandi linee, la posizione specifica occupata dal lavoro intellettuale nella società moderna, e cioè il suo essere attività lavorativa costretta «in un punto delicatissimo d’intersezione fra queste tre sfere, che sono il lavoro, la società e il potere (o la politica)».5 In questa intersezione, infatti, vanno cercati i nessi che legano e aggrovigliano, nello stesso tempo, la questione del ruolo intellettuale, e cioè della storia, della trasformazione e, infine, della distruzione degli intellettuali come gruppo sociale detentore del monopolio pubblico della scienza e della parola, dunque del capitale sociale simbolico6; a quella della funzione intellettuale, vale a dire della forma antropologica del conoscere come attitudine genericamente umana ad interpretare il senso dell’esistenza individuale e sociale. Se l’analisi storica e politica, come analisi della composizione e del conflitto fra le classi nella lotta per l’egemonia culturale e per il potere politico, è il campo di verifica del ruolo, l’analisi specifica della trasformazione del lavoro, come analisi della sua progressiva disarticolazione formale e ortopedia7, del suo divenire cioè da 3 P.BOURDIEU, La responsabilità degli intellettuali, Laterza, Roma-Bari 1991. A.GRAMSCI, Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura cit., p.141. 5 A.ASOR ROSA, Intellettuali in Enciclopedia, VII, Einaudi, Torino 1979, p.804. 6 P.BOURDIEU, La parola e il potere, Guida, Napoli 1988. 7 «Potendosi leggere tutta la storia della modernità dal punto di vista economico appunto essenzialmente come la storia dell’ortopedia e della normalizzazione della forza-lavoro, 4 mestiere capace di determinare autonomamente forme a lavoro astratto comandato, è invece il campo di verifica della funzione, della trasformazione cioè, in un’attività particolare e generica come quella intellettuale, dell’immagine stessa dell’uomo, della sua antropologia come essere generico determinato. Ed è precisamente per questa sua qualità generica che, per quanto stravolto e piegato, come qualsiasi altra attività nel moderno, dallo sfruttamento capitalista, il lavoro intellettuale diventerà pressoché integralmente lavoro astratto solo dopo la terza rivoluzione industriale, quella cioè che, nello sviluppo delle macchine cibernetiche e informatiche, metterà a lavoro non solo il corpo del lavoratore, ma soprattutto le funzioni conoscitive della mente, la sua coscienza8: naturalmente, in questa lettura, almeno per chi scrive, vale ancora oggi l’insegnamento di Panzieri, per il quale, come è noto, lo sviluppo tecnologico delle macchine deve essere letto anche come sviluppo del dominio capitalista, come intensificazione, nella razionalità di cui è attore, del comando e dello sfruttamento del lavoro vivo. Così, se il problema della distruzione degli intellettuali come ruolo, cioè come gruppo sociale del monopolio della scienza e della parola pubblica, è un problema storico e politico che coinvolge e travolge la società italiana a partire dalla seconda metà degli anni ’50; la trasformazione del lavoro intellettuale in lavoro mentale, dunque in lavoro astratto, rinvia ad una trasformazione, visibile in Italia solo nell’ultimo ventennio, molto più profonda perché coinvolge la funzione obbligata ad erogare un lavoro il cui senso è sempre più definito dalla quantità meramente temporale della prestazione» in R.FINELLI, Alcune tesi su capitalismo, marxismo e «postmodernità» in L.CILLARO-R.FINELLI, Capitalismo e conoscenza. L’astrazione del lavoro nell’età telematica, Manifestolibri, Roma 1998, p. 16. 8 «Il paradosso del nuovo lavoro - del lavoro cosiddetto postfordista e postmoderno – consiste nel fatto che ciò che ora viene normalizzato e colonizzato, nel nuovo sistema forza lavoro mentale-macchina informatica, è non più il corpo ma la mente stessa del lavoratore. È cioè la sua «coscienza», sia come attitudine alla comprensione globale e intuitiva sia come capacità logico-discorsiva (insomma ciò che finora veniva definito come la caratteristica più personale e non normalizzabile del soggetto umano), ad entrare in un campo di fungibilità e funzionalità interagente, ma subalterna, con la macchina dell’informazione» in Ivi, p.17 intellettuale stessa: una trasformazione, dunque, che, nella sua ragione immediatamente economica, apre, invero, ad un ordine di problemi qualitativamente diversi, riguardanti, insieme, l’antropologia e l’ontologia. Il postmoderno, infatti, può anche essere letto come l’età nella quale la sussunzione reale ha raggiunto, per così dire, le facoltà kantiane della ragion pura: ed è precisamente nell’apriori comandato del conoscere che si rivela, come nel rovescio di un arazzo, la possibilità attuale della distruzione della specie, la forma cioè di un’ontologia che, non prevedendo diacronia, ma solo intensificazione di se stessa come divenire quantitativo illimitato, agisce ormai direttamente sull’antropologia opponendo, senza mediazioni possibili, capitale a vita umana. 2. L’itinerario saggistico di Fortini è l’itinerario di un intellettuale della Guerra Fredda, di un pensatore cioè che ha attraversato i conflitti del secolo presupponendo sempre, nella sua ricerca, la possibilità reale, sebbene stravolta nelle sue incarnazioni storiche, dell’emancipazione politica del genere umano. Questa è la grande narrazione che organizza e dirige il senso complessivo della sua attività intellettuale, politica, poetica. Ed è la sua distruzione attuale, perfino come potenza e negazione nell’immaginario sociale, a rendere quasi indecifrabili, per le nuove generazioni, il senso vero delle sue parole. È, del resto, Fortini stesso a sostenerlo introducendo, nel 1993, il suo ultimo libro pubblicato in vita, Attraverso Pasolini: Quanto in lui e in me si agitò in quelle occasioni non può non apparire alcunché di incomprensibile, quasi al confine della mania, per un giovane d’oggi. Ma non eravamo né pazzi né fanatici. Eravamo, a poco più di dieci anni dalla fine della Seconda Guerra, nel cuore del secolo, ancora ricchi di qualcosa che – scrisse Pasolini – ci faceva piangere guardando Roma città aperta. Le lacrime non sono affatto un buon criterio di giudizio. Eppure mi piacerebbe sapere che cosa possa oggi far piangere un uomo di trent’anni, che tanti allora Pier Paolo ne aveva. E a uno o due di quei giovani anche vorrei dire: come si impara una lingua straniera, cercate di capire la lingua nostra, solo in apparenza simile a quella che ogni giorno impiegate conversando o pensando. Se ritenete che non valga la fatica, chiudete in fretta i nostri libri e l’età che li produsse; e buona fortuna. 9 Oltre ad essere un pensatore della Guerra Fredda, Fortini può anche essere letto come uno scrittore del «Triangolo Industriale». È stato, infatti, un intellettuale umanista capace, in un universo ad alto sviluppo industriale, in quegli anni attraversato da uno straordinario processo di politicizzazione di massa, di assumere coscientemente la propria formazione letteraria come contraddizione, insieme figura di subalternità e di potere. Del resto, gli scritti di Fortini, almeno fino agli anni Settanta, sono gli scritti letterari, politici, estetici di un lavoratore dipendente, di un consulente, naturalmente ad alta qualificazione, dell’Olivetti e dell’Einuadi; e solo in un secondo tempo, dopo essere stato licenziato da entrambe, all’inizio degli anni Sessanta, per ragioni politiche, di un insegnante delle secondarie superiori prima, universitario poi. Sta qui, probabilmente, la ragione della misura e del ritmo della sua scrittura (vale a dire del «saggio come forma»), nonché della torsione ‘pratica’ che lui stesso le imprime: osservata a distanza, nella sua qualità sintattica sembra infatti depositarsi il conflitto fra due mondi e due tempi qualitativamente opposti, eppure condensati in un equilibrio stabile, seppur scheggiato e assolutamente disarmonico. La sua è la storia, in fondo, della lotta fra l’universalità che il sapere umanistico pretende e un’universalità di segno opposto, quella della merce come arcano e geroglifico sociale che impone strumenti per la sua interpretazione non differibili, pena l’incomprensione del presente, l’incoscienza subita come determinazione del dominio. Ed è una lotta tanto più estenuata, quanto più l’universo che la circonda sembra chiudersi in una totalizzazione fatale: il senso di molta saggistica fortiniana è per questo incomprensibile se non ricondotto a questa precisa posizione, ancor prima che politica, geografica ed esistenziale. 9 F.FORTINI, Attraverso Pasolini, Einaudi, Torino 1993, p. X. Del resto, sempre nello stesso ‘spazio’, il suo lavoro intellettuale ha partecipato di una comunità politica diffusa, ma non ufficiale, le cui origini risalgano quanto meno alla Resistenza e il cui sviluppo politico cresce accanto alle lotte operaie e sociali del dopoguerra; ancora una volta, per comprendere il senso preciso della sua scrittura, della sua posizione umanistica e «industriale», il confronto che lui stesso pone, anche dal punto di vista lavorativo, fra sé e Pasolini può essere davvero illuminante: Nel 1961 uscì a Torino, in una situazione sociale che presto sarebbe esplosa, il primo numero di «Quaderni Rossi» e l’anno successivo, a Piacenza, comparve una minuscola rivista che, insieme ad alcune altre, avrebbe occupato in Italia uno spazio di opposizione intellettuale simile a quello che in Francia si opponeva al gollismo, alla politica del PCF e alla guerra d’Algeria. Ai primi del ’62 Torino visse gli scioperi della Lancia e della Michelin; e quest’ultimo durato tre mesi. Col titolo Scioperi a Torino, avrei scritto il commento a un documentario su quelle agitazioni. Il 23 giugno ci fu il grande e fino allora impensabile sciopero di sessantamila operai alla FIAT. In quel periodo Pasolini veniva sviluppando la sua opera di regista. È forse difficile oggi rendersi conto di quanto fosse stridulo il contrasto fra il modo in cui veniva vissuto il presente fra Torino e Milano in quegli anni di trasformazione profonda e l’immagine che di quello ci veniva da Roma. Per più di quasi tutti gli intellettuali che erano stati vicini a pubblicazioni come «Quaderni Rossi» o «Quaderni Piacentini», fra il 1962 e 1964 scomparivano alla vista, rinunciavano alla ‘presenza’, sopravvivevano nelle forme più modeste e anonime. È forse difficile capire, oggi, che per costoro, non solo Pasolini ma anche Calvino erano dei ‘perduti’, dei passati nel campo avverso.10 Per Fortini, Milano resterà sempre dell’Italia, almeno fino alla fine degli anni Settanta, il «privilegiato teatro dell’esistenza sociale»11, o forse meglio, l’allegoria di una possibilità e di una sconfitta, lo spazio del comando e insieme della negazione determinata del capitalismo italiano. Per Fortini Milano è stata, infatti, la capitale della Resistenza, del marxismo critico, delle lotte operaie, dei movimenti sociali di massa e nello stesso tempo la città guida del capitalismo italiano, della finanza, dell’americanizzazione sociale; dunque un laboratorio straordinario e contraddittorio, la città che ha espresso, al più alto grado possibile, un 10 Ivi, pp. 121-122 Id., Milano, città «scomparsa»? in Id., Saggi ed epigrammi, a cura di L.LENZINI, Mondadori, Milano 2003, p. 1693. 11 movimento politico di massa incisivo e politicamente cosciente12 e, nello stesso tempo, la sua negazione immediata, feroce e, in un certo modo, definitiva. È inevitabile, dunque, che per questo suo essere «zona di frontiera», cuore del capitalismo italiano e della sua negazione più cosciente, Milano rappresenti, per Fortini, un punto d’osservazione privilegiato sulla verità delle trasformazioni profonde, strutturali e ideologiche, che il nostro paese ha attraversato, quanto meno lungo tutti gli anni della Guerra Fredda. 3. A questo punto, se il suo itinerario saggistico è stato posizionato storicamente nell’età della Guerra Fredda e geograficamente nella società politica radicale dell’Italia industrializzata, il senso della sua scrittura può essere ulteriormente approfondito considerandolo, nella sua qualità autoriflessiva, come sintomo di una condizione generale, di una lacerazione oggettiva che ha attraversato in profondità la cultura e la società italiana degli anni che qui si considerano. Fredric Jameson ha sostenuto, in un noto saggio sui rapporti fra narrazione e sistema mondo13, che un’analisi comparata delle varie letterature mondiali contemporanee potrebbe portare ad una restituzione di una mappa simbolica nella quale, tradotte e formalizzate nell’estetico, le reali gerarchie politiche ed economiche dell’attuale sistema mondo si rivelerebbero come implicito contenuto di verità. Proiettando, infatti, il conflitto hegeliano schiavo/padrone, come lotta irriducibile fra due logiche culturali e simboliche (l’astrazione idealistica del padrone contro il materialismo pratico dello schiavo), è possibile, secondo Jameson, 12 «In giorni come questi si è contenti di vivere a Milano. Il livello politico di massa è alto e serio, non soltanto civile. C’è molta meno cattiva letteratura che a Roma e a Bologna» in Id., Disobbedienze, I, Gli anni dei movimenti, Manifestolibri, Roma 1997, p.140. riconoscere, nella differente qualità strutturale e simbolica delle strategie narrative, la forma estetica del conflitto strutturale fra Nord e Sud del mondo: Ho l’impressione che noi americani, i padroni del mondo, ci troviamo per certi versi nella stessa posizione. La vista dall’alto è epistemologicamente deformante, riduce i suoi oggetti alle illusioni di una miriade di soggettività frammentate, alla povertà dell’esperienza individuale di monadi isolate, a singoli corpi morenti privi di qualsiasi passato o futuro collettivo, senza alcuna possibilità di afferrare la totalità sociale. Questa individualità apolide, questo idealismo strutturale che ci permette il lusso del dibattito di ciglia sartriano, rappresenta una benvenuta evasione dall’‘incubo della storia’, ma al tempo stesso condanna la nostra cultura allo psicologismo e alle ‘proiezioni’ della soggettività privata. Tutto ciò è negato alla cultura del terzo mondo, che dev’essere situazionale e materialistica suo malgrado. Ed è questo, in definitiva, che deve spiegare la natura allegorica della cultura del Terzo Mondo, in cui il racconto della singola storia e della singola esperienza deve per forza di cose comportare, in un’ultima analisi, tutto il laborioso racconto dell’esperienza della 14 collettività stessa. Proviamo a continuare, riferendolo agli anni che qui si considerano, il ragionamento di Jameson e chiediamoci: qual è stata la posizione dell’Italia nel sistema mondo durante tutto l’arco del secondo dopoguerra? In che modo questa stessa posizione può avere influito sull’attività intellettuale non solo politica, ma perfino simbolica ed estetica, del nostro Paese? Senza dubbio, l’Italia è stata, per tutto il periodo dell’attività intellettuale di Fortini, proprio come è titolata una sua raccolta di saggi, una «zona di frontiera». Per un verso il suo spazio è stato infatti uno spazio ideologico15, vale a dire uno spazio geografico connotato politicamente dall’essere uno dei teatri mondiali della Guerra Fredda, e non solo perché Stato capitalistico in una zona di confine fra Est e Ovest, ma soprattutto perché ulteriormente diviso, al suo interno, dalla presenza tanto del più grande partito comunista occidentale, quanto dei più grandi movimenti sociali che abbiano attraversato l’Occidente. 13 F.JAMESON, La letteratura del terzo mondo nell’era del capitalismo multinazionale in «L’asino d’oro», I, 2, pp.127-150. 14 Ivi, p.149. 15 C.GALLI, Spazi politici, Il Mulino, Bologna 2002. Per un altro il suo è stato, e continua ad essere, il confine di uno spazio strutturale16, vale a dire uno spazio economico posizionato al confine geografico, nel sistema mondo, fra Nord industrializzato e Sud agricolo, fra Europa e Africa. Confine, e lacerazione fra due diversi universi sociali, ancora una volta, riprodotti in scala al suo interno, nel contrasto fra un Nord industrializzato, ad alta conflittualità operaia, e un Sud agricolo, riserva di manodopera a basso costo. Quello che si vuole dire, insomma, è che l’Italia ha concentrato in uno spazio geografico davvero limitato una qualità e una quantità tale di confini e di contraddizioni da renderla, effettivamente, quanto meno negli anni che qui si considerano, una riproduzione in scala del sistema mondo, una «zona di frontiera» che ha riprodotto, al suo interno, squilibri e gerarchie, poteri politici e movimenti sociali opposti, figure di conflitti distanti, eppure incredibilmente ravvicinati. Ed è questa la ragione per la quale, in un certo modo, la dialettica schiavo/padrone, il materialismo subìto e l’astrazione aerea senza appigli, è stata, per così dire, temporaneamente sospesa, quasi avvicinando i due poli in un reciproco riconoscimento: e se questo ha portato, sul piano dell’azione politica, ad un conflitto operaio e sociale politicamente cosciente perché realmente capace di aggredire la verità dell’accumulazione come comando sul lavoro17, sul piano dell’attività simbolica, mai come nell’Italia del secondo dopoguerra, il piano politico ha invaso, nel bene e nel male, l’estetico e l’estetico, a sua volta, il politico. Non è dunque un caso se il «saggio come forma», per antonomasia genere dell’intersezione fra queste due sfere, sia stato il genere guida della letteratura 16 I.WALLERSTEIN, Le invenzioni delle realtà spaziotemporali: verso una comprensione dei sistemi storici in Id., La scienza sociale: come sbarazzarsene, Il Saggiatore, Milano 1995, pp.147-162. 17 «Le lotte nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro non si limitavano alla richiesta di un maggior salario, orari più corti, minore pressione sul lavoro. Ad essere messi in questione erano l'insieme del comando padronale sulla produzione, le forme dell’organizzazione del lavoro e della struttura tecnica della produzione, la stessa ‘disciplina di fabbrica’» in R.BELLOFIORE, I lunghi anni settanta. Crisi sociale e integrazione economica internazionale in Le radici della crisi. L’Italia tra gli anni Sessanta e Settanta, a cura di L.BALDISSARRA, Carocci, Roma 2001, p. 74. italiana contemporanea18. Forma dell’espressione soggettiva che pretende e rivela, rifranta nella mediazione di un pretesto, la totalità come verità della propria esistenza, il «saggio come forma» è stato l’allegoria della forma dell’Italia, della sua posizione specifica nel sistema mondo, del suo essere, paradossalmente, cruciale «zona di frontiera» della Guerra Fredda mondiale. 4. L’itinerario intellettuale di Fortini è, per tutte queste ragioni, un itinerario integralmente politico. Naturalmente a questo termine non va attribuito in alcun modo un significato tecnico perché definisce, semmai, un’area connotativa, una certa forma dell’agire e del pensare, una sintassi profonda che regola e attribuisce senso all’esperienza di Sé e del mondo. Del resto, l’eccezionale qualità critica del suo itinerario intellettuale, come continua riflessione sulla liberazione possibile anzitutto dalla propria subordinazione come lavoratore intellettuale, deriva dalla pretesa inseparabilità di ruolo e funzione, di estetica e politica; e discende, da questa precisa impostazione, la comprensione immediata del significato politico della radicale trasformazione antropologica (come distruzione delle facoltà sintetiche dell’IO e della memoria volontaria) che segue, in Italia, alla devastazione dei movimenti; e che abita il nostro presente. Questa nuova soggettività, incapace di «incarnazione» e di «narrazione», di memoria storica e di totalità politica, soggettività di cui il post-strutturalismo francese (Lacan, Deleuze, Guattari, Foucault) può essere considerato côté ideologico, non è altro, e nientemeno, che la forma realizzata della nuova 18 A.BERARDINELLI, La forma del saggio. Definizione e attualità di un genere letterario, Marsilio, Venezia 2002. antropologia capitalista, vale a dire di quella nuova massa di forza-lavoro mentale che lo sviluppo delle macchine informatiche metterà a lavoro nei decenni successivi. Di fronte alla distruzione della storicità dell’esistere individuale, come limite e potenza della sua libertà; di fronte alla sussunzione reale di ruolo e funzione; di fronte all’avanzare di un’ontologia della quantità pura che non tollera alcuna differenza qualitativa, se non l’aumento di se stessa, la lotta per la liberazione del genere umano inevitabilmente si oscura in un presente che l’ha del tutto corrosa. Questa è la ragione, credo, della radicale inattualità di una scrittura come quella di Fortini, all’opposto integralmente attraversata dai limiti e dalla potenza di questa grande narrazione che ha sempre preteso interlocutori attivi, perché direttamente coinvolti nella conquista della sua realizzazione pratica. Ed è precisamente questa, infatti, la ragione che ghiaccia nel presente il senso stesso del lavoro critico: l’assenza di destinatari direttamente coinvolti nella sovversione politica del presente. La critica ideologica, infatti, non è, almeno in Fortini, discorso moralistico che un soggetto esterno propone ed impone ad un altro soggetto, subalterno e ancora informe. All’opposto. Il lavoro critico è esclusivamente lavoro autoriflessivo del soggetto sulla forma della propria esistenza: il suo scopo è quello di corrodere la false immagini di Sé, insieme deformazione e sottrazione di potenza, nelle quali è costretto qualsiasi soggetto umano in una condizione di totalizzazione capitalistica. Fuori da questa prospettiva il lavoro critico non ha mandato, dunque senso: Perché andare a dire quel che non ci viene chiesto? […] Debbono essere i giovani a chiedere, a cercare chi può rispondere, a domandare sempre di più, a federarsi, a controllare; altrimenti meritano di essere lasciati affogare nella panna delle proprie spiegazioni organizzate. Debbono arrivare a sentire intollerabile la loro miseria e la loro ignoranza. Debbono chiedere aiuto. Al passato; alla storia; ai libri dei morti. Debbono morire al presente. Finché non capiranno che chiunque altrimenti li lusinga è il loro nemico, non meritano che di distrarsi a Bologna e di leggersi a vicenda le loro caritatevoli poesie di bambini cresciuti. Avranno, tutt’al più il destino dei loro genitori. Che i giovani si separino, invece. Li invito ad una dissidenza meno vistosa di quella del ’68 ma più spietata e intransigente. A una clandestinità; che nulla abbia con quella terroristica. A una segretezza; che nulla abbia della P2. Una congiura in piena luce che non perdoni nessuno e non renda facondo il disprezzo; e che, con tenacia da formica, ripensi e rifondi le ragioni di una democrazia, proponendosi un «fino in fondo» che implica la più radicale condanna, quella dell’oblio, per li avrà ingannati.19 In un presente che impedisce sapere e memoria, dunque perfino un profilo minimo di autonomia e soggettività, il mandato del critico svanisce. Resta la sapienza, la saggezza dell’anziano che tramanda al nipote, perché la protegga come insegnamento, la verità della propria esperienza. Il rapporto fra le generazioni, che il presente ha annientato, può essere forse ristabilito recuperando, ironicamente e paradossalmente, forme antropologiche del sapere radicalmente inattuali, capaci di sfidare un presente immobilizzato ricordando, silenziosamente, nel loro specifico dettato, il senso del divenire del tempo, come divenire delle generazioni dell’uomo; solo così, forse, la coscienza e la storia della lotta per il comunismo può essere oggi tramandata, protetta e proiettata nel futuro; il suo racconto alle generazioni future si mimetizzi dunque, se è necessario, perfino nella semplicità innocente della favola: C’era una volta un’antica causa, il «sogno di una cosa» che tutto farebbe presumere perduta, di tanto eccede le forze dei migliori di molte generazioni. Non sarebbe oggi e da noi perduta, non fosse così necessario farla vincere domani o almeno difenderne l’onore. […] Tale antica causa voleva rimuovere gli ostacoli che vietano al maggior numero di esseri umani la comprensione, o coscienza, in forma di scienza e sapienza, della loro «condizione umana». Non sa quale, quella «condizione», sia; ma sa (e per saperlo rischia la scelta e, con la scelta, l’errore) che la possibilità di quella ricerca o del moto verso quella conoscenza sono impedite o diminuite, nella grandissima maggioranza degli uomini ad opera di altri uomini, passati o presenti, e se ne formano depositi e sedimenti immensi, o nuove miniere, di servitù e di male. E aggiunge che quella conoscenza o almeno il moto verso quella, e dunque la sua esperienza, deve essere rivolta soprattutto a sempre più profonde e più renitenti parti di se stessi, dove, col nome di inconscio, si contorce la Storia. L’antica causa ritiene che tale comprensione (o coscienza o esperienza) non sia dia fuori del conflitto o lotta fra interessi (fra ogni possibile forma di interessi) contrapposti; non perché quella lotta possa mai concludersi – ad esempio nella cosiddetta società senza classi; sebbene vi si avvicini come un asintoto – ma perché certe lotte, certe loro forme e modi, quelle che continuano a far l’uomo lupo dell’uomo, possano essere superate, conservandone tuttavia la memoria per impedirne il ritorno. Vittorie parziali: che il tempo e la superbia dei vincitori possono, sebbene non necessariamente, tramutare in sconfitte. Progressi parziali. Allegorie della «vittoria finale» che non ci sarà se non come cuore e ragione delle singole vittorie parziali. E poi ogni vittoria di una parte è sconfitta dell’altra; enigmatica condizione che fa godere allo sconfitto un suo oscuro privilegio. Questi rovesciamenti paradossali (di cui vive, oltre tutto, il cristianesimo), questa dialettica dei possibili, non sono però, come i mistici d’Oriente, fantasmagorie del desiderio 19 F.FORTINI, Per una congiura in piena luce.1981 in Id., Saggi ed epigrammi cit., p. 1054. e della morte; ma schemi costitutivi di realtà, appunto, possibili, di modi di relazione interumana ancora inediti, che attendono la propria incarnazione. Noi li percepiamo, oggi, come pietrificanti paradossi; e invece la loro legge, come quella mosaica per Venanzio Fortunato, ne fa umbra futurorum, figura dell’avvenire. Come la necessità di una struttura metrica, quelle vittorie storiche che lottiamo per conseguire ci fanno (ci faranno) a un tempo prigionieri e liberi. 20 Perché per quanto il presente precipiti, varrà sempre in Fortini l’insegnamento di Brecht: «Chi è vivo non dica: mai». 20 F.FORTINI, Per una ecologia della letteratura in Id., Saggi ed epigrammi cit., pp. 16181619.