Non parlo a tutti. Franco Fortini intellettuale politico Intellettuale

Non parlo a tutti. Franco Fortini intellettuale politico
Daniele Balicco
Manifesto libri, Roma, 2006
pp. 205
Intellettuale radicale e intransigente, marxista eterodosso, poeta e saggista dalla scrittura difficile,
obliqua, allusiva per necessità e non per gioco, Franco Fortini (1917-1994) non ha avuto né la
risonanza pubblica di Pasolini né la diffusione editoriale di Calvino, suoi diretti interlocutori; e a
tutt’oggi pare conservarsi come l’insetto nell’ambra di una sua straordinaria poesia, «Il presente».
Del resto, come ebbe a scrivere, «Non parlo a tutti. Parlo a chi ha una certa idea del mondo e della
vita e un certo lavoro in esso e una certa lotta in esso e in sé»: il suo lettore è un individuo attivo e
partecipe, storicamente e socialmente determinato – nulla di più distante dal lettore ideale teorizzato
dalle critiche della ricezione o tenuto a mente da molti narratori.
Dalla succitata citazione trae titolo la monografia di Daniele Balicco, ricercatore presso l’Università
degli Studi di Siena: il lavoro ricostruisce il percorso intellettuale fortiniano scandendolo in tre
macro-periodi (La Resistenza e il “laboratorio” Politecnico; gli “inverni” dello stalinismo italiano;
l’integrazione neocapitalistica degli anni Sessanta), focalizzandone i nodi teorici alla luce della
formazione dell’autore e dell’intreccio tra potere politico e industria culturale.
Il primo punto teorico è la distinzione tra ruolo e funzione dell’intellettuale:
Se l’analisi storica e politica, come analisi della composizione e del conflitto fra le classi nella lotta
per l’egemonia culturale e per il potere politico, è il campo di verifica del ruolo, l’analisi specifica
della trasformazione del lavoro, come analisi della sua progressiva disarticolazione formale e
ortopedia, nel suo divenire cioè di astratto comandato, è invece il campo di verifica della funzione
Insomma, il ruolo è l’attività sociale dell’intellettuale, la funzione è l’ontologia e l’antropologia di
quello stesso operare. In Italia, tanto l’engagement propugnato dal Pci (l’assegnamento di un ruolo,
ma degradato alla sua mera esecuzione, senza possibilità reale di controllo e intervento) quanto gli
specialismi (formalmente ossequiati, ma in verità degradati a lavoro astratto, senza possibilità di
incidere sul reale) sono, per Fortini, due forme che denunciano l’oggettiva irrilevanza
dell’intellettuale nella società.
In un passaggio-chiave del libro, Balicco ci spiega che Fortini è «un intellettuale della Guerra
Fredda», un pensatore «che ha attraversato i conflitti del secolo presupponendo sempre, nella sua
ricerca, la possibilità reale, sebbene stravolta nelle sue incarnazioni storiche, dell’emancipazione
politica del genere umano», e che è proprio l’odierna distruzione in atto di questa grande
“narrazione” a «rendere quasi indecifrabile, per le nuove generazioni, il senso vero delle sue
parole».
I due nodi cruciali della riflessione fortiniana, estetica e politica (ritenute inscindibili e necessarie
l’una all’altra) sono rinvenibili già nella sua formazione: la prima deriva dall’educazione nella
«Firenze umanistica di Solaria e dell’ermetismo» e la seconda dalla partecipazione alla Resistenza,
come momento di responsabilità soggettiva nei confronti della storia.
Importante lo spazio dedicato alla partecipazione di Fortini alla rivista Politecnico, vero e proprio
laboratorio saggistico: qui egli criticò le incarnazioni del sapere borghese (idealismo, positivismo ed
estetismo) e a propose, all’opposto, «un’antropologia della scelta necessaria e dell’integrazione».
Di questo periodo, Balicco analizza tre fondamentali saggi: Come leggere i classici, La leggenda di
Recanati e Capoversi su Kafka. L’oggetto apparente dei saggi (Dante, Leopardi, Kafka…) si svela
essere un pretesto, o meglio, un’allegoria, di un’intenzione polemica: la critica allo specialismo nel
primo saggio, nel secondo quella all’estetismo che ha fatto di Leopardi un simbolo della poesia pura
(marginalizzando così la radicalità del suo materialismo) e, nel terzo, alla rimozione facile della
sfera irrazionale e religiosa ad opera del Pci.
Proprio la forma-saggio, nel suo mediare tra specialismo e pubblico e nell’arbitrarietà assunta
coscientemente che lo distingue, pare essere la più congeniale a Fortini, «azione simbolica che
pretende realizzazione pratica».
Il secondo macro-capitolo si concentra sull’interrelazione tra lavoro intellettuale e potere politico, e
sulle proposte di Fortini (e in generale del bollettino semestrale Ragionamenti) per una
riorganizzazione delle istituzioni culturali che preveda l’autogestione politica e l’autonomia pratica
degli intellettuali, in aperto contrasto con l’impostazione stalinista di Togliatti: contrasto che, dopo i
fatti d’Ungheria del 1956, si tramuta in impossibilità di dialogo, necessità di muoversi e agire al di
fuori delle istituzioni comuniste.
In questo clima, persino la ricezione di un’opera letteraria come il Metello di Pratolini assume
connotazioni politiche: se la dirigenza comunista vede in esso l’incarnazione estetica dei propri
principi, leggendolo quale opera realista compiuta, Fortini evidenzia l’ingenuità populista del
romanzo, che mitizza il concetto di “popolo” senza comprenderne la differenza qualitativa rispetto
alla nozione di “classe”.
Balicco analizza poi un altro saggio, La biblioteca immaginaria, importante perché attraverso la
critica sia dell’ermeneutica antistoricistica che di quella integralmente storicistica (che
compromettono, per ragioni simmetriche e opposte, il rapporto tra estetica e vita reale) Fortini
esplicita la sua idea di arte, in cui gran peso ha la lezione di Lukács.
Il capitolo si conclude con la positiva ricezione fortiniana dell’esperienza comunista cinese,
testimoniata dal diario di viaggio Asia Maggiore: «lo scopo del viaggio e del libro», scrive Balicco,
«è, dunque pratico: occasione per verificare se l’impostazione generale della propria lotta politica
può trovare subito, nell’oggi, non tanto conferme teoriche, quanto verifiche materiali».
Nel terzo, e ultimo, capitolo, si discute dell’assorbimento dell’intellettuale ad opera del
neocapitalismo degli anni Sessanta: è uno dei periodi più propositivi di Fortini, che mediante la
collaborazione alla rivista Quaderni Rossi prima e con la fondazione di Quaderni Piacentini poi,
teorizza e pratica «il rifiuto del ruolo e del mandato istituzionale per una sua autogestione diretta».
Il fiorire di una nuova e ampia comunità politica va tenuto presente al momento di approcciarsi ai
saggi di questo decennio, raccolti in Verifica dei poteri.
Secondo Fortini, la vittoria politica del potere capitalista sui movimenti antisistemici ha
determinato l’integrazione della società italiana in un universo ideologico apparentemente
anestetizzato attraverso controllo dell’oblio e surrealismo di massa. Perché l’organizzazione
politica della violenza contro i movimenti ha agito tanto sul piano della forza militare, quanto su
quello della forza simbolica: l’industria culturale e il terrorismo di Stato devono essere pensati
insieme […] E l’ideologia che mistifica la violenza di questa trasformazione è naturalmente il
postmodernismo
Lo studio si chiude con l’analisi di Al di là del mandato sociale, testo paradossale e propositivo che
esplicita la potenza disalienante dell’estetica e dunque la funzione rivoluzionaria dell’arte. Come
scrive Balicco,
in un mondo dominato dal lavoro astratto, l’arte resta l’ultima attività umana nella quale il
soggetto, nel lavoro come elaborazione dell’oggetto, non perde, ma trova se stesso. […] Nella
totalizzazione capitalistica del lavoro astratto l’operare artistico diventa, in un certo modo, ritorno
del rimosso, immagine depositata nell’inconscio sociale di quello che era, o potrebbe essere il
lavoro umano: capacità autonoma di dare forma.
Come questo saggio di Fortini, anche la monografia di Balicco rilancia, in chiusura, una speranza e
una rivendicazione del valore fondante dell’arte (ma quanto diversa dalle rivendicazioni che
rimuovono il “volgare mondo materiale” a favore dell’ennesima, sterile, sublimazione astorica
dell’arte!): a un lettore che abbia già una certa familiarità con Fortini, o perlomeno una qualche
conoscenza delle sue coordinate filosofiche (Marx, Lukács, Sartre, Adorno, Marcuse) e della storia
del secondo Novecento, il libro si offre come strumento sicuro, coniugando chiarezza espositiva,
rigore interpretativo, capacità sintetica e – perché no? – passione politica, e testimoniando una
sintonia non comune (a maggior ragione per uno studioso così giovane, distante da Fortini tre
generazioni) con il difficile pensiero di Fortini: come scrive nella bella prefazione Romano
Luperini,
Fortini, negli ultimi suoi anni, amava dire che non cercava più interlocutori fra i propri coetanei e
neppure fra i figli e che ormai sperava solo nei nipoti. Questo libro di Balicco sembra dargli
finalmente ragione.
Pubblicato su www.criticaletteraria.org
© Davide Castiglione