BIBLIOTECA
TEATRALE
Rivista trimestrale di studi e ricerche sullo spettacolo
NUOVA SERIE
LE ARTI PERFORMATIVE E LE NUOVE
GENERAZIONI DI STUDIOSI
ROMA, 25-26 GIUGNO 2010. ATTI DELLE GIORNATE DI STUDIO
BULZONI EDITORE
DONATELLA ORECCHIA
«Evento vissuto» ed «evento ricordato»: la memoria e il teatro
Linguaggi e strategie della narrazione
tra fine Ottocento e inizio Novecento
DOTT. MEDICINA
Bisogna che io venga quando lei non è in casa.
Ella mi reputa uno dei soliti necròscopi. No. La
mia medicina è nuova. Si fonda tutta sulla semiotica ambientale. La medicina solita guarda al
corpo isolato come se fosse un cadavere, sia pure
un cadavere vivo. Idioti. Poi ci sono i meta psichiatri, che curano direttamente l’anima. Cretini.
Che cos’è la vita? Anima e corpo insieme. […]
Dove si mescolano, individuano e segnalano i
sintomi, i residuali della vita? Dove? (Minaccioso a Marcolfo) Dove?
MARCOLFO
Mah.
DOTTORE IN MEDICINA
Nell’ambiente. Cretino! Cretini! […] Io non visito i malati: visito le camere dei malati.
M. Bontempelli, Nostra Dea
Raccontare la storia della scena teatrale (e delle scene che l’hanno abitata) significa fare i conti con frammenti sempre parziali, incompleti, fragili; testimoni mai esaustivi e mai definitivi di quel che fu un «evento vissuto». Il malato (teatro) si studia quando non è in casa, quando c’è stato, ma
non c’è più: si studia l’ambiente, si visitano le camere e lì, all’interno, si cercano le tracce, i «residuali». Con la sua assenza e non con la sua presenza è
necessario fare i conti, con il residuo di ciò che fu, con ciò che permane e
di cui possiamo ancora fare esperienza, con ciò che è stato rielaborato e ri-
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Donatella Orecchia
scritto a partire da un evento, ma anche con i silenzi e gli oblii, con quel
che non si è sedimentato e con le cause per le quali ciò è avvenuto. In una
prospettiva di ricerca storica assumono così un rilievo preliminare il lavoro
d’indagine sul contesto, la ricostruzione – per ipotesi mai definitive – dei
tessuti sociali, dei contesti linguistici, economico-produttivi, di pensiero e,
insieme, lo studio dei racconti dei testimoni e della tradizione che si è costruita nel corso del tempo, fatta di letture e di riscritture, di tradimenti e
di oblii.
Vent’anni fa Marco De Marinis metteva in guardia dal duplice pericolo che minava gli studi storici sul teatro: il «feticismo dei fatti» (proprio
di una storiografia segnata da un pesante retaggio tardopositivistico) e la
«metafisica dell’assenza dello spettacolo e della sua irrecuperabilità» (propri di un relativismo radicale). In alternativa proponeva un approccio storico-semiologico per un’«analisi contestuale dei fatti teatrali»1. Oggi che il
secondo dei pericoli si è rivelato quello certo più resistente, capovolgere la
questione dell’assenza attraverso uno studio sulla persistenza delle “memorie” può essere una prospettiva che permette di integrare altri percorsi
di ricerca.
Le pagine che seguono sono dedicate alle memorie del teatro, intese
appunto come una tipologia possibile di «residuali» dell’evento teatrale, in
una duplice forma: di fonti tradizionali rilette alla luce delle questioni che
il concetto di memoria applicato al teatro apre (è il caso delle cronache
drammatiche) e di documenti creati ex novo dallo storico, le fonti orali, testimonianze rese oralmente da parte di protagonisti o partecipanti agli
eventi e registrate dallo storico.
1. La memoria, le memorie
«La memoria è un concetto cruciale», esordiva Jacques Le Goff in un
suo scritto del 1977. Qualche anno prima, nella Prefazione a firma congiunta con Pierre Nora al testo Fare storia, i due studiosi avevano sostenuto che fosse arrivato il momento per un’ampia ridefinizione della concezione della storia contemporanea, finalmente «portata a cercare se stessa
1
M. De Marinis, Capire il teatro. Lineamenti di una nuova teatrologia, La Casa Usher,
Firenze 1988, pp. 40-42, e complessivamente tutto il capitolo II: Storia e storiografia.
«Evento vissuto» ed «evento ricordato»: la memoria e l’attore
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attraverso le nozioni di storia immediata o di storia del presente»2: un programma di ridiscussione delle basi epistemologiche del sapere storico,
all’interno del quale gli autori problematizzavano l’ambizione totalizzante che aveva contraddistinto gli storici della generazione precedente e davano un posto centrale allo studio della memoria sociale e collettiva.
A distanza di trent’anni, pur in un contesto profondamente mutato,
la questione è ancora aperta e viva negli studi storici che, anzi, si sono arricchiti dell’apporto delle riflessioni di altri campi del sapere (dalla storia
orale alla sociologia, dalla psicanalisi all’antropologia, dalla linguistica alla
letteratura, ecc.).
Nel recente Dizionario della memoria e del ricordo a cura di Nicolas
Pethes e Jens Ruchatz3, la voce «memoria» comprende circa trenta lemmi
che abbracciano campi e discipline diverse, mentre gli studi di Pierre Nora4, di Harold Weinrich5, di Aleida Assmann6, di Paul Ricoeur7, di Eviatar
Zerubavel8, di Gérard Namer9 per ricordare i più significativi e, in Italia, i
lavori di Mario Isnenghi10, di Elena Agazzi11, di Ugo Fabietti e Vincenzo
2
J. Le Goff, P. Nora (a cura di), Fare storia, Einaudi, Torino 1981, pp. IX-X (si tratta
di un’edizione ridotta di Faire de l’histoire, sous la direction de J. Le Goff e P. Nora, 3 voll.,
Gallimard, Paris 1974).
3
N. Pethes, J. Ruchatz, Gedächtnis und Erinnerung. Ein interdisziplinäres Lexikon
[2001], trad. it. Dizionario della memoria e del ricordo, Mondadori, Milano 2002.
4
P. Nora, Les lieux de mémoire, 3 voll., Gallimard, Paris 1984.
5
H. Weinrich, Lethe. Kunst und Kritik des Vergessens [1997], trad. it. Lete. Arte e critica
dell’oblio, il Mulino, Bologna 1999.
6
A. Assmann, Erinnerungsräume: Formen und Wandlungen des kulturellen Gedächtnisses [2003], trad. it. Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, il Mulino, Bologna 2002.
7
P. Ricoeur, La mémoire, l’histoire, l’oubli [2000], trad. it. La memoria, la storia, l’oblio,
Raffaello Cortina Editore, Milano 2003.
8
E. Zerubavel, Time maps. Collective Memory and the Social Shape of the Past [2003],
trad. it. Mappe del tempo. Memoria collettiva e costruzione sociale del passato, il Mulino, Bologna 2005.
9
G. Namer, Mémoire et société, Méridiens Klincksieck, Paris 1987; Id., Memorie
d’Europa: identità europea e memoria collettiva, Rubbettino, Soveria Mannelli 1993.
10
M. Isnenghi (a cura di), L’Italia in piazza. I luoghi della vita pubblica dal 1848 ai
giorni nostri, il Mulino, Bologna 2004.
11
E. Agazzi, V. Fortunati (a cura di), Memoria e saperi: percorsi transdisciplinari,
Meltemi, Roma 2007, in particolare il contributo di B. Neumann sulla Performatività del
68
Donatella Orecchia
Matera12 e poi alcune riflessioni interne agli studi sulla storia orale di Cesare
Bermani13, Alessandro Portelli14, Giovanni Contini15, Luisa Passerini16
hanno ampliato e articolato le questioni aprendo nuove strade alla riflessione storiografica. Il terreno è molto vasto e non è questo certo il luogo per
darne conto; eppure raccogliere alcune delle provocazioni che derivano da
quel percorso di riflessione, anche all’interno di un campo specifico di studi
come quello dello spettacolo, e del teatro in particolare, può essere di grande
interesse per affrontare la complessità della storia di quest’ultimo.
a) Un primo stimolo utile da raccogliere è certamente la riflessione
sulla trasformazione che la memoria ha subìto in epoca moderna e, in particolare, nelle società di massa e industrializzate; trasformazione che si è
acutizzata all’inizio del Ventesimo secolo e poi, in particolare, dopo
l’esperienza della Prima Guerra Mondiale17. Già Walter Benjamin aveva
messo il dito nella piaga18, sottolineando il nesso stringente fra crisi
dell’esperienza individuale e impossibilità di partecipare collettivamente il
proprio vissuto, a cui lo studioso tedesco legava la rottura del rapporto fra
memoria individuale e memoria collettiva e la fine della tradizione. «In
mancanza di un’elaborazione dei vissuti all’interno di quadri collettivi capaci di dare voce e senso a ciò che il singolo ha sperimentato, i vissuti tendono a scomparire nell’oblio, o, come è nel caso dei vissuti traumatici della
guerra, a permanere come fissazione di uno choc. Lo choc è il contrario
ricordo, pp. 305-22.
12
U. Fabietti, V. Matera, Memoria e identità. Simboli e strategie del ricordo, Meltemi,
Roma 1999.
13
C. Bermani (a cura di), Introduzione alla storia orale, Odradek, Roma 2001.
14
A. Portelli (a cura di), Storia orale, il Mulino, Bologna 2005.
15
G. Contini, A. Martini, Verba manent. L’uso delle fonti orali per la storia contemporanea, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1993; G. Contini, La memoria divisa, Rizzoli, Milano 1997.
16
L. Passerini, Storia e soggettività. Le fonti orali, la memoria, La Nuova Italia, Firenze
1985.
17
Attento a questo aspetto è soprattutto Pierre Nora, nel volume da lui curato, Entre
mémoire et histoire, in Id., Les lieux de mémoire, vol. I, cit., pp. XVII-XVIII.
18
W. Benjamin, Schriften [1955], trad it. Angelus Novus. Saggi e frammenti, Torino,
Einaudi 1962, pp. 247-49 (capitolo: Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov).
«Evento vissuto» ed «evento ricordato»: la memoria e l’attore
69
dell’esperienza»19. Crisi dell’esperienza, del rapporto fra memoria individuale e collettiva e della tradizione sono tutti temi che hanno attraversato
anche il linguaggio della scena novecentesco e che ancora lo attraversano
in profondità. Non è possibile elaborare un discorso sul teatro (e non solo
su quello contemporaneo) senza un confronto con queste problematiche
e, in particolare, con la crisi della tradizione, intesa come esperienza di
continuità con il passato, e dunque con il passaggio dall’ereditare una tradizione e inserirvisi all’interno, alla necessità di costruirsi una tradizione a
partire da una discontinuità profonda con il passato. Una questione questa che muta ancora nel corso degli anni Novanta del Novecento, sotto la
pressione delle teorie del postmodernismo e, in particolare, di quell’esaltazione dell’eclettismo, della commistione e della fusione ironica delle tradizioni che ne costituisce uno dei tratti caratterizzanti. Il concetto di crisi
dell’esperienza e della tradizione sfuma allora piuttosto disinvoltamente in
quello di gioco in cui la “cannibalizzazione” del passato a fini estetici diviene la nuova modalità per porsi in relazione con la storia20.
b) Un secondo importante nodo è posto in rilievo da chi ha individuato nel processo di memorizzazione, tanto di un individuo quanto di
una collettività, un’operazione eminentemente linguistica e ha inteso la
memoria essenzialmente come un atto narrativo: proprio nell’uso del linguaggio, nella forma di organizzazione del discorso, nella costruzione re19
P. Jedlowski, Memoria, esperienza e modernità, Franco Angeli, Milano 2002, p. 89; in
questo passaggio Jedlowski sta commentando Benjamin.
20
Moltissimi sarebbero i riferimenti da fare agli studi sul postmodernismo in relazione
al concetto di storia e all’elaborazione della memoria; ne ricordiamo solo alcuni nei quali
questo tema viene profondamente problematizzato: F. Jameson, Postmodernism, or The
Cultural Logic of Late Capitalism, Verso, London 1992; D. Harvey, The Condition of Postmodernity: An Inquiry into The Origins of Cultural Change [1989], trad. it. La crisi della modernità, Il Saggiatore, Milano 1993; L. Hutcheon, A Poetics of Postmodernism: History,
Theory, Fiction, Routledge, London-New York 1988; K. Kumar, From Post-Industrial to
Post-Modern Society. New Theories of the Contemporary World [1995], trad. it. Le nuove teorie del mondo contemporaneo. Dalla società post-industriale alla società post-moderna,
Einaudi, Torino 2000; e tra i profeti del post-modernismo, ricordiamo: C. Jencks, What is
Post-Modernism?, Academy Editions, London 1989; J. F. Lyotard, Answering the Question:
What is Postmodernism?, in The Postmodern Condition: A Report On Knowledge [1984],
trad. it. La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 1985.
70
Donatella Orecchia
torica del racconto, nella relazione con l’ascolto, la memoria si costituisce,
si conserva e si trasmette. Quali le forme del racconto e per quali interlocutori in campo teatrale e, più specificatamente, quali forme di narrazione
per l’attore? Insomma: chi narra e per chi? E, ancora: la costruzione retorico-narrativa prevede come lettore modello solo il lettore contemporaneo
oppure anche il lettore del futuro? In entrambi i casi, quali competenze si
richiedono a quel lettore, quali conoscenze, quale grado di condivisione
del linguaggio e dei suoi riferimenti culturali? Tutte domande che necessariamente investono anche, come vedremo, la cronaca teatrale.
c) La memoria del teatro e nel teatro, d’altra parte, passa attraverso
elaborazioni linguistiche che non necessariamente sono sostenute dalla
parola: la memoria dei corpi, per fare un solo esempio, è talvolta più persistente di quella delle parole; una memoria consapevole e linguistica
s’intende, che si sedimenta, si elabora e si tramanda su supporti diversi dai
libri, nell’iconografia per esempio, nella tradizione orale del mestiere, più
spesso. Da questo punto di vista una delle trasformazioni che maggiormente ha inciso sui processi di memorizzazione collettiva tra la fine del
XIX e l’inizio del XX secolo è l’affermarsi e diffondersi della fotografia,
che sconvolse «la memoria moltiplicandola e democratizzandola, dandole
una precisione e una verità visiva mai raggiunta in precedenza, permettendo così di serbare la memoria del tempo e dell’evoluzione cronologica»21. Dai ritratti d’arte (quelli di Nadar a Sarah Bernhard, per fare un solo esempio), ai numerosissimi scatti in studio fotografico diffusi come
cartoline postali, utilizzati per la promozione e presto per illustrare le pagine dei periodici, la fotografia segna, già nell’Ottocento, innanzitutto il
modo di fruire il teatro, di guardare il corpo dell’attore e il suo rapporto
con lo spazio, e dunque di custodirne e tramandarne la memoria22, prima
21
J. Le Goff, Memoria, Torino, Einaudi, 1977, p. 51. Su questo aspetto cfr. R. Barthes,
La chambre claire. Note sur la photographie [1980], trad. it. La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino 1980; R. Schasse, Vom technischen Bildmittel zur Krise der Repräsentation, Deubner Verlag für Kunst, Köln 2003; R. Calzoni, Fotografia e memoria, in E. Agazzi,
V. Fortunati (a cura di), Memoria e saperi: percorsi transdisciplinari, cit., pp. 323-40.
22
Fra gli esempi più significativi del rapporto stretto tra fotografia e attore, si deve
certo ricordare il fenomeno divistico ante litteram di Sarah Bernhardt e l’abile strategia di
costruzione della propria immagine che l’attrice seppe fare anche attraverso l’uso della fo-
«Evento vissuto» ed «evento ricordato»: la memoria e l’attore
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ancora che il cinema intervenga a modificare ulteriormente e profondamente il quadro.
d) I numerosi studi dedicati alla memoria culturale, con taglio storico
e sociologico, pongono tutti l’accento sulla concretezza identitaria della
memoria: la memoria collettiva si forma e si struttura in relazione alle esigenze di specifiche collettività (popoli, Stati, comunità, famiglie, partiti)
ed è ricostruttiva, perché non compie una ricognizione del passato alla ricerca di una verità generica o in modo disinteressato, bensì parte dal bisogno di identità del presente. Inoltre, e qui il riferimento primo è a Halbwachs23 ma poi a molti studiosi successivi, la memoria collettiva non è
una sola e univoca ma si presenta piuttosto come luogo dei conflitti nelle
diverse interpretazioni del passato, nella tensione verso differenti prospettive future. Benché in una società la memoria collettiva tenda ad accordarsi agli interessi dominanti, tuttavia esistono anche memorie alternative di
cui si fanno portatori altri gruppi, che elaborano altre narrazioni. Anche il
teatro ha avuto e ha tutt’oggi una memoria condivisa, una memoria che
ha una concretezza identitaria ed è ricostruttiva: pensiamo a Per un teatro
povero di Grotowski24, raccolta di materiali della memoria, e al rapporto
con le comunità di ricerca terzoteatrale che vi hanno fatto riferimento. E
anche la cultura teatrale elabora spesso, e fortunatamente, memorie disgiunte, orali o scritte. Sono proprio questi percorsi, che si intrecciano silenziosamente con quelli più conosciuti e affermati e che talvolta restano
nascosti, a rendere la complessità della memoria del teatro.
tografia, intesa come strumento performativo. Cfr. R. Guardenti, Appunti di iconografia
bernhardtiana, in «Culture Teatrali», nn. 7/8, autunno 2002-primavera 2003 e S. Mei, Sulle
“ali della sua intelligenza”. Note in margine all’iconografia dusiana, in M. I. Biggi e P. Puppa
(a cura di), Voci e anime, corpi e scritture. Atti del convegno internazionale su Eleonora Duse,
Bulzoni, Roma 2009, pp. 511-524.
23
M. Halbwachs, Les cadres sociaux de la mémoire [1925], trad. it. I quadri sociali della
memoria, Ipermedium, Napoli 1997.
24
J. Grotowski, Towards a Poor Theatre [1968], trad. it. Per un teatro povero, Bulzoni,
Roma 1970.
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Donatella Orecchia
e) Infine, gli studi di Aleida Assmann25 sulla memoria culturale, che
in parte valgono come risposta polemica all’impostazione Halbwachs, meritano attenzione per aver sottolineato l’importanza, accanto a una trasmissione orale della memoria culturale collettiva, anche degli archivi della
memoria, ossia dei depositi di documenti scritti. Da un lato, propone la
Assmann, la memoria funzionale, viva, inerente a un gruppo, selettiva nel
presente, portatrice di una eticità e di un orientamento verso il futuro;
dall’altro, la memoria-archivio, fatta di documenti scritti, che spesso conserva a livello collettivo l’inutilizzabile nel presente, il diverso, il sorpassato. La prima attinge alla seconda richiamando solo una parte di ciò che è
funzionale nel presente, che viene scelto come significativo, che viene interpretato e di cui ci si riappropria. La seconda, che non fonda le identità
nel presente, recepisce il maggior numero di dati possibili e potrebbe anche essere considerata un deposito per la memoria funzionale a venire: repertorio delle occasioni perdute, delle opzioni alternative e delle opportunità non utilizzate, di quanto nel presente non è funzionale ma che
potrebbe tornare a esserlo nel futuro. È questa, fra l’altro, una proposta
che tenta di affrontare in modo critico e dialettico quel fenomeno che caratterizza in parte il nostro tempo, e che Jedlowski definisce di esteriorizzazione o anche di eccesso della memoria26: una memoria, cioè, che per la sua
vastità e per il carattere impersonale della conservazione non può essere
completamente incorporata dalla società. L’approccio dialettico della
Assmann permette di reinterpretare quell’eccesso all’interno di un quadro
cronologico più ampio, che prevede la possibilità del riuso dei materiali in
altro tempo e in altro luogo.
25
A. Assmann, Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, cit.
«[La] massa di materiali che riguardano il passato che è possibile conservare mediante la combinazione di scrittura, stampa e moderni procedimenti di archiviazione è
impressionante: il passato, o almeno tutto ciò che del passato è traducibile in scrittura, vi
diviene disponibile come un immenso patrimonio sociale. Proprio la sua vastità, tuttavia,
unita al carattere impersonale della conservazione, lo rende qualcosa di radicalmente diverso da ciò che era conservato e trasmesso nella tradizione di un gruppo sociale specifico.
Il passato depositato nella “memoria sociale” rappresentata dalle biblioteche non è incorporabile nella sua interezza da nessuno: in questo senso, si tratta di una memoria eccessiva». P. Jedlowski, Memoria, mutamento sociale, modernità, in A. L. Tota (a cura di), La
memoria contesa. Studi sulla comunicazione sociale del passato, Milano 2001, pp. 43 e sgg.
26
«Evento vissuto» ed «evento ricordato»: la memoria e l’attore
73
Anche in teatro esiste una memoria funzionale e si può lavorare per
mantenere (ma anche per costruire) una memoria d’archivio che, incrementata, organizzata, resa accessibile e fruibile, può assolvere alla sua
funzione di correttivo della memoria del presente. Ed è forse questo uno
dei primi compiti dello storico del teatro.
2. La cronaca teatrale come memoria
La specificità del teatro e l’irriproducibilità dell’evento vissuto che lo
caratterizza rende i racconti di chi fu protagonista di ciascuno di quegli atti particolarmente preziosi: memorie che, in modo estemporaneo o programmato, orale o scritto, intenzionale o meno, sono fra le poche tracce
che il teatro lascia. Possono essere racconti interni al mondo della scena
teatrale, narrati dai suoi stessi protagonisti, oppure racconti esterni, testimonianze dirette degli spettatori, ma in entrambi i casi si tratta di testimonianze che vivono della parzialità degli sguardi di cui sono
l’espressione, che non hanno pretesa di oggettività e che pure testimoniano una verità, quella di una documentazione tesa fra passato e presente e
frutto di un’esperienza vissuta in prima persona. Che siano infatti le autobiografie degli artisti, le memorie degli spettatori, le interviste, le testimonianze della critica, gli appunti presi dagli allievi alle lezioni dei maestri o
degli attori alle prove, le memorie sono testimonianze che vanno indagate
nelle loro strategie di narrazione, nelle modalità di ricostruzione dei dati,
nella parzialità degli sguardi, oltre che, ovviamente, nei rapporti con altre
fonti. La loro peculiarità consiste nell’essere racconti di un’esperienza vissuta, di quell’atto che non c’è più, riletture di un tempo esperito, e di essere tesi a conservarne per qualcuno (si narra sempre per qualcuno) una
seppur parziale verità. Orali o scritte, attraverso le memorie dei singoli si
può poi risalire, intrecciandole in un tessuto più ampio, alle memorie del
teatro.
All’interno di questo vasto campo di indagine, occupa un posto particolare il racconto dell’evento teatrale, quel tipo di memoria, cioè, che ha
come medium la scrittura e come forma l’articolo a stampa: la cronaca teatrale così come si è andata configurando in Italia all’inizio del secolo scor-
74
Donatella Orecchia
so27. Considerare le cronache prossime al concetto di traccia, da un lato, e
di memoria dall’altro, ha il vantaggio di renderle documenti più vivi e
complessi, testimonianze di esperienze, di sottolinearne la parzialità dello
sguardo e liberarle dalla necessità di essere interessanti solo per il loro contenuto di realtà oggettiva. Certo la cronaca, o meglio, un insieme di cronache, è fonte importante, talvolta insostituibile per accertare alcuni dati oggettivi: per esempio, se una serata prevista in cartellone e sui tamburini dei
giornali si è veramente svolta, e se Eleonora Duse ha veramente recitato o
si è data all’ultimo malata; se il pubblico era numeroso o meno, se ha applaudito o fischiato (ma qui già l’affidabilità può diminuire), e così via. Ci
sono dati di realtà che senza le cronache non sarebbe possibile determinare.
Eppure, la cronaca è anche, e forse soprattutto, quel tipo di traccia che ci
parla non tanto e non solo dello spettacolo o dell’attore, quanto piuttosto
della relazione fra scena e contesto. Questa è la sua specificità, essere la memoria di una relazione e quindi proprio del momento in cui il teatro si dà.
Isolata, certo, la cronaca ha poco da dire. La sua parzialità – nella
quale risiede pure il suo interesse per noi – deve essere contestualizzata:
ha bisogno dell’apporto conoscitivo di altri frammenti. Da questo punto di
vista non è tanto, o non solo, la singola cronaca né la personalità del singolo critico che qui interessa, ma il tessuto dei racconti, il dibattito delle interpretazioni, l’intrecciarsi dei punti di vista.
Perché la cronaca è anche e sempre una scrittura militante (anche
quando registra lo status quo), perché sempre si inserisce entro un dibattito, appartiene a un tessuto culturale e contribuisce a formarlo, è dialogo
con la contemporaneità e con il pubblico. E per questo motivo la cronaca
teatrale è spesso testimonianza della cultura e dell’ideologia di un periodo
storico piuttosto che di un singolo spettacolo: dei modi di guardare, di
ascoltare, di trattenere e tramandare.
27
Rimando alle riflessioni di Ferdinando Taviani (L’acritica, gli attori), al discorso di
Fabrizio Cruciani sul rapporto fra critica e regia (Tra cronaca e poetica: le aporie del critico
nel teatro di regia), alle pagine di Ugo Volli (Critica del giudizio) e, per un approccio semiologico, a quelle di Maurizio Porro (Forma e scritture della nostra critica) pubblicate su
«Quaderni di teatro», n. 5, agosto 1979. Cfr. anche G. Antonucci, Storia della critica teatrale, Edizioni Studium, Roma 1990; A. Barsotti, La critica teatrale italiana e il ’900, in Teatro
contemporaneo, diretto da M. Verdone, vol. II, Lucarini Editore, Roma 1986.
«Evento vissuto» ed «evento ricordato»: la memoria e l’attore
75
Certo la cronaca drammatica è un “genere” che non ha una tradizione molto antica in Italia e che solo a partire dalla fine dell’Ottocento inizia
a sostituire le antiche Appendici teatrali, in cui, con periodicità settimanale,
venivano commentati gli avvenimenti di maggiore rilievo. Si trattò di un
passaggio che rifletteva un processo più ampio, iniziato già negli ultimi
decenni dell’Ottocento e destinato a investire agli inizi del Novecento tutta la scena italiana, il suo sistema produttivo, le sue strutture organizzative, il suo linguaggio: una progressiva industrializzazione della scena che
ben presto farà crollare il sistema su cui il teatro si era retto fino a quel
momento, per sostituirlo con uno più funzionale alla modernizzazione. I
rapidi tempi di elaborazione, lo stile sintetico, l’ampia diffusione attraverso i quotidiani, il farsi strumenti di informazione e di promozione renderanno presto questa nuova forma di intervento critico adatta al nuovo contesto generale.
Ci si può chiedere, allora, se e quale memoria si trovi rielaborata nelle
cronache teatrali e quanto invece le esigenze produttive, promozionali,
ideologiche rendano questi testi espressione di qualcos’altro, culturalmente importante sì, ma secondario rispetto al nostro discorso. Eppure, se tutto
ciò è vero, certo resta il fatto che in ciascuna cronaca l’esperienza personale
dell’evento teatrale resta al centro a legittimare l’autore e le sue parole, essendo proprio quell’esperienza il fondamento del patto comunicativo: parlo
perché ho visto, perché sono testimone. Quand’anche racconti poco o nulla
dell’evento, tuttavia la cronaca resta il segno di un’esperienza e del modo in
cui è stata rielaborata e, in quanto tale, una memoria. Una memoria che
oblia, forse, che esprime un punto di vista assai parziale, sempre.
Come ogni scrittura, anche la cronaca teatrale ha un lettore modello e
una strategia testuale: pubblico reale e pubblico virtuale (che legge ma
non andrà a teatro) sono entrambi previsti come lettori; entrambi interlocutori a cui comunicare qualcosa e da persuadere. E il lettore modello inscritto all’interno di quella scrittura critica a partire dalla fine
dell’Ottocento non è più colui che appartiene a una «società ristretta»
che condivide saperi e valori, ma è il «grande pubblico» del giornale
quotidiano28 e della platea teatrale, non completamente indifferenziato
28
«Si è detto pure che io abbia voluto fare nelle mie cronache di teatro troppa letteratura! Magari l’accusa fosse vera! Me ne terrei onorato. La critica drammatica non è mai
76
Donatella Orecchia
(da città a città, da testata a testata il lettore muta), ma comunque innanzitutto identificabile nel ruolo che ricopre all’interno di un rapporto regolato dal mercato. Domenico Oliva e Giovanni Pozza29, che rappresentano due delle maggiori voci della cronaca di fine Ottocento,
testimoniano in modo diverso questo passaggio: l’accento che gli articoli di Pozza pongono sull’elemento dell’informazione più ancora che
su quello della riflessione critica e il prevalere di una tensione divulgativa che caratterizza le cronache di Oliva, nonostante vogliano farsi
erudite e colte, mostrano, seppure ancora in nuce, la strada verso la
quale la cronaca drammatica si accinge ad avviarsi. Sarebbe necessario
a questo punto aprire un lungo capitolo dedicato a un aspetto finora
poco indagato negli studi teatrali italiani: quello relativo al pubblico,
alla sua composizione sociale, di genere, culturale e, nello specifico del
discorso che si sta qui conducendo, al suo rapporto con la cronaca e,
dunque, con il lettore della stampa periodica e dei giornali quotidiani.
Perché, proprio perché noi oggi ricostruiamo buona parte del teatro di
ieri degli ultimi due secoli attraverso le testimonianze scritte della critica drammatica, sarebbe importante identificare chi fossero i lettori reali
di quegli articoli, quanto corrispondessero al lettore ideale inscritto
nella strategia testuale delle pagine critiche e quanto ancora agli spettatori reali.
Tornando poi agli autori delle cronache, non dimentichiamo che verso gli anni Dieci e Venti (che è il torno di tempo su cui esemplificheremo
poi rapidamente) sono tutti uomini e, nella maggior parte dei casi, autori
di testi drammatici: Marco Praga, Sabatino Lopez, Renato Simoni, Cesare
Giulio Viola, Fausto Maria Martini, Gino Rocca, Ettore Albini, Lucio
D’Ambra, Eligio Possenti, Ferdinando Paolieri e poi Filippo Tommaso
Marinetti, Massimo Bontempelli: pochi (Gramsci, Gobetti, Tilgher30,
abbastanza letteraria, abbastanza colta, diciamo pure abbastanza erudita. […] E si noti
che mi rivolgo a un grande pubblico, non a una società ristretta di letterati, che quindi ho
da insistere su cose che i letterati sanno o dovrebbero sapere a mente, ho da chiarire cose
che pei letterati sono o dovrebbero essere chiarissime, essendo la mia sopra tutto opera di
divulgazione». D. Oliva, Note di uno spettatore, Zanichelli, Bologna 1911, pp. VII-VIII.
29
Pozza fu redattore del «Corriere» a partire dal 1887 e qui tenne per ventisette anni,
fino al 1914, la rubrica di critica teatrale.
30
A partire dal 1916 Antonio Gramsci darà l’avvio alla sua attività di critica teatrale
sulle colonne dell’«Avanti!»; dal 1918 su «Energie nuove» e poi, a partire dal gennaio del
«Evento vissuto» ed «evento ricordato»: la memoria e l’attore
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d’Amico, fra i più significativi) non lo sono. Ovviamente le cronache di un
ventennio egemonizzate dai drammaturghi elaboreranno più facilmente
in una certa direzione la memoria, piegandola verso un’idea di teatro che,
in contrapposizione con la tradizione del teatro d’attore ottocentesco, porrà il testo al centro della logica spettacolare. Allora l’esigenza di rendere
conto più frequentemente e più rapidamente di un gran numero di spettacoli, unita a quella di privilegiare innanzitutto il commento e l’eventuale
giudizio sul testo, tenderanno a limitare lo spazio dedicato alla recita vera
e propria e dunque alla memoria dell’evento. Eppure accade, e non così di
rado, che nelle parole apparentemente descrittive del testo si celino indicazioni preziose sulla recita: perché l’autore del pezzo, anche quando dichiara di scrivere sul testo drammatico, scrive poi anche di ciò che ha visto,
e non solo quando si tratti dell’ennesima recita di Shakespeare, ma anche
nel caso di una prima di Pirandello. Anche il critico che pare disinteressato a conservare la memoria della scena, di fatto, invece, la trattiene e la
comunica. A questo proposito ricordiamo un solo episodio, ma illuminante. Silvio d’Amico, strenuo difensore dell’idea dell’attore interprete fedele
del testo, ma anche appassionato amante della scena, scrivendo del Gioco
delle parti in una sua cronaca del 1918, ripresa poi nel suo Teatro italiano
del 1932, pensando di scrivere del finale di Pirandello scrive in realtà del
finale di Ruggeri: «quando arriva la notizia che l’amico è stato ucciso,
Leone si mette tranquillamente a tavola»31, mentre la didascalia pirandelliana recita «Leone Gala rimane immobile». Pare un dettaglio, ma in verità
proprio in questo finale variato consisteva il culmine della lettura di Ruggeri che tanto si allontanava dallo spirito umoristico e grottesco di Piran-
1921, sull’ «Ordine nuovo» scriverà Piero Gobetti e sempre in quegli anni esordirà anche
Adriano Tilgher, prima sulla «Concordia», poi sul «Tempo» e infine sul «Mondo» di Roma. Su Gramsci critico teatrale cfr. G. Davico Bonino, Gramsci e il teatro, Einaudi, Torino
1972; E. Bellingeri, Dall’intellettuale al politico: le “Cronache teatrali” di Gramsci, Dedalo,
Bari 1974; A. Petrini, Gramsci critico della cultura: l’esempio delle cronache teatrali, in
Aa.Vv., Gramsci nel suo tempo, Atti del convegno a cura di F. Giasi, 2 voll., Roma, Carocci,
2008. Su Gobetti critico teatrale cfr. G. Guazzotti, Introduzione a P. Gobetti, Scritti di critica teatrale, Einaudi, Torino 1974, pp. XV- LXIV. Su Adriano Tilgher, cfr. G. Grana,
Adriano Tilgher e la critica drammatica, Marzorati, Milano 1969.
31
S. d’Amico, Il teatro italiano, Treves-Treccani-Tumminelli, Milano-Roma 1932, p.
116. La frase compariva quasi identica nella cronaca allo spettacolo del 1918.
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Donatella Orecchia
dello, facendo del protagonista un superuomo capace di dominare gli
eventi32.
In alcuni casi e in alcuni momenti della storia dello spettacolo, la cronaca ambisce più esplicitamente a permanere, a farsi memoria progettuale,
ad affermare o costruire un’ipotesi artistica che superi la contingenza. E
questo è tanto più vero nei periodi di crisi o in quelli di consapevole rifondazione dei canoni estetici della scena: per restare al Novecento italiano, al
primo caso si può fare risalire il torno di tempo che va dalla fine degli anni
Dieci a tutti gli anni Venti mentre al secondo l’inizio degli anni Sessanta.
La crisi del teatro che investe il sistema di produzione, le compagnie,
la drammaturgia e che poi diventerà anche crisi di identità in relazione al
cinema, si riflette spesso nelle cronache sia come tema ricorrente sia come
motore di una trasformazione della loro forma. Accade così che per un decennio la critica dibatta ciclicamente sulla natura, le dimensioni, le possibili soluzioni della crisi del teatro e contemporaneamente sia indotta a riflettere anche sul proprio ruolo e sulla propria specifica funzione e a farsi
per questo anche pedagogia33. Così, accanto a quella forma di cui si era fatto difensore Lucio d’Ambra nella polemica con Adriano Tilgher nel 1922,
intesa come resoconto del rapporto testo/scena in una prospettiva egemonica dell’autore drammatico, si afferma la cronaca come individuazione di
un «problema centrale» proposta e teorizzata da Tilgher: il critico, come
autocoscienza dell’arte e del suo rapporto con la società, deve lottare per
un teatro nuovo, deve contribuire a rinnovare il gusto del pubblico, aprire
nuove vie. La tensione è qui verso un teatro che non c’è e che dovrà esserci
e di cui il critico ha il compito di cogliere fermenti e premesse. La critica
non si esercita più in nome di un’adeguatezza del teatro alle norme riconosciute (dare spazio a un mestiere che ha costituito tradizioni e regole),
ma deve preparare la strada per il futuro. Sono critici di questo tipo
d’Amico, Gobetti, Possenti, Ramperti e, prima di loro ovviamente, Gramsci. E accade qui una cosa importante: proprio nel momento della crisi e
32
Cfr. a questo proposito D. Orecchia, Il critico e l’attore. Silvio d’Amico e la scena italiana di inizio Novecento, Edizioni del DAMS, Università degli Studi di Torino, Torino
2003.
33
Sottolinea questo aspetto con limpidezza Fabrizio Cruciani nel saggio sopra citato
edito in «Quaderni di teatro», n. 5, agosto 1979 (pp. 30-31) e Guido Davico Bonino in relazione a Gramsci (Gramsci e il teatro, cit.).
«Evento vissuto» ed «evento ricordato»: la memoria e l’attore
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della ridiscussione dei paradigmi di interpretazione del teatro, anche
l’attore diviene per il critico protagonista di un programma estetico.
Parallelamente, la crisi del sistema teatrale si fa crisi della tradizione e
della memoria del passato: questo induce il critico a isolare l’attore dal
contesto concreto e materiale di cui è parte ed espressione e a liquidare per
lo più il passato. L’elaborazione della memoria contingente non è più un
confronto con la memoria del passato. Non è un caso che scompaia quasi
del tutto la forma tipica della memoria teatrale ottocentesca o di inizio
Novecento che si costruiva sul giudizio comparativo e che in questo rifletteva la modalità di vivere il teatro da parte dello spettatore del tempo, mettere cioè in relazione costante presente, passato e futuro. Come dire: non
si può vedere la Duse (nel senso di registrare le sue specificità differenze
originalità ecc.) se non si guarda alla Marini, alla Bernhardt, alla Pezzana.
Ancora all’inizio del secolo Alessandro Varaldo aveva costruito buona parte
dei suoi interventi critici sull’attore facendo riferimento al sistema dei ruoli,
quale parametro di comprensione e di giudizio del loro stile di recitazione34:
solo una quindicina di anni dopo un’operazione come questa risulta quantomeno anacronistica. L’attore è ora più facilmente giudicato come una
monade, emblema di una temperie culturale complessiva, luogo da cui partire per ridefinire il campo, i criteri di giudizio, i paradigmi piuttosto che
come l’espressione di una tradizione artistica data e di un linguaggio della
scena storicamente stratificato. Ermete Zacconi (come emblema negativo) e
Alda Borelli (come esemplarità positiva) sono nelle cronache di Gobetti i
due esempi più limpidi di questo procedimento critico.
Infine è interessante ricordare qui ancora un episodio della critica italiana degli anni Venti perché può aiutare a comprendere come anche in
teatro si possa parlare di «luogo della memoria» in modo analogo a quanto
Pierre Nora35 innanzitutto, ma anche Mario Isnenghi36, hanno proposto
34
Su Alessandro Varaldo cfr. D. Orecchia, Cronache d’inizio Novecento. Appunti su
Alessandro Varaldo e l’attore, in «Acting Archives Review», n. 3, 2011.
35
P. Nora, Les lieux de mémoire, cit. Luogo della memoria «è uno spazio fisico e
mentale che si caratterizza per essere costituito da elementi materiali o puramente simbolici, dove un gruppo, una comunità o un’intera società riconosce se stessa e la propria storia mediante un forte aggancio con la memoria collettiva. Può essere un museo, un archivio, un monumento, un anniversario, certi territori e località segnati da eventi significativi,
ma anche miti, pagine letterarie, personaggi, date. Cioè, per estensione, l’orizzonte cultu-
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Donatella Orecchia
in campo storico sociale. E proprio per restare agli anni di cui stiamo parlando, il ritorno di Eleonora Duse alle scene nel 1921 può essere considerato un «luogo della memoria»: per la portata dell’evento, per l’eco che ebbe e che continuò ad avere anche in seguito, per il modo in cui, proprio
dalla cronaca del tempo, fu immediatamente rielaborato ed elevato a simbolo di rinascita di un’intera collettività. Forse nessun altro appuntamento
teatrale ebbe in quegli anni ugual eco, maggior presenza di critici, più entusiastici commenti, ma soprattutto nessun altro evento espresse con sì
chiara forza la consonanza con i tempi nuovi che la cultura italiana era disposta ad accogliere.
L’evento si fa immediatamente rito nelle cronache dei contemporanei; le categorie di giudizio estetico saltano. Ritornano ossessivamente
espressioni come «esperienza religiosa»37, «mistica»38 o «spirituale», «miracolo», «mistero»39 o «trasfigurazione»40 e altre simili che indicano
l’inadeguatezza degli strumenti d’analisi usati dalla critica e, simmetricamente, il bisogno diffuso di trovare una soluzione (al teatro ma ovviamente non solo al teatro) quasi epifanica che trascenda contraddizioni e ferite
di quegli anni. Non è giudicabile la Duse secondo i paradigmi consueti,
né consueto pare essere il pubblico: non più pubblico ma folla, a cui è
chiesta la partecipazione rituale, la «trepidazione religiosa»41.
Quanta verità oggettiva sulla recita della Duse ci sia in quelle pagine
e quanto invece esse testimonino un modo di vedere e di interpretare la
realtà che in quel preciso torno di tempo inizia a diffondersi in Italia è
rale e simbolico che ha caratterizzato la storia e la formazione di una compagine nazionale e statale o di una singola comunità». P. Sorcinelli, Viaggio nella storia sociale, Bruno
Mondadori, Milano 2009.
36
M. Isnenghi (a cura di), L’Italia in piazza. I luoghi della vita pubblica dal 1848 ai
giorni nostri, cit.
37
S. d’Amico, Il ritorno trionfale della Duse al teatro. Una rappresentazione che assume il
carattere di rito nazionale, in «L’idea nazionale», 5 maggio 1921.
38
p. g. [P. Gobetti], Cronache d’Arte. Eleonora Duse, in «L’ordine nuovo», 12 maggio
1921.
39
R. Simoni, Eleonora Duse al Manzoni, in «Corriere della sera», 7 giugno 1921.
40
S. d’Amico, Il ritorno trionfale della Duse al teatro, cit.; m. f., Manzoni. Eleonora Duse
ne “La porta chiusa”, in «La sera», 13 giugno 1921.
41
Ibidem.
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questione molto interessante. Perché da uno studio attento di tutto il materiale critico, da un’analisi delle ricorrenze terminologiche, quel che pare
evidente è che proprio la costruzione della memoria dell’evento subisca
profondamente le pressioni dell’ansia diffusa nella cultura di quegli anni
di trovare una soluzione non solo al teatro ma complessivamente alla vita e
alla cultura di un’intera nazione. Per questo il ritorno di Eleonora Duse
può essere considerato un luogo della memoria collettiva, oltre che teatrale, su cui è importante tornare a riflettere anche per rintracciare, fra le pieghe di quella memoria così fortemente condizionata dai tempi, un racconto diverso. Anche solo più complesso. Anche solo più radicato nella storia.
E togliere la Duse dal piedistallo della sacralità per riammetterla, attraverso una critica della memoria, nella dialettica della storia. A questo, anche a
questo, può servire una costruzione di una memoria d’archivio, che conservi e tuteli i documenti del passato, perché rientrino nel circolo dei processi di memorizzazione e di ridiscussione del presente.
3. Memoria orale e teatro
Concludo la mia riflessione con una proposta di ricerca che integra il
discorso sulla memoria e apre un ulteriore capitolo della storiografia teatrale: l’avvio negli studi sul teatro di un lavoro attento e scientifico sulle
fonti orali, che reinterpreti in modo pertinente al linguaggio specifico della
scena la ricca riflessione ormai decennale e la metodologia di ricerca propri della storia orale42.
42
La bibliografia sulla storia orale è molto ampia. Ricordo solo alcuni titoli particolarmente significativi. Sul piano internazionale: P. Thompson, The Voice of the Past: Oral
History, Oxford University Press, Oxford 1988; R. Perks, A. Thomson (a cura di), The Oral
History Reader, Rutledge, London 1998; D. Dunaway, W. K. Baum (a cura di), Oral History. An Interdisciplinary Anthology [second edition], Altamira Press, Walnut CreekLondon 1996. In Italia, oltre ai già citati L. Passerini, Storia e soggettività. Le fonti orali, la
memoria, cit.; A. Portelli (a cura di), Storia orale, cit.; G. Contini, A. Martini, Verba manent.
L’uso delle fonti orali per la storia contemporanea, cit.; C. Bermani (a cura di), Introduzione
alla storia orale, cit.; cfr. anche: A. Portelli, Storie orali. Racconto, immaginazione, dialogo,
Donzelli, Roma 2007; C. Bermani, A. De Palma (a cura di), Fonti orali. Istruzioni per l’uso,
Società di Mutuo Soccorso Ernesto De Martino, Venezia 2008; P. Sorcinelli, Viaggio nella
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Donatella Orecchia
La specificità relazionale delle fonti orali, che, a differenza delle fonti
tradizionali preesistenti al lavoro dello storico sebbene da lui portate alla
luce e interpretate, sono costruite in presenza del ricercatore e con il suo
apporto partecipante, è poi particolarmente interessante nel caso del teatro, di un linguaggio artistico cioè che proprio sulla relazione fonda la
propria specificità. Attraverso una metodologia di ricerca duttile e strutturalmente relazionale, appunto, sarà possibile così spostare il fuoco
dell’attenzione dalle questioni che riguardano il “testo” a quelle che ruotano intorno alla “relazione”, all’interno della quale si includono la relazione che fonda l’atto spettacolare (e che di volta in volta viene ridiscussa
nel processo costruttivo della memoria) così come quella che si stabilisce
fra testimone e ricercatore; la relazione fra pubblico e privato, fra oralità
(dell’intervistato) e scrittura (dello storico), fra il presente in cui si parla e il
passato di cui si parla.
E dunque, a integrazione delle fonti tradizionali, le fonti orali possono essere utili a) per produrre documenti nuovi (le interviste), integrare le
fonti scritte esistenti, coprire le lacune di dati e informazioni; b) per documentare le esperienze di quelle figure del teatro che la storiografia tradizionale non colloca al centro dei propri interessi: i comprimari, le maestranze e, soprattutto, il pubblico; c) non da ultimo, per studiare il
processo di costruzione della memoria del teatro.
In questa direzione si potranno avviare percorsi di ricerca che permetteranno di riflettere in modo articolato, da un lato, su quanto la memoria
del teatro funzioni come trasmissione di tecniche e saperi e quanto questo
incida sugli artisti43, dall’altro, sulle modalità di fruizione del teatro e sulle
sue trasformazioni, sugli aspetti legati al costume e sul rapporto con il
contesto sociale, sulla relazione fra memoria dello spettatore e creazione di
un gusto diffuso.
Complessivamente, aprire gli studi teatrali alla storia orale è un modo
per interrogarci sul processo di costruzione della memoria individuale e
storia sociale, Bruno Mondadori, Milano 2009; M. Pistacchi (a cura di), Vive voci.
L’intervista come fonte di documentazione, Donzelli, Roma 2010.
43
In questa direzione un significativo esempio è la raccolta di testimonianze sullo
spettacolo Aspettando Godot della Compagnia del Teatro della Ripresa nel 1964 a cura mia
e di Armando Petrini: Materiali per una storia del teatro di contraddizione. Aspettando Godot
(1964), in «L’asino di B.», n. 5, marzo 2001.
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collettiva sul teatro, approfondendo le modalità del suo racconto nella
contemporaneità, in una dialettica viva fra testo e contesto che per gli studi
teatrali è quanto mai necessaria. Si andrà così a costituire una parte del
patrimonio di quella memoria d’archivio di cui la Assmann ha scritto44.
44
A questo proposito rimando al Progetto ORMETE – Oralità, Memoria, Teatro
(www.ormete.org), da me ideato e coordinato con Livia Cavaglieri, che intende appunto
verificare la possibilità di un fertile incrocio tra teatrologia e storia orale.