Socrate analista Fabio Polidori Io dovrei parlare di Socrate. In realtà non so quanto parlerò di Socrate; e, se ne parlerò, ne parlerò comunque indirettamente, attraverso un altro; un altro personaggio, che ne parla, le cui parole anche nel suo caso sono state poi trascritte, un po’ come nel caso di Socrate. Ad ogni modo questa è solo una analogia che mi serve per introdurre questo altro che parla di Socrate attraverso il quale parlerò di Socrate, e che è Jacques Lacan. Non mi dilungherò su di lui, su quanto ha pensato e prodotto intorno alla psicoanalisi e anche alla filosofia – ci vorrebbe ben più di una lezione –; oltretutto non è di lui che voglio parlare, ma vogliamo sentirlo parlare di Socrate. E forse anche qualcosa in più: vogliamo che faccia parlare Socrate, vogliamo sentire come fa parlare Socrate, cosa gli fa dire, come si può farlo parlare oggi. Naturalmente la questione è anche: come si può far parlare Socrate all’interno del discorso psicoanalitico? Ma è un aspetto che toccherò solo marginalmente, e quasi soltanto per curiosità. Quel qualcosa in più che invece cercherò di mettere a fuoco, sempre attraverso Lacan ma con intenzioni diverse dalle sue, ha invece a che fare proprio con il discorso filosofico: con il modo in cui Socrate abita il discorso filosofico, con il modo in cui il discorso filosofico continua a ospitare in sé la "figura" di Socrate. La "figura" di Socrate: non il suo pensiero, non le sue parole, non i significati o i tratti della sua personalità, ma il suo ruolo, il suo posto. Come se insomma, è l’ipotesi che voglio discutere oggi, Socrate – non il personaggio storico ma, ripeto, la "figura" – potesse tenere un luogo, coincidere addirittura, forse, con un luogo, e cercheremo di vedere quale, del discorso filosofico. Ma prima cerchiamo di contestualizzare, molto in sintesi, Socrate in rapporto a Lacan, o viceversa. Dal 1953 al 1980 Lacan tiene annualmente un seminario, dedicato ad analisti in formazione e non, cui partecipano anche personaggi molto noti del mondo della filosofia. Nel 1960-1961 Lacan decide di dedicare il seminario alla questione del transfert.(1) L’anno prima il seminario era stato dedicato all’etica della psicoanalisi, e una buona parte, verso la fine, era stata condotta attraverso un lungo commento di Lacan all’Antigone di Sofocle.(2) Questo commento gli era servito anche per mettere a fuoco la questione della morte a partire dal tragico e, appunto, attraverso la figura tragica di Antigone. Quasi a prolungare la sua permanenza presso la grecità, il seminario sul transfert si apre con l’annuncio che buona parte delle "lezioni" – alla fine risulteranno essere più della metà – verranno affrontate attraverso il commento di un dialogo di Platone, il Simposio. Si tratta, rispetto al commento dell’Antigone, di un prolungamento, ma fino a un certo punto; perché, mentre il desiderio di morte di Antigone era stato letto attraverso i tratti tragici del personaggio, il desiderio di morte che Lacan, quasi subito all’inizio, ci fa vedere in Socrate – anzi: attraverso cui introduce la figura di Socrate – assume un aspetto del tutto diverso. Socrate non è affatto un personaggio tragico nel senso di Antigone. E a questo proposito Lacan ci ricorda che Socrate è uno che con la dimensione del tragico ha ben poco a che fare; anzi, dice Lacan, non ne capisce niente: e ci fa pensare per esempio a quello che ne scrive Nietzsche, il quale, come è noto, fa risalire a Socrate la fine della tragedia e l’inizio della razionalità e della decadenza. E ci rimanda addirittura allo stesso Platone, il quale, nel Gorgia, ce lo rivela, facendo fare a Socrate la parte di colui che liquida la tragedia in poche righe, e come se fosse una "retorica come un’altra". (3) E tuttavia, insiste Lacan, c’è un desiderio di morte in Socrate. A leggere l’Apologia sembra davvero, sulla base delle risposte che Socrate dà ai suoi accusatori e ai suoi giudici, che in fondo non gliene importi molto di salvare la pelle; anzi, sembra di trovarci di fronte, dice Lacan, alla "natura enigmatica di un desiderio di morte".(4) Cosa vuol dire? Di quale natura si tratta? Per Lacan, questa natura del desiderio di morte in Socrate ha a che fare essenzialmente con la sua atopìa, con il suo non avere luogo, secondo una celebre espressione di Platone. E, soggiunge Lacan, soltanto un demone (altro elemento difficile a collocarsi, né uomo né dio, lo vedremo meglio più avanti; e comunque è ciò che costituisce la natura di Socrate, lui stesso lo dice) "sostiene l’atopìa di Socrate".(5) Questi due termini, atopìa e dàimon, sono dunque quelli che cercheremo di tenere presenti e di cui ci serviremo per gettare uno sguardo sulla figura di Socrate, sempre che ce ne sia una, e comunque tenuto conto che forse non ce n’è una sola. Dunque, come dicevo prima: non si tratterà tanto di inquadrarla, di delimitarla o di chiarirla, questa figura; quanto piuttosto di ritrovare in essa qualcosa che ha a che fare, più che con un personaggio, con un "luogo" (lo chiamo così; potremmo anche chiamarlo "aspetto" o "dimensione") del discorso filosofico. Ciò che "sostiene" Socrate – uso l’espressione di Lacan di cui va mantenuto il doppio senso: nel senso di ciò da cui Socrate è sostenuto, la sua "natura"; ma anche nel senso di ciò che Socrate sostiene: sostenere come si sostiene una parte, un ruolo – è forse anche ciò attraverso cui si sostiene il discorso filosofico. Ciò che sostiene il discorso filosofico: nel senso, se vogliamo, di ciò che sta sotto (potremmo chiamarlo forse "fondamento"?), e che perciò non si vede, di ciò che non si dichiara. Con un po’ di azzardo, si potrebbe dire: di ciò che il discorso filosofico rimuove, e cioè di ciò che, proprio per questo e secondo una modalità niente affatto esplicita, continua tuttavia a parlare nel discorso filosofico. E con questo forse diventa un po’ più chiaro l’uso che possiamo fare di Lacan, al di là del fatto di riportare quanto dice e tenuto conto che non si tratta necessariamente di assumere gli stessi obiettivi. Lacan vuole parlare del transfert, e lo fa attraversando Socrate; tutto quel che dice è in fondo diretto in questo senso. Per noi si tratta invece di una posta in gioco forse più alta: e cioè di riuscire a individuare in Socrate e attraverso le parti che sostiene nel Simposio di Platone (ma forse non solo) qualcosa – la chiamo una "figura", ma è anche una modalità, anche una strategia – del discorso filosofico. Comunque, tanto per sapere come finisce con il Socrate di Lacan: alla fine del Simposio, Lacan gli fa fare la parte dell’analista, gli fa fare il ruolo di colui che dà, in senso vero e proprio, in senso analitico, una interpretazione ad Alcibiade. A questo punto, alcune cose del Simposio andrebbero magari ricordate, al di là del fatto che questo dialogo platonico è famoso soprattutto perché vi si parla dell’amore. E se ne parla in maniera alquanto rocambolesca, attraverso vari scenari, e anche qualche colpo di scena. In breve: vari personaggi, tutti ovviamente di rango, gente della buona società, si riuniscono a casa di Agatone; questi, il giorno prima aveva vinto le gare tragiche. Tutti avevano festeggiato con lui e si erano sbronzati a tal punto che all’indomani, riunitisi per banchettare, decidono di non ubriacarsi; non ce la fanno più, non reggerebbero una seconda sbornia. E decidono di parlare di Amore; con un certo ordine, incominciando da destra verso sinistra. Insomma, si danno delle regole. Quando tocca a Socrate, che è l’ultimo, questi osserva che fino a quel momento tutti avevano fatto l’elogio di Amore; il che significa, appunto, che lo hanno elogiato, ma non per questo, anzi, proprio per questo non hanno detto la verità su Amore. E Socrate, prima di incominciare il suo discorso, si schermisce: certo non può mettersi a parlare ora, dopo Agatone (che è un maestro di eloquenza), e alla stessa maniera, negli stessi termini, senza rischiare figure meschine. E così decide di non fare un elogio di Amore; vuole parlarne bene, certo, ma vuole soprattutto dire la verità. Dunque comincia, a modo suo, quel modo che tutti conosciamo bene: Amore è amore di qualcosa o di nulla? Di qualcosa. Di qualcosa che si possiede o no? Certamente no. Ma se Amore per esempio desidera la bellezza, vuole dire che non ce l’ha; ma allora Amore è brutto… E proprio qui Socrate si ferma. Cambia registro. Forse per non deridere troppo Agatone (era a lui che faceva le domande); forse. Comunque si ferma e si mette a riportare il famoso discorso di Diotima (sul quale ritornerò in seguito). Finito il discorso, ecco il colpo di scena: entra Alcibiade, altro personaggio di spicco nella Atene di allora, un personaggio tanto importante – e, in quell’occasione, anche tanto ubriaco – da modificare le regole: si mette infatti a parlare non di Amore, ma di Socrate. Cioè del suo oggetto di amore. E tutto ciò – dettaglio non trascurabile della scena – dopo essersi messo a sedere tra Agatone e Socrate. E ne racconta davvero di carine, con molta sincerità, come del resto si tende a fare quando si è sbronzi: non solo si mette a parlare delle grandi e superiori qualità di Socrate, ma anche di tutti i corteggiamenti che gli ha dedicato e delle magre figure che Socrate gli ha fatto fare, non cedendo alle sue lusinghe. Anzi, a quel punto, e proprio lì, di fronte a tutti, Socrate gli fa rimediare un’altra magra figura. Perché gli dice che tutto il suo discorso, il discorso di Alcibiade, ha soltanto lo scopo di allontanare Socrate da Agatone, perché in realtà ciò che Alcibiade vuole è che Socrate ami solo lui, mentre Agatone solo da Alcibiade deve essere amato. E con ciò si rivela però che il vero oggetto di amore di Alcibiade non è Socrate, ma Agatone. Niente male come intreccio. E bel colpo da psicoanalista, osserva Lacan; è una vera e propria interpretazione. In una situazione che ricorda abbastanza da vicino quella della seduta analitica – dove l’amore di transfert non ha come oggetto l’oggetto del transfert, cioè l’analista, ma un Altro – parlando di Socrate, dichiarandogli il suo amore, Alcibiade parla in realtà di un altro, parla di Agatone. E questo, diciamo, è a grandissime linee l’esito, la conclusione del percorso di Lacan. Ma, dicevo, non è principalmente per questo esito che ci interessa il discorso di Lacan. Non è in questione una applicazione della psicoanalisi alla filosofia, né viceversa. è in questione piuttosto la figura di Socrate in quanto emblematica del modo di sostenersi del discorso filosofico. E per vederlo cerchiamo adesso di raccogliere qualche elemento su cui Lacan ci fa cadere l’occhio nel corso del suo commento. Per trasformare Socrate in analista, Lacan ha bisogno di introdurre nella sua figura dei tratti che non sono affatto privi di importanza e interesse, e non solo per i suoi scopi. Tutte cose che, del resto, si conoscono abbastanza. Due di questi tratti li abbiamo già indicati: la atopìa di Socrate, e il suo demone. Potremmo anche considerarli una "spersonalizzazione" (forse ha a che fare con quello strano desiderio di morte): ecco allora che già questi due tratti ci consentono di intendere la sua "figura" anche come qualcosa che scompare, o qualcosa da cui scompare, per esempio, una dimensione individuale, o soggettiva; e anche per questo potrebbe forse trasformarsi, e riapparire come una funzione di discorso. Del resto, la sua stessa posizione nel transfert con Alcibiade ce lo consente: lì Socrate è una funzione, un ruolo, un luogo cui Alcibiade si rivolge per dire – inconsapevolmente – una verità che sta altrove, che vale per un altro. E per quanto qui Socrate riveli un aspetto abbastanza inedito – di solito è molto più sornione e "ironico" con i suoi interlocutori, e certo con loro non fa la parte dell’analista o del terapeuta, ma semmai quella dell’educatore – possiamo da qui cominciare a seguire una pista che ci porti in un contesto più generale, e più ampio. Una pista che ci porti a dire qualcosa di più circa quel particolare rapporto con la verità che Socrate definisce come un sapere di non sapere e che, vuole la tradizione, inaugurerebbe la ricerca filosofica non naturalistica. E che forse possiamo ritrovare presente, ma secondo la modalità della rimozione (o magari soltanto un po’ defilata e sullo sfondo), nelle varie logiche e strategie del discorso filosofico; soprattutto nella sua pretesa – costante, infinita, sempre ripetuta – di giungere alla verità. Cerchiamo allora di dire qualcosa di più su questa che propongo come una traduzione della "figura" di Socrate in figura di discorso. E lo facciamo, sempre aiutati da Lacan, andando a vedere come possiamo interpretare quello che è un passo, un episodio molto famoso, e decisivo, di Socrate: la sua fuga nei lògoi. Nel Fedone Socrate racconta la sua storia, una sorta di autobiografia intellettuale, di come passò dalla ricerca nelle cose della natura a un’altra ricerca, a un "nuovo modo per la ricerca della vera causa": "…stanco com’ero di tali indagini [sulla natura], credetti bene guardarmi da questo, che cioè non mi capitasse come a coloro che durante una eclissi contemplano e indagano il sole: alcuni infatti ci perdono gli occhi, se non si limitano a considerarne l’immagine riflessa nell’acqua o in qualche cos’altro di simile. E così pensai anch’io, e temetti mi si accecasse del tutto l’anima a voler guardare direttamente le cose con gli occhi e a cercare di coglierle con ciascuno dei sensi. E mi parve che dovessi rifugiarmi nei discorsi (lògoi), e considerare in essi la verità delle cose".(6) è un gesto decisivo, dicevo. Che non consiste tanto nel riportare la ricerca dalla natura all’uomo (come vuole per esempio la lettura di Cicerone), né tutte le cose all’uomo (come i sofisti, e Protagora in particolare), ma nel fatto che, come dice Lacan, "bisogna anzitutto garantire il sapere". Ciò che Socrate scopre, e che gli consente di fondare la scienza, l’epistème, "è che il discorso genera la dimensione della verità. […] Quando Socrate dice che è la verità, e non lui stesso, a confutare il proprio interlocutore […] rinvia insomma all’ambito del puro discorso tutta l’ambizione del discorso. […] Socrate riporta la verità al discorso".(7) Questa è la sua atopìa, in fondo, il "da nessuna parte" di un individuo, di una coscienza si potrebbe anche dire, quando entra in gioco la verità. è, se vogliamo, anche un ulteriore elemento di quella che poco fa ho chiamato, magari con un termine un po’ brutto, una spersonalizzazione. La verità non avrebbe più direttamente a che fare con un oggetto (natura), e nemmeno con un soggetto (coscienza), ma la verità sta nel discorso. Forse anche in questo senso possiamo leggere quello che Lacan chiama il desiderio di morte in Socrate: non un desiderio tragico, tra due ordini di leggi; ma il desiderio, quasi la necessità, di un venir meno del soggetto perché la verità possa apparire per ciò che è: non una dimensione individuale ma una dimensione di discorso. Un desiderio che è sostenuto da un demone, si diceva anche: e qui si può pensare a un altro tratto della figura di Socrate. Quel tratto che, secondo ciò che ci racconta nell’Apologia, ha a che fare con l’inizio della sua ricerca, con l’inizio della sua attività pubblica. Quando Socrate incomincia ad andare in giro a fare domande? Quando da un amico gli viene riportata una sentenza dell’oracolo di Delfi, secondo cui egli sarebbe il più sapiente di tutti.(8) E invece di rimanersene tranquillo e contento, Socrate si mette a girare e a fare domande; per realizzare attraverso il discorso la verità del dio, incominciando a demolire il sapere dei sapienti. Ma anche incominciando a demolire la stessa verità del dio. Come se, insomma, quel demone che lo abita, e che oltretutto gli viene da altrove, da un altro, anziché soddisfarlo, producesse un desiderio di verità, quel desiderio di verità che animerà tutti i suoi discorsi. Ma, va sottolineato, un desiderio di verità contro la verità stessa, addirittura – e paradossalmente – contro la verità del sapere di un dio che non può mentire. Ma allora che cosa si esprime propriamente attraverso questa figura senza luogo, questo Socrate che è atopon, il cui desiderio, ciò che porta dentro di sé e che egli stesso chiama demone, proviene dall’altro, dal dio? Che cosa può significare se questa figura la traduciamo nel discorso filosofico? Che cosa accade a ciò che abitualmente chiamiamo il soggetto del discorso filosofico? Anzitutto che esso può qui rivelare una diversa configurazione, e precisamente una configurazione desiderante. Dove il desiderio ci riporta a un vuoto costitutivo, a una mancanza, a un non possesso. Non va dimenticato che il filosofo non è il sapiente, colui che possiede il sapere; ma è colui che desidera il sapere, colui che non ce l’ha. è una questione di vuoto, quel vuoto che allora la figura di Socrate per così dire incarna e che impedisce o, si potrebbe dire oggi, decostruisce ogni sapere positivo. A questo punto sarebbe abbastanza confortevole sbrigarcela così alla svelta e precipitarci a dire che ciò che muove Socrate, ciò che muove il discorso filosofico, è un desiderio; ovvero qualcosa che è dell’ordine della mancanza. Ci manca qualcosa, dunque la desideriamo, e tutto sembra funzionare. Ma questo in fondo andrebbe proprio in direzione opposta rispetto alla atopìa di Socrate, perché ci troveremmo di fronte a una specie di dialettica tra vuoto e pieno e la posizione di Socrate, in quel vuoto, non sarebbe per nulla atopica, anzi, sarebbe ben collocata. E invece è proprio da qui che le cose incominciano a complicarsi, perché il vuoto del discorso filosofico, il vuoto di Socrate che vuole sapere, il vuoto del desiderio non è assolutamente una nozione così maneggevole come sembra. Del resto abbiamo già visto che questo vuoto non è del tutto vuoto: questo vuoto, l’abbiamo visto, sono le parole del dio, quelle che forse possono sembrare addirittura le parole più piene. Eppure queste parole non bloccano il desiderio; semmai, anzi, nel caso di Socrate, lo schiudono, lo suscitano. Proprio da qui possiamo ritornare, dopo questo giro, al Simposio, a ciò che forse è soprattutto la questione di questo dialogo: l’amore, il desiderio, certo, ma anche la loro presenza nel discorso filosofico, più che il loro essere oggetto del discorso filosofico. E per arrivare al loro carattere costitutivo e insieme inafferrabile per il discorso filosofico stesso, alla loro incollocabilità, alla loro atopìa. Alla impossibilità, quasi, di parlarne. Partiamo allora da un punto che di solito non ci viene subito in mente quando pensiamo a Socrate. Quando pensiamo a Socrate ci viene in mente che lui è uno che sa di non sapere. E tuttavia non è proprio così; non è che Socrate non sappia proprio niente. Anzi, come in più parti dice, egli non sa niente di niente, fuorché le cose dell’amore. Per esempio: "… non dirmi più se ami o no perché vedo che non soltanto sei innamorato, ma sei già anche avanti nell’amore. Ché, se in tutto il resto sono mediocre ed inutile, in questo ho come un dono divino di poter riconoscere a prima vista chi ama e chi è amato";(9) ed è, questa, una dichiarazione che Socrate riprende in maniera ancora più chiara proprio nel Simposio, dove afferma di essere stato istruito da Diotima nelle cose d’amore: "fu proprio lei che mi istruì nelle cose d’amore…"; e, prima ancora, quando Eurissimaco propone di parlare di amore: "Nessuno, o Eurissimaco, disse Socrate, ti voterà contro, perché non potrei oppormi certamente io che vo sempre dicendo di non saper altro che cose d’amore…".(10) Eppure, quando si tratta di parlare di amore, di quell’unica cosa che conosce, Socrate non si comporta fino in fondo da Socrate. Incomincia a farlo, lo abbiamo visto prima, riprende le cose appena dette da Agatone e procede a confutarle, però si ferma. Dove si ferma? Proprio nel momento in cui il rigore del suo discorso scientifico, il rigore della epistème, non lo farebbe procedere oltre. Nel momento in cui, volendo affrontare l’amore nella sua verità, volendo dire la verità sull’amore, è costretto a trasformarlo in desiderio, forse così smascherandone la natura, ma sbarrandosi anche la strada per parlare del desiderio in termini scientifici, in termini "filosofici". Amore è amore di qualcosa; amore è amore di bellezza; ma si ama ciò di cui si è privi; amore quindi è privo di bellezza; ma allora amore non è bello; e, se ciò che è bello è buono, amore è anche privo di bontà ecc.(11) Insomma, quando Socrate comincia a cercare di dire la verità sull’amore, quando cerca di dire la verità del desiderio, si accorge che non può andare oltre. E proprio di fronte a quell’unica cosa che conosce. Ecco dunque che Socrate esita, si ferma, esce quasi di scena. Come a significare, senza poterlo dire, che non c’è verità di quel luogo della verità che lui incarna; che lui incarna non solo con la sua mancanza, con il suo vuoto, ma anche, e questo può suonare del tutto paradossale, con l’unica cosa che sa. L’unica cosa che sa, che lo sostiene, come direbbe Lacan, sono le cose dell’amore, ma proprio queste non possono essere oggetto di scienza, non possono essere l’oggetto del suo discorso. Sono le cose che lo sostengono, senz’altro, nel suo desiderio e nel suo discorso, ma proprio come tali gli sfuggono, sfuggono alla fuga nei lògoi che lui è, sostengono il discorso sfuggendogli. Ma allora come si può affrontare il discorso sull’amore? Non sembra che ci siano alternative: proprio introducendo uno scarto rispetto all’epistème. Attraverso una esitazione; forse, più ancora, attraverso una rinuncia. La rinuncia alla onnipotenza della logica del discorso, la rinuncia alla pretesa scientifica, la rinuncia alla epistème. La rinuncia a quella macchina scientifica che proprio Socrate aveva inventato e di cui ci dà un ulteriore assaggio quando si rivolge ad Agatone; una macchina che improvvisamente deve essere bloccata. Ed è proprio qui che Diotima entra in scena; è Diotima che, per bocca di Socrate, riprende proprio il discorso che lui aveva interrotto per dirgli, grosso modo, che l’alternativa bello/brutto, sapiente/ignorante, insomma quella macchina non va più bene, non regge se si parla di amore. C’è anche una via di mezzo tra la sapienza e l’ignoranza. Qual è? chiede Socrate: ""Giudicare con giustezza, anche senza essere in grado di darne ragione. Non sai che ciò appunto non è scienza – perché dove non si sa dar ragione come potrebbe esservi scienza? Né ignoranza – giacché ciò che coglie il vero come potrebbe essere ignoranza? Orbene qualcosa di simile è la giusta opinione, qualcosa di mezzo fra l’intendere e l’ignoranza"".(12) E dopo che Socrate continua a chiedere cos’è amore, ecco la risposta di Diotima: ""Un demone grande, o Socrate. E difatti ogni essere demonico sta in mezzo fra il dio e il mortale. […] Anche fra sapienza e ignoranza [Amore] si trova a mezza strada, e per questa ragione nessuno degli dèi è filosofo, o desidera diventare sapiente (ché lo è già), né chi è già sapiente s’applica alla filosofia. D’altra parte, neppure gli ignoranti si danno a filosofare né aspirano a diventare saggi, ché proprio per questo l’ignoranza è terribile, che chi non è né nobile né saggio crede d’aver tutto a sufficienza; e naturalmente chi non avverte d’essere in difetto non aspira a ciò di cui non crede d’aver bisogno." "Chi sono allora, o Diotima, replicai, quelli che s’applicano alla filosofia, se escludi i sapienti e gli ignoranti?". "Ma lo vedrebbe anche un bambino, rispose, che sono quelli a mezza strada fra i due, e che anche Amore è uno di questi. Poiché appunto la sapienza lo è delle cose più belle ed Amore è amore del bello, ne consegue necessariamente che Amore è filosofo, e in quanto tale sta in mezzo fra il sapiente e l’ignorante.""(13) Una via di mezzo, come abbiamo sentito. Che però, ancora una volta, non possiamo prendere troppo tranquillamente, facendo la media tra un po’ di sapere e un po’ di non sapere. Soprattutto se ci accorgiamo che quando Diotima dice che "Amore è filosofo" non sta solo parlando di un personaggio atopico, di un demone, come lo chiama, ma sta parlando anche, e forse soprattutto, di quella modalità del discorso che quando è discorso filosofico che ha per oggetto amore non può pretendere di darne ragione: non può pretendere di dare ragione di ciò che lo sostiene. Lo abbiamo sentito poco fa: qual è questa via di mezzo tra la sapienza e l’ignoranza, chiede Socrate. E Diotima: "Giudicare con giustezza, anche senza essere in grado di darne ragione". Che potremmo a questo punto tradurre come una figura un po’ bizzarra, paradossale, della verità: una verità che non può dare conto, che non può dare ragione di se stessa. Una verità che, se vogliamo seguire Lacan, è piuttosto dell’ordine dell’inconscio, secondo la scoperta freudiana. Ma se anche non lo volessimo seguire su quella che è una possibile traduzione psicoanalitica del discorso filosofico, non dovremmo tuttavia restare sordi a quel carattere di paradossalità che il discorso filosofico assume quando scopre non solo che è abitato da amore, non solo che amore, già con Socrate e proprio in riferimento al discorso filosofico stesso, è dell’ordine del desiderio, ma soprattutto che di questo desiderio, che sostiene Socrate, che sostiene il discorso filosofico stesso, non si può venire a capo. Si può dire la verità, ma non si può dire la verità sulla verità; non si può darne ragione. Non si può dare ragione, insomma, proprio dell’unica cosa che si sa. Da qui un’ultimissima considerazione. Che cioè del desiderio che abita il discorso filosofico non sappiamo nulla, se non che è, appunto, desiderio. Qui la parola "desiderio" potrebbe sembrare, e forse è, una parola allo stesso tempo piena e vuota; forse potremmo chiamarla una parola atopica. Proprio per questo, se la filosofia potesse familiarizzare con questa parola, forse potrebbe anche imparare ad abitarla. Forse, se imparasse ad abitarla – e in questo non nascondo la incombenza di un compito etico – avrebbe la possibilità non dico di sospendere o arrestare, ma di declinare in maniera diversa la propria macchina scientifica, la propria deriva scientifica; di introdurre nel discorso filosofico ciò che comunque già c’è, il suo desiderio. Non saprei cosa altro dire su questa faccenda del desiderio. Voglio ricordare però che in una seduta del seminario sull’etica, e parlando del desiderio dell’analista, Lacan grosso modo dice che nell’analisi c’è il desiderio dell’analizzato, ma c’è anche il desiderio dell’analista. Solo, la differenza è che il secondo, il desiderio dell’analista, deve essere "un desiderio avveduto".(14) Introdurre il desiderio in filosofia, come Socrate forse sembra avere fatto senza su questo punto essere seguito, e come Lacan indica all’analista che si deve fare, significa forse introdurlo come un desiderio avveduto, come un desiderio che non ceda al desiderio di non vedersi. Note. (1) Jacques Lacan, Le Séminaire. Livre VIII. Le Transfert, 1960-1961, texte établi par Jacques-Alain Miller, Seuil, Paris 1991. back (2) Jacques Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi, 1959-1960 (1986), testo stabilito da Jacques-Alain Miller, edizione italiana a cura di Giacomo B. Contri, Einaudi, Torino 1994; cfr. in particolare pp. 307-361. back (3) Jacques Lacan, Le Transfert, cit., p. 102; il passo del Gorgia cui Lacan si riferisce è probabilmente 502b. back (4) Ibid. back (5) Ibid. back (6) Fedone, 99d-e. back (7) Jacques Lacan, Le Transfert, cit., p. 100; qui Lacan si riferisce a un passo del Simposio, 201c: "La verità, amato Agatone, non puoi contraddire, perché contraddire Socrate non è difficile". back (8) Cfr. Apologia, 21a. back (9) Liside, 204b-c. back (10) Simposio, 201d; 177d. back (11) Cfr. Simposio, 200e-201c. back (12) Simposio, 202a. back (13) Simposio, 202d-e; 203e-204b. back (14) Jacques Lacan, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 377; l’intero passo dice: "Ciò che l’analista ha da dare, contrariamente al partner dell’amore, è ciò che la più bella sposa del mondo non può oltrepassare, ossia ciò che egli ha. E ciò che egli ha, non è nient’altro che il suo desiderio, come l’analizzato, a parte il fatto che è un desiderio avveduto." back Aspetti etici della teoria della reminiscenza* Elisabetta Zannier 1. Introduzione "Sì, cercare ed apprendere sono, nel loro complesso, reminiscenza!" ("Tò gàr zetèin àra kài tò manthànein anàmnesis hòlon estìn"; Men. 81 d 5) (1). "...ogni nostro apprendimento non è altro che reminiscenza..." ("…he màthesis ouk àllo ti è anàmnesis tynchànei òusa…"; Phaed. 72 e 5) (2). Stando alle due icastiche affermazioni ora riportate, il Menone ed il Fedone platonici presentano la teoria della reminiscenza come una teoria prettamente gnoseologica (3): l'anàmnesis la reminiscenza] e la màthesis [l'apprendimento] si equivalgono, per cui apprendere consiste appunto, com'è noto, nell'avere reminiscenza. Ad un esame più approfondito, tuttavia, tale celebre dottrina sembra oltrepassare i limiti della pura gnoseologia, per acquisire anche una valenza etica: i concetti di kathàrsis e di eudaimonìa fondamentali nell'etica platonica- paiono, infatti, strettamente connessi al concetto di anàmnesis. Prima di provare ad evidenziare tali aspetti etici della teoria dell'anamnesi, è necessario, però, soffermarsi brevemente sul termine stesso anàmnesis per richiamare che cosa esso denoti specificatamente nel pensiero platonico- scopo per cui lo confronteremo con un altro termine, ad esso in qualche modo legato, e cioè mnème, ricordo-, e per chiarire, quindi, il possibile significato che la dottrina della reminiscenza (tanto nota quanto, forse, fraintesa) pare assumere. 2. Il concetto platonico di reminescenza La reminiscenza è una funzione di tipo rimemorativo- per cui avere reminiscenza di x significa ricordare x-, ma essa non va confusa con il semplice ricordo, con la greca mnème: Platone, infatti, distingue nettamente e, per certi versi, contrappone anàmnesis e mnème Tale distinzione emerge con chiarezza da un confronto tra i brani di alcuni dei dialoghi in cui compaiono i due termini(4): ad una lettura anche solo superficiale appare evidente, infatti, che il nostro filosofo fa un uso diverso di queste due parole, ovvero che, scrivendo mnème egli?intende indicare qualcosa di differente da ciò a cui, invece, si riferisce scrivendo anàmnesis, e viceversa. Egli, infatti, pare servirsi del termine anamnesi per designare un particolare atto di rimemorazione, di tipo associativo, che può avere per oggetto tanto la realtà sensibile quanto quella intelligibile e che, in quest'ultimo caso, equivale all'apprendimento del vero. Vediamo i testi più significativi sulla base dei quali è stata formulata quest'ipotesi interpretativa (5). Nel Menone, in 81 e 2, Socrate si chiede: "...quello che denominiamo apprendimento è reminiscenza?" ("…hèn kalòumen màthesin anàmnesìs estin"). In 98 a 4, poi, egli precisa: "Proprio in questo [nel ragionamento causale, ovvero nella conoscenza delle cause, delle idee] consiste l'anamnesi …" ("Tòuto d'estìn…anàmnesis…"). Nel Fedone, in 73 b 5, leggiamo: "Tu, dunque, sei in dubbio di questo, in che modo quello che diciamo apprendimento sia reminiscenza?" ("Apistèis gàr dè pòs he kaloumène màthesis anàmesìs estin?"). E in 73 d 8: "...gli innamorati ... accade questo, che riconoscono la lira e al tempo stesso rivedono con la mente la figura dell'innamorato di cui è la lira? Questo è reminiscenza" ("…hoi erastài…pàschousi tòuto: ègnosàn te tèn lýran kài en tè dianòia èlabon tò èlabon tò èidos tòu paidòs hòu èn he lýra? Tòuto dè estin anàmesis"). Quindi, in 76 a 7, Socrate riflette: "...e questo apprendimento [delle idee] sarà appunto reminiscenza" ("...kài he màthesis anàmneis àn èie"). E, in 91 e 6: "...di quel ragionamento in cui io sostenevo che l'apprendimento è reminiscenza..." ("...tòu lògou…en hò èfamen tèn màthesin anàmesin èinai…"). Infine, in 92 c 9 e in 92 d 6 leggiamo: "...l'apprendimento è reminiscenza..." ("...tèn màthesin anàmnesin èinai…") e: "...il ragionamento riguardo alla reminiscenza e all'apprendimento..." ("...ho dè perì tès anamnèseos kài mathèseos lògos…"). Nel Fedro possiamo trovare il termine che ci interessa al passo 249 c 2: "...e questa [l'attività che consiste nel procedere da una molteplicità di sensazioni ad una unità colta con il pensiero] è una reminiscenza di quelle cose che la nostra anima ha visto, quando procedeva al seguito di un dio e guardava dall'alto le cose che diciamo che sono essere..." ("…tòuto d'estìn anàmnesis ekèinon hà pot'èiden hemòn he psychè…") (6). Infine, nel V libro delle Leggi, in 732 b 8, Platone scrive: "la reminiscenza...è l'affluire dell'intelligenza perduta..." ("anàmnesis…estìn epirroè phronèseos apoleipòuses…") (7). L'uso che il nostro filosofo fa del termine mnème, invece, pare sostanzialmente diverso. Il ricordo sembra essere, infatti, per Platone, in primo luogo la facoltà della memoria, ma anche l'oggetto stesso della memoria e la gloria postuma. Facciamo alcuni esempi (8). In Phaed. 96 b 6, troviamo l'espressione "…memoria ed opinione…" ("…mnème kài dòxa…") in un discorso che non tocca nemmeno da vicino il tema del conoscere: Socrate, infatti, sta spiegando ai suoi discepoli, le sue prime esperienze filosofiche, quelle di tipo naturalistico. In Resp. VI 490 b 6, la mnème viene elencata in una lista delle virtù che caratterizzano il vero filosofo: "Tu ricordi che le abbiamo identificate nel coraggio, nella generosità, nella facilità ad apprendere, nella memoria" ("Mèmnesai gàr pou hòti synèbe prosèkon tòutois andrèia, mephaloprèpeia, heumàtheia, mnème") (9). Nel Convito, in 209 d 4, leggiamo: "…lo studio, ingenerando un nuovo ricordo, al posto di quello che è andato via…" ("…melète…kainèn empoiòusa antì tès apiòuses mnèmen…") (10). Infine, sempre nel Convito, in 209 d 4, Platone associa: "gloria e ricordo immortale…" ("…athànaton klèos kài mnèmen…"). La conferma indiscutibile del fatto che anàmnesis e mnème non sono due sinonimi intercambiabili, cioè la conferma di un uso platonico di tali termini niente affatto casuale e privo di significato filosofico, la troviamo, però, nel passo 34 b 2 del Filebo, in cui Socrate domanda a Protarco: "Non diciamo che la memoria [mnème] differisce dalla reminiscenza [anàmnesis]?"; e Protarco risponde: "Giustamente" (11). Il medesimo brano, poi, spiega in che cosa consista tale differenza tra mnème ed anàmnesis: mentre la prima è una funzione passiva, in quanto semplice conservazione della sensazione (soterìa tòinyn aisthèseos; Phil. 34 a 10 (12)), la reminiscenza, al contrario, è una funzione attiva. Essa, infatti, si verifica quando l'anima rivive (analambàne), ripete (anapolèse) sensazioni assenti, ovvero quando recupera un'affezione sensibile oppure una conoscenza il cui ricordo era andato perduto: "Anche quando, avendo perso il ricordo [mnème] sia di una sensazione sia anche di un'intellezione, l'anima la recupera di nuovo in se stessa, da sola (anapolèse pàlin autè en heautè), ecco, anche tutti questi atti dovremmo chiamarli riminiscenze" (13). Quest'attività in cui consiste l'anamnesi prende avvio dalla sensazione ed è, come già accennato, di tipo associativo: avere reminiscenza di x significa percepire y e pensare ad x (associare, dunque, y ad x), in virtù di un legame tra x ed y (14). Tale legame può instaurarsi in seguito ad una somiglianza naturale fra l'oggetto percepito e quello pensato (vedo il ritratto di Simmia e penso a Simmia)- caso nel quale la reminiscenza è diretta-, oppure in seguito all'abitudine ad associare due oggetti dissimili (l'innamorato pensa alla persona amata vedendo la lira che le appartiene) - caso nel quale la reminiscenza è indiretta - (15) L'anamnesi sembra essere, dunque, frutto di una cooperazione tra sensi e ragione: la percezione sensoriale è punto di partenza e stimolo del processo anamnestico, ma, per dare origine a tale processo, essa deve essere seguita dalla riflessione razionale sull'oggetto percepito (16). Il ricordare ha, quindi, in Platone, una duplice valenza, dal momento che può consistere in un mero avere in sé (conservare) le tracce delle sensazioni o delle conoscenze acquisite nel corso della vita- in questo caso si connette alla funzione che il nostro filosofo definisce mnème-, oppure esso può consistere in un attivo, impegnativo e faticoso recuperare qualcosa di passato- in questo caso essa è frutto particolare della facoltà chiamata anàmnesis- (17). L'opposizione tra ricordo e reminiscenza può essere vista, oltre che secondo le categorie di attivo e passivo, anche secondo le categorie di attuale e virtuale. Socrate, infatti, nel già citato brano del Filebo, afferma che, grazie all'anamnesi, l'anima ripete, rivive, da sola in sé e senza il corpo (àneu tòu sòmatos autè en heautè) le affezioni provate un tempo con il corpo (Phil. 34 b 7); la reminiscenza, allora, non parrebbe limitarsi a rievocare qualcosa che ormai non c'è più, bensì darebbe un'esperienza effettiva del passato, rendendolo di nuovo attuale: "… l'anima ricorda, 'ripete' il passato come presenza nell'anàmnesis" (18). Un'importante differenza tra anamnesi e ricordo riguarda, poi, l'oggetto specifico di queste due facoltà: mentre la mnème, in quanto semplice conservazione delle sensazioni e degli avvenimenti che costituiscono la nostra vita presente, ha per oggetto il solo mondo sensibile, l'anàmnesis ha una sfera d'azione più ampia, che può comprendere tanto l'universo intelligibile – le idee e gli enti matematici intermedi (19) –, quanto quello empirico. Di quest'ultimo, dunque, ci può essere tanto anamnesi quanto ricordo; mentre dell'intelligibile ci può essere solo reminiscenza (19). 3. Il significato gnoseologico della teoria della reminiscenza Nel suo essere rimemorazione di ciò che i sensi non possono cogliere- l'intelligibile-, la funzione anamnestica acquista uno spessore ed un valore che la semplice mnème non ha: essa diventa infatti la facoltà conoscitiva umana per eccellenza, in quanto, appunto, "…ogni nostro apprendimento non è altro, in realtà, che reminiscenza [dell'intelligibile (21)]…" (Phaed. 72 e 5). L'equivalenza tra anamnesi ed apprendimento pare poi debba essere intesa in due sensi. La reminiscenza dell'essere meta-sensibile può consistere innanzitutto nel "richiamare alla mente" gli enti intelligibili per utilizzarli come strumenti tramite i quali rapportarsi alla realtà empirica (22); tali criteri sono a-priori, nel senso che non derivano dall'esperienza: l'anima li ha acquisiti prima di incarnarsi e poi, al momento dell'incarnazione, li ha dimenticati. L'uomo, quindi, ogni volta che, nella dimensione empirica, se ne serve, in qualche modo li "ricorda" (23). In questo caso, dunque, si tratta di un "ricordare" volto alla conoscenza del sensibile e strumentale, perciò, alla formazione della dòxa (24): l'uomo non può relazionarsi alla realtà empirica e conoscerla, senza di fatto "ricordare", nella maggior parte dei casi inconsapevolmente, le idee, né può risolvere problemi matematici- nemmeno i più banali e quotidiani- senza utilizzare e dunque "ricordare" gli enti intermedi. Oppure l'anàmnesis dell'intelligibile può essere un "ricordare" in cui l'intelligibile stesso è ciò che viene, in se stesso e come tale, conosciuto; essa, in questo caso, equivale, dunque, all' epistème (alla nòesis ed alla diànoia), come sostiene chiaramente il Menone (25). In base al diverso oggetto che, grazie all'anamnesi, viene conosciuto- il sensibile o l'intelligibile-, possiamo, dunque, distinguere tra una reminiscenza in senso lato ed una reminiscenza in senso stretto(26). La discriminante tra la molteplicità degli uomini comuni e la ristretta cerchia dei filosofi è costituita proprio dal tipo di anamnesi di cui gli uni e gli altri sono capaci. Tutti gli uomini hanno effettivamente reminiscenza in senso lato, in quanto l'anima che si incarna in un corpo umano ha senz'altro (in misura maggiore o minore, in modo più o meno chiaro) visto le idee e gli enti intermedi (27). Di conseguenza, tutti in teoria possono avere reminiscenza in senso stretto, appunto perché hanno avuto modo di vedere l'intelligibile: è importante, a questo proposito, quanto Socrate afferma in Men. 85 c 9: "Tali opinioni sono emerse in lui [nel servo] come in un sogno, e se ripetutamente lo s'interrogasse sugli stessi argomenti e da punti di vista diversi, puoi star sicuro che alla fine ne avrebbe scienza [epistème] non meno esatta di chiunque altro (…òisth' hòti teleutòn hètton akribòs epistèsetai tòuton)" (28). La scienza, che è conoscenza tematica dell'intelligibile, ovvero reminiscenza in senso stretto, è dunque una possibilità dell'essere umano in quanto tale; di fatto, però, essa è strettamente legata alla natura ed alle capacità di ogni singolo e concreto uomo e, di conseguenza, non ogni uomo è in grado di cogliere tematicamente le idee e gli enti intermedi. Platone ci fornisce una spiegazione mitica di questo nel Fedro: l'anima si incarna in un certo corpo e, quindi, dà origine ad un determinato tipo umano- il filosofo, il re, il condottiero e così via-, a seconda di quanto ha contemplato l'intelligibile, ma soltanto le anime che hanno potuto contemplare più a lungo e meglio la Pianura della Verità sono capaci di raggiungere, poi, nella vita terrena, un grado di reminiscenza maggiore delle altre: esse sono le anime dei filosofi. Attraverso il mito, Platone spiega le diverse attitudini intellettuali e morali degli uomini ed afferma che sono necessarie doti straordinarie, e difficilmente riunite in una stessa persona, per ottenere la scienza tematica e dispiegata del mondo ideale (nòesis): tali requisiti sono la capacità di apprendimento, la buona memoria, l'intelligenza, la perspicacia, la forza d'animo, la generosità (Resp. 503 c) (29). 4. Reminiscenza e purificazione La reminiscenza dell'omonima teoria platonica coglie dunque, come abbiamo visto, non ciò che è nel tempo, bensì una realtà intemporale e divina, sottratta al divenire. Essa non mira, perciò, a ricostruire il tempo umano, a ripercorrerlo, salvandolo dalla dimenticanza: proprio perché è pensamento dell'immutabile, l'anamnesi platonica, al contrario, "sottrae al tempo, per accostare al divino, all'eterno..." (30). Potremmo, forse, dire che "ricordare", in senso stretto, l'intelligibile significa fuggire dal tempo ed unirsi al divino in un senso prima di tutto "astratto", puramente "mentale" e, in fin dei conti, parziale, incompleto: chi ha reminiscenza è, infatti, pur sempre un uomo, che ha un corpo e che vive, e non può non vivere, nella dimensione sensibile, quella appunto del mutamento e della temporalità. Una volta purificatasi dalla sua colpa originaria, però, l'anima cessa, come si sa, di reincarnarsi, liberandosi così dalla corporeità e, con essa, dal tempo: la psychè ritorna allora di fatto a quella dimensione divina e intemporale cui è congenere. La purificazione, che mette fine al ciclo delle rinascite, si realizza in primis per mezzo della reminiscenza la quale, perciò, pare essere salvifica ed avere una funzione catartica (31). In realtà, nessun dialogo platonico descrive in modo esplicito l'anamnesi dell'intelligibile in termini di catarsi; anzi, le due dottrine- quella secondo cui apprendere è "ricordare", e quella che presenta l'acquisizione della conoscenza come una purificazione dell'anima dal corpo- sono tenute per lo più separate: il Menone ed il Fedro presentano la reminiscenza; la Repubblica ed il Timeo la dottrina della catarsi; il Fedone, infine, tratta entrambe le tematiche, senza, tuttavia, connetterle apertamente. Platone, però, dissemina nelle sue opere diversi indizi in base ai quali si può giungere alla conclusione ipotizzata, che l'anàmnesis- in senso stretto- valga, appunto, anche come kathàrsis. Credo che ciò possa essere dedotto, innanzitutto, dal Fedone stesso. Nel passo 69 c leggiamo infatti: "... [badiamo allora che] non siano invece temperanza e giustizia e fortezza- questa è la realtà vera- una specie di purificazione da tutto codesto, ed esso stesso, il sapere non sia un modo o un mezzo di purificazione (… hè phrònesis mè katharmòs tis è)" (32); Platone ha appena affermato che l'uomo si purifica attraverso la vera aretè, la quale, per essere autentica e non solo vana parvenza, non può essere disgiunta dal sapere, ma ha proprio nella phrònesis la sua essenza: a ciò egli aggiunge appunto che la phrònesis stessa è un mezzo di purificazione. La phrònesis di cui qui si parla consiste nella conoscenza dell'intelligibile, come appare evidente in Phaed. 79 d: "Quando invece l'anima procede tutta sola in se stessa alla sua ricerca, allora se ne va colà dov'è il puro, dov'è l'eterno e l'immortale e l'invariabile; ...E questa sua condizione è ciò che diciamo intelligenza [phrònesis]"; il termine phrònesis, dunque, sembrerebbe assumere, in Platone, un significato tecnico, mirante a definire lo stato della psychè in contatto con la realtà meta-fisica. Tale contatto può essere la conoscenza immediata e diretta, vale a dire la visione intellettuale che l'anima ha dell'èidos e degli enti intermedi quando, libera dalla corporeità, essa è (o torna, purificatasi) nella sfera sovraceleste; oppure, può essere l'unica forma di conoscenza che l'uomo può avere dell'universo meta-empirico: daccapo, reminiscenza- in senso stretto-. D'altra parte, che la phrònesis coincida con la sophìa, cioè con la conoscenza della Verità, dell'Essere, credo si possa dedurre dal passo 65 a-68 b dello stesso Fedone, nel quale Socrate domanda a Simmia se il corpo sia d'ostacolo o meno all'acquisizione del sapere (ancora phrònesis). Il discorso si divide in due parti; nella prima, il filosofo discute della non-idoneità degli strumenti corporei- i sensi- al conseguimento della conoscenza (phrònesis), strumenti che, egli afferma, sono imprecisi e fuorvianti, poiché non colgono né ti tòn ònton, né tòu òntos (33); nella seconda parte, poi, egli passa a trattare degli oggetti che i sensi dovrebbero cogliere per portare alla phrònesis, affermando che tali oggetti, le idee, per loro natura, non sono però percepibili dai sensi, bensì solo dal puro pensiero. Il passo 248 a-249 d del Fedro pare, poi, confermare la tesi della funzione catartica dell'anamnesi: qui Platone descrive, per mezzo di un mito molto suggestivo- quello celebre del carro alato- l'anima prima della sua unione con il corpo e spiega la causa che ne ha determinato l'incarnazione. Paragonata la psychè ad una biga alata, trainata da due cavalliuno bello e buono, l'altro brutto e cattivo- e guidata da un auriga, e spiegato perché essa perde le ali e quindi s'incarna, Platone, in Phaedr. 249 c, fa una precisazione importante: tutte le anime, egli dice, rimettono le ali, cioè ritornano nella regione sovraceleste, dopo diecimila anni, tranne quelle che per tre vite consecutive si sono dedicate alla vera filosofia; esse, infatti, solo dopo tremila anni tornano presso gli dèi. L'anima del filosofo, insomma, gode di una sorte privilegiata: rimette, giustamente sottolinea lo stesso Platone, le ali prima delle altre. Qual è la ragione di ciò? Platone è molto esplicito in proposito: "Ed è per questo che sola la ragione del filosofo mette, a giusto diritto [dikàios], le ali; però che sempre, per quanto le è possibile, ella è col ricordo [mnème (34)]in quegli obietti, nella contemplazione dei quali la divinità è divina". L'anima del filosofo ritorna dunque in anticipo rispetto alle altre, ed appunto a diritto, presso gli dèi, perché egli è colui che ha "reminiscenza di quegli enti che la nostra anima ha un tempo veduti" (Phaedr. 249 c 2): la reminiscenza appare qui, evidentemente, come mezzo di purificazione e di espiazione della colpa (35). La possibilità di concepire la reminiscenza come una purificazione, inoltre, potrebbe essere dedotta anche da Phaed. 75 e 3, dove leggiamo che "..acquistate delle conoscenze prima di nascere, noi le perdiamo nascendo...." (36). L'interpretazione della dimenticanza di ciò che è stato appreso nella dimensione prenatale come contestuale all'incarnazione dell'anima implica che sia possibile interpretare la riconquista di quello che è stato scordato, ovvero la reminiscenza, come complementare separazione della psychè dal corpo, cioè appunto come catarsi (37); infatti Platone si chiede, a proposito della catarsi: "E purificazione non è, dunque, ... adoperarsi in ogni modo di tenere separata l'anima dal corpo (…tò chorìzein hòti màlista apò tòu sòmatos tèn psychèn), e abituarla a raccogliersi e racchiudersi in se medesima fuori da ogni elemento corporeo, e a restarsene, per quanto è possibile, anche nella vita presente come nella futura, tutta solitaria in se stessa, intesa a questa sua liberazione dal corpo come da catene?" (Phaed. 67 c-d). Pare opportuno, inoltre, citare un altro brano del Fedone, il 76 c. Socrate domanda a Simmia: "E dunque le nostre anime esistevano anche prima: prima, dico, di essere in questa forma umana, indipendentemente dal corpo; e avevano intelligenza"; Simmia risponde: "Salvo che, o Socrate, queste conoscenze non le veniamo apprendendo durante il processo del nostro nascere; perché rimane tuttavia questo intervallo di tempo"; Socrate a sua volta ribatte: "E sia, amico: ma allora in che sorta mai d'altro tempo le perdiamo?..."; e Simmia conclude: "Oh no, Socrate: io non sapevo in verità quello che mi dicessi". K. Dorter, notando che, in questo passo, Socrate afferma che l'anima deve aver acquisito la conoscenza delle idee prima di incarnarsi, mentre Simmia allude alla possibilità che "noi", cioè l'uomo, insieme di anima e corpo, l'abbiamo acquisita alla nascita, commenta: "…our souls possess it, but our bodies obscure it so that we- as conjunction of soul and bodyacquire it as already 'forgotten'" (38). è vero, nonostante Socrate non lo affermi, che l'uomo acquista la conoscenza nel momento in cui s'incarna, perché egli, prima di allora non esisteva; ma ciò che qui interessa è che l'affermazione di Dorter suffraga quanto ipotizzato: la dimenticanza può essere interpretata come consustanziale all'incarnazione, il che legittima l'affermazione complementare della reminiscenza come purificazione-separazione dal corpo. Degno di nota è, sempre secondo Dorter, quanto dice Simmia, alla fine di questo breve passo: "...èlathon emautòn oudèn eipòn", frase che lo studioso inglese traduce così: "I forgot, I was talking nonsense" (39); a proposito di essa egli nota: "The use of lanthàno here is suggestive, since it is the word for the 'forgetting' that is presupposed by 'recollection'. Its use here shows that we can 'forget' things...not only in the sense of having possessed and lost them, but also in the sense of simply 'not noticing'; which would be consistent with an interpretation of recollection in terms of purification" (40). Perché Simmia ha dimenticato, nel senso appunto che non ha fatto attenzione? Forse perché preso da se stesso, dice Dorter, o forse, perché preso dalla sua corporeità: ecco, allora, che la dimenticanza apparirebbe di nuovo come un essere troppo coinvolti nella propria fisicità, cioè come una contaminazione, e l'anamnesi, di converso, come un riguadagnarsi puri da tale contaminazione, secondo quella che è la definizione platonica appena richiamata di catarsi, come abbiamo visto. L'affermazione di Simmia potrebbe, dunque, anch'essa suggerire la possibilità di interpretare il "dimenticare" come frutto della contaminazione dell'anima da parte del corpo e, di converso, l'anamnesi come una purificazione. Tutto ciò, però, non è detto e può solo essere ipotizzato: il giovane pitagorico non dice, infatti, esplicitamente perché egli non ha fatto attenzione. Tuttavia, un ulteriore supporto all'interpretazione dell'anamnesi come catarsi, si può trovare, sempre secondo Dorter, in quello che Platone scrive nel passo successivo a quello di cui ci siamo ora occupati. In esso il nostro filosofo sostiene che, se esistono le idee e se esse esistevano come possesso della psychè già prima che questa s'incarnasse e iniziasse a vedere e toccare i sensibili, allora non c'è alcun dubbio che le anime preesistano all'incarnazione (76 d 7): "...and is there an equal necessity both that these exist and that our souls existed even before we were born, and if the former dont' exist neither did the latter" (41). Platone quindi non si limita ad affermare che l'esistenza delle idee implica quella dell'anima ad esse congenere, ma aggiunge che l'esistenza delle idee è equivalente a (ha uguale necessità di) quella dell'anima. In questo modo, egli trasforma la conclusione dell'argomento della reminiscenza, rendendolo simile alla teoria della catarsi, tutta imperniata sul concetto di somiglianza tra l'anima e le idee: la psychè, quando si è purificata staccandosi dal corpo, ritorna presso ciò cui è connaturale, l'intelligibile (Phaed. 79 d 1-3). Ci sono, dunque, ragioni sufficienti per affermare che la reminiscenza in senso stretto sia un mezzo di purificazione, cioè che essa sia catartica: l'anima, "ricordando" l'universo meta-sensibile, espierebbe la colpa commessa (42). Si potrebbe forse dire che la catarsi si realizza pienamente quando l'anima si impossessa intellettualmente dell'intelligibile, congiungendosi ad esso, come a ciò che le è congenere. Se la reminiscenza è purificazione, essa è anche concentrazione dell'anima in se stessa: nel già citato passo 67 c del Fedone, infatti, Platone afferma che la catarsi consiste nel separare l'anima dal corpo, ovvero nel far sì che essa si abitui a raccogliersi e racchiudersi in sé, a convertirsi dalla dispersione corporea, concentrandosi in sé medesima (i verbi usati sono athpòizo e synagèiro, che significano entrambi "raccolgo", "raduno"). Platone, rifacendosi, come lui stesso ammette, ad un'antica tradizione, descrive dunque la catarsi come un raccogliersi in sé, da tutti i punti del corpo (43); presupposto di tale tesi è, evidentemente, che l'anima sia mescolata al corpo, dispersa in esso, come ritenevano già gli orfici, stando a quanto del resto riferisce Aristotele (De an. A 5, 410 b 28) (44). È opportuno, ora, chiarire un punto. I passi citati, in cui Platone dice che, unendosi al sòma, la psychè dimentica ciò che ha appreso precedentemente, possono essere letti non solo nel senso in cui lo si è appena fatto qui, provando, cioè, a sostenere che l'oblio è unione dell'anima al corpo, e che, quindi, la reminiscenza di quanto dimenticato sia separazione da questo e dunque purificazione. Se questo è vero, però, è anche vero che è l'incarnazione a determinare la dimenticanza e che, quindi, è la separazione, ovvero la purificazione, a determinare la reminiscenza. La catarsi, insomma, pare ora mezzo per il verificarsi della reminiscenza. Tutto ciò è evidente nel brano 64 a- 67 d del Fedone. Socrate spiega, qui, che il filosofo non teme la morte, poiché la vera filosofia non è che esercizio di morte ed il vero amante della sapienza non si cura di altro, in realtà, che di morire ed essere morto, perché la piena acquisizione del sapere pare preclusa all'anima incarnata: solo la pura psychè, libera dal corpo, accede alla contemplazione dell'intelligibile, in cui consiste la conoscenza più vera. Se la morte è separazione dell'anima dal corpo, allora il filosofo che si esercita a morire non fa che sforzarsi di tenere separati i due eterogenei elementi dai quali, come uomo, è composto. Il filosofo, che aspira alla conoscenza dell'intelligibile, cioè alla reminiscenza in senso stretto, deve dunque purificarsi; l'anima non può "ricordare" la realtà meta-empirica, non può avere phrònesis, senza prendere le distanze dal corpo, poiché esso la distrae, la confonde, la fa volgere al sensibile: "L'anima, quando per qualche sua ricerca si vale del corpo, adoperando la vista o l'udito o altro senso qualunque...allora…è trascinata dal corpo a cose che non sono mai costanti, ed ella medesima va errando qua e là e si conturba e barcolla come ebbra, perché tali appunto sono le cose a cui si appiglia" (Phaed. 79 c). L'anima, dunque, per avere reminiscenza dell'intelligibile, deve staccarsi dal corpo e, quindi, la purificazione è appunto mezzo dell'anamnesi; allo stesso tempo, la psychè si purifica tramite l'anamnesi della realtà meta-empirica, la quale è essa, dunque, strumento della kathàrsis. Questo potrebbe sembrare un circolo vizioso, ma, alla luce di quanto già si è provato a sostenere, si può, forse, affermare che Platone intende reminiscenza e purificazione come intimamente e reciprocamente legate, interdipendenti, tali da non potersi verificare l'una senza l'altra: non ci sarebbe anamnesi senza catarsi né catarsi senza anamnesi. Il rapporto fra esse è tale per cui si esse verificano insieme, parallelamente; la reminiscenza implica ed è un prendere le distanze dal corpo e la purificazione dell'anima comporta a sua volta ed è un volgersi dell'anima verso l'intelligibile, un riappropriarsi di esso, dunque, un "ricordarlo": c'è quasi una sorta di fusione tra i due fenomeni, uno sconfinamento dell'uno nell'altro (45). L'anamnesi dell'omonima teoria platonica, dunque, non ha un senso puramente gnoseologico, ma anche morale: essa è un processo conoscitivo, ma anche, nello stesso tempo e secondo lo spirito della tradizione orfico-pitagorica, di affrancamento dalla negatività del corpo. Essa è sì conversione intellettuale, poiché fa volgere lo sguardo della mente dal sensibile- che non è in senso pieno, poiché misto di essere e di non-essere, di cui perciò non si dà vera conoscenza, bensì solo opinione- all'intelligibile- che, esso solo, è pienamente e del quale c'è vera scienza-; ma essa è anche conversione morale, perché comporta un tipo di vita diverso da quello dei più, in quanto non si dà senza distacco dalle passioni e dai piaceri corporei ed anzi è un distacco da essi; ed infine perché è un volgersi alla Verità ed a quella dimensione ideale che è per Platone intrinsecamente un valore. Le idee, infatti, hanno come fondamento il Bene: "Dunque, anche delle cose intelligibili si può affermare che dal bene esse ricevono non solo il loro essere conosciute, ma anche l'esistenza e l'essenza...." (Resp. 509 b 2-4); il Bene è, perciò, la fonte dell'essere delle idee, che sono, così, qualcosa di strutturalmente positivo anche sul piano assiologico. 5. Reminiscenza, felicità e piacere Quanto proposto fin qui sulla funzione catartica dell'anamnesi non pare esaurire però i possibili rapporti della reminiscenza con l'etica platonica. L'anàmnesis, infatti, può avere un significato etico anche nel senso che, proprio "ricordando"- in senso strettol'intelligibile, l'uomo acquisisce l'autentica felicità (eudaimonìa), quella felicità che pare essere, nel pensiero antico, essenza stessa della morale. Tratti tipico e costante dell'etica antica pare sia, infatti, quello di essere eudemonistica, poiché essa indicherebbe nella felicità appunto, e solo in essa, il movente e lo scopo della condotta morale (46). L'elemento che permette di legare eudaimonìa e moralità è poi il concetto di virtù. Per i Greci l'aretè è ciò che consente ad un uomo, ad un animale, perfino ad un oggetto inanimato, di realizzare la propria essenza, cioè di essere pienamente quello che deve essere e di svolgere al meglio il compito che, per natura, gli è proprio: "Ogni cosa…animata od inanimata, ha una propria funzione (èrgon), che è ciò che si fa con quella cosa soltanto o con essa nel modo migliore: nessuna cosa può realizzare il proprio èrgon se manca della propria specifica virtù" (47). Da tale realizzazione della propria intima natura deriva all'uomo la felicità. Platone condivide questa concezione, come emerge dalla Repubblica (I 353 e-354 a): "Dunque l'anima giusta [virtuosa: poco prima Socrate ha, infatti, affermato che l'aretè specifica dell'uomo è la giustizia] e l'uomo giusto [virtuoso] vivranno bene, e l'ingiusto vivrà male…chi vive bene è sereno e felice, mentre chi vive male si trova nella condizione opposta" (48). Quindi, il virtuoso che realizza il proprio essere secondo natura e che, pertanto, vive in una dimensione autentica, è felice; l'ingiusto, che trascura la propria specifica natura, che non si cura di svilupparla e realizzarla, non può che essere infelice (Resp. 354 a 1-4: "…e l'ingiusto vivrà male…l'ingiusto è infelice"). Passiamo ora, tenendo in mente questa concezione etica, all'esame del Fedone (49). Qui, la psychè, vera essenza dell'uomo, appare come elemento unitario, che presiede sostanzialmente alla funzione conoscitiva: secondo la terza prova dell'immortalità, essa è caratterizzata, da un lato, dall'assoluta eterogeneità rispetto al corpo, e, dall'altro, dal suo essere pura razionalità, capacità di cogliere l'intelligibile, cui è affine (50). Realizza allora la natura razionale dell'uomo solo la conoscenza, che, al suo livello più alto è, come sappiamo, phrònesis, conoscenza dell'intelligibile, cioè anamnesi in senso stretto. Il concetto di phrònesis è, infatti, come visto, duplice: esso indica tanto il contatto diretto con la realtà meta-sensibile, contatto che solo l'anima disincarnata può avere, quanto l'unico modo conoscitivo delle forme possibile all'uomo, ovvero all'anima incarnata: reminiscenza, appunto. Sembra, perciò, che "ricordando", in senso stretto, le idee, l'uomo realizzi la propria natura e, di conseguenza, trovi la piena felicità (51). Il discorso sull'aretè e quello sull'eudaimonìa non sono, in Platone, distinti da quello sull'hedonè, sul piacere, né, tantomeno, ad esso radicalmente contrapposti: il nostro filosofo non pare affatto un antiedonista radicale, come troppo spesso si è sostenuto (52). Evidenziamo alcune brevi righe del Fedone (53) in 59 a 2-3, il giovane Fedone, iniziando il racconto delle ultime ore di Socrate in carcere, afferma: "…nemmeno un senso di piacere [mi sfiorò l'animo], per quanto fossimo a ragionare di filosofia secondo la nostra consuetudine " (54). In 66 e 2-3, poi, Platone scrive: "E solamente allora [quando l'anima si sarà spogliata del corpo] riusciremo a possedere ciò che desideriamo e di cui ci professiamo amanti, la sapienza [phrònesis]" (55). Infine, nel passo 114 e 1-4, Socrate parla "dei piaceri dell'apprendere" (56). In questo dialogo, Platone certo critica i piaceri fisici, condannati, insieme a dolori, passioni, desideri, amori, insieme, insomma, a tutto ciò che concerne il corpo, in quanto non solo sviano dall'indagine filosofica, ma anche e soprattutto "perché ogni piacere o dolore, quasi avesse un chiodo, inchioda l'anima al corpo e ve la conficca e la rende corporea, e la induce nella illusione che ciò solo è vero, che anche il corpo dice vero" (83 d); piacere e dolore, dunque, sono condannati alla pari, poiché fanno apparire solido e vero il sensibile, che, invece, solido e vero per Platone non è. Ma, accanto ai piaceri fisici, come segnalano i passi sopra citati, Platone pone i piaceri dell'intelletto, legati all'indagine filosofica, all'esercizio della razionalità ed al conseguimento della conoscenza. La phrònesis, cioè, daccapo, la reminiscenza dell'èidos è ciò che i filosofi desiderano ed amano: quale oggetto di desiderio ed amore, essa, una volta conquistata, non può che essere fonte di piacere, oltre che di felicità, essendo ciò che realizza al massimo la natura umana. L'hedonè, tuttavia, come emerge dai passi citati, non scaturisce solo dalla soddisfazione del desiderio di sapienza, ma pare frutto dello stesso processo di ricerca: non è solo il conseguimento della saggezza a dare piacere (66 e 2-3), poiché questo accompagna la fase stessa di progressiva acquisizione della phrònesis (59 a 2-3). Del resto, l'esistenza di un desiderio intellettuale e di un piacere conseguente non solo alla soddisfazione di questo, ma anche all'attività razionale stessa, si potrebbero dedurre già dal Menone, dove leggiamo: "E ora, proprio perché non sa, [lo schiavo di Menone], ricercherà con piacere…" (84 b 9 ) (57). Il sapere di non sapere, cioè la consapevolezza della propria ignoranza, genera nell'uomo un disagio intollerabile: da qui, il desiderio di superare l'ignoranza, cioè di sapere, attraverso un'attiva ricerca. L'acquisizione della conoscenza, in quanto appaga un desiderio, colma una mancanza e mette fine ad una sofferenza, non può allora che essere piacevole; ma è fonte di hedonè la stessa ricerca, sia perché questa è stimolata dalla prospettiva di un risultato, appunto, gratificante, sia perché tramite la ricerca intellettuale si attua ed ottimizza la natura umana, che, ci pare emerga anche da questo passo del Menone, è sostanzialmente, all'altezza di questo dialogo, razionale. Il discorso platonico su piacere e felicità si arricchisce e si complica nella Repubblica, testo che riprende ed amplia la tesi nel Fedone solo accennata, dell'esistenza di un piacere intellettuale, proprio della saggezza, e di un'eudaimonìa legata ad esso. Nella Repubblica, Platone, infatti, abbandona l'unitarietà della psychè individuando in essa tre parti, o elementi, o "principi motivazionali del comportamento" (58). Essa è divisa in una parte razionale, il logistikòn ed in una irrazionale, suddivisa, a sua volta, in due, l'epithymetikòn, la parte appetitiva o concupiscibile, ed il thymoeidès, la parte irascibile. L'esperienza quotidiana, infatti, mostra che nell'uomo operano pulsioni diverse, spesso in contrasto, giustificabili senza contraddizione solo se si ammette, nell'uomo stesso, l'esistenza di principi diversi; in ognuno, allora, c'è un elemento razionale, con cui l'anima ragiona, ce n'è uno irrazionale appetitivo, con cui essa prova desideri fisici, come mangiare, bere, amare, e ce n'è, infine, uno irrazionale irascibile, grazie al quale la psychè si adira, è ambiziosa ed impetuosa. Fra tali parti c'è una precisa gerarchia naturale: il logistikòn può e deve per natura comandare e dirigere tutta l'anima, aiutato dal thymoeidès, che, se ben educato, si allea con l'elemento razionale contro gli eccessi cui per natura l'epithymetikòn è portato. Ogni parte ha, dunque, una funzione specifica nella vita dell'uomo, il che comporta che ognuna abbia anche una virtù propria, che le permetta di attuare il suo compito specifico. Virtù della psychè sono la sapienza (per la parte razionale), la temperanza (per la parte concupiscibile) ed il coraggio (per la parte irascibile); al di sopra di esse c'è la giustizia, che si realizza quando le tre componenti dell'anima svolgono ciascuna il proprio compito (59). Alle tre virtù, corrispondono poi tre tipi di desideri e, legati alla soddisfazione di questi, tre tipi di piaceri: "…ognuna [delle tre parti dell'anima] è detta capace, contestualmente all'esercizio della funzione cui è per natura deputata, di provare tensione o aspirazione, di 'tendere' o 'indirizzarsi' verso qualcosa di specifico, cioè di 'muoversi' verso di esso…In quanto 'programmata' per natura ad aspirare a qualcosa, ogni parte è allora capace di amarlo e di desiderarlo ed è perciò del pari capace di godere della sua acquisizione" (60). Conoscere il vero è desiderio proprio del logistikòn (Resp. 581 b 5-7), mentre il thymoeidès desidera prevalere ed avere fama (Resp. 581 a 9-10); l'epithymetikòn, infine, desidera appagare esigenze fisiche, quelle del mangiare, del bere, dell'amare, ovvero, desidera la ricchezza, poiché è soprattutto col denaro che si soddisfano tali desideri (Resp. 580 e-581 a). L'anima i cui elementi svolgono ognuno il compito per natura proprio; l'anima, cioè, il cui elemento razionale si dedica all'attività conoscitiva (attività anamnestica, intesa, al suo livello più alto, come reminiscenza in senso stretto delle forme) e governa gli elementi irrazionali; l'anima il cui elemento concupiscibile presiede secondo misura alle funzioni fisiologiche, sottomettendosi al governo della razionalità; l'anima la cui parte razionale è aiutata, nel suo ruolo di governo, dal thymoeidès quest'anima, prova, nel suo essere virtuosa, felicità e piacere. L'eudaimonìa perciò, ingloba in sé tutti e tre i tipi di piacere (intellettuali, del successo, fisici) di cui Platone ha parlato, legati al compimento delle funzioni specifiche delle singole parti dell'anima: quindi, ed è ciò che qui interessa, la conoscenza, che, al suo grado più alto è reminiscenza delle idee, è componente essenziale dell'hedonè e della felicità. Ma il rapporto stabilito nella Repubblica tra piacere, felicità ed anamnesi non è così diverso da quello emergente già dal Fedone: se qui, Platone asseriva che vera felicità è quella derivante dai piaceri intellettuali, dalla phrònesis ovvero dalla reminiscenza in senso stretto, egli, nella Repubblica, non attribuisce al piacere delle tre parti dell'anima stesso peso e valore ai fini della felicità. Se infatti ogni uomo è giusto perché virtuoso, e dunque è felice, quando ognuna delle sue facoltà svolge la propria funzione facendo ciò che per natura è abilitata a fare, non tutti però sono virtuosi e felici nella stessa misura: pochi, infatti, sanno realizzare al massimo la propria razionalità, ottimizzarla- ed ottimizzare, conseguentemente, anche la parti irrazionali dell'anima-; costoro sono i filosofi, ovvero quanti raggiungono il livello conoscitivo più alto, quello delle idee, delle quali, come più volte sottolineato, l'anima incarnata non può avere che reminiscenza. Chi "ricorda" l'èidos è, allora, più giusto, più felice, e non solo perché è l'unico a raggiungere la piena realizzazione di sé, ma anche perché i piaceri razionali sono i più dolci, i più intensi ed anche i più veri. Di ciò Platone fornisce tre prove nella Repubblica (61): la prima chiama in causa l'esperienza del filosofo, il quale, diversamente dall'amante del successo e da chi è incline al lucro, ha esperienza di tutte e tre le forme di piacere possibili. È costui, dunque, il più adatto a giudicare l'hedonè ed a lui bisogna prestare fede quando afferma che l'esercizio della phrònesis la reminiscenza) è il più piacevole (Resp. 581 a-583 a) (62). D'altra parte, solo i piaceri del saggio sono veri e puri, mentre gli altricome semplici cessazioni del dolore- non sono né puri né veri (Resp. 583 b); il piacere puro, per Platone, non nasce dal dolore, non si configura come cessazione di una sofferenza. Pochi sono i piaceri di tal genere e tra di essi vi sono, naturalmente, quelli dell'intelletto. Una seconda prova concepisce il piacere come riempimento di un vuoto (tesi propria già dei Pitagorici), per cui l'hedonè fisica segue al colmare un vuoto del corpo, quella intellettuale, invece, al colmare un vuoto dell'anima. Quanto riempie il corpo, cioè il cibo, appartenendo al mondo sensibile, non è però essere autentico e stabile, al contrario di ciò che riempie l'anima, le idee, le quali sono, appunto, l'essere vero; anche tra psychè e sòma c'è il medesimo divario, in quanto l'una, come sappiamo, è affine all'intelligibile, l'altro è sensibile. Da tutto ciò, Platone conclude che solo il riempimento dell'anima tramite la conoscenza delle idee è autentico riempimento, e che solo questo è autentico piacere (Resp. 585 a-e) (63). Ciò conferma la nostra ipotesi: l'anamnesi dell'èidos è fonte del piacere più vero ed intenso. La dottrina della reminiscenza occupa, com'è noto, uno spazio limitato nel corpus platonico, ma non può, per questo, essere reputata tratto di scarso rilievo del pensiero di Platone. Alla luce delle considerazioni svolte sul possibile significato gnoseologico di tale teoria, si può anzi sostenere che essa rivesta notevole importanza, poiché strettamente correlata con la filosofia platonica nel suo complesso. La tesi secondo cui l'apprendimento è anamnesi, infatti, pare integrarsi innanzitutto con la dottrina dei diversi livelli conoscitivi corrispondenti ai diversi livelli ontologici: non c'è conoscenza del sensibile, ovvero opinione, senza reminiscenza- in senso latodell'intelligibile; la conoscenza dell'intelligibile, a sua volta, è reminiscenza- in senso stretto-. Tale tesi pare poi intimamente legata anche all'etica del nostro filosofo: l'anima si purifica e raggiunge vera felicità ed autentico piacere solo conoscendo il puro essere, ovvero solo "ricordando" in senso stretto l'intelligibile. Le nozioni di realtà sensibile e realtà meta-sensibile, di opinione e scienza, di catarsi, felicità e piacere- fondamentali nella filosofia platonica- possono allora forse essere comprese più pienamente facendo riferimento al concetto appunto di reminiscenza. Note. (1) Platone, Menone, traduzione e introduzione di F. Adorno, Bari- Roma, Laterza 1997. back (2) Platone, Fedone, a cura di M. Valgimigli, Bari-Roma, Laterza 1932. back (3) Il Menone ed il Fedone sono gli unici dialoghi del corpus platonico che trattano esaurientemente la teoria della reminiscenza; gli altri dialoghi non la nominano affatto, ad esclusione del Fedro, che fa ad essa un breve, seppur importante, cenno. back (4) Per questo esame comparativo, ho fatto riferimento al testo di E. Des Places, Platon, Lexique, Paris, Les Belles Lettres 1964, vol. I, e Paris, Les Belles Lettres 1970, vol. II, in cui sono evidenziati i principali significati e, all'interno di essi, le occorrenze più significative, dei termini filosofici e religiosi usati da Platone. back (5) Tutti i luoghi platonici che citerò, compresi i già richiamati Men. 81 d 5 e Phaed. 98 a 4, vengono elencati dal Des Places, Platon cit., vol. I, ad esclusione di Men. 98 a 4 e di Phaed. 73 d 8, passi che, invece, sono qui riportati, in quanto l'uno evidenzia il fatto che la reminiscenza, intesa come apprendimento, ha per oggetto le idee, mentre l'altro mette in luce l'intera sfera d'azione- comprendente anche il sensibile- dell'anamnesi ed il suo meccanismo. L'elenco completo dei passi platonici- che sono in totale 18- nei quali compare il termine anàmnesis figura in V. Meattini, Anamnesi e conoscenza in Platone, Pisa, ETS 1981, p. 135, nota 1; tali passi sono: Men. 81 d ; e 2; 82 a 2; 98 a 4; Phaed. 72 e 5; 73 b 5; c 5; d 8; e 1; 74 a 2; d 2; 76 a 7; 91 e 6; 92 c 9; d 6; Phaedr. 249 c 2; Phil. 34 b 2; Leg. 732 b 8. back (6) Platone, Fedro, a cura di G. Reale, Milano, Rusconi 1993. back (7) Platone, Leggi, in Platone, Opere, vol. II, traduzione di A. Zadro, Bari-Roma, Laterza 1966. back (8) Des Places, Platon cit., vol. II, p. 349. Elenco solo alcuni dei passi citati dal Des Places, senza, però, tralasciare nessuno dei significati che tale termine pare assumere in Platone. back (9) Platone, Repubblica, a cura di G. Lozza, Milano, Mondadori 1990. back (10) Platone, Convito, in Dialoghi, vol. III, trad. di C. Diano, Bari-Roma, Laterza 1964. back (11) Platone, Filebo, a cura di M. Migliori, Milano, Rusconi 1995. back (12) Questo passo si collega a quanto Platone scrive nel Teeteto (194 d-195 a): la mente umana è come una massa di cera sulla quale conoscenze e sensazioni si imprimono, lasciandovi delle tracce; nella conservazione di tali tracce consiste appunto la mnème. back (13) Phil. 34 b 10, corsivo mio. back (14) In Phaed. 73 c 5-d 1, Socrate descrive così il meccanismo anamnestico: "Se uno, veduta una cosa o uditala o avutane comunque un'altra sensazione, non solamente venga a conoscere quella tale cosa, ma anche gliene venga in mente un'altra,- un'altra la cui cognizione non è la medesima bensì diversa-; ebbene, non s'adoperava noi la parola nel suo giusto valore quando dicevamo, a proposito di quest'altra cosa venutagli in mente, che colui se ne era ricordato [ne aveva avuta reminiscenza]?", corsivo mio. back (15) "… la reminiscenza avviene in due modi, per via di somiglianza e per via di dissomiglianza" (Phaed. 74 a 2-3). back (16) È significativo, a questo proposito, che l'oggetto ricordato- di cui cioè si ha reminiscenza- sia, per Platone, ciò che è venuto in mente, ciò che è stato pensato a partire, appunto, dalla sensazione. In Phaed. 73 c 9, leggiamo: "…non s'adoperava noi la parola nel suo giusto valore quando dicevamo, a proposito di quest'altra cosa venutagli in mente, che colui se n'era ricordato?", corsivo mio. Che la reminiscenza non coincida con la semplice percezione sensoriale, bensì con il ragionamento che segue la sensazione ed è da essa stimolato vien messo bene in evidenza da J.T Bedu-Addo, Sense-experience and the Argument for Recollection in Plato's Phaedo, "Phronesis" 36 (1991), pp. 27-60, il quale scrive a pp. 37-38: "…he [Plato] thinks of recollection…as being, not indeed, the result of simple sense-experience, but rather of what follows the sense-experience, namely, thought or reason. Thus, one sees something, recognizes it, and thinks of something else…This means that there is no recollection where sense-experience is not followed by reasoning", corsivo mio. back (17) Per chiarezza, da ora in poi, userò il verbo "ricordare" tra virgolette, quando esso si connette alla reminiscenza. È interessante notare, poi, che per Platone esistono due generi di dimenticanza: c'è l'oblio corrispondente in modo specifico alla mnème, e che equivale alla perdita delle tracce di sensazioni e conoscenze acquisite nella dimensione del sensibile, e c'è l'oblio presupposto dall'anàmnesis che consiste nel possedere, ma non avere, una conoscenza, nel senso che essa è nell'anima, ma non è a sua disposizione, cioè che non c'è per questa accesso immediato ad essa. Per questa distinzione cfr. M. Dixaut, Phédon, Paris, Flammarion 1991, pp. 348-349, nota 143; D.J. Melling, Platone, Bologna, Il Mulino 1994 (ed. or. Understanding Plato, Oxford 1987), p. 163-164; A. Tagliapietra in Platone, Fedone o Sull'anima, Milano, Feltrinelli 1994, p. 262, nota 83. Cfr., inoltre, Theaet. 194 d segg., 197b segg. back (18) J.P. Vernant, Mito e pensiero presso i Greci. Studi di psicologia storica, Torino, Einaudi 1970, p. 61, nota 2 (ed. or. Mythe et pensèe chez les Grecs. Études de Psychologie historique, Paris, 1965). back (19) Si possono distinguere, così, una reminiscenza noetica ed una reminiscenza dianoetica. Cfr. Dixaut, Phédon cit., p. 344, nota 128: "La réminiscence n'a pas lieu seulement dans le champ que la République nommera dianoétique"; K. Dorter, Equality, Recollection, and Purification, "Phronesis", 17 (1972), pp. 198218, p. 200. back (20) Per quanto riguarda il sensibile come oggetto della mnème,cfr. il già citato Phil. 34 a 9: "la memoria è conservazione della sensazione", e Gorg. 501 a: "…memoria,…di quello che suole avvenire" (trad. it. di F. Adorno, in Platone, Opere Complete, Bari-Roma, Laterza 1988, vol. V). Anche la reminiscenza può avere per oggetto la realtà sensibile, come appare chiaro da Phaed 72 e-77 b, dove Socrate spiega che cos'è l'anamnesi, attraverso vari esempi in cui essa "ricorda" ciò che i sensi, e non l'intelletto, colgono (l'innamorato "ricorda" la persona amata vedendone la lira o il mantello; colui che vede un ritratto di Simmia "ricorda" Cebete). Ma la reminiscenza si volge anche all'intelligibile, alle idee in primis: il passo 74 a-75 d del Fedone- incentrato sulla dimostrazione del fatto che l'idea di uguaglianza viene "ricordata"- e il passo 249 c del Fedro- in cui l'anima del filosofo è descritta come privilegiata rispetto alle altre anime, in quanto essa "è sempre in rapporto con quelle realtà, in relazione alle quali anche un dio è divino"- lo dimostrano chiaramente. Nel Menone, invece, il nesso reminiscenza-intelligibile non è chiaramente esplicitato, tanto che alcuni studiosi parlano, a proposito di questo dialogo, di teoria empirica dell'anamnesi [cfr., per questa tesi, P. Frutiger, Les mythes de Platon, Paris, Alcan 1930, pp. 72-73; D. Ross, Platone e la teoria delle idee, Bologna, Il Mulino 1989, p. 49 (ed. or. Plato's Theory of Ideas, Oxford, 1951)]. Tuttavia, ci sono elementi in base ai quali si può affermare che già in quest'opera la reminiscenza ha per oggetto la realtà meta-empirica: basti pensare che la teoria dell'anamnesi viene introdotta in risposta all'affermazione di Menone secondo la quale non è possibile cercare quello che non si sa (Men. 80 d 5), affermazione che nega la possibilità di rispondere alla domanda del "che cos'è", di individuare, cioè, la forma. Del resto, il brano 86 b 1, in cui Socrate parla, nel contesto della dimostrazione della reminiscenza, della "verità degli enti" appresa nel tempo in cui non si è ancora uomini, ed il 98 a 4, dove Socrate afferma che l'anamnesi è la conoscenza delle vere cause, parrebbero riferirsi proprio alle idee, alla luce di ciò che esse rappresentano nel pensiero platonico [cfr., per questo argomento, N. Gulley, Plato's Theory of Recollection, "The Classical Quarterly", 48 (1954), pp. 194-213, p 197; Meattini, Anamnesi e conoscenza cit., pp. 30, 138, nota 4; R. Porcheddu, Mito e ragione nella dottrina platonica dell'anamnesi (Meno 80 d-81 e), "Sandalion", 5 (1982), pagg. 59-89, pagg. 75-76]. back (21) Cfr. supra note 5 e 20, per quanto riguarda il tema dell'intelligibile come oggetto della reminiscenza nella teoria secondo cui apprendere è "ricordare". back (22) J.M. Paisse, Le thème de la réminiscence dans les dialogues de Platon, "Les ètudes Classiques", 33 (1965), pp. 377-400, p. 246: "L'esprit ne peut acquérir une connaissance réelle s'il n'applique point au mond sensible les critéres de l'égal, du Beau, du Juste et d'autres analogues, notions qui lui ont été données en une existence antérieure à son incarnation". back (23) La posizione platonica potrebbe anche essere definita empirista, però di un empirismo particolare: è vero infatti che l'esperienza e la conoscenza della realtà sensibile sono rese possibili da elementi indipendenti dall'esperienza stessa, ma questi elementi- le idee e gli enti intermedi- sono nell'uomo perché la sua anima le vide, le acquisì, cioè le esperì, seppure in modo molto particolare, cioè prima della nascita. Si potrebbe, dunque, semplificare dicendo che nella filosofia platonica l'intelligibile è a-priori per l'uomo che è complesso di anima e corpo, ma è a-posteriori, frutto di una particolare esperienza, per la psychè disincarnata. Cfr., per questo argomento, A. Guzzo, in Platone, Fedone, introd. e note di Guzzo, trad. di F. Acri, Firenze, Vallecchi 1925. back (24) Quando Platone afferma che conoscere è "ricordare" e che l'anima dell'uomo non apprende niente, ma che essa "ricorda" quello che ha contemplato in un'epoca anteriore all'incarnazione, egli, dunque, non intende dire che l'anima ha già conosciuto, prima di incarnarsi, le cose ed i fenomeni di cui, poi, l'uomo viene a conoscenza nel corso della sua vita. Il nostro filosofo, infatti, con la sua dottrina vuole, innanzitutto, affermare qualcosa di ben diverso: la necessità imprescindibile di criteri razionali e stabili, essi sì conosciuti ed acquisiti prima dell'incarnazione e poi, nella dimensione empirica, "ricordati", indispensabili alla conoscenza degli enti e dei fenomeni costituenti il mondo sensibile. Men. 98 a 4-5:" Ma proprio in questo [nel ragionamento fondato sulla causalità], compagno Menone, consiste l'anamnesi …". back (25) Nel Menone, tale distinzione pare emergere chiaramente: Platone, in questo dialogo, afferma che la scienza, conoscenza delle cause, cioè delle forme, coincide con la reminiscenza, la quale, allora ha per oggetto l'idèa (98 a); ma non solo: nel già citato episodio dello schiavo, il nostro filosofo sostiene che il giovane servitore- il quale, pur non avendo mai studiato la geometria, è riuscito a risolvere il problema geometrico sottopostogli- "ricorda" (82 e 10), che egli "ha cavato da sé" il sapere e che ricavare da sé il sapere è "ricordare" (85 c-d); ma dichiara anche che questo sapere non è ancora scienza, bensì solo retta opinione (85 c-d; 86 a). Ciò lascia presupporre un rapporto tra l'opinione e l'anamnesi, ma non, com'è evidente dal passo stesso, nel senso che la retta opinione è ciò che viene "ricordato"; lo schiavo, infatti, usa le nozioni di quadrato, diagonale, pari, dispari etc. e, grazie ad esse, riesce a risolvere il problema di geometria. L'anamnesi è, in questo caso, appunto strumentale alla formazione della dòxa ovvero è anamnesi dianoetica in senso lato. back (26) Nel passo 72 e-77 d del Fedone, Platone dimostra che l'idea viene "ricordata" e di fatto, anche se non esplicitamente, introduce la differenza tra anamnesi in senso lato ed anamnesi in senso stretto. In primo luogo, egli evidenzia che ogni percezione è sempre una percezione giudicata: due sassi o due legni non sono mai semplicemente due sassi o due legni, ma sono, nel caso specifico, sassi uguali e legni uguali (del resto, non si dà nemmeno percezione senza giudizio, nel senso che è un'attività di giudizio a connettere nell'affermazione di quel singolo oggetto gli specifici inputs sensoriali ricevuti, come quando, ad esempio, giudico che questo bianco, scabroso, duro e pesante sia un sasso). Le idee, che sono appunto oggetto di reminiscenza, vengono utilizzate, dunque, quali criteri di giudizio mediante i quali rapportarsi alla realtà empirica: "ricordare" le forme è, in questo caso, servirsi di esse (anamnesi noetica in senso lato). Tale uso è per lo più inconscio: in Phaed. 76 b-c, Simmia afferma che Socrate è forse l'unico uomo in grado di rendere ragione delle idee, l'unico che conosce veramente le forme, che sa che cosa esse sono e qual è la loro funzione- in Resp. 534 b il discorso filosofico è definito come quello che coglie l'essenza delle cose, ovvero che sa rendere ragione di tale essenza-. Questo sapere di cui solo il filosofo è capace parrebbe avere le caratteristiche di quella che abbiamo definito invece reminiscenza noetica in senso stretto. back (27) Phaedr. 249 e 4-5: "… ciascun'anima di uomo, per sua natura, ha contemplato gli esseri, altrimenti non sarebbe venuta in questo vivente" (trad. it. in Platone, Fedro, a cura di G. Reale, Milano, Rusconi 1993). back (28) Corsivo mio. back (29) Cfr. R. Mondolfo, La comprensione del soggetto umano nell'antichità classica, Firenze, La nuova Italia 1958; p. 181: "…la reminiscenza non è una possibilità automatica ed uguale per tutti (come dovrebbe essere se derivasse da una contemplazione previa uguale per tutte le anime)…"; J.M. Paisse, Le thème platonicien de la réminiscence et la purification morale, "Les études Classiques" 38 (1970), pp. 274-284, p. 275: "…la plupart des hommes, n'ayant pu contempler à loisir l'univers idéal au moment où ils ne s'étaient pas encore incarnés, n'éprouveront aucune anàmnese [lo studioso si sta riferendo a quella che abbiamo definito reminiscenza in senso stretto] et se montreront incapables de se soumettre aux exigences de l'exercise dialectique. Le texte que nous venons de citer [Phèdre 248 b] apparait comme une façon mythique d'exprimer l'inégalité des aptitudes spirituelles". Abbiamo detto, precedentemente, che reminiscenza e memoria sono diverse, anzi, per certi aspetti, addirittura opposte, ma ciò non deve essere inteso nel senso che esse siano contraddittorie, cioè l'una la negazione dell'altra, al punto da escludersi a vicenda: anzi, evidentemente, l'anamnesi dell'idea implica la memoria, intesa come capacità di conservare ciò che è stato, com'è evidente dal passo della Repubblica citato supra. back (30) E. Tetamo, La teoria platonica dell'anima nel Fedone e negli altri dialoghi, in Platone, Fedone, a cura di Tagliapietra cit., p. 293. Cfr., a questo proposito, anche Vernant, Mito e pensiero cit., pp. 42-63. back (31) Vernant, Mito e pensiero cit., p. 62: "Ogni anima immortale è infatti legata ad un astro, al quale il Demiurgo l'ha assegnata, e verso il quale essa ritorna quando si è purificata per mezzo della reminiscenza", corsivo mio. back (32) Corsivo mio. back (33) Che cosa intenda Socrate con queste due espressioni non è del tutto chiaro: esse potrebbero sinificare le idee, e allora, se è così, sarebbe già evidente l'identificazione della phrònesis, con la conoscenza dell'èidos però esse potrebbero anche indicare ciò che di intelligibile è nelle cose: per quest'ultima interpretazione propende in effetti M. F. Sciacca, Platone, Milano, Marzorati 1967, pp. 195-196, note 41 e 42. back (34) Platone, in questo caso, usa il termine mnème per indicare proprio quel "ricordare" che ha per oggetto l'intelligibile. Ciò, tuttavia, non ci pare metta in discussione quanto sostenuto a proposito della differenza tra anamnesi e ricordo. Innanzitutto, bisogna tenere presente che "… nella gioiosa spinta creativa del Fedro difficile è distinguere ciò che vive di immediata realizzazione artistica da ciò che deve essere materia di speculazione: il tono scherzoso, la suggestione dei miti, la leggiadria letteraria … s'intrecciano e mettono a disagio l'interprete" (Meattini, Temi filosofici nella dottrina platonica della conoscenza, "Filosofia", 30 (1979), pp. 113-128, p. 125); ciò significa tenere presente il fatto che nel Fedro predominano l'atmosfera mitica e la poesia, ma manca, proprio per questa ragione, quella precisione scientifica, che è anche precisione terminologica, che certo troviamo in alcuni dialoghi, come ad esempio il Filebo, ma che tuttavia non è la caratteristica essenziale della filosofia di Platone. D'altra parte, ci sembra di notevole importanza il fatto che sia Platone stesso, appunto nel più "tecnico" e preciso Filebo, a differenziare nettamente la reminiscenza ed il ricordo. Cfr. anche Meattini, Anamnesi e conoscenza cit., pag. 144, nota 52: "Il Bonghi, 1985, p. 85 di Note al Filebo … diceva che spesso in Platone noi troviamo mneme dove dovrebbe dirsi anamnesi …". back (35) È interessante notare l'affinità tra la natura della colpa commessa dall'anima e la natura dell'espiazione. Sembrerebbe quasi una sorta di legge del contrappasso. back (36) Corsivo mio. back (37) Molto chiaro il commento del Valgimigli, a proposito del citato passo 75 e : "... le avevamo dimenticate [le idee] nel precedente processo del nascere o rivivere, quando nuovamente l'anima si rincarna e riveste forma corporea; e le riapprendiamo nel processo del morire, che va dalla vita alla morte, in questo nostro graduale disincarnarsi e spogliarsi e dissolversi del corpo e ritornare pura anima nuda. E, tutto codesto, perpetuamente, in un circolo senza fine, dove i due processi dal vivere al morire e dal morire al vivere si inseguono immediati; e a cui corrispondono perpetuamente, nel medesimo circolo, i due processi del dimenticare e del ricordare"; Phaed. cit. pp. 65-66, corsivo mio. back (38) Dorter, Equality, Recollection cit., pp. 211-212, corsivo mio. back (39) Ivi, p. 213 corsivo mio. back (40) Ibidem, corsivo mio. back (41) Ivi, p. 214. back (42) È degno di nota che Platone scelga nel Fedone come suoi principali interlocutori proprio Simmia e Cebete, due Pitagorici; fu, infatti il pitagorismo per primo a concepire la conoscenza come mezzo di purificazione: esso affiancò certe regole di vita ascetiche, di astinenza, spesso frutto di mera superstizione, volte alla catarsi del corpo, allo studio della scienza, finalizzato alla purificazione dell'anima. L'iter scientifico cui gli adepti dovevano sottoporsi comprendeva: musica, aritmetica, geometria. Cfr. B. Centrone, Introduzione ai Pitagorici, Bari-Roma, Laterza 1996; M. Vegetti, L'etica degli antichi, Bari- Roma, Laterza 1989, pp. 84 e segg. back (43) Vernant, Mito e pensiero cit., p. 54. back (44) Ibidem, nota 7. back (45) La purificazione morale non va intesa solo come condizione preliminare della reminiscenza, cioè come processo che si svolge prima del processo anamnestico, indipendentemente da esso, come fa Paisse, Le thème platonicien de la réminiscence cit., p. 276: sottolineata l'importanza della purezza dell'anima, egli si riferisce infatti ad essa come ad "une ascèse préalable"; del resto, anche il fatto che, nel passo citato, si parli di "colui che va alla scoperta del mondo intelligibile", indica che lo studioso concepisce la purificazione sì come indispensabile alla reminiscenza, ma antecedente ad essa. Reminiscenza e purificazione paiono piuttosto appunto due processi paralleli. Certo, forse, c'è una fase catartica preliminare, un previo distacco dal corpo, che è ciò che consente di dedicarsi alla filosofia, ma è proprio quest'ultima, intesa come conoscenza-reminiscenza dell'èidos, la più vera forma di purificazione, quella che libererà l'anima dal ciclo delle rinascite. Indagine filosofica e catarsi, dunque, paiono davvero compenetrarsi a vicenda. Cfr. Sciacca, Platone cit., p. 61: "...l'ascesi conoscitiva va di pari passo con quella morale", corsivo mio; ivi, p. 86: "l'ascesi conoscitiva è, contemporaneamente, perfezionamento morale", corsivo mio. Così è, del resto, per i filosofi-re della Repubblica, che, se nei gradi alti della formazione pedagogica, studiano le matematiche, propedeutiche all'apprensione intellettuale-noetica delle idee (libro VII), sono nei gradi pedagogici precedenti formati moralmente, soprattutto alla temperanza ed al coraggio, tramite musica e ginnastica (libro III). back (46) Cfr. Vegetti, L'etica cit., p. 11: "essa [la felicità] costituirà sempre per l'etica antica il fine, la motivazione, la promessa dell'azione morale". back (47) L. M. Napolitano Valditara, Il piacere nei Preplatonici e in Platone, dispensa del corso di Storia della filosofia antica, Università di Trieste, A.A. 1995-'96, p. 120, nota 308, a commento di Plat., Resp. I, 353 a-b; cfr. Aristot., Eth. Nic. A 7, 1097 b 22-1098 a 5. back (48) Corsivo mio. back (49) A partire da Socrate la felicità viene interiorizzata e fatta coincidere con la virtù: la Repubblica, dunque, riprende una tesi comune al mondo greco e che, quindi, Platone aveva fatto propria già prima di questo dialogo. D'altra parte, anche Vegetti ritiene il nesso virtù-felicità una costante dell'etica antica (Vegetti, L'etica cit. pp. 10-11). back (50) Phaed. 79 d: "Quando invece l'anima procede tutta sola in se stessa alla sua ricerca, allora se ne va colà dov'è l'eterno e l'immortale e l'invariabile; e, come di questi è congenere…"; in 76 c 11: "E dunque, le nostre anime esistevano anche prima: prima…di essere in questa forma umana indipendentemente dal corpo; e avevano intelligenza", corsivo mio. Qui, evidentemente, l'intelligenza, la razionalità, è caratteristica essenziale dell'anima. back (51) Naturalmente, anche la reminiscenza in senso stretto degli intermedi realizza l'anima ed è quindi fonte di felicità, che, tuttavia, è di grado inferiore rispetto a quella che succede all'anàmnesis dell'èidos. Ciò rinvia alla gerarchia tra diànoiae nòesis. back (52) A. Magris, L'idea di destino nel pensiero antico, Udine, Del Bianco 1984, vol. I, p. 325: "…si può dire che in tutta la morale greca il concetto di 'bene' è stato sempre sinonimo di 'utile' e di 'piacevole' "; corsivo mio. back (53) Cfr. Napolitano Valditara, Il piacere cit., p. 78. back (54) Corsivo mio. back (55) Corsivo mio. back (56) Corsivo mio. back (57) Corsivo mio. back (58) Vegetti, L'etica cit., p. 130. back (59) Ma nel IV libro della Resp., Platone dice che la sophrosýneè simile ad un accordo, ad un'armonia fra le tre parti dell'anima (e dello Stato) a proposito di chi deve governare e che ubbidire. Tale virtù non è perciò della sola parte concupiscibile. back (60) Napolitano Valditara, Il piacere cit., p. 97. back (61) Ivi, pp. 104-105. back (62) Resp. 583 a 4: "L'uomo intelligente approva la propria esistenza da giudice autorevole". back (63) Resp. 585 e: "… ciò che si nutre più realmente e delle cose più reali, gode più veramente e più realmente del vero piacere, mentre ciò he partecipa a cose meno reali può nutrirsi meno veramente e sicuramente e partecipare a un piacere meno sicuro". back