limina - Aracne editrice

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LIMINA

Direttori
Adriano B
Università degli Studi di Macerata
Carla F
Alma mater studiorum — Università di Bologna
Eugenio R
Università di Pisa
Francesco R
Università degli Studi di Napoli “Federico II”
Comitato scientifico
Giovanni M
Università degli Studi di Napoli “Federico II”
Alberto S
Università degli Studi “Magna Graecia” di Catanzaro
Massimo L T
Università degli Studi “Magna Graecia” di Catanzaro
Paolo S
Università degli Studi di Teramo
Giorgio T
Università degli Studi di Macerata
Franco B
Università di Pisa
Tommaso G
Università di Pisa
Francesco R
Università degli Studi di Napoli “Federico II”
Enrico F
Università degli Studi di Napoli “Federico II”
LIMINA
Limina è il plurale di limen che nella lingua latina significa architrave, soglia, casa, entrata, ma
anche confine, frontiera, fino a inizio o compimento. Secondo questi significati, Limina vorrebbe
essere una piccola collana di progetti e ricerche il cui contenuto è espresso dal termine latino. Così
potranno esserci planimetrie di quello che, scientificamente, è l’ambito di una disciplina, progetti
che si pongono sulla soglia, o che vogliono essere un inizio, ma anche ricerche capaci di indicare
l’architrave di una disciplina, ovvero, al contrario, le sue frontiere, così come anche il punto di
compimento. È in questo senso una collana che intende segnare dei limiti e mantenersi sul limite.
Limiti delle singole discipline, limite sul quale le discipline si intersecano con altre, varcando il
loro proprio limen. La casa ospitante, il limen della collana, è la filosofia del diritto in tutti i suoi
ambiti di ricerca, dalla teoria generale alla bioetica, dalla teoresi all’informatica. I progetti e le
ricerche ospitati nella collana sono tutti quelli che la filosofia del diritto è in grado di impostare
esplorando i campi che il sociale storico ed istituzionale ad essa impone attraverso le proprie
trasformazioni. Sono anche i progetti e le ricerche che con la filosofia del diritto condividono i
punti cardine, i limiti, le frontiere, gli inizi e i compimenti, a qualunque disciplina questi progetti
e queste ricerche appartengano. Conoscere ed esplorare il proprio limen, la propria casa, senza
tuttavia aver timore di varcarne la soglia, portando la propria disciplina al limite e, se necessario,
oltrepassandolo: questa è l’identità che la collana assume dandosi Limina come nome. La collana
nasce su iniziativa di alcuni Dottorati di ricerca. Ne costituiscono le fondamenta i curricula
riconducibili alle discipline filosofico giuridiche attivi nelle Scuole di dottorato dell’università
di Bologna, di Macerata, di Pisa e di Napoli. Nata da Dottorati di ricerca, di questi conserva
anche in parte la struttura. I progetti e le ricerche pubblicati hanno prevalentemente la forma di
lezioni o di materiale utile alla didattica. Del Dottorato mantiene inoltre l’aspetto di promozione
della ricerca scientifica. La Collana ha, non da ultimo, tra i suoi obbiettivi quello di permettere
a giovani studiosi di pubblicare le loro ricerche anche quando queste sono agli inizi, o in fase
preparatoria, seppure progettuale o schematica.
Nella collana “Limina” sono pubblicate opere sottoposte a valutazione con il sistema del « doppio cieco » (« double
blind peer review process ») nel rispetto dell’anonimato sia dell’autore, sia dei due revisori che sono stati scelti dal
Comitato scientifico della collana.
I revisori sono professori di provata esperienza scientifica italiani o straniere o ricercatori di istituti di ricerca
notoriamente affidabili.
Ciascun revisore formulerà una delle seguenti valutazioni:
a) pubblicabile senza modifiche;
b) pubblicabile previo apporto di modifiche;
c) da rivedere in maniera sostanziale;
d) da rigettare;
tenendo conto della: a) rilevanza scientifica nel panorama nazionale e internazionale; b) attenzione adeguata alla
dottrina e all’apparato critico; c) adeguato aggiornamento normativo e giurisprudenziale; d) rigore metodologico; e)
proprietà di linguaggio e fluidità del testo; f ) uniformità dei criteri redazionali.
Nel caso di giudizio discordante fra i due revisori, la decisione finale sarà assunta dal direttore, salvo casi particolari in cui il direttore medesimo provvederà a nominare un terzo revisore a cui rimettere la valutazione dell’elaborato.
Le schede di valutazione verranno conservate, in doppia copia, nell’archivio del direttore e dell’editore.
Il termine per la valutazione non deve superare i venti giorni, decorsi i quali il direttore della collana, in assenza
di osservazioni negative, ritiene approvata la proposta.
Sono escluse dalla valutazione gli atti di convegno, le opere dei membri del comitato e le opere collettive di provenienza accademica. Il direttore, su sua responsabilità, può decidere di non assoggettare a revisione scritti pubblicati
su invito o comunque di autori di particolare prestigio.
Giorgio Torresetti
La frattura e il crollo
Quale diritto dopo il Totalitarismo?
Copyright © MMXIII
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via Raffaele Garofalo, /A–B
 Roma
() 
 ----
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
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senza il permesso scritto dell’Editore.
I edizione: ottobre 
Indice

Abbreviazioni

Premessa

Capitolo I
Fare la storia

Capitolo II
Il passato che non passa

Capitolo III
I nuovi orizzonti del dominio

Capitolo IV
Potere, potenza e violenza: quali differenze?

Capitolo V
Il potere tra violenza e diritto

Capitolo VI
Ascesa e declino della triade

Capitolo VII
La funzione politica e giuridica dell’al di là

Capitolo VIII
Amor Dei e amor mundi

Capitolo IX
Un nuovo inizio per lo Stato

Indice


Capitolo X
Oltre il potere dei tecnici

Capitolo XI
Riprendere a pensare
Abbreviazioni∗
AA
Essays in Understanding –, New York , trad. it. in
due volumi di P. C, a cura S. F, Archivio Arendt, .
–, Milano 
AA
Essays in Understanding –, New York , trad. it. in
due volumi di P. C, a cura S. F, Archivio Arendt, .
–, Milano 
EX
What is Existenz Philosophy?, «Partisan Review», XVIII/,
, pp. –; trad. it. Che cos’è la filosofia dell’esistenza?,
in AA, pp. –
CP
Understanding and Politics (The Difficulties in Understanding),
in «Partisan Review», XX, n. , , rist. in Essays in Understanding: –. Uncollected and Unpublished Works by
Hannah Arendt, trad. it. Comprensione e politica (Le difficoltà del
comprendere), in Archivio Arendt . –, cit., pp. –
OT
The Origins of Totalitarianism, New York , trad. it. Le
origini del Totalitarismo, Milano 
VA [numero paragrafo]
The Human Condition, Chicago , trad. it. Vita activa. La
condizione umana, Milano 
PF
Between Past and Future: Six Exercises in Political Thought, New
York , trad. it. Tra passato e futuro, Milano 
SR
On Revolution, New York , trad. it. Sulla rivoluzione,
Milano 
SV
On Violence, New York , , trad. it. Sulla violenza,
Parma 
VM
The Life of the Mind, New York , trad. it. La vita della mente,
Bologna 
FM
Some Questions of Moral Philosophy, New York , trad. it.
Alcune questioni di filosofia morale, Torino 
∗
Legenda delle abbreviazioni utilizzate per le opere maggiormente citate di H
A: titolo abbreviato dell’opera, pagina, solo nel caso di Vita activa, preceduta dal
paragrafo

Premessa
Il presente volume muove dalla valutazione di Hannah Arendt sul
Totalitarismo: questo evento, a suo avviso, conclude una fase della
storia dell’Occidente; di conseguenza, le nostre usuali e consolidate
categorie giuridiche e morali mostrano una radicale inadeguatezza.
Ne segue uno spaesamento che ha coinvolto anche le norme da noi
adoperate per comprendere in generale gli eventi, quali che siano.
Dopo il Totalitarismo, non è più possibile orientarsi nel presente
potendo contare su criteri, concetti, categorie, misure ritenute certe,
in quanto provenienti dalla tradizione. Il Totalitarismo ha travolto, secondo la Arendt, l’impianto che lungamente ha dominato l’Occidente
in ogni sua sfera, piano e dimensione.
Partendo da qui, assumo e propongo le conclusioni della Arendt
come capaci di definire un’effettiva ricerca e con esse mi confronto sul
piano delle istituzioni e del diritto. Se le sue conclusioni definiscono un
effettivo campo di ricerca, ritengo legittimo tradurre lo spaesamento
nella domanda: quale diritto dopo il Totalitarismo? Che cosa, cioè,
della struttura tradizionale del giuridico dimostra che ha bisogno di
un’originaria rifondazione?
Propongo dunque l’inizio di una ricerca, della quale, attraverso
Hannah Arendt, segno i confini. L’oggetto è dettato dalle condizioni
di possibilità del giuridico in una realtà storica profondamente segnata
dal Totalitarismo e dagli eventi, drammatici e incomprensibili al senso
comune, che ne hanno accompagnato il sorgere e l’affermarsi nel XX
secolo.
Il metodo della ricerca è orientato ad un’ampia comparazione delle
tesi interpretative con i testi della Arendt, da cui provengono la documentazione e le argomentazioni principali per la comprensione di
questa mia indagine, delle sue premesse, del suo sviluppo.

Capitolo I
Fare la storia
I fatti legati al Totalitarismo rappresentano per la Arendt un evento di
carattere epocale, che ha determinato una frattura profonda e radicale
nella storia dell’Occidente, tanto da produrre un vero e proprio crollo
dei valori morali che ne avevano costituito la base di sviluppo per oltre
duemila anni .
La storia per la Arendt non è il frutto di forze anonime o di idee
generali ed astratte, ma di fatti ed eventi sui generis, la cui origine si
trova in azioni e relazioni umane, con cui l’uomo interrompe il corso
ordinario delle cose introducendo qualcosa di nuovo e di straordinario
nella realtà ciclica, ripetitiva e prevedibile della natura cosmica o dei
progetti umani .
. “Il Totalitarismo (in quanto fatto determinato che, per esser privo di precedenti,
non può essere interpretato mediante categorie usuali della filosofia politica, i cui “delitti”
non possono esser giudicati secondo l’etica tradizionale o puniti all’interno della struttura
giuridica della nostra civiltà) ha infranto la continuità della storia dell’Occidente. La frattura
della nostra tradizione è oggi un fatto compiuto, che non nasce per scelta deliberata di
qualcuno né può esser cancellato da un ripensamento”, PF, . Sul tema cfr. S. F (a
cura di), La filosofia di fronte all’estremo. Totalitarismo e riflessione filosofica, Torino ; Idem,
Il Totalitarismo, Roma–Bari ; E. T, Il Totalitarismo, Milano ; F. F,
F.R. R L (a cura di), Hannah Arendt. Filosofia e Totalitarismo, Genova ; P.
B, Hannah Arendt, Totalitarism, and the social sciences, Stanford ; A. H, (a cura
di): Hannah Arendt. Totalitarisme et banalité du mal, Paris . Sul pensiero della Arendt,
cfr. T. S, L’autonomia del politico. Introduzione al pensiero di Hannah Arendt, Teramo
; Id., Virtualità e realtà delle istituzioni. Ermeneutica, diritto e politica in Hannah Arendt,
Giappichelli ; S. B, The Reluctant Modernism of Hannah Arendt, Lanham . S.
F, Hannah Arendt tra filosofia e politica, Milano ; H. M, Hannah Arendt’s Political
Humanism, Frankfurt a. M. ; P. H, M. Z, C. B, A. Y (a cura
di), Action and appearance: ethics and the politics of writing in Hannah Arendt, New York ;
W. H, B. H, S. R, Arendt–Handbuch. Leben–Werk–Wirkung, Stuttgart
; M. G, C. McC (a cura di), Hannah Arendt and the law, Oxoford .
. “La storia è costituita da eventi e non da forze o da idee dal corso prevedibile”, VA
, . “È nella natura del cominciamento che qualcosa di nuovo possa iniziare senza
che possiamo prevederlo in base ad accadimenti precedenti”, VA , . “Non si tratta


La frattura e il crollo
Non solo le forze cosmiche o naturali non sono in grado di generare storia, ma questa non è neppure un prodotto dell’uomo, nel
senso di un risultato del suo fare o fabbricare. Un prodotto è la fase
finale di un processo che inizia con una certa idea, si sviluppa con un
progetto, continua con l’organizzare e realizzare l’attività produttiva
e si conclude con il prodotto stesso, che è il risultato finale previsto
fin dall’inizio di questo processo. Un tavolo o una casa devono uscire
dalle mani di un falegname o di un muratore così come sono stati
progettati, salvo imprevisti.
Non accade così per la storia; questa nasce da vere e proprie interruzioni della ripetitività tipica dei processi naturali o di quelli produttivi;
le azioni e il loro intrecciarsi in relazioni sono all’origine di queste
interruzioni che introducono in questi processi, sempre identici, continui elementi di novità, con i quali ha inizio qualcosa che non ha
antecedenti .
soltanto di un’incapacità particolare di prevedere tutte le conseguenze logiche di un atto
particolare — nel qual caso un calcolatore sarebbe capace di prevedere il futuro; la difficoltà
deriva direttamente dalla storia che, come risultato dell’azione, inizia e procede non appena
sia passato il fugace momento dell’atto (. . . ), il suo pieno significato può apparire solo
quando si conclude. Contrariamente alla fabbricazione, dove la luce con cui valutare un
prodotto finito è fornita dall’immagine o dal modello percepito in anticipo dall’artefice, la
luce che illumina i processi dell’azione, e perciò tutti i processi storici, appare solo alla fine,
e spesso quando i protagonisti sono morti”, VA , . “Questa imprevedibilità dell’esito è
strettamente connessa col carattere di rivelazione dell’azione e del discorso, in cui ci si svela
senza mai conoscersi, o essere in grado di calcolare in anticipo chi si rivela”, VA , .
Sul piano antropologico, tra le fonti della Arendt cfr. A. G, Der Mensch. Seine Natur
und seine Stelleung in der Welt, Berlin , trad. it. L’uomo. La sua natura e il suo posto nel
mondo, Milano ; sul piano filosofico, cfr. K. J, Vom Ursprung und Ziel der Geschichte,
Zurigo ; trad. it. Origine e senso della storia, Milano ; sul piano storiografico, cfr. F.
M, Vom Geschichtliche Sinn und vom Sinn der Geschichte, Stuttgart , trad. it. Senso
storico e significato della storia, Napoli .
. “La fabbricazione si distingue dall’azione per avere un principio determinato e una
fine prevedibile: termina al completamento del prodotto finito, il quale, oltre a sopravvivere
al processo di fabbricazione, da quel momento ha una specie di “vita” propria. Al contrario,
come i greci avevano scoperto per primi, l’azione è in sé e per sé totalmente labile: non
lascia mai un prodotto finito (. . . ). Ciò significa soltanto che l’uomo non è mai un homo
faber in modo esclusivo: anche l’artefice resta pur sempre un essere che agisce, un essere
che dovunque vada, qualunque cosa faccia dà l’avvio a un processo”, PF, –. “Questo è
l’essere mortale: muoversi in linea retta in un universo dove tutto ciò che si muove segue
semmai un moto ciclico. Allorché, nel perseguire i loro fini, dissodano la terra inattiva
costringono il libero vento nelle loro vele, fendono le onde eternamente susseguentisi,
gli uomini tagliano la strada a un movimento privo di scopo e racchiuso in se stesso (. . . ).
Questi casi, atti o eventi singoli interrompono il moto circolare della vita quotidiana nello
. Fare la storia

La storia è composta da fatti, da eventi che non derivano né da idee
generali e astratte, né da un’essenza o da una natura comune a tutti
gli uomini; i fatti creano storia perché sono il frutto di qualcosa di
unico collegato all’individualità del soggetto, ossia all’azione che ha la
sua origine in un significato . Questo termine non indica un’essenza,
un’idea o un concetto, che hanno sempre un carattere generale ed
astratto; un significato appare solo quando una persona, attraverso
le parole e le azioni, decide chi vuole essere , mostra agli altri non che
cosa è, in cui può assomigliare a tanti altri, ma l’unicità del suo essere
stesso senso in cui il bios rettilineo spezza il moto circolare della vita biologica. La materia
della storia è in queste interruzioni, in queste fratture: lo straordinario”, PF, –.
. “La comprensione (. . . ) rappresenta il modo specificamente umano di rimanere
vivi, in quanto ogni individuo ha bisogno di riconciliarsi con un mondo in cui è arrivato,
con la nascita, come straniero e in cui, in virtù della sua irriducibile unicità, rimarrà sempre
come uno straniero. La comprensione inizia con la nascita e si conclude con la morte (. . . ).
L’esito della comprensione è il significato, che noi generiamo nel processo stesso della vita
nella misura in cui cerchiamo di riconciliarci con ciò che facciamo o subiamo”, CP, –.
. “La distinzione tra una storia reale e una storia inventata è precisamente che la
seconda è “costruita”, mentre la prima non lo è affatto. La storia reale in cui siamo impegati
lungo tutto il corso della nostra vita non ha alcun visibile o invisibile artefice perché non
è fatta. Il solo “qualcuno” che rivela è il suo eroe, e questo è il solo mezzo con cui la
manifestazione originariamente intangibile di un “chi” distinto nell’unicità può diventare
tangibile ex post facto attraverso l’azione e il discorso. Possiamo sapere chi qualcuno è o
fu solo conoscendo la storia di cui egli stesso è l’eroe — la sua biografia, in altre parole;
qualsiasi altra cosa sappiamo di lui, compresa l’opera che può avere prodotto o lasciato,
ci dice solo che cosa egli è o fu”, VA , . “Per quanto l’identità dell’individuo che parla
ed agisce non possa essere scambiata per un’altra, essa mantiene una sorta di curiosa
intangibilità che elude tutti gli sforzi di offrirne un’espressione verbale non equivoca.
Nel momento in cui vogliamo dire chi uno sia, il nostro vocabolario ci svia facendoci
dire che cosa è; ci troviamo impigliati in una descrizione delle qualità che egli condivide
necessariamente con i suoi simili, cominciamo a descrivere un tipo o un “carattere” nel
vecchio senso della parola, con il risultato che la sua specifica unicità ci sfugge”, VA ,
. “Agendo e parlando gli uomini mostrano chi sono, rivelano attivamente l’unicità della
loro identità personale, e fanno così la loro apparizione nel mondo umano, mentre le loro
identità fisiche appaiono senza alcuna attività da parte loro nella forma unica del corpo e
nel suono della voce. Questo rivelarsi del “chi” qualcuno è, in contrasto con il “che cosa” —
le sue qualità e capacità, i suoi talenti, i suoi difetti, che può esporre o tenere nascosti — è
implicito in qualunque cosa egli dica e faccia. Si può nascondere “chi si è” solo nel completo
silenzio e nella perfetta passività, ma la rivelazione dell’identità quasi mai è realizzata da un
proposito intenzionale, come se si possedesse questo “chi” e si potesse disporre allo stesso
modo in cui si possiedono le sue qualità e si può disporne. Al contrario è più che probabile
che il “chi”, che appare in modo così chiaro e inconfondibile agli occhi degli altri, rimanga
nascosto alla persona stessa, come il daimon della religione greca che accompagna ogni
uomo per tutta la vita, sempre presente dietro le sue spalle e quindi solo visibile a quelli
con cui egli ha dei rapporti”, VA , –.

La frattura e il crollo
nel mondo, qual è il senso individuale che egli vuole dare alla sua
esistenza .
Questa differenza tra idea e significato viene alla luce nella distinzione che la Arendt pone tra i diversi tipi di attività umane: l’agire, il
lavorare e l’operare. Il primo rivela chi è un soggetto, il suo carattere
morale, e le parole ne sono la prima forma espressiva ; le altre due
ci mostrano invece che cosa è una persona, ossia cosa sa fare, il falegname, il muratore, l’elettricista e così via. Con il lavoro applichiamo
la nostra energia fisica e intellettuale allo svolgimento di attività che
servono a procurarci i beni di consumo che sono necessari per vivere .
. “Non c’è dubbio che ogni uomo, in virtù della propria nascita, costituisce un nuovo
inizio, e il suo potere di cominciamento può ben corrispondere a questo dato di fatto
della condizione umana. Non per nulla, nel solco di tali riflessioni agostiniane, la volontà
è stata talora considerata, e non solo da Agostino, come l’attualizzazione del principium
individuationis”, VM, .
. “Agire, nel senso più generale, significa prendere un’iniziativa iniziare (come indica
la parola greca archein, “incominciare”, “condurre”, e anche “governare”) mettere in
movimento qualcosa (che è il significato originale del latino agere). Poiché sono initium,
nuovi venuti e iniziatori grazie alla nascita, gli uomini prendono iniziativa sono pronti
all’azione. [Initium] ergo ut esset, creatus est homo, ante quem nullus fuit (“perché ci fosse un
inizio fu creato l’uomo, prima del quale non esisteva nessuno”) dice Agostino nella sua
filosofia politica. Questo inizio non è come l’inizio del mondo, non è l’inizio di qualcosa
ma di qualcuno, che è a sua volta un iniziatore. Con la creazione dell’uomo, il principio del
cominciamento entrò nel mondo stesso, e questo, naturalmente, è solo un altro modo di
dire che il principio della libertà fu creato quando fu creato l’uomo, ma non prima”, VA ,
–. “L’alterità nella sua forma più astratta è reperibile solo nella pura moltiplicazione
degli oggetti inorganici, mentre ogni vita organica mostra già variazioni e distinzioni, anche
fra gli esemplari della stessa specie. Ma solo l’uomo può esprimere questa distinzione ed
esprimere se stesso, e solo lui può comunicare se stesso e non solamente qualcosa — sete
o fame, affetto ostilità o timore. Nell’uomo, l’alterità, che egli condivide con tutte le altre
cose e la distinzione, che condivide con gli esseri viventi, diventano unicità, e la pluralità
umana è la paradossale pluralità di esseri unici”, VA , –.
. “L’attività lavorativa corrisponde allo sviluppo biologico del corpo umano, il cui
accrescimento spontaneo, metabolismo e decadimento finale sono legati alle necessità
prodotte e alimentate nel processo vitale dalla stessa attività lavorativa. La condizione umana
di quest’ultima è la vita stessa”, VA , . Tra le fonti sul tema, cfr. Chr. N Die
moderne Arbeit, soziologisch und theologisch betrachtet, Dortmund ; O. L, Lehrbuch
der Arbeitswissenschaft, Jena ; W. C, Making Work Human, Yellow Springs .
Degno di nota è il giudizio che la Arendt formula nei confronti di Simon W: “Non è
forse esagerato dire che La condition ouvrière (; trad. it. La condizione operaia, Milano )
di Simone Weil, è il solo libro, nella vasta letteratura sulla questione del lavoro, che tratti il
suo oggetto senza pregiudizi e sentimentalismi. Simone Weil sceglie come motto per il
suo diario, a cui affida giornalmente le sue esperienze di fabbrica, il verso di Omero: poll’
alkadzomenē, kraterē d’epikeiset anagkē [“molto è contro la tua volontà, perché la necessità è
. Fare la storia

Con un’opera miriamo invece a produrre qualcosa di artificiale, uno
strumento, un attrezzo, una macchina, una costruzione, tutte cose
che hanno lo scopo di migliorare, di rendere più agevole la condizione
umana sulla terra; per fare un’opera è necessario avere a disposizione
un’idea ed un progetto, che troveranno poi realizzazione nel prodotto
finale .
Entrambi, lavoro ed opera, si rivolgono alla materia e si concludono con la produzione di cose destinate ad essere consumate oppure
utilizzate; non così le azioni, che si rivolgono ad altri esseri umani e
che si concludono solo con delle relazioni, in cui i soggetti si rivelano
gli uni agli altri non per che cosa sono, ma per chi sono, da cui nascono
le storie di ciascuno, il cui intreccio genera la storia nel suo insieme .
In questa prospettiva, si comprende meglio come e perché il signifimolto più potente di te”] e conclude che la speranza di una liberazione dal lavoro e dalla
necessità è il solo elemento utopistico nel marxismo, ed è al tempo stesso il motore di ogni
movimento del lavoro ispirato al marxismo. Esso è appunto quell’ “oppio del popolo” che
Marx riteneva essere la religione”, VA , nota , . Sul tema cfr. E. R, Dalla critica
del socialismo reale alla critica del marxismo, Milano .
. “L’operare è l’attività che corrisponde alla dimensione non–naturale dell’esistenza
umana, che non è assorbita nel ciclo vitale sempre ricorrente della specie e che, se si
dissolve, non è compensata da esso. Il frutto dell’operare è un mondo “artificiale” di cose,
nettamente distinto dall’ambiente naturale. Entro questo mondo è compresa ogni vita
individuale, mentre il significato stesso dell’operare sta nel superare e trascendere tali limiti.
La condizione umana dell’operare è l’essere — nel — mondo”, VA , . Sul tema, tra le fonti
della Arendt, cfr. E. L, Histoire des classes ouvrières et de l’industrie en France avant ,
Paris; A. T, Homo faber, Roma ; E. D, Histoire du travail en France,
Paris ; trad. it. Storia del movimento operaio, Firenze ; G. F, Problèmes
humains du machinisme industriel, Paris , trad. it. I problemi umani del macchinismo
industriale, Torino ; idem, Où va le travail humain?, Paris  , trad. it. Dove va il lavoro
umano?, Milano .
. “L’azione, la sola attività che metta in rapporto diretto gli uomini senza la mediazione di cose materiali, corrisponde alla condizione umana della pluralità, al fatto che gli
uomini, e non l’Uomo, vivono sulla terra e abitano il mondo”, VA , . “La sfera degli
affari umani, strettamente parlando, consiste, nell’intreccio delle relazioni umane che esiste
ovunque gli uomini vivono insieme (. . . ). Insieme promuovono un nuovo processo che
alla fine emerge come irripetibile storia di vita del nuovo venuto, che a sua volta influenzerà
in modo unico le storie di vita di tutti gli altri con cui verrà in contatto. È a causa di questo
intreccio di relazioni umane (. . . ) che essa “produce” storie, con o senza intenzione, con la
stessa naturalezza con cui la fabbricazione produce cose tangibili (. . . ). In altre parole, le
storie, i risultati dell’azione e del discorso, rivelano un agente che non ne è però l’autore, e
che non le ha prodotte. Qualcuno le ha cominciate e ne è il soggetto, nel duplice senso
della parola, e cioè di attore e di chi ha subito le vicende, ma nessuno ne è autore”, VA 
(L’intreccio delle relazioni umane e la narrazione), .

La frattura e il crollo
cato sia per la Arendt molto più che una semplice idea; infatti, esso non
è qualcosa di meramente pensato, un semplice oggetto astratto del
pensiero, innato o prodotto che sia, ma è piuttosto la risposta che ogni
uomo elabora al fatto della propria nascita, del suo essere venuto nel
mondo come uno straniero nei confronti degli altri uomini, un nuovo
venuto che sente il bisogno di superare tale condizione d’estraneità,
cercando di trovare un suo posto nel fluire incessante delle apparenze,
mostrando qual è il suo volto, non semplicemente che cosa vuole fare,
ma chi vuole essere, ossia come vuole porsi in relazione con gli altri .
Con l’azione possiamo rifare anche la natura, con la conseguenza,
però, che l’imprevedibilità tipica delle azioni non rimane più confinata
al mondo storico, ma entra a far parte anche di quello naturale .
La realtà nel suo insieme si presenta a noi come un flusso continuo
di fatti, che si connota con una molteplicità di elementi, tra cui alcuni
appaiono in modo prevalente e costante: la nascita e la morte, la vita,
il mondo, gli altri uomini, la terra e il cosmo . Da questi elementi
scaturiscono delle condizioni che, pur potendo mutare nel tempo,
pongono l’essere umano in una situazione di dipendenza, senza però
arrivare a determinarlo in senso assoluto; per questo non si può parlare
a proposito dell’uomo di una natura in senso oggettivo, come se egli
. “Questo apparire, in quanto è distinto dalla mera esistenza corporea, si fonda
sull’iniziativa, un’iniziativa da cui nessun essere umano può astenersi senza perdere la
sua umanità. Gli uomini possono benissimo vivere senza lavorare, possono costringere
gli altri a lavorare per sé, e possono benissimo decidere di fruire e godere semplicemente
del mondo delle cose senza aggiungere da parte loro un solo oggetto d’uso; la vita di uno
sfruttatore o di uno schiavista e la vita di un parassita possono essere inique, ma essi sono
certamente esseri umani. Ma una vita senza discorso e azione (. . . ) è letteralmente morta
per il mondo; ha cessato di essere una vita umana perché non è più vissuta fra gli uomini”,
VA , .
. “Oggi sappiamo che, pur essendo incapaci di “fare” la natura nel senso di “crearla”,
siamo perfettamente in grado di mettere in funzione nuovi processi naturali: e dunque,
in un certo senso, “facciamo la natura” nella misura in cui “facciamo la storia”. È vero
che abbiamo raggiunto questo stadio con le scoperte della fisica nucleare, per le quali le
forze della natura vengono, per così dire, scatenate, e si verificano processi naturali che non
sarebbero mai esistiti senza il diretto intervento dell’uomo”, PF, .
. “La condizione umana è più ampia delle condizioni nelle quali l’uomo ha cominciato
a vivere. Gli uomini sono esseri condizionati perché ogni cosa con cui vengono in contatto
diventa immediatamente una condizione della loro esistenza”, VA , . “D’altra parte, le
condizioni dell’esistenza umana — vita, natalità e mortalità, mondanità, pluralità e terra —
non potranno mai spiegare che cosa noi siamo o rispondere alla domanda “chi siamo noi?”
per la semplice ragione che non ci condizionano in maniera assoluta”, VA , .
. Fare la storia

possedesse un’essenza universale e astratta che rimane sempre uguale
a se stessa, come qualunque altra cosa o gli altri esseri viventi .
Le condizioni principali in cui l’uomo si trova ad esistere, sono
pertanto le seguenti: l’essere in vita, con la sua dipendenza dalla nascita
e dalla morte e con la sua connessione di bisogni, lavoro, consumo;
l’essere nel mondo, popolato da cose artificiali fatte dall’uomo in vista
dell’utile, per migliorare e rendere più agevole la sua condizione di
vita; l’essere con gli altri, che la Arendt definisce la pluralità, in cui si
sviluppano le azioni e le relazioni, che possono essere di tipo privato,
se legate alla dimensione vitale e lavorativa, di tipo sociale, se legate a
quella creativa di opere, oppure di tipo politico, se si tratta di relazioni
dirette tra gli uomini, non mediate da cose materiali .
Ogni tipo di relazione pone in gioco il significato che l’uomo dà a
se stesso; ma mentre in quelle di tipo privato il significato è mediato
dal lavoro e dal consumo, in quelle sociali dalla produzione di cose
e dal loro utilizzo, solo nella vita politica esso si rivela in modo diretto, dando inizio alla sfera pubblica, che prende forma attraverso
la definizione e la costruzione di spazi, attività e istituzioni destinati
ad ospitare esclusivamente la relazione tra gli uomini . Mentre nei
. “Il problema della natura umana (. . . ) pare insolubile sia nel suo senso psicologico
individuale sia nel suo senso filosofico generale. È molto improbabile che, come possiamo
conoscere, determinare e definire l’essenza naturale di tutte le cose che ci circondano, di
tutto ciò che non siamo, possiamo mai essere in grado di fare lo stesso per noi: sarebbe
come scavalcare la nostra ombra” VA , –.
. “La pluralità umana, condizione fondamentale sia del discorso sia dell’azione, ha
il duplice carattere dell’eguaglianza e della distinzione. Se gli uomini non fossero uguali,
non potrebbero né comprendersi tra loro, né comprendere i propri predecessori, né fare
progetti per il futuro e prevedere le necessità dei loro successori. Se gli uomini non fossero
diversi, e ogni essere umano distinto da un altro che è, fu o mai sarà, non avrebbero
bisogno né del discorso né dell’azione per comprendersi a vicenda. Sarebbero soltanto
sufficienti segni e suoni per comunicare desideri e necessità immediati e identici”, VA ,
.
. “Anche se tutti gli aspetti della nostra esistenza sono in qualche modo connessi alla
politica, questa pluralità è specificamente la condizione — non solo la conditio sine qua
non, ma la conditio per quam — di ogni vita politica. Così il linguaggio dei romani, forse
il popolo più dedito all’attività politica che sia mai apparso, impiegava le parole “vivere”
ed “essere tra gli uomini” (inter homines esse), e rispettivamente “morire” e “cessare di
essere tra gli uomini” (inter homines esse desinere) come sinonimi (. . . ). Tutte e tre le attività
e le loro corrispondenti condizioni sono intimamente connesse con le condizioni più
generali dell’esistenza umana: nascita e morte, natalità e mortalità (. . . ). Tuttavia delle tre
attività, è l’azione che è più in stretto rapporto con la condizione umana della natalità; il
cominciamento inerente alla nascita può farsi conoscere nel mondo solo perché il nuovo

La frattura e il crollo
primi due casi questa relazione è mediata da cose, beni di consumo o
beni strumentali, solo nella politica, grazie al diritto che ne delimita
spazi, regole e confini, essa diviene diretta e immediata; prende forma
così e si anima la scena di un mondo comune, in cui ciascuno diviene
qualcuno per gli altri; ha inizio la sua storia, il cui intersecarsi con
quella degli altri genera la storia di tutti .
venuto possiede la capacità di dar luogo a qualcosa di nuovo, cioè di agire. Alla luce di
questo concetto di iniziativa un elemento di azione, e perciò di natalità, è intrinseco in tutte
le attività umane”, VA , –.
. “La storia come categoria dell’esistenza umana è naturalmente più antica della
scrittura, più antica di Erodoto, e perfino di Omero. In termini di poesia e non di storia, ha
inizio piuttosto quando, alla corte del re dei Feaci, Ulisse ascolta la storia delle sue gesta e
sofferenze, la storia della sua stessa vita, divenutagli in quel momento estranea, “oggetto”
visibile e audibile per tutti. Quello che era stata pura evenienza diventava “storia” (. . . ).
Il motivo più profondamente umano della storia e della poesia si rivela qui con purezza
ineguagliabile: poiché ascoltatore, attore e paziente sono la stessa persona”, PF, –. Cfr.
M. P, Herodot, der erste Geschichtsschreiber des Abendlandes, Leipzig–Berlin .
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