QUANDO UN PROFESSORE DIVENTA MAESTRO, NON MUORE MAI di Laura Slener La scomparsa di Umbeto Eco, il grande semiologo, mi ha lasciato completamente disorientata. E mi scuso se queste parole che andrò raccontando, prevalentemente ricordi personali, risulteranno confuse e poco efficaci, ma l’improvvisa perdita di un intellettuale rappresenta per tutti un momento di smarrimento morale. Sono stata una sua studentessa di filosofia negli anni ’70. All’Università di Bologna, in quegli anni, quando si parlava del Professore si faceva riferimento a Umberto Eco, con grande invidia di tutti i suoi colleghi, non meno illuminati. E pensare che non aveva ancora pubblicato “Il nome della rosa”, che lo ha reso famoso in tutto il mondo. Per partecipare alle sue lezioni bisognava mettersi in coda nell’aula III di in Via Zamboni 38. Mescolarsi con gli studenti del DAMS che, noi di filosofia, snobbavamo non poco. Ricordo ancora che l’unica fotocopiatrice a gettoni della facoltà si surriscaldava nel riprodurre i testi e gli appunti delle sue lezioni. Presi da venerazione, fumavamo Merit, emulando almeno un suo vizio non potendo condividere nient’altro. La cosa che stupiva di più era la sua accessibilità: i suoi studenti potevano dialogare con lui come Cratilo con Socrate e sentirsi alla pari, filosofo tra filosofi, per il puro piacere della speculazione. Dialoghi che si prolungavano nella città, nelle osterie, sotto i portici di Bologna. Il motivo di tanto successo era dovuto alla sua doppia attitudine: era il filosofo tra i più significativi del ‘900, un raffinato massmediologo e semiologo, ma anche un uomo con un forte senso dell’ironia. Era estremamente divertente. Riusciva a rendere ogni lezione memorabile, mai noiosa. Le sue “complesse” argomentazioni erano sempre arricchite da aneddoti tratti dalla vita quotidiana che semplificavano ogni concetto rendendolo condivisibile. Ci ha insegnato a vedere cosa c’è dietro e dentro le parole. Per questo da professore è diventato Maestro, il Maestro che colpisce con la sua ironia dissacrante. Ci ha insegnato che per comunicare non basta il mezzo, carta e penna (oggi internet), ma è necessario trasmettere idee. “Comunicare significa attivare nella mente di qualcuno un’idea che c’era nella nostra mente”. L’ultima volta l’ho incontrato in occasione della Milanesiana. Ancora una volta mi ha sorpreso per la sua capacità di leggere il mondo, di essere attento anche alla nuova comunicazione. Sebbene il Maestro fosse estremamente competente del mezzo digitale, lo considerava un rischio per l’inevitabile perdita della memoria. L’uomo delega una macchina per ricordare ciò che il nostro cervello non immagazzina più. Recentemente andava raccontando che nelle biblioteche sono conservati testi scritti centinaia di anni fa, e di serbare qualche dubbio sulla conservazione dei saperi sui supporti elettronici. Ad esempio i computer attuali non leggono più i dati conservati su floppy disk. Gli capitò di smarrire la chiavetta in cui aveva registrato alcune sue pubblicazioni e di aver vissuto attimi di disperazione. Da qui la sua famosa sentenza “libro manent, chiavetta volant”. Riteneva che internet fosse come una moderna autostrada in cui transitano numerosi camion, sui quali non c’è niente e nessuno. Una grande via di comunicazione che trasporta il nulla: ” tanto rumore , senza segnale”. “L’essere umano è adattabile a qualsiasi situazione,” diceva in una sua lectio magistralis, come per cogliere gli aspetti positivi della trasformazione: ”la mia generazione sapeva girare i bottoni, quella di mio figlio ha appreso a premere i pulsanti, i miei nipoti sanno far scorrere il dito su un’immagine per cambiare i messaggi. Ricordo l’episodio del bambino di 5 anni che si ostinava a far scorrere il dito su una foto di giornale per ingrandirla”. Così attraverso una sottile ironia osservava il cambiamento dei tempi. Certamente non era contro il mezzo, ma suggeriva una maggiore consapevolezza nel suo utilizzo. Ho sempre ben chiare le sue parole “ il mio linguaggio è la somma globale di me stesso: perché l’uomo è il pensiero”. Vi è produzione segnica solo se i segni sono correlati ad un contenuto, ad un’idea significativa, altrimenti sarà come la parola “rabarbaro” pronunciata dalle comparse della TV per emulare il parlato. Siamo tutti sostituibili, è vero. Ma certi uomini non lo sono perché rappresentano la coscienza dell’umanità, la parte bella e buona dell’essere umano, modelli verso cui tendere. Anche fallendo, come spesso accade nel faticoso tentativo di raggiungerli, devono pur sempre rappresentare il nostro punto d’arrivo.