TESTORI. La grazia di poter essere "attori" per sempre

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TESTORI. La grazia di poter essere "attori" per sempre - La ragione del cuore il blog di Giovanni Fighera
I promessi sposi alla prova, una rilettura del capolavoro di Alessandro Manzoni adattata da
Giovanni Testori alla struttura del meta teatro pirandelliano.
Un’opera teatrale contemporanea, composta da Giovanni Testori, ben documenta l’importanza
della presenza di un maestro nella vita. Si tratta de I promessi sposi alla prova, in cui Testori
adotta la struttura del metateatro o teatro nel teatro tipica del pirandelliano
Sei personaggi in cerca d’autore
per rileggere il grande capolavoro di Manzoni.
Non a caso Testori parte dal capolavoro manzoniano per affrontare il tema del maestro.
Manzoni aveva, infatti, fin da giovane sentito l’importanza di un maestro nella vita. A vent’anni,
alla morte di Carlo Imbonati, gli aveva dedicato un carme, in cui il defunto gli consegnava, in
sogno, una sorta di testamento spirituale per crescere nella verità di uomo: «Sentir […] e
meditar: di poco/ esser contento: da la meta mai/ non torcer gli occhi: conservar la mano/ pura e
la mente: de le umane cose/ tanto sperimentar, quanto ti basti/ per non curarle: non ti far mai
servo:/ non far tregua coi vili: il santo Vero/ mai non tradir: né proferir mai verbo,/ che plauda al
vizio, o la virtù derida» (1806). Per Testori il maestro è una persona che «scopre che insegnare,
oggi, è ritornato necessario». E ancora «non è qualcuno che opprime con il suo sapere; è, più
cristianamente, qualcuno che consegna a dei giovani la propria esperienza e intanto si
arricchisce della loro giovinezza. Un transfert religioso. […] Cerca di recuperarli al senso del
loro mestiere, cioè […] alla loro umanità. Cerca di farli tornare uomini in quella «parola» che è il
loro mestiere».
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Testori non intende «spiegare il Manzoni, metterlo in scena, quanto verificarlo oggi». I promessi
sposi
son
o «un romanzo della storia e il popolo incarna questa storia nella libertà più assoluta […]. Dio
non è una presenza che sovrasta i personaggi, ma che anzi li segue, li accompagna affinché
ognuno, gli umili e i poveri come i potenti, arrivino ad un riconoscimento del senso e del
significato» (Testori).
A partire dall’impostazione del dramma pirandelliano, anche Testori mette in scena sei
personaggi (gli attori che interpretano Renzo e Don Rodrigo, le attrici che rivestono i panni di
Lucia, Agnese, Perpetua, Gertrude) guidati da un regista/maestro, che incarnerà talvolta anche
altre parti, in modo da non introdurre un settimo personaggio contraddicendo in tal modo
l’impalcatura del dramma pirandelliano
L’azione teatrale si svolge in due giornate. All’inizio della prima il maestro insegna ai suoi
allievi a recitare la propria parte. Li introduce, quindi, al proprio mestiere: «Il mestiere! Perché il
mestiere, dal latino ministerium … Ministero… Forse sbaglio. Del resto, anche se sbaglio, è
ugualmente bellissimo. Mestiere uguale a ministero». Il proprio mestiere è come un compito che
uno si assume nella vita, una responsabilità nei confronti degli altri, una sorta di missione. Ben
cosciente, però, che i suoi attori/alunni si sono lasciati irretire dal pensiero dominante, il maestro
dice loro: «So bene che, nella summentovata pausa, vi siete venduti, tutti e tutte, a quelle
perenti […] fandonie che han finito per togliervi, ammesso che nascendo ne abbiate mai avuto,
ogni gusto, ogni senso e ogni regola di che sia il mestiere del recitante; il mestiere, ecco, del
farsi, dell’essere, qui, attore; e, attore, per sempre». Ecco, l’uomo ha perduto il gusto di vivere,
di crescere e di scoprire la propria natura. Il maestro decide, allora, di reimpostare con gli attori
il «problema della recita». Interviene in maniera esagerata, quasi ossessiva. Insegna ai ragazzi
il valore della parola: «La parola redenta! Già, redenta! […] La parola che si fa ossa, carne…
Pensate un po’; anzi, pensiamo, meditiamo; lei, la parola, che s’inossa, s’incarna, si fa realtà,
non è forse il senso e il mistero stesso di queste assi? Il senso e il mistero mio, tuo, suo,
nostro?». Il maestro si fa nuovo Adamo che rinomina tutte le cose. Nominare la realtà significa
conoscerla, quindi entrare in rapporto con lei e addentrarsi nelle sue profondità, in poche parole
introdursi alla realtà. L’evangelico «il verbo si fece carne» investe ogni ambito dell’esistenza e
invita a recuperare un rapporto carnale e viscerale con la realtà, in un contesto culturale in cui
pensiero e ideologia sembrano avere il sopravvento su tutto. È la realtà, invece, che con la sua
concretezza educa, provoca, sollecita.
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Il maestro lascia la libertà ai suoi attori, non li mortifica, ma li sprona a librarsi verso il cielo: «Io
le ali non le spezzo! Le aiuto; a librarsi; come quelle dei falchi; o delle poiane; le rimpolpo; le
ringagliardisco, io, le ali». Gli attori sempre più fanno proprie le sue direttive e iniziano a
«testoreggiare», per usare le parole del testo, cioè a far diventare carne le parole, a renderle
realtà, a far rivivere la storia. Così, anche quel pudico e casto amore dei due fidanzatini nei Pro
messi sposi
si connota di fisicità, di desideri sopiti, di attese di soddisfazioni, pur conservando l’elevatezza
che Manzoni le ha conferito. Renzo arriva ad affermare che quando ha incontrato l’amore,
Lucia, ha capito perché è venuto al mondo. Siamo, infatti, nati per amare. Bellissime sono
anche la semplicità e la concretezza con cui Agnese, Renzo, Lucia vivono il cristianesimo. Di
fronte alle difficoltà, Agnese consiglia: «Invece di finir allagati dalle lacrime, diciamo su un
rosario».
La figura di fra Cristoforo viene incarnata dal maestro così come era stata interpretata da lui la
figura di don Abbondio. Non sarà certo un caso che il Maestro interpreti sia chi ha abdicato dal
suo compito di educatore (Don Abbondio) e chi, invece, l’ha assunto fino in fondo, addirittura
fino a sacrificare la vita (il frate). Ma fra Cristoforo non è sempre stato così. Lo ha cambiato
l’incontro con Cristo. Così può dire: «L’amore, la più grande ditta che esista, perché non
guadagna; perché si limita solo e sempre a dare. Fu allora, e fu all’amore, che Lui mi convertì.
Non che, con questo, presumessi di cambiare la natura che m’era stata data; bensì, di mutarne
il cammino».
Grande attenzione è rivolta anche al dramma che vive l’altro grande convertito del romanzo,
l’Innominato. Straordinario per profondità è il discorso in cui l’Innominato, guardando dentro di
sé, sorprende la radice del proprio male e della propria azione: «Ci sono momenti, ore ci sono,
in cui sembra essere stato il niente, proprio e solo lui, il niente, ciò che abbiamo corteggiato,
desiderato ed amato; ciò per cui abbiamo, sempre, tutto osato. Allora – vedi?- anche una
fogliolina che tremi lì, sull’albero, par troppo piena di vita e bisogna strapparla». Un abisso di
niente si apre nel cuore di fronte al male e al passato di iniquità. L’Innominato osa guardarlo e
starci di fronte, comprendendo che la sofferenza, il dolore, la malattia sono il prezzo del
peccato, da offrirsi per l’espiazione: «La paura, come la malattia e la morte, sono,
teologicamente parlando, lo stipendium. Stipendium peccati, intendo. E io; io, sì, che per un
momento urlo ancora come Innominato, quello
stipendium
, cioè quel prezzo, che è necessario, che bisogna – è inutile illuderci- bisogna- in un modo o
nell’altro, pagare». La conversione dell’Innominato si apre alla speranza di una vita diversa e
alla comprensione della sofferenza alla luce del mistero della croce di Cristo. Al contrario, verso
la fine del dramma, Don Rodrigo non vorrà guardare il proprio male, ma cercherà di strapparlo,
svellerlo con la lama del coltello per non doverci fare i conti. Anche per lui sarà indispensabile
incontrare la carità, la perfetta gratuità di Cristo, anche lui dovrà essere perdonato e abbracciato
senza che sia lui a chiederlo. Il Maestro dice: «Occorre che non lui domandi pietà e perdono,
bensì che altri, da sé, spontaneamente, quando lui ancora non intende chiederli, pietà e
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perdono gli offrano». Si intravede qui il mistero della comunione dei santi che è parte del
mistero dell’Essere e che è carità. Il mistero dell’io è la «fraternità».
Veniamo allora alla conclusione del dramma di Testori. Come il romanzo I promessi sposi si era
concluso con il sugo della storia, cioè con due parole che sintetizzassero cosa avessero
imparato i due sposi novelli e più in generale che cosa l’autore avesse voluto comunicare al
lettore, anche il Maestro si congeda dalla compagnia di attori con una sorta di testamento
spirituale. Lascia andare i suoi allievi auspicando che possano ora loro creare nuove
compagnie, diventare a loro volta maestri. Così come nella parabola esistenziale il figlio diventa
a tempo opportuno padre, allo stesso modo l’allievo diventerà maestro se avrà saputo, a tempo
debito, essere pienamente allievo. Ecco allora il congedo del maestro: «Cari, cari ragazzi! Così,
ecco, così, come nelle scuole d’un tempo! Anzi, di tutti i tempi! […] Voi, superata questa
lunghissima prova, trarrete dal vostro amore una nuova, grande famiglia. Come attori, non solo
a voi, ma a tutti, cosa si può dire, congedandosi, il vostro vecchio maestro se non che, superata
questa lunghissima prova, potete andar pel mondo, costruire altrettante compagnie, diventar,
ecco, voi stessi maestri… Ve n’è bisogno. E voi, adesso, siete pronti. Se, poi, nella vita o qui,
sulla scena incontrerete, com’è giusto, difficoltà, dolori, ansie, problemi, battete alla sua porta.
Battete con volontà, con forza, con amore. Lei, v’aprirà».
Chi ci risponderà? La speranza.(pubblicato su Il Sussidiario.net del 27-4-2013)
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