KANT
Immanuel Kant nacque nel 1724 a Koningsberg, nella Prussia orientale. Suo padre faceva il sellaio.
Visse in questa città quasi tutta la vita fino a quando non morì all’età di ottant’anni. La sua famiglia
era molto religiosa e la convinzione cristiana di Kant è un fondamento importante della sua
filosofia: per lui era molto importante salvare le basi della fede cristiana. Kant fu anche il primo fra
tutti i filosofi ad essere docente di filosofia all’università. Era per così dire un filosofo di
professione. Fu uno dei più importanti esponenti dell'illuminismo tedesco, e anticipatore - nella fase
finale della sua speculazione - degli elementi fondanti della filosofia idealistica.
Uno dei principali contributi della dottrina kantiana è l'aver superato la metafisica dogmatica
operando una rivoluzione filosofica tramite una critica della ragione che determina le condizioni e i
limiti delle capacità conoscitive dell'uomo nell'ambito teoretico, pratico ed estetico. La Critica della
ragion pura, pubblicata nel 1781, definisce il metodo del filosofare a cui Kant si atterrà anche nelle
due opere successive (Critica della ragion pratica e Critica del giudizio), come pure in altri lavori
posteriori. La sua attività di pensatore riguarda prevalentemente la gnoseologia, l'etica e l'arte, ma
ebbe in gioventù anche interessi scientifici, che coltivò sino al 1760. Attraverso quella che definì
una rivoluzione copernicana Kant aprirà una nuova era per la filosofia indirizzata a ricercare la
verità abbandonando la metafisica e puntando lo sguardo sulle cose terrene così come per
conoscere la verità Copernico la ricercò non nel moto apparente dei cieli ma in quello reale della
Terra.
Kant conosceva molto bene la tradizione filosofica precedente: aveva grande dimestichezza con i
razionalisti come Cartesio e Spinoza, e con gli empiristi come Locke, Berkeley e Hume. Secondo i
razionalisti il fondamento di tutta la conoscenza umana è nella coscienza, mentre per gli empiristi
tutto il nostro sapere riguardo al mondo deriva dai sensi. Hume aveva affermato inoltre che esistono
limiti ben precisi alle conclusioni che possiamo dedurre dalle nostre impressioni sensoriali. A chi
dava ragione Kant, vi chiederete? Secondo lui tutti avevano in parte torto in parte ragione. La
domanda che premeva tanto ai razionalisti quanto agli empiristi era: che cosa possiamo sapere del
mondo? Cercare di rispondere a questa domanda era stato il progetto comune a tutti i filosofi dopo
Cartesio. Due erano le possibilità: 1) il mondo è perfettamente uguale a come lo percepiamo con i
nostri sensi; 2) il mondo è come se lo rappresenta il nostro intelletto. Secondo Kant sia i sensi sia
l’intelletto sono molto importanti nella conoscenza del mondo, tuttavia per lui i razionalisti avevano
esagerato nel dare peso al ruolo dell’intelletto, mentre gli empiristi avevano arbitrariamente
accentuato l’importanza dell’esperienza sensoriale. In linea di principio, Kant concorda con Hume e
con gli empiristi nell’affermare che tutte le nostre conoscenze nel mondo hanno origine dalle
esperienze sensoriali ma- e qui tende una mano ai razionalisti- anche nel nostro intelletto vi sono
presupposti importanti per il modo in cui comprendiamo il mondo che ci circonda. In altri
termini, nell’intelletto sono presenti certe condizioni che determinano il nostro modo di
comprendere il mondo. Facciamo un esempio: immaginiamo di indossare un paio di occhiali con
delle lenti rosse, vedremo tutto quello che ci circonda colorato di rosso; ciò avviene perché le lenti
determinano il nostro modo di vedere la realtà, per cui tutto ciò che si vede ha origine dal mondo
esterno, ma il modo in cui lo si vede dipende dalle lenti. Analogamente, per Kant, nel nostro
intelletto sono presenti certe predisposizioni che influenzano tutte le nostre esperienze: tutto quello
che percepiamo lo percepiamo anzitutto come FENOMENO NEL TEMPO E NELLO
SPAZIO. Kant chiamò tempo e spazio le due forme dell’intuizione e affermò che queste due
forme della nostra coscienza sono A PRIORI DI OGNI ESPERIENZA: possiamo cioè sapere
prima di fare esperienza di qualcosa, che percepiremo questo qualcosa come un fenomeno nel
tempo e nello spazio (“perché non siamo in grado di toglierci quelle lenti”). Secondo Kant il tempo
e lo spazio fanno parte della stessa natura umana: sono proprietà del soggetto e non del mondo.
La coscienza umana non è una tabula rasa che si limita a ricevere passivamente le impressioni
sensoriali esterne, bensì un’ istanza formativa: la coscienza stessa influisce sulla nostra
percezione del mondo. Pensate a cosa succede quando versate dell’acqua in una brocca: l’acqua si
adegua alla forma del recipiente; analogamente le sensazioni si adattano alle nostre forme di
intuizione. Kant afferma che non è solo la coscienza ad adeguarsi alle cose, ma anche queste ultime
si adeguano alla coscienza. Disse che questo rappresentava una svolta copernicana nel probelma
della conoscenza. Anche la legge di causalità, che secondo Hume l’essere umano non è in grado di
sperimentare, è per Kant una componente del nostro intelletto. Hume aveva affermato che solo la
nostra abitudine fa si che noi cogliamo una relazione causa-effetto dietro tutti i processi naturali. Ma
proprio quello che, secondo Hume, non possiamo dimostrare viene considerato da Kant una
proprietà dell’intelletto umano: la legge di causalità vale sempre, e semplicemente perché il nostro
intelletto concepisce tutto ciò che succede come una relazione di causa-effetto. Immaginate di veder
rotolare una palla nella stanza, sicuramente vi girereste per vedere da dove viene, e questo perché
l’uomo cerca sempre di scoprire la causa di ogni evento. Secondo Kant, quindi, la legge di causalità
si trova in noi, fa parte della nostra stessa conformazione, ma è sostanzialmente d’accordo con
Hume nell’affermare che non possiamo sapere niente di certo su come il mondo sia in sé:
possiamo soltanto sapere come esso sia PER ME, quindi per tutti gli esseri umani. Kant separò
la COSA IN SE’ (O NOUMENO) dalla COSA PER ME (o FENOMENO): non potremo mai
sapere con certezza come le cose sono in sé, ma possiamo solo sapere come le cose si mostrano a
noi. In cambio possiamo dire, a priori di ogni esperienza, qualcosa su come le cose vengono
sperimentate dalla ragione umana.
In sintesi, secondo Kant esistono due tipi di condizione che contribuiscono al modo in cui gli
uomini conoscono il mondo: le une sono le condizioni esterne, di cui non sappiamo niente prima di
percepirle con i sensi e che possiamo chiamare il materiale della conoscenza; le altre sono le
condizioni interiori presenti nell’uomo, per esempio il fatto che ci rappresentiamo tutto sotto forma
di eventi nello spazio e nel tempo e come processi che seguono un’inviolabile legge di causalità.
Chiamiamo queste condizioni forme della conoscenza.
Approfondimento:
La Critica della ragion pura
Il tema principale trattato da Kant nella Critica della ragion pura è quello della conoscenza e della
correlazione sussistente tra metafisica e scienza. Gli interrogativi che si pone sono come siano
possibili la matematica e la fisica in quanto scienze e la metafisica in quanto disposizione naturale e
in quanto scienza.
Il giudizio corrisponde per Kant all'unione di un predicato e un soggetto tramite una copula. Egli
distingue quindi i giudizi analitici a priori, i giudizi sintetici a posteriori e i giudizi sintetici a priori.
Il giudizio analitico a priori
I giudizi analitici a priori sono tautologici perché affermano solamente ciò che è già noto e
quindi non danno alcuna informazione aggiuntiva, sono però universali e necessari, ma non
ampliano la conoscenza. L'esempio kantiano «Il triangolo ha tre angoli» è un giudizio analitico. Se
io analizzo, scompongo il soggetto (triangolo) vedo che esso è costituito da diverse caratteristiche
connesse col concetto stesso di triangolo: ha tre angoli, ha tre lati. Di queste caratteristiche, che
conosco senza averne fatto esperienza (a priori), ne metto in evidenza una (ha tre angoli) nel
predicato, dove dunque non si dice niente di nuovo rispetto al soggetto. Un giudizio analitico può,
semmai, aiutare a comprendere più facilmente i concetti impliciti contenuti in un soggetto ma non
dà nuove informazioni e non ha un carattere produttivo; è però universale, vale per tutti gli uomini
dotati di ragione, e necessario, una volta affermato non può più essere negato. Se dico che il
triangolo ha tre angoli rimarrò fisso per sempre a quest'affermazione. Questo è il tipo di giudizio
usato dai razionalisti.
Il giudizio sintetico a posteriori
Il giudizio sintetico accresce il mio conoscere, aggiungendo qualcosa di nuovo. Nel giudizio
sintetico, così chiamato perché si può pronunciare in sintesi, in unione con l'esperienza, la
connessione fra soggetto e predicato viene pensata "senza identità": il predicato contiene qualcosa
di nuovo che non è compreso nel concetto del soggetto, come nell'esempio "alcuni corpi sono
pesanti". Infatti alcuni corpi sono pesanti altri leggeri. Il fatto cioè che certi corpi siano leggeri non
è compreso nel soggetto "corpi". L'elemento nuovo della "leggerezza" si potrà riscontrare solo dopo
averne fatto esperienza.
Il predicato, nel giudizio sintetico, è collegato al soggetto in forza dell'esperienza: i giudizi sintetici
sono dunque a posteriori, si possono pronunciare solo dopo aver fatto esperienza e per questo
essendo collegati alla sensibilità non hanno universalità e necessità ma sono estensivi della
conoscenza. Questo è il tipo di giudizio usato dagli empiristi.
Il giudizio sintetico a priori
Il giudizio sintetico a priori è un giudizio che, pur ampliando la conoscenza, perché aggiunge
qualcosa di nuovo nel predicato, che in questo caso non è implicito nel soggetto (come nei giudizi
analitici), presenta i caratteri di universalità e necessità, perché non deriva dall'esperienza
(infatti è a priori).
L'esempio kantiano di 7 più 5 eguale 12 mostra come il predicato (dodici) non è compreso, come
nei giudizi analitici, nel soggetto, ma c'è qualcosa di più: il rapporto di addizione che in 5 e in 7
presi di per sé non hanno. Dunque questo giudizio per un verso non dipende dall'esperienza, e
quindi è necessario e universale, e per altro verso nel predicato dice qualcosa che non era contenuto
nel soggetto e quindi è estensivo della conoscenza.
La validità universale e la certezza che caratterizzano il giudizio sintetico a priori derivano infatti
dalla possibilità dell'intelletto di «uscire a priori dal concetto», rivolgendosi all'intuizione pura
attraverso la «guida» di un termine medio, cioè dello schema prodotto dall'immaginazione
trascendentale. Quando cioè si passa da un concetto a un'intuizione per ottenere un giudizio
sintetico a priori occorre stabilire un rapporto con la forma del senso esterno (forma pura
spaziale) da parte del senso interno (forma pura temporale) autodeterminata
intellettualmente attraverso l'identità dell'appercezione.
I giudizi sintetici a priori sono i fondamenti su cui poggia la scienza poiché accrescono il
sapere (in quanto sintetici), ma non necessitano di essere riconfermati ogni volta dall'esperienza
perché universali e necessari. In questo caso Kant ha una posizione nettamente distinta da quella di
Hume, in quanto il filosofo scozzese, essendo empirista, riterrebbe necessaria ogni volta una
conferma giacché a suo parere non si sarebbe in grado di dire che le cose in futuro non potrebbero
cambiare.
La conoscenza umana
Giunto a questo punto Kant stabilisce un nuovo sistema conoscitivo per determinare da dove
arrivino i giudizi sintetici a priori, se questi non derivano dall'esperienza. Questa nuova teoria della
conoscenza è una sintesi di materia (empirica) e forma (razionale e innata). La prima è “la
molteplicità caotica e mutevole delle impressioni sensibili che provengono dall'esperienza”. La
seconda invece è la legge che ordina la materia sensibile indipendentemente dalla sensibilità. In
questo modo la realtà non modella la nostra mente su di sé, ma è la mente che modella la realtà
attraverso le forme tramite cui la percepisce. La realtà come ci appare in base alle forme a
priori è il fenomeno, mentre la realtà così com'è, è indipendente da noi ed è inconoscibile.
Quest'ultima è detta noumeno.
Kant definisce quindi la conoscenza come ciò che scaturisce da tre facoltà: la sensibilità,
l'intelletto e la ragione. La sensibilità è la facoltà con cui percepiamo i fenomeni e poggia su due
forme a priori, lo spazio e il tempo. L'intelletto è invece la facoltà con cui pensiamo i dati
sensibili tramite i concetti puri o categorie. La ragione è la facoltà attraverso la quale cerchiamo
di spiegare la realtà oltre il limite dell'esperienza tramite le tre idee di anima, mondo e Dio, ossia
rispettivamente, la totalità dei fenomeni interni, la totalità dei fenomeni esterni e l'unione delle due
totalità. Su questa tripartizione del processo conoscitivo si articola la Critica della ragione pura
suddivisa in dottrina degli elementi e dottrina del metodo. La prima si occupa di studiare le tre
facoltà conoscitive tramite l'estetica trascendentale (sensibilità) e la logica trascendentale, a sua
volta suddivisa in analitica (intelletto) e dialettica (ragione).
LE GRANDI DOMANDE E IL CONCETTO DI MORALE
I filosofi prima di Kant avevano cercato di dare risposte alle grandi questioni filosofiche, per
esempio se l’uomo abbia un’anima immortale, se la natura sia formata da particelle ultime
indivisibili o se lo spazio sia finito o infinito…. Per Kant l’uomo non può raggiungere nessuna
risposta certa a queste domande. Ciò non significa che negasse loro validità. Per quanto riguarda
queste grandi questioni filosofiche, egli ritiene che la ragione operi al di fuori dei limiti di ciò che
noi uomini possiamo conoscere. Al tempo stesso è presente nella natura umana, o nella ragione
umana, un fondamentale bisogno di porsi domande di questo tipo. Tuttavia, quando ci chiediamo se
l’universo sia finito o infinito, ci poniamo una domanda su una totalità di cui noi stessi siamo una
piccola parte e che per questo non potremo mai conoscere completamente. Quando ci poniamo
domande del tipo da dove viene il mondo, e discutiamo di possibili risposte, la ragione gira a
vuoto perché non ha materiale sensibile da trattare né esperienze da rielaborare. Infatti, noi
non abbiamo mai potuto vivere l’intera ed enorme realtà di cui siamo una piccola parte. Per queste
grandi domande, ci saranno sempre due punti di vista opposti che appariranno parimenti probabili e
improbabili. Ha senso, ad esempio, affermare che il mondo deve aver avuto un inizio nel tempo sia
negare questo inizio. La ragione non può decidere fra queste due possibilità, quindi non può
affermarle. Possiamo supporre che il mondo sia sempre esistito, ma può qualcosa esistere in eterno
senza ci sia stato un inizio? Consideriamo il punto di vista opposto: diciamo che il mondo un tempo
è stato creato, ma in questo caso deve essersi creato dal nulla, se non vogliamo semplicemente
parlare di un cambiamento da una condizione ad un’altra. Ma può qualcosa nascere dal nulla?
Kant apparteneva ad una corrente religiosa formatasi nell’ambito del luteranesimo tedesco: il
pietismo. Questa corrente propugnava un cristianesimo attivo e una rigorosa pratica morale. Era una
“religione del cuore”. Kant non si limitò ad affermare che certe domande estreme, quali quelle
sull’esistenza di Dio, devono essere affidate alla fede. Secondo lui, era necessario presupporre per
la morale umana che l’uomo abbia un’anima immortale, che Dio esista e che l’uomo abbia la
libertà di scegliere. Egli, a differenza di Cartesio, espresse con molta chiarezza che non era stata la
ragione a portarlo a queste conclusioni, bensì la fede. Chiamò la fede nell’immortalità dell’anima,
nell’esistenza di Dio e nel libero arbitrio, POSTULATI DELLA RAGION PRATICA.
Postulare significa affermare qualcosa come vero senza dimostrarlo. Con postulato della ragion
pratica Kant intende qualcosa che va affermato per la pratica umana, cioè per la morale. “E’
moralmente necessario ammettere l’esistenza di Dio”, disse. Lo scetticismo di Hume verso ciò che
la ragione e i sensi ci possono raccontare, fece sì che Kant fosse obbligato a riflettere nuovamente
su molte delle domande più importanti della vita, soprattutto nell’ambito della morale. Hume aveva
detto che non è possibile dimostrare ciò che è giusto e ciò che è sbagliato perché non possiamo
dedurre da proposizioni con il verbo “essere” proposizioni con il verbo “dovere”. Secondo Hume
non erano né la nostra ragione né le nostre esperienze a stabilire la differenza tra giusto e sbagliato:
erano semplicemente i sentimenti. Kant considerava questo fondamento troppo debole. Egli avverte
con grande intensità che la differenza tra giusto e sbagliato è qualcosa di più che un affare di
sentimenti. Da questo punto di vista era d’accordo con i razionalisti secondo i quali la capacità di
distinguere tra giusto e sbagliato è presente nella ragione umana: tutti gli uomini sanno ciò che è
giusto e ciò che è sbagliato, e non lo sanno solo perché lo hanno imparato, ma perché è insito nella
ragione. Per Kant tutti gli esseri umani possiedono una ragione pratica, cioè una facoltà della
ragione che ci dice in ogni momento che cosa sia giusto e che cosa sia sbagliato in campo
morale. Questa facoltà è innata come tutte le altre proprietà della ragione: come tutti gli uomini
possiedono le stesse forme della conoscenza (per esempio il fatto che ci rappresentiamo tutti gli
eventi determinati dalla casualità), così tutti hanno accesso alla stessa legge morale universale,
legge che ha stessa validità assoluta di quelle naturali. Essa è fondamentale per la vita morale degli
uomini come lo è per la ragione che tutto abbia una causa o che sette più cinque faccia dodici.Cosa
dice questa legge morale? Dal momento che è a priori di ogni esperienza, essa è formale, cioè non
legata a nessuna precisa situazione di scelta morale. Vale per tutti gli uomini, in tutte le
società e per tutti i tempi. Non spiega quindi che cosa si debba fare in una determinata
situazione: dice come si deve agire in tutte le situazioni. Kant formula la legge morale come un
IMPERATIVO CATEGORICO, il che vuol dire che essa ordina, quindi è inviolabile
(“imperativo”) ed è valida in ogni situazione (“categorica”). Kant formula questo imperativo
categorico in diversi modi:


Devi agire sempre in modo che la massima della tua azione possa sempre valere come
principio di una legislazione universale (ossia quando faccio qualcosa devo poter desiderare
che altri, in una situazione analoga, facessero lo stesso).
Devi trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come
fine e non semplicemente come mezzo (ossia non possiamo usare gli altri per conseguire
vantaggi personali, perché tutti gli uomini sono in sé un fine)
Quando Kant descrive la legge morale descrive la coscienza umana. Non bisogna seguire la legge
morale per essere conformi ad essa e pensare di essere stimati, ma bisogna fare qualcosa perché si
sente che è proprio dovere seguire tale legge, solo in questo caso si parla di azione morale. Per
questo l’etica di Kant viene detta l’etica del dovere. Kant disse che solo quando sappiamo di agire
in conformità alla legge morale agiamo in libertà. Kant divide l’uomo in due parti: secondo lui gli
uomini, come esseri sensoriali, sono alla mercè dell’inviolabile legge di casualità (non decidono ciò
che percepiscono con i sensi, le sensazioni giungono di necessità e li plasmano, che lo vogliono o
no)- in questo senso gli uomini non possiedono una volontà libera; come esseri razionali, però, gli
uomini fanno parte di quello che Kant ha chiamato la cosa in sé e quindi del mondo com’è in sé,
indipendentemente dalle loro sensazioni. Se l’uomo segue la ragione pratica può compiere scelte
morali e perciò la sua volontà è libera: infatti piegandosi alla legge morale è l’uomo stesso a
formulare quella legge a cui si adegua.
Approfondimento:
La Critica della ragion pratica
Contrapposta alla ragione teoretica è la ragione pratica. Una volta negata la possibilità di una
comunione universale, di un "mondus intelligibilis" (Kant non può che distinguere, secondo l'analisi
eseguita sulla ragion pura, il mondo in fenomeno e cosa in sé), viene introdotta l'ipotesi di un'unità
morale. La morale che propone Kant è uno studio sul giusto agire degli uomini che non
prescinde dalle regole dettate dalla ragione, ossia l'etica per essere giusta deve seguire i
percorsi della ragione, ed è pur sempre ragione, non teoretica, ma pratica.
In particolar modo Kant introduce il concetto di imperativo categorico, ovvero un comportamento
è da considerare morale in modo categorico "senza possibilità di smentita" quando è universalmente
riconosciuto, giusto in ogni momento e in ogni situazione umana. Questo comportamento diventa
allora vincolante per la morale di tutti gli uomini, e una sua mancata applicazione significherebbe
azione immorale.
L'idea è che l'uomo possa farsi guidare dalla ragione non solamente nel campo delle scienze ma
anche nel campo della pratica morale dell'etica. In particolare l'imperativo categorico che deve
guidare l'uomo come necessità volontaria non è una costrizione ma un aderire a una legge razionale
che l'uomo stesso ha formulato per mezzo della propria ragione.
L'etica e l'imperativo categorico
Kant distingue fra massime e imperativi.
Le massime sono prescrizioni di carattere puramente soggettivo (es. vendicarsi delle offese
subite), invece gli imperativi sono prescrizioni di carattere oggettivo. Gli imperativi a loro volta
si suddividono in imperativi ipotetici e in imperativi categorici. I primi si presentano nella forma
"se... allora": possono essere regole dell'abilità (se vuoi essere un bravo medico devi...) o consigli
della prudenza (se vuoi raggiungere il benessere devi...). Il rischio di una morale utilitaristica come
quella cui più tardi pervenne l'inglese Bentham, portò il filosofo a cercare il fondamento della
morale in un comando non condizionale, l'imperativo categorico.
Dimostrato che la ragione che pretende di parlare dell'incondizionato cade in contraddizione, una
fondazione razionale e non contraddittoria della morale doveva escludere un imperativo non
condizionale. Kant arriva a concludere che l'etica non è fondabile razionalmente ma che è un
imperativo categorico che la volontà deve darsi liberamente.
Il fondamento dell'etica è lo stesso che fonda la ragione, quel principio di non contraddizione
scoperto da Aristotele, che, prima che una legge logica, è una legge etica dell'Io. Una vita conforme
alla ragione equivale a un obbligo di coerenza che vale sia nel pensiero sia nell'essere. L'Io è libero
di negare questo principio, ma si limita a vivere nel mondo dell'opinione (non razionale) e della
stoltezza (non etico).
Kant parte dalla volontà di dimostrare che l'io è legato al rispetto dell'etica, che considera un
giudizio sintetico a priori che la ragione, dunque, conosce e può dimostrare. Lo vuole dimostrare
perché è convinto che l'io è legato al rispetto dell'etica, quanto lo è del paradosso della sofferenza
del giusto.
Non stupisce che postuli l'esistenza di un imperativo categorico o voce della coscienza, simile al
demone socratico, che universalmente in ogni individuo spinge al rispetto di regole morali
universali che si traducono in azioni differenti fra i vari contesti. Così il giudizio etico come il
giudizio estetico varia nel tempo e a seconda della situazione, ma è sempre riconducibile in ogni
individuo all'applicazione di regole universali che fanno agire per il giusto e contemplare per il
bello, senza variare da individuo a individuo: le regole etiche ed estetiche sono le stesse in ogni
individuo ed egualmente la loro applicazione: qualunque individuo purché razionale, nella stessa
situazione, avrebbe fatto la stessa cosa e considerato bella una certa opera.
La ragione diventa l'ambito dell'universalità di tutti i giudizi, etici ed estetici, del loro tradursi in atti
pratici. Il metro di valutazione del giusto può variare al massimo da una generazione di umani a
un'altra, ma le regole alla base rimangono comuni, perché trascendentali a ogni spazio e a ogni
tempo. Come si vede, le scelte etiche e la fruizione del bello sono ricondotti a principi collettivi:
Kant non ha mai parlato dell'io singolare (sé stesso o gli altri); quando parlava dell'io, si riferiva
sempre all'io trascendentale.
Un'etica con principi indipendenti dallo spazio e dal tempo è posta in essere dall'io, pur venendo
prima (ossia a priori) dell'io, e la si può pensare innata. L'applicazione dei principi dipende invece
dallo spazio e dal tempo, dal contesto in cui l'io si trova ad agire; tuttavia, spazio e tempo sono
anch'essi realtà trascendentali, rispetto agli individui: l'etica dipende dallo spazio-tempo solamente
in un contesto universale, comune a tutti (intersoggettivamente); nei sogni, che sono uno spaziotempo soggettivo, diverso fra individui, ognuno è libero dall'etica entro certi limiti. Se l'individuo
non domina su questa etica, poiché l'io soggiace a principi universali, nemmeno ne è dominato, dato
che l'io è il protagonista del Regno dei Fini dove ogni persona è il fine delle azioni degli altri.
Scontrandosi con l'affermazione della libertà dell'uomo, l'etica kantiana non ha trovato esseri che
agiscono necessariamente per il giusto; ha creato un ambito, quello della ragione, in cui l'io entrato
liberamente ha accettato di "farsi costringere" dalla ragione al rispetto di certe regole, pena la
perdita del godimento del bello che è negato ai bruti e di una consolante universalità dell'agire
umano.
L'imperativo categorico è un dato di fatto, un postulato, un giudizio sintetico a priori, un comando
di razionalità che viene dalla ragione in quanto essa è universale. Nel conformarsi al suo dettato, la
ragion pratica non è più vincolata dai limiti fenomenici in cui si trovava a operare la pura ragione, e
perciò a differenza di quest'ultima sa attingere all'Assoluto, perché obbedisce soltanto alle leggi che
scopre dentro di sé.
L'uomo si ritrova così ad appartenere a due mondi: in quanto dotato di sensi, egli appartiene a
quello naturale, e perciò è sottoposto alle leggi fenomeniche di causa-effetto; in quanto creatura
razionale, però, l'uomo appartiene anche al cosiddetto noumeno, cioè il mondo com'è in sé
indipendentemente dalle nostre sensazioni o dai nostri legami conoscitivi, e perciò in esso egli è
assolutamente libero, di una libertà che si manifesta nell'obbedienza alla legge morale che lui stesso
si è dato.
La Critica del giudizio
La critica del giudizio analizza il sentimento attraverso una visione finalistica. I giudizi sentimentali
costituiscono il campo dei giudizi riflettenti, i quali si limitano a riflettere su una natura già
costituita mediante i giudizi determinanti e a interpretarla secondo le nostre esigenze di finalità e
armonia. Mentre i giudizi determinanti sono oggettivamente validi, quelli riflettenti esprimono un
bisogno che è tipico di quell'essere finito che è l'uomo. La critica del giudizio quindi è un'analisi dei
giudizi riflettenti. I giudizi riflettenti sono di due tipi: estetici e teleologici, ed entrambi ci
pervengono a priori.

I giudizi estetici vengono vissuti immediatamente e intuitivamente dalla nostra mente in relazione
con l'oggetto e riguardano la bellezza dell'oggetto. È il sentimento che ci pervade quando
rimaniamo estasiati dal bello. Questo è la chiave che la natura ci offre per farci scoprire, attraverso
il simbolo della bellezza naturale, la sua finalità morale e la realtà di Dio, sommo Bene:
« Il bello è il simbolo del bene morale »
(Immanuel Kant, Critica del giudizio, 1790)

I giudizi teleologici invece pervengono al fine dell'oggetto in relazione al mondo attraverso un
ragionamento. Per esempio riflettendo sullo scheletro di un animale diciamo che esso è stato
prodotto al fine di reggere l'animale. Il giudizio teleologico è il sentimento che ci pervade quando
avvertiamo un'intima consonanza tra i fenomeni della natura e le nostre finalità etiche.
Il giudizio estetico
Kant nella Critica del giudizio analizza il bello dandone quattro definizioni, che delineano
altrettante caratteristiche:




il disinteresse: secondo la "qualità" un oggetto è bello solo se è tale disinteressatamente, quindi
non per il suo possesso o per interessi di ordine morale, utilitaristico ma solo per la sua
rappresentazione;
l'universalità: secondo la "quantità" il bello è ciò che piace universalmente, condiviso da tutti,
senza che sia sottomesso a qualche concetto o ragionamento, ma vissuto spontaneamente come
bello;
la finalità senza scopo: secondo la "relazione" un oggetto è bello non perché sia il suo scopo
esserlo ma perché un oggetto bello è tale nella sua compiutezza anche se non esprime alcun fine;
la necessità: secondo la "modalità", è bello qualcosa su cui tutti devono essere d'accordo
necessariamente senza alcuna giustificazione razionale; anzi, Kant pensa che il bello sia qualcosa
che si percepisce intuitivamente: non ci sono quindi "principi razionali" del gusto, tanto che
l'educazione alla bellezza non può essere insegnata in un manuale, ma solo attraverso la
contemplazione stessa di ciò che è bello.
Ovviamente Kant cerca di far luce sull'universalità del bello facendo la distinzione tra il piacevole
legato ai sensi e quindi dato da giudizi estetici empirici privi di universalità e il piacere estetico
puro che invece non subisce condizionamenti di alcun tipo (quindi universale); tra bellezza aderente
riferita a un determinato modello come un edificio o un abito e bellezza libera appresa senza alcun
concetto come la musica senza testo (ovviamente solo quest'ultima è universale).
Il filosofo trovandosi di fronte il problema della legittimazione dell'universalità del giudizio estetico
decide di spiegarlo affermando che quest'ultimo nasce dall'armonia tra immaginazione (irrazionale)
e intelletto (razionale); questo meccanismo, uguale in tutti gli uomini, dimostra che il gusto gode di
universalità. La "rivoluzione copernicana" operata nella Critica della ragion pura, si ripropone nella
Critica del Giudizio: il bello non è più qualcosa di oggettivo e ontologico ma l'incontro tra spirito e
cose attraverso la mediazione della nostra mente (perché è sempre il soggetto alla base di tutto).
Il giudizio riflettente riguarda la soggettività e la sfera estetica, mentre quello determinante, proprio
della conoscenza oggettiva già analizzata nella Critica della ragion pura, ha come finalità il
perseguimento del “vero” e non del “bello”. Entrambi però hanno un principio comune, perché: « Il
Giudizio in generale è sempre una facoltà di pensare il particolare come parte dell'universale ed è
obbligato a risalire dal particolare della natura all'universale ». Il rapporto del particolare
all'universale è perciò “dovuto” e quindi necessario e da ciò lo stretto rapporto tra il pensiero
estetico e quello teleologico.
La natura è pura immanenza, non ha perciò caratteri di universalità perché si manifesta nel
disomogeneo, nel differenziato, nel molteplice e nel particolare. Però nel giudizio viene sempre
subordinata all'universale, quindi al divino che l'ha creata. Il sentimento individuale dà un giudizio
estetico che è sempre solo soggettivo, ma tende all'unità oggettiva del trascendente. Elevandosi
sopra la percezione sensibile va verso la contemplazione del trascendente.
Il concetto di bellezza va perciò riferito a un'idealità che è possibile definire e codificare in un
canone, con il sentimento che deve sempre essere pilotato dalla ragione. La bellezza che si deve
cercare è sempre quella “ideale”, che non può mai essere qualcosa di “incerto; il vero bello è
sempre “definito” e fissato per il suo fine oggettivo e razionale. Kant così afferma che la bellezza
teleologica è un a-priori e che: «La bellezza si esprime come la forma finalizzata dell'oggetto,
percepita non in vista di alcun scopo pratico.» Perciò il sentire estetico, per quanto basato sulla
libertà individuale, è veramente tale se mira alla necessità della sfera ideale e universale, in modo
da sottrarsi all'accidentalità del particolare.
Nella Analitica del sublime, prima parte (2º Libro) della Critica del giudizio, Kant spiega,
rifacendosi a precedenti teorie del sublime, che il sentimento va razionalizzato in un'analisi
rigorosa. Ciò anche perché secondo Kant vi sono due tipi di sublime, il “matematico” e il
“dinamico”, che vanno distinti. Il matematico è uno stato sintonico con l'infinito, il dinamico è il
senso dell'inadeguatezza rispetto a un “troppo”. Il sentimento del sublime è quindi un sentimento
dell'«assolutamente grande» attraverso una «dinamica dell'animo», mentre quello del bello «mette
l'animo in una stasi contemplativa » Entrambi così danno piacere, ma di diverso genere e intensità.
Il sublime, assai più del bello, va “oltre” gli aspetti della natura immanente, andando verso la
trascendenza del divino.
CRITICHE A KANT
Sarà con Johann Gottlieb Fichte, e ancor più con Friedrich Schelling, che le critiche a Kant
assumeranno sempre più una valenza ontologica: l'errore di Kant sarebbe stato infatti quello di
partire da una conoscenza necessaria e universale senza basarsi sull'ontologia, ma è proprio da
questa che scaturisce il necessario e l'universale. Fichte racchiuse così l'essere dentro
l'autocoscienza, trasformando la cosa in sé nel momento trascendentale di auto-formazione del
soggetto.