Platone sintesi Il metodo platonico Il metodo dialogico, adottato dal suo maestro Socrate, rappresenta la forma di comunicazione privilegiata da Platone. Dei 36 scritti a lui attribuiti, infatti, più di trenta sono in forma di dialogo. La predilezione platonica per questo metodo, oltre ad essere un chiaro segno di continuità e di stima nei confronti di Socrate e della sua arte maieutica, nasconde anche un profondo significato filosofico. La forma dialogica, che nelle opere si riflette in un continuo alternarsi di domande e risposte, nella costante interlocuzione dei vari personaggi che animano i dialoghi, rispecchia per Platone il modo corretto che l’essere umano ha a disposizione per avvicinarsi alla verità; un modo basato su un procedimento di tipo argomentativo-persuasivo, in cui ogni opinione possa e debba essere argomentata o, al contrario, confutata, e in cui lo stesso lettore sia stimolato a farsi un’idea propria dell’argomento in questione. L’orientamento etico-politico, che permea l’intera opera platonica, risulta qui evidente: solamente chi si convince spontaneamente di una certa idea, sarà anche stimolato ad agire di conseguenza, in accordo con essa. Il concetto di verità Se Platone ha ereditato dai sofisti e da Socrate la credenza nell’illusorietà di poter cogliere il vero tramite asserzioni semplici, costruendo sistemi filosofici rigidi e dogmatici, la tensione verso la verità rappresenta, comunque, un aspetto centrale del pensiero platonico. La verità è per il filosofo greco qualcosa che va perseguita con serietà e dedizione, ma che è frutto di una ricerca, con tutta probabilità, infinita. La connaturata limitatezza dell’essere umano, per lo meno nella sua condizione fisica e temporale e la miriade di ostacoli che l’uomo incontra nel suo cammino verso la verità rendono possibile soltanto una conoscenza del vero che è parziale, approssimativa, mai definitiva ma incrementabile all’infinito. L’accesso al mondo delle idee, sede del vero essere, può avvenire, nell’ottica platonica, solo in modo indiretto, interpellando l’anima che un tempo le ha conosciute prima di incarnarsi, e delle quali reca con sé soltanto un ricordo vago e sbiadito. Il metodo dialogico-dialettico, privilegiato dal filosofo greco, non è che la logica derivazione di questo concetto di verità. La dottrina delle idee La dottrina delle idee è tradizionalmente considerata il nucleo centrale della filosofia di Platone. L’idea (dal greco êidos, forma) è intesa come una realtà immateriale, dotata di esistenza vera e propria, che è paradigma, modello delle cose sensibili. In contrapposizione agli oggetti materiali, particolari e imperfetti, soggetti al continuo divenire e percepibili attraverso i sensi, le idee sono oggetti universali, trascendenti, immateriali, eterni, sempre identici a se stessi, che è possibile cogliere solo con una specifica visione dell’intelletto. Il dualismo ontologico Il pensiero platonico, centrato com’è sulla teoria delle idee, appare connotato da un dualismo di fondo, in base al quale esistono due mondi: uno materiale, sensibile e soggetto alla legge del mutamento e della corruzione, l’altro immateriale ed eterno, necessariamente migliore, dal punto di vista qualitativo, del primo. Fra i due mondi, quello sensibile e quello intelligibile, esiste un rapporto di “mimesi” (imitazione), di “metessi” (partecipazione), o di “parusia” (presenza delle idee nelle cose): gli oggetti sensibili non sono che imitazioni, copie imperfette delle idee corrispondenti, che rappresentano invece la perfezione della qualità che indicano. Allo stesso tempo, le cose sensibili partecipano delle idee corrispondenti, che sono quindi presenti in tali cose: se una cosa è grande è perché partecipa dell’idea di grandezza, perché la “grandezza” è presente in quella cosa. Va, tuttavia, precisato che, nonostante la storia del pensiero abbia letto Platone concentrandosi soprattutto sulla divisione metafisica tra i due mondi, l’aldilà e l’aldiqua, emerge con chiarezza e vigore, soprattutto negli scritti dell’età matura, lo sforzo, da parte del filosofo greco, di pervenire a una visione unitaria del reale, superando ogni rigido dualismo fra i due mondi. La teoria della reminiscenza (anamnesi) Tale teoria compare per la prima volta nel Menone per risolvere il paradosso ereditato dall’ultima generazione di sofisti relativo alla domanda “com’è possibile imparare ciò che non si sa?”. Se, infatti, lo si conosce già, non c’è impossibile. Platone risolve il paradosso concependo l’apprendimento come fase intermedia fra il sapere e il non sapere: imparare è “richiamare alla memoria” qualcosa che si è conosciuto in passato e che si è dimenticato. Da ciò deriva l’idea della preesistenza dell’anima al corpo, teorizzata nel Fedone: l’anima, infatti, esisteva prima di incarnarsi nel corpo in quanto necessariamente deve aver conosciuto le idee in un momento precedente, in una dimensione differente da quella corporea, viaggiando per l’iperuranio. Poi, a causa del trauma subito incarnandosi nel corpo, l’anima ha dimenticato tutto. Il dualismo gnoseologico Il dualismo ontologico, che contrappone al mondo materiale, sensibile, il mondo perfetto delle idee, si traduce, sul piano gnoseologico, in un altro dualismo, basato sulla distinzione fra opinione e scienza. L’opinione (dòxa) si identifica con la conoscenza sensibile e rispecchia l’imperfezione e la mutevolezza del suo oggetto conoscitivo, il mondo materiale; la scienza (epistème) si identifica invece con la conoscenza razionale, stabile e duratura proprio in quanto riflette la perfezione e l’immutabilità delle idee. La natura dell’anima e la sua immortalità Platone concepisce l’anima umana come immortale ed eterna. Le argomentazioni a favore dell’immortalità dell’anima sono contenute soprattutto nel Fedone, mentre nel Timeo l’anima viene presentata come una sorta di realtà intermedia tra il mondo sensibile, del quale partecipa animando il corpo, e la realtà intelligibile (il mondo delle idee), con la quale condivide le caratteristiche di eternità e immortalità. Nel Fedro, il viaggio dell’anima è descritto utilizzando un celebre mito: l’anima, spiega Platone, è come una coppia di cavalli alati guidati da un auriga. Uno dei cavalli, quello bianco, guida gli impulsi buoni e razionali; quello nero guida, invece, le passioni sensibili e carnali. L’auriga (la ragione) cerca di indirizzare la coppia verso il cielo, che è la sede delle idee, dell’essere, ma il suo andamento non può che essere arduo e pieno di difficoltà: uno dei cavalli tira verso l’alto, l’altro verso il basso. L’anima può, dunque, contemplare il regno delle idee solo per pochi istanti, perché subito viene tirata in basso dal cavallo nero che, prevalendo, porta l’anima a cadere a terra e ad incarnarsi in altri corpi. Secondo alcuni storici, la teoria dell’immortalità dell’anima sarebbe stata ereditata da Platone in parte dalla tradizione orfico-pitagorica (concetto di metempsicosi), in parte dall’idea di maieutica ripresa dal suo maestro, Socrate. L’amore secondo Platone L’uomo risponde alla bellezza con l’amore, che è, in generale, la naturale tendenza, comune a tutti gli uomini, verso ciò che si desidera. Alla teoria dell’amore Platone dedica due dei suoi dialoghi più famosi, il Fedro e il Simposio. Nel Simposio l’eros è definito fondamentalmente come mancanza, che riflette la costitutiva insufficienza dell’uomo, espressa attraverso il discorso di Aristofane sulla divisione tra uomini e donne per opera di Zeus. Amore è desiderio di ciò che manca e che quindi si desidera, cioè la bellezza, che è il fine e l’oggetto dell’amore, ciò che dona felicità. Ai vari gradi della bellezza corrispondono varie forme di amore, gerarchicamente ordinate: dall’amore del corpo si passa a quello dell’anima, poi a quello delle leggi e a quello delle scienze. Al di sopra di tutto c’è l’amore per la bellezza in sé, eterna, perfetta, causa e fonte di ogni altra bellezza, che è l’oggetto della filosofia. Nel Fedro il filosofo greco descrive l’ascesi dall’amore sensibile all’amore di sapienza, che è l’esercizio della filosofia e che rappresenta la forma più elevata e nobile del sentimento amoroso. In generale, si deve a Platone la prima trattazione filosofica dell’amore, che sarà ripresa, nel corso della storia della filosofia, da un gran numero di pensatori. L’idea di giustizia in uno Stato ideale Definire che cosa sia la “giustizia” e in che cosa consista lo Stato giusto è l’obiettivo di uno dei più estesi tra i dialoghi platonici, la Repubblica, dove risulta evidente il nesso tra etica e politica. Uno Stato, scrive Platone, è giusto e buono se realizza il bene comune, cioè se soddisfa le aspettative di felicità di tutti i cittadini. In uno Stato siffatto, ciascuno svolgerà le attività che gli competono e alle quali è per natura portato senza turbare quelle degli altri cittadini. Sotteso all’idea di giustizia ritroviamo ancora il principio eudemonistico ereditato da Socrate, secondo cui l’uomo giusto è anche quello che vive nel modo più felice, nonché quel concetto matematico di ordine, proporzione e misura che Platone identifica con il riflesso del bene. In tale ottica, scegliere di operare per il bene non è mai il frutto di obblighi o costrizioni, ma è la naturale tendenza dell’uomo sagnella Repubblica il ruolo di governanti spetta ai filosofi. La realtà eterna, universale e perfetta (il mondo delle idee) è governata dall’idea del Bene, e solo chi lo conosce, cioè il sapiente, è anche in grado di realizzarlo. Costui, governando, opererà naturalmente per il bene collettivo, senza alcun interesse personale e privato. Il mito della caverna Raccontata per bocca di Socrate nel VII libro della Repubblica, l’allegoria della caverna rappresenta uno dei passi più celebri e citati degli scritti platonici. Nel mito, gli uomini appaiono chiusi in una caverna, con le gambe e il collo incatenati, costretti a guardare solo il fondo di essa senza potersi mai voltare. Fuori dalla caverna, oltre un muro, si muovono, parlano e portano oggetti degli uomini, affaccendati nella vita di tutti i giorni. I prigionieri della caverna possono scorgere, proiettate sulla parete di fondo dalla luce di un fuoco che arde alle loro spalle, solo le ombre di questi individui, che scambiano per la vera realtà. Gli uomini incatenati simboleggiano la condizione naturale dell’uomo, condannato a percepire soltanto l’ombra sensibile (opinione) della verità (mondo delle idee). Tuttavia, per Platone l’amore per la conoscenza, la filosofia, può aiutare l’uomo a liberarsi dalle catene dell’ignoranza per raggiungere un’autentica comprensione del mondo. L’allegoria della caverna ha, quindi, un profondo significato eticopolitico, e non è un caso che essa occupi la parte centrale della Repubblica: è il filosofo colui che riesce a liberarsi dalle catene dell’ignoranza e a vedere il mondo reale, anche se, una volta tornato nella caverna, non si sentirà più a suo agio con i prigionieri, né questi ultimi crederanno facilmente ai suoi racconti. Il mito esprime, perciò, la naturale incomprensione che esiste tra i filosofi e gli uomini comuni. Tuttavia, per Platone, il ruolo di guida morale e politica dello Stato spetta proprio al filosofo, in quanto è colui che si sforza di ricercare il vero, che nell’ontologia platonica si identifica anche con il Bene assoluto. I gradi della conoscenza Sia l’opinione che la scienza hanno rispettivamente due gradi, ciascuno dei quali rispecchia la realtà corrispondente: la dòxa si divide in immaginazione (eikasìa) e credenza (pìstis); l’epistème in conoscenza discorsiva (diànoia) e pura intellezione (nòesis). Se l’eikasìa corrisponde alle immagini sensibili delle cose, la pìstis corrisponde alle cose stesse; la diànoia rappresenta la conoscenza matematico-geometrica, che ancora si serve di elementi visivi (le figure geometriche), mentre la nòesis è la pura conoscenza dialettica delle idee, il puro coglimento della verità e del principio supremo, cioè dell’idea del Bene. L’idea del Bene e lo scopo della ricerca filosofica Per Platone esiste una molteplicità di idee gerarchicamente ordinate: in basso si trovano le idee di oggetti geometrico-matematici, in alto le idee di valori morali ed estetici. Al vertice c’è l’idea del Bene, tensione di tutta la riflessione platonica, identificata con il “principio incondizionato” di tutto, ciò che dà alle altre idee la loro essenza e realtà. La teoria delle idee ha, quindi, per Platone una forte connotazione etico-politica, caratteristica, questa, che permea l’intero suo pensiero. La contemplazione delle idee, che è il desiderio naturale del filosofo, di colui che ama e desidera raggiungere il sapere, la verità, rappresenta il fine ultimo, moralmente più elevato, della vita umana. E filosofi sono anche coloro a cui, nel modello ideale di Stato tracciato nella Repubblica, è affidato il compito di governare. Solo la filosofia può stabilire che cos’è il Bene, che è ciò a cui gli uomini naturalmente aspirano e che, socraticamente, si identifica con la felicità (in accordo con l’eudemonismo socratico). Lo sforzo teorico di Platone è quindi tutto teso a indagare se esistono quei valori universali necessari per confutare il relativismo della sofistica e legittimare la possibilità di una vita buona che, a livello sociale e politico, si traduce nella ricerca del bene collettivo. La dialettica Il progressivo avvicinamento alla verità è per Platone un’arte di natura dialettica. L’anima umana ha un tempo conosciuto le idee, ma di esse, una volta incarnata, possiede soltanto un ricordo vago e sfuocato; la conoscenza allora consisterà in un’opera di interrogazione dell’anima, che Platone chiama dialettica e identifica con il supremo metodo filosofico. La dialettica è lo studio delle relazioni che intercorrono fra le molteplici idee e l’analisi del loro rapporto con l’idea del Bene. La dialettica consiste nello stabilire le mappe di queste relazioni tra idee e, riflettendo il modo in cui esse sono autenticamente in rapporto fra loro, si identifica con la suprema scienza delle idee, che è la filosofia stessa. Il Politico e le Leggi Il problema politico ritorna, nell’ultima parte della sua vita, a interessare Platone. Con gli scritti Politico e Leggi il filosofo tenta di porre le condizioni pratiche per la realizzazione dello Stato ideale. In particolare viene delineata una forma di costituzione mista, in cui dovrebbero conciliarsi monarchia e democrazia. Platone avverte adesso, rispetto agli anni delle dottrine metafisiche della Repubblica, il bisogno di avvicinarsi concretamente alla realtà, di rendere realizzabile il suo ideale di Stato il cui funzionamento è controllato da una serie di rigorosi provvedimenti legislativi. Unica eccezione il decimo capitolo delle Leggi, nel quale Platone fornisce una sorta di dimostrazione dell’esistenza degli dei, il cui scopo, però, risulta anch’esso di carattere pratico: ovvero convincere gli uomini a comportarsi secondo virtù. Il demiurgo È l’artefice del mondo, il dio “artigiano” (questo il significato letterale della parola demiurgo) che Platone introduce per la prima volta in uno dei suoi ultimi dialoghi, il Timeo, e invoca come causa creatrice del mondo. Il demiurgo è l’intelligenza, permeata di bontà, che progetta il mondo sulla base del modello ideale, perfetto ed eterno già presente nella sua mente. All’azione creatrice del demiurgo si oppone la resistenza esercitata dalla materia informe (chòra, “spazio”, “regione”), che rappresenta una sorta di substrato sensibile sul quale il demiurgo adatta il suo modello ideale. Ed è proprio questa resistenza della chòra la causa della minor perfezione che caratterizza il mondo reale rispetto a quello ideale. Ordine e intelligibilità del cosmo Obiettivo di fondo del Timeo è dimostrare come la stessa realtà materiale sia essenzialmente governata da un principio di ordine e intelligibilità; non è perciò un caso che il dialogo sia affidato proprio a un pitagorico, Timeo di Locri. Il mondo creato dal demiurgo, dice Timeo, è costituito, a tutti i suoi livelli, dal più elevato al più elementare, da forme di carattere matematico e geometrico. Platone nega con ciò che esista un livello di realtà così basso da escludere un suo ordine proprio, una sua proporzione: qualunque cosa reale, anche una pietra, possiede una forma geometrica, un principio di intelligibilità e di ordine, che, ricordiamo, per Platone sono sempre il segno del bene e del valore. Il Timeo rappresenta, perciò, un ulteriore tentativo di trovare una mediazione fra la perfezione del mondo ideale e l’imperfezione della realtà sensibile, sostituendo tale rigido dualismo con la distinzione tra ciò che è più e ciò che è meno perfetto, tra ciò che è buono e ciò che è meno buono.