KANT Immanuel Kant nacque nel 1724 a Koningsberg, nella Prussia orientale. Suo padre faceva il sellaio. Visse in questa città quasi tutta la vita fino a quando non morì all’età di ottant’anni. La sua famiglia era molto religiosa e la convinzione cristiana di Kant è un fondamento importante della sua filosofia: per lui era molto importante salvare le basi della fede cristiana. Kant fu anche il primo fra tutti i filosofi ad essere docente di filosofia all’università. Era per così dire un filosofo di professione. Fu uno dei più importanti esponenti dell'illuminismo tedesco, e anticipatore - nella fase finale della sua speculazione - degli elementi fondanti della filosofia idealistica. Uno dei principali contributi della dottrina kantiana è l'aver superato la metafisica dogmatica operando una rivoluzione filosofica tramite una critica della ragione che determina le condizioni e i limiti delle capacità conoscitive dell'uomo nell'ambito teoretico, pratico ed estetico. La Critica della ragion pura, pubblicata nel 1781, definisce il metodo del filosofare a cui Kant si atterrà anche nelle due opere successive (Critica della ragion pratica e Critica del giudizio), come pure in altri lavori posteriori. La sua attività di pensatore riguarda prevalentemente la gnoseologia, l'etica e l'arte, ma ebbe in gioventù anche interessi scientifici, che coltivò sino al 1760. Attraverso quella che definì una rivoluzione copernicana Kant aprirà una nuova era per la filosofia indirizzata a ricercare la verità abbandonando la metafisica e puntando lo sguardo sulle cose terrene così come per conoscere la verità Copernico la ricercò non nel moto apparente dei cieli ma in quello reale della Terra. Kant conosceva molto bene la tradizione filosofica precedente: aveva grande dimestichezza con i razionalisti come Cartesio e Spinoza, e con gli empiristi come Locke, Berkeley e Hume. Secondo i razionalisti il fondamento di tutta la conoscenza umana è nella coscienza, mentre per gli empiristi tutto il nostro sapere riguardo al mondo deriva dai sensi. Hume aveva affermato inoltre che esistono limiti ben precisi alle conclusioni che possiamo dedurre dalle nostre impressioni sensoriali. A chi dava ragione Kant, vi chiederete? Secondo lui tutti avevano in parte torto in parte ragione. La domanda che premeva tanto ai razionalisti quanto agli empiristi era: che cosa possiamo sapere del mondo? Cercare di rispondere a questa domanda era stato il progetto comune a tutti i filosofi dopo Cartesio. Due erano le possibilità: 1) il mondo è perfettamente uguale a come lo percepiamo con i nostri sensi; 2) il mondo è come se lo rappresenta il nostro intelletto. Secondo Kant sia i sensi sia l’intelletto sono molto importanti nella conoscenza del mondo, tuttavia per lui i razionalisti avevano esagerato nel dare peso al ruolo dell’intelletto, mentre gli empiristi avevano arbitrariamente accentuato l’importanza dell’esperienza sensoriale. In linea di principio, Kant concorda con Hume e con gli empiristi nell’affermare che tutte le nostre conoscenze nel mondo hanno origine dalle esperienze sensoriali ma- e qui tende una mano ai razionalisti- anche nel nostro intelletto vi sono presupposti importanti per il modo in cui comprendiamo il mondo che ci circonda. In altri termini, nell’intelletto sono presenti certe condizioni che determinano il nostro modo di comprendere il mondo. Facciamo un esempio: immaginiamo di indossare un paio di occhiali con delle lenti rosse, vedremo tutto quello che ci circonda colorato di rosso; ciò avviene perché le lenti determinano il nostro modo di vedere la realtà, per cui tutto ciò che si vede ha origine dal mondo esterno, ma il modo in cui lo si vede dipende dalle lenti. Analogamente, per Kant, nel nostro intelletto sono presenti certe predisposizioni che influenzano tutte le nostre esperienze: tutto quello che percepiamo lo percepiamo anzitutto come FENOMENO NEL TEMPO E NELLO SPAZIO. Kant chiamò tempo e spazio le due forme dell’intuizione e affermò che queste due forme della nostra coscienza sono A PRIORI DI OGNI ESPERIENZA: possiamo cioè sapere prima di fare esperienza di qualcosa, che percepiremo questo qualcosa come un fenomeno nel tempo e nello spazio (“perché non siamo in grado di toglierci quelle lenti”). Secondo Kant il tempo e lo spazio fanno parte della stessa natura umana: sono proprietà del soggetto e non del mondo. La coscienza umana non è una tabula rasa che si limita a ricevere passivamente le impressioni sensoriali esterne, bensì un’ istanza formativa: la coscienza stessa influisce sulla nostra percezione del mondo. Pensate a cosa succede quando versate dell’acqua in una brocca: l’acqua si adegua alla forma del recipiente; analogamente le sensazioni si adattano alle nostre forme di intuizione. Kant afferma che non è solo la coscienza ad adeguarsi alle cose, ma anche queste ultime si adeguano alla coscienza. Disse che questo rappresentava una svolta copernicana nel probelma della conoscenza. Anche la legge di causalità, che secondo Hume l’essere umano non è in grado di sperimentare, è per Kant una componente del nostro intelletto. Hume aveva affermato che solo la nostra abitudine fa si che noi cogliamo una relazione causa-effetto dietro tutti i processi naturali. Ma proprio quello che, secondo Hume, non possiamo dimostrare viene considerato da Kant una proprietà dell’intelletto umano: la legge di causalità vale sempre, e semplicemente perché il nostro intelletto concepisce tutto ciò che succede come una relazione di causa-effetto. Immaginate di veder rotolare una palla nella stanza, sicuramente vi girereste per vedere da dove viene, e questo perché l’uomo cerca sempre di scoprire la causa di ogni evento. Secondo Kant, quindi, la legge di causalità si trova in noi, fa parte della nostra stessa conformazione, ma è sostanzialmente d’accordo con Hume nell’affermare che non possiamo sapere niente di certo su come il mondo sia in sé: possiamo soltanto sapere come esso sia PER ME, quindi per tutti gli esseri umani. Kant separò la COSA IN SE’ (O NOUMENO) dalla COSA PER ME (o FENOMENO): non potremo mai sapere con certezza come le cose sono in sé, ma possiamo solo sapere come le cose si mostrano a noi. In cambio possiamo dire, a priori di ogni esperienza, qualcosa su come le cose vengono sperimentate dalla ragione umana. In sintesi, secondo Kant esistono due tipi di condizione che contribuiscono al modo in cui gli uomini conoscono il mondo: le une sono le condizioni esterne, di cui non sappiamo niente prima di percepirle con i sensi e che possiamo chiamare il materiale della conoscenza; le altre sono le condizioni interiori presenti nell’uomo, per esempio il fatto che ci rappresentiamo tutto sotto forma di eventi nello spazio e nel tempo e come processi che seguono un’inviolabile legge di causalità. Chiamiamo queste condizioni forme della conoscenza. Approfondimento: La Critica della ragion pura Il tema principale trattato da Kant nella Critica della ragion pura è quello della conoscenza e della correlazione sussistente tra metafisica e scienza. Gli interrogativi che si pone sono come siano possibili la matematica e la fisica in quanto scienze e la metafisica in quanto disposizione naturale e in quanto scienza. Il giudizio corrisponde per Kant all'unione di un predicato e un soggetto tramite una copula. Egli distingue quindi i giudizi analitici a priori, i giudizi sintetici a posteriori e i giudizi sintetici a priori. Il giudizio analitico a priori I giudizi analitici a priori sono tautologici perché affermano solamente ciò che è già noto e quindi non danno alcuna informazione aggiuntiva, sono però universali e necessari, ma non ampliano la conoscenza. L'esempio kantiano «Il triangolo ha tre angoli» è un giudizio analitico. Se io analizzo, scompongo il soggetto (triangolo) vedo che esso è costituito da diverse caratteristiche connesse col concetto stesso di triangolo: ha tre angoli, ha tre lati. Di queste caratteristiche, che conosco senza averne fatto esperienza (a priori), ne metto in evidenza una (ha tre angoli) nel predicato, dove dunque non si dice niente di nuovo rispetto al soggetto. Un giudizio analitico può, semmai, aiutare a comprendere più facilmente i concetti impliciti contenuti in un soggetto ma non dà nuove informazioni e non ha un carattere produttivo; è però universale, vale per tutti gli uomini dotati di ragione, e necessario, una volta affermato non può più essere negato. Se dico che il triangolo ha tre angoli rimarrò fisso per sempre a quest'affermazione. Questo è il tipo di giudizio usato dai razionalisti. Il giudizio sintetico a posteriori Il giudizio sintetico accresce il mio conoscere, aggiungendo qualcosa di nuovo. Nel giudizio sintetico, così chiamato perché si può pronunciare in sintesi, in unione con l'esperienza, la connessione fra soggetto e predicato viene pensata "senza identità": il predicato contiene qualcosa di nuovo che non è compreso nel concetto del soggetto, come nell'esempio "alcuni corpi sono pesanti". Infatti alcuni corpi sono pesanti altri leggeri. Il fatto cioè che certi corpi siano leggeri non è compreso nel soggetto "corpi". L'elemento nuovo della "leggerezza" si potrà riscontrare solo dopo averne fatto esperienza. Il predicato, nel giudizio sintetico, è collegato al soggetto in forza dell'esperienza: i giudizi sintetici sono dunque a posteriori, si possono pronunciare solo dopo aver fatto esperienza e per questo essendo collegati alla sensibilità non hanno universalità e necessità ma sono estensivi della conoscenza. Questo è il tipo di giudizio usato dagli empiristi. Il giudizio sintetico a priori Il giudizio sintetico a priori è un giudizio che, pur ampliando la conoscenza, perché aggiunge qualcosa di nuovo nel predicato, che in questo caso non è implicito nel soggetto (come nei giudizi analitici), presenta i caratteri di universalità e necessità, perché non deriva dall'esperienza (infatti è a priori). L'esempio kantiano di 7 più 5 eguale 12 mostra come il predicato (dodici) non è compreso, come nei giudizi analitici, nel soggetto, ma c'è qualcosa di più: il rapporto di addizione che in 5 e in 7 presi di per sé non hanno. Dunque questo giudizio per un verso non dipende dall'esperienza, e quindi è necessario e universale, e per altro verso nel predicato dice qualcosa che non era contenuto nel soggetto e quindi è estensivo della conoscenza. La validità universale e la certezza che caratterizzano il giudizio sintetico a priori derivano infatti dalla possibilità dell'intelletto di «uscire a priori dal concetto», rivolgendosi all'intuizione pura attraverso la «guida» di un termine medio, cioè dello schema prodotto dall'immaginazione trascendentale. Quando cioè si passa da un concetto a un'intuizione per ottenere un giudizio sintetico a priori occorre stabilire un rapporto con la forma del senso esterno (forma pura spaziale) da parte del senso interno (forma pura temporale) autodeterminata intellettualmente attraverso l'identità dell'appercezione. I giudizi sintetici a priori sono i fondamenti su cui poggia la scienza poiché accrescono il sapere (in quanto sintetici), ma non necessitano di essere riconfermati ogni volta dall'esperienza perché universali e necessari. In questo caso Kant ha una posizione nettamente distinta da quella di Hume, in quanto il filosofo scozzese, essendo empirista, riterrebbe necessaria ogni volta una conferma giacché a suo parere non si sarebbe in grado di dire che le cose in futuro non potrebbero cambiare. La conoscenza umana Giunto a questo punto Kant stabilisce un nuovo sistema conoscitivo per determinare da dove arrivino i giudizi sintetici a priori, se questi non derivano dall'esperienza. Questa nuova teoria della conoscenza è una sintesi di materia (empirica) e forma (razionale e innata). La prima è “la molteplicità caotica e mutevole delle impressioni sensibili che provengono dall'esperienza”. La seconda invece è la legge che ordina la materia sensibile indipendentemente dalla sensibilità. In questo modo la realtà non modella la nostra mente su di sé, ma è la mente che modella la realtà attraverso le forme tramite cui la percepisce. La realtà come ci appare in base alle forme a priori è il fenomeno, mentre la realtà così com'è, è indipendente da noi ed è inconoscibile. Quest'ultima è detta noumeno. Kant definisce quindi la conoscenza come ciò che scaturisce da tre facoltà: la sensibilità, l'intelletto e la ragione. La sensibilità è la facoltà con cui percepiamo i fenomeni e poggia su due forme a priori, lo spazio e il tempo. L'intelletto è invece la facoltà con cui pensiamo i dati sensibili tramite i concetti puri o categorie. La ragione è la facoltà attraverso la quale cerchiamo di spiegare la realtà oltre il limite dell'esperienza tramite le tre idee di anima, mondo e Dio, ossia rispettivamente, la totalità dei fenomeni interni, la totalità dei fenomeni esterni e l'unione delle due totalità. Su questa tripartizione del processo conoscitivo si articola la Critica della ragione pura suddivisa in dottrina degli elementi e dottrina del metodo. La prima si occupa di studiare le tre facoltà conoscitive tramite l'estetica trascendentale (sensibilità) e la logica trascendentale, a sua volta suddivisa in analitica (intelletto) e dialettica (ragione). LE GRANDI DOMANDE E IL CONCETTO DI MORALE I filosofi prima di Kant avevano cercato di dare risposte alle grandi questioni filosofiche, per esempio se l’uomo abbia un’anima immortale, se la natura sia formata da particelle ultime indivisibili o se lo spazio sia finito o infinito…. Per Kant l’uomo non può raggiungere nessuna risposta certa a queste domande. Ciò non significa che negasse loro validità. Per quanto riguarda queste grandi questioni filosofiche, egli ritiene che la ragione operi al di fuori dei limiti di ciò che noi uomini possiamo conoscere. Al tempo stesso è presente nella natura umana, o nella ragione umana, un fondamentale bisogno di porsi domande di questo tipo. Tuttavia, quando ci chiediamo se l’universo sia finito o infinito, ci poniamo una domanda su una totalità di cui noi stessi siamo una piccola parte e che per questo non potremo mai conoscere completamente. Quando ci poniamo domande del tipo da dove viene il mondo, e discutiamo di possibili risposte, la ragione gira a vuoto perché non ha materiale sensibile da trattare né esperienze da rielaborare. Infatti, noi non abbiamo mai potuto vivere l’intera ed enorme realtà di cui siamo una piccola parte. Per queste grandi domande, ci saranno sempre due punti di vista opposti che appariranno parimenti probabili e improbabili. Ha senso, ad esempio, affermare che il mondo deve aver avuto un inizio nel tempo sia negare questo inizio. La ragione non può decidere fra queste due possibilità, quindi non può affermarle. Possiamo supporre che il mondo sia sempre esistito, ma può qualcosa esistere in eterno senza ci sia stato un inizio? Consideriamo il punto di vista opposto: diciamo che il mondo un tempo è stato creato, ma in questo caso deve essersi creato dal nulla, se non vogliamo semplicemente parlare di un cambiamento da una condizione ad un’altra. Ma può qualcosa nascere dal nulla? Kant apparteneva ad una corrente religiosa formatasi nell’ambito del luteranesimo tedesco: il pietismo. Questa corrente propugnava un cristianesimo attivo e una rigorosa pratica morale. Era una “religione del cuore”. Kant non si limitò ad affermare che certe domande estreme, quali quelle sull’esistenza di Dio, devono essere affidate alla fede. Secondo lui, era necessario presupporre per la morale umana che l’uomo abbia un’anima immortale, che Dio esista e che l’uomo abbia la libertà di scegliere. Egli, a differenza di Cartesio, espresse con molta chiarezza che non era stata la ragione a portarlo a queste conclusioni, bensì la fede. Chiamò la fede nell’immortalità dell’anima, nell’esistenza di Dio e nel libero arbitrio, POSTULATI DELLA RAGION PRATICA. Postulare significa affermare qualcosa come vero senza dimostrarlo. Con postulato della ragion pratica Kant intende qualcosa che va affermato per la pratica umana, cioè per la morale. “E’ moralmente necessario ammettere l’esistenza di Dio”, disse. Lo scetticismo di Hume verso ciò che la ragione e i sensi ci possono raccontare, fece sì che Kant fosse obbligato a riflettere nuovamente su molte delle domande più importanti della vita, soprattutto nell’ambito della morale. Hume aveva detto che non è possibile dimostrare ciò che è giusto e ciò che è sbagliato perché non possiamo dedurre da proposizioni con il verbo “essere” proposizioni con il verbo “dovere”. Secondo Hume non erano né la nostra ragione né le nostre esperienze a stabilire la differenza tra giusto e sbagliato: erano semplicemente i sentimenti. Kant considerava questo fondamento troppo debole. Egli avverte con grande intensità che la differenza tra giusto e sbagliato è qualcosa di più che un affare di sentimenti. Da questo punto di vista era d’accordo con i razionalisti secondo i quali la capacità di distinguere tra giusto e sbagliato è presente nella ragione umana: tutti gli uomini sanno ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, e non lo sanno solo perché lo hanno imparato, ma perché è insito nella ragione. Per Kant tutti gli esseri umani possiedono una ragione pratica, cioè una facoltà della ragione che ci dice in ogni momento che cosa sia giusto e che cosa sia sbagliato in campo morale. Questa facoltà è innata come tutte le altre proprietà della ragione: come tutti gli uomini possiedono le stesse forme della conoscenza (per esempio il fatto che ci rappresentiamo tutti gli eventi determinati dalla casualità), così tutti hanno accesso alla stessa legge morale universale, legge che ha stessa validità assoluta di quelle naturali. Essa è fondamentale per la vita morale degli uomini come lo è per la ragione che tutto abbia una causa o che sette più cinque faccia dodici.Cosa dice questa legge morale? Dal momento che è a priori di ogni esperienza, essa è formale, cioè non legata a nessuna precisa situazione di scelta morale. Vale per tutti gli uomini, in tutte le società e per tutti i tempi. Non spiega quindi che cosa si debba fare in una determinata situazione: dice come si deve agire in tutte le situazioni. Kant formula la legge morale come un IMPERATIVO CATEGORICO, il che vuol dire che essa ordina, quindi è inviolabile (“imperativo”) ed è valida in ogni situazione (“categorica”). Kant formula questo imperativo categorico in diversi modi: Devi agire sempre in modo che la massima della tua azione possa sempre valere come principio di una legislazione universale (ossia quando faccio qualcosa devo poter desiderare che altri, in una situazione analoga, facessero lo stesso). Devi trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e non semplicemente come mezzo (ossia non possiamo usare gli altri per conseguire vantaggi personali, perché tutti gli uomini sono in sé un fine) Quando Kant descrive la legge morale descrive la coscienza umana. Non bisogna seguire la legge morale per essere conformi ad essa e pensare di essere stimati, ma bisogna fare qualcosa perché si sente che è proprio dovere seguire tale legge, solo in questo caso si parla di azione morale. Per questo l’etica di Kant viene detta l’etica del dovere. Kant disse che solo quando sappiamo di agire in conformità alla legge morale agiamo in libertà. Kant divide l’uomo in due parti: secondo lui gli uomini, come esseri sensoriali, sono alla mercè dell’inviolabile legge di casualità (non decidono ciò che percepiscono con i sensi, le sensazioni giungono di necessità e li plasmano, che lo vogliono o no)- in questo senso gli uomini non possiedono una volontà libera; come esseri razionali, però, gli uomini fanno parte di quello che Kant ha chiamato la cosa in sé e quindi del mondo com’è in sé, indipendentemente dalle loro sensazioni. Se l’uomo segue la ragione pratica può compiere scelte morali e perciò la sua volontà è libera: infatti piegandosi alla legge morale è l’uomo stesso a formulare quella legge a cui si adegua. Approfondimento: La Critica della ragion pratica Contrapposta alla ragione teoretica è la ragione pratica. Una volta negata la possibilità di una comunione universale, di un "mondus intelligibilis" (Kant non può che distinguere, secondo l'analisi eseguita sulla ragion pura, il mondo in fenomeno e cosa in sé), viene introdotta l'ipotesi di un'unità morale. La morale che propone Kant è uno studio sul giusto agire degli uomini che non prescinde dalle regole dettate dalla ragione, ossia l'etica per essere giusta deve seguire i percorsi della ragione, ed è pur sempre ragione, non teoretica, ma pratica. In particolar modo Kant introduce il concetto di imperativo categorico, ovvero un comportamento è da considerare morale in modo categorico "senza possibilità di smentita" quando è universalmente riconosciuto, giusto in ogni momento e in ogni situazione umana. Questo comportamento diventa allora vincolante per la morale di tutti gli uomini, e una sua mancata applicazione significherebbe azione immorale. L'idea è che l'uomo possa farsi guidare dalla ragione non solamente nel campo delle scienze ma anche nel campo della pratica morale dell'etica. In particolare l'imperativo categorico che deve guidare l'uomo come necessità volontaria non è una costrizione ma un aderire a una legge razionale che l'uomo stesso ha formulato per mezzo della propria ragione. L'etica e l'imperativo categorico Kant distingue fra massime e imperativi. Le massime sono prescrizioni di carattere puramente soggettivo (es. vendicarsi delle offese subite), invece gli imperativi sono prescrizioni di carattere oggettivo. Gli imperativi a loro volta si suddividono in imperativi ipotetici e in imperativi categorici. I primi si presentano nella forma "se... allora": possono essere regole dell'abilità (se vuoi essere un bravo medico devi...) o consigli della prudenza (se vuoi raggiungere il benessere devi...). Il rischio di una morale utilitaristica come quella cui più tardi pervenne l'inglese Bentham, portò il filosofo a cercare il fondamento della morale in un comando non condizionale, l'imperativo categorico. Dimostrato che la ragione che pretende di parlare dell'incondizionato cade in contraddizione, una fondazione razionale e non contraddittoria della morale doveva escludere un imperativo non condizionale. Kant arriva a concludere che l'etica non è fondabile razionalmente ma che è un imperativo categorico che la volontà deve darsi liberamente. Il fondamento dell'etica è lo stesso che fonda la ragione, quel principio di non contraddizione scoperto da Aristotele, che, prima che una legge logica, è una legge etica dell'Io. Una vita conforme alla ragione equivale a un obbligo di coerenza che vale sia nel pensiero sia nell'essere. L'Io è libero di negare questo principio, ma si limita a vivere nel mondo dell'opinione (non razionale) e della stoltezza (non etico). Kant parte dalla volontà di dimostrare che l'io è legato al rispetto dell'etica, che considera un giudizio sintetico a priori che la ragione, dunque, conosce e può dimostrare. Lo vuole dimostrare perché è convinto che l'io è legato al rispetto dell'etica, quanto lo è del paradosso della sofferenza del giusto. Non stupisce che postuli l'esistenza di un imperativo categorico o voce della coscienza, simile al demone socratico, che universalmente in ogni individuo spinge al rispetto di regole morali universali che si traducono in azioni differenti fra i vari contesti. Così il giudizio etico come il giudizio estetico varia nel tempo e a seconda della situazione, ma è sempre riconducibile in ogni individuo all'applicazione di regole universali che fanno agire per il giusto e contemplare per il bello, senza variare da individuo a individuo: le regole etiche ed estetiche sono le stesse in ogni individuo ed egualmente la loro applicazione: qualunque individuo purché razionale, nella stessa situazione, avrebbe fatto la stessa cosa e considerato bella una certa opera. La ragione diventa l'ambito dell'universalità di tutti i giudizi, etici ed estetici, del loro tradursi in atti pratici. Il metro di valutazione del giusto può variare al massimo da una generazione di umani a un'altra, ma le regole alla base rimangono comuni, perché trascendentali a ogni spazio e a ogni tempo. Come si vede, le scelte etiche e la fruizione del bello sono ricondotti a principi collettivi: Kant non ha mai parlato dell'io singolare (sé stesso o gli altri); quando parlava dell'io, si riferiva sempre all'io trascendentale. Un'etica con principi indipendenti dallo spazio e dal tempo è posta in essere dall'io, pur venendo prima (ossia a priori) dell'io, e la si può pensare innata. L'applicazione dei principi dipende invece dallo spazio e dal tempo, dal contesto in cui l'io si trova ad agire; tuttavia, spazio e tempo sono anch'essi realtà trascendentali, rispetto agli individui: l'etica dipende dallo spazio-tempo solamente in un contesto universale, comune a tutti (intersoggettivamente); nei sogni, che sono uno spaziotempo soggettivo, diverso fra individui, ognuno è libero dall'etica entro certi limiti. Se l'individuo non domina su questa etica, poiché l'io soggiace a principi universali, nemmeno ne è dominato, dato che l'io è il protagonista del Regno dei Fini dove ogni persona è il fine delle azioni degli altri. Scontrandosi con l'affermazione della libertà dell'uomo, l'etica kantiana non ha trovato esseri che agiscono necessariamente per il giusto; ha creato un ambito, quello della ragione, in cui l'io entrato liberamente ha accettato di "farsi costringere" dalla ragione al rispetto di certe regole, pena la perdita del godimento del bello che è negato ai bruti e di una consolante universalità dell'agire umano. L'imperativo categorico è un dato di fatto, un postulato, un giudizio sintetico a priori, un comando di razionalità che viene dalla ragione in quanto essa è universale. Nel conformarsi al suo dettato, la ragion pratica non è più vincolata dai limiti fenomenici in cui si trovava a operare la pura ragione, e perciò a differenza di quest'ultima sa attingere all'Assoluto, perché obbedisce soltanto alle leggi che scopre dentro di sé. L'uomo si ritrova così ad appartenere a due mondi: in quanto dotato di sensi, egli appartiene a quello naturale, e perciò è sottoposto alle leggi fenomeniche di causa-effetto; in quanto creatura razionale, però, l'uomo appartiene anche al cosiddetto noumeno, cioè il mondo com'è in sé indipendentemente dalle nostre sensazioni o dai nostri legami conoscitivi, e perciò in esso egli è assolutamente libero, di una libertà che si manifesta nell'obbedienza alla legge morale che lui stesso si è dato. La Critica del giudizio La critica del giudizio analizza il sentimento attraverso una visione finalistica. I giudizi sentimentali costituiscono il campo dei giudizi riflettenti, i quali si limitano a riflettere su una natura già costituita mediante i giudizi determinanti e a interpretarla secondo le nostre esigenze di finalità e armonia. Mentre i giudizi determinanti sono oggettivamente validi, quelli riflettenti esprimono un bisogno che è tipico di quell'essere finito che è l'uomo. La critica del giudizio quindi è un'analisi dei giudizi riflettenti. I giudizi riflettenti sono di due tipi: estetici e teleologici, ed entrambi ci pervengono a priori. I giudizi estetici vengono vissuti immediatamente e intuitivamente dalla nostra mente in relazione con l'oggetto e riguardano la bellezza dell'oggetto. È il sentimento che ci pervade quando rimaniamo estasiati dal bello. Questo è la chiave che la natura ci offre per farci scoprire, attraverso il simbolo della bellezza naturale, la sua finalità morale e la realtà di Dio, sommo Bene: « Il bello è il simbolo del bene morale » (Immanuel Kant, Critica del giudizio, 1790) I giudizi teleologici invece pervengono al fine dell'oggetto in relazione al mondo attraverso un ragionamento. Per esempio riflettendo sullo scheletro di un animale diciamo che esso è stato prodotto al fine di reggere l'animale. Il giudizio teleologico è il sentimento che ci pervade quando avvertiamo un'intima consonanza tra i fenomeni della natura e le nostre finalità etiche. Il giudizio estetico Kant nella Critica del giudizio analizza il bello dandone quattro definizioni, che delineano altrettante caratteristiche: il disinteresse: secondo la "qualità" un oggetto è bello solo se è tale disinteressatamente, quindi non per il suo possesso o per interessi di ordine morale, utilitaristico ma solo per la sua rappresentazione; l'universalità: secondo la "quantità" il bello è ciò che piace universalmente, condiviso da tutti, senza che sia sottomesso a qualche concetto o ragionamento, ma vissuto spontaneamente come bello; la finalità senza scopo: secondo la "relazione" un oggetto è bello non perché sia il suo scopo esserlo ma perché un oggetto bello è tale nella sua compiutezza anche se non esprime alcun fine; la necessità: secondo la "modalità", è bello qualcosa su cui tutti devono essere d'accordo necessariamente senza alcuna giustificazione razionale; anzi, Kant pensa che il bello sia qualcosa che si percepisce intuitivamente: non ci sono quindi "principi razionali" del gusto, tanto che l'educazione alla bellezza non può essere insegnata in un manuale, ma solo attraverso la contemplazione stessa di ciò che è bello. Ovviamente Kant cerca di far luce sull'universalità del bello facendo la distinzione tra il piacevole legato ai sensi e quindi dato da giudizi estetici empirici privi di universalità e il piacere estetico puro che invece non subisce condizionamenti di alcun tipo (quindi universale); tra bellezza aderente riferita a un determinato modello come un edificio o un abito e bellezza libera appresa senza alcun concetto come la musica senza testo (ovviamente solo quest'ultima è universale). Il filosofo trovandosi di fronte il problema della legittimazione dell'universalità del giudizio estetico decide di spiegarlo affermando che quest'ultimo nasce dall'armonia tra immaginazione (irrazionale) e intelletto (razionale); questo meccanismo, uguale in tutti gli uomini, dimostra che il gusto gode di universalità. La "rivoluzione copernicana" operata nella Critica della ragion pura, si ripropone nella Critica del Giudizio: il bello non è più qualcosa di oggettivo e ontologico ma l'incontro tra spirito e cose attraverso la mediazione della nostra mente (perché è sempre il soggetto alla base di tutto). Il giudizio riflettente riguarda la soggettività e la sfera estetica, mentre quello determinante, proprio della conoscenza oggettiva già analizzata nella Critica della ragion pura, ha come finalità il perseguimento del “vero” e non del “bello”. Entrambi però hanno un principio comune, perché: « Il Giudizio in generale è sempre una facoltà di pensare il particolare come parte dell'universale ed è obbligato a risalire dal particolare della natura all'universale ». Il rapporto del particolare all'universale è perciò “dovuto” e quindi necessario e da ciò lo stretto rapporto tra il pensiero estetico e quello teleologico. La natura è pura immanenza, non ha perciò caratteri di universalità perché si manifesta nel disomogeneo, nel differenziato, nel molteplice e nel particolare. Però nel giudizio viene sempre subordinata all'universale, quindi al divino che l'ha creata. Il sentimento individuale dà un giudizio estetico che è sempre solo soggettivo, ma tende all'unità oggettiva del trascendente. Elevandosi sopra la percezione sensibile va verso la contemplazione del trascendente. Il concetto di bellezza va perciò riferito a un'idealità che è possibile definire e codificare in un canone, con il sentimento che deve sempre essere pilotato dalla ragione. La bellezza che si deve cercare è sempre quella “ideale”, che non può mai essere qualcosa di “incerto; il vero bello è sempre “definito” e fissato per il suo fine oggettivo e razionale. Kant così afferma che la bellezza teleologica è un a-priori e che: «La bellezza si esprime come la forma finalizzata dell'oggetto, percepita non in vista di alcun scopo pratico.» Perciò il sentire estetico, per quanto basato sulla libertà individuale, è veramente tale se mira alla necessità della sfera ideale e universale, in modo da sottrarsi all'accidentalità del particolare. Nella Analitica del sublime, prima parte (2º Libro) della Critica del giudizio, Kant spiega, rifacendosi a precedenti teorie del sublime, che il sentimento va razionalizzato in un'analisi rigorosa. Ciò anche perché secondo Kant vi sono due tipi di sublime, il “matematico” e il “dinamico”, che vanno distinti. Il matematico è uno stato sintonico con l'infinito, il dinamico è il senso dell'inadeguatezza rispetto a un “troppo”. Il sentimento del sublime è quindi un sentimento dell'«assolutamente grande» attraverso una «dinamica dell'animo», mentre quello del bello «mette l'animo in una stasi contemplativa » Entrambi così danno piacere, ma di diverso genere e intensità. Il sublime, assai più del bello, va “oltre” gli aspetti della natura immanente, andando verso la trascendenza del divino. CRITICHE A KANT Sarà con Johann Gottlieb Fichte, e ancor più con Friedrich Schelling, che le critiche a Kant assumeranno sempre più una valenza ontologica: l'errore di Kant sarebbe stato infatti quello di partire da una conoscenza necessaria e universale senza basarsi sull'ontologia, ma è proprio da questa che scaturisce il necessario e l'universale. Fichte racchiuse così l'essere dentro l'autocoscienza, trasformando la cosa in sé nel momento trascendentale di auto-formazione del soggetto.