Socrate analista
Fabio Polidori
Io dovrei parlare di Socrate. In realtà non so quanto parlerò di Socrate; e, se ne parlerò, ne
parlerò comunque indirettamente, attraverso un altro; un altro personaggio, che ne parla, le
cui parole anche nel suo caso sono state poi trascritte, un po’ come nel caso di Socrate. Ad
ogni modo questa è solo una analogia che mi serve per introdurre questo altro che parla di
Socrate attraverso il quale parlerò di Socrate, e che è Jacques Lacan. Non mi dilungherò su
di lui, su quanto ha pensato e prodotto intorno alla psicoanalisi e anche alla filosofia – ci
vorrebbe ben più di una lezione –; oltretutto non è di lui che voglio parlare, ma vogliamo
sentirlo parlare di Socrate. E forse anche qualcosa in più: vogliamo che faccia parlare
Socrate, vogliamo sentire come fa parlare Socrate, cosa gli fa dire, come si può farlo
parlare oggi.
Naturalmente la questione è anche: come si può far parlare Socrate all’interno del discorso
psicoanalitico? Ma è un aspetto che toccherò solo marginalmente, e quasi soltanto per
curiosità. Quel qualcosa in più che invece cercherò di mettere a fuoco, sempre attraverso
Lacan ma con intenzioni diverse dalle sue, ha invece a che fare proprio con il discorso
filosofico: con il modo in cui Socrate abita il discorso filosofico, con il modo in cui il
discorso filosofico continua a ospitare in sé la "figura" di Socrate. La "figura" di Socrate:
non il suo pensiero, non le sue parole, non i significati o i tratti della sua personalità, ma il
suo ruolo, il suo posto. Come se insomma, è l’ipotesi che voglio discutere oggi, Socrate –
non il personaggio storico ma, ripeto, la "figura" – potesse tenere un luogo, coincidere
addirittura, forse, con un luogo, e cercheremo di vedere quale, del discorso filosofico.
Ma prima cerchiamo di contestualizzare, molto in sintesi, Socrate in rapporto a Lacan, o
viceversa. Dal 1953 al 1980 Lacan tiene annualmente un seminario, dedicato ad analisti in
formazione e non, cui partecipano anche personaggi molto noti del mondo della filosofia.
Nel 1960-1961 Lacan decide di dedicare il seminario alla questione del transfert.(1) L’anno
prima il seminario era stato dedicato all’etica della psicoanalisi, e una buona parte, verso la
fine, era stata condotta attraverso un lungo commento di Lacan all’Antigone di Sofocle.(2)
Questo commento gli era servito anche per mettere a fuoco la questione della morte a
partire dal tragico e, appunto, attraverso la figura tragica di Antigone. Quasi a prolungare la
sua permanenza presso la grecità, il seminario sul transfert si apre con l’annuncio che
buona parte delle "lezioni" – alla fine risulteranno essere più della metà – verranno
affrontate attraverso il commento di un dialogo di Platone, il Simposio. Si tratta, rispetto al
commento dell’Antigone, di un prolungamento, ma fino a un certo punto; perché, mentre il
desiderio di morte di Antigone era stato letto attraverso i tratti tragici del personaggio, il
desiderio di morte che Lacan, quasi subito all’inizio, ci fa vedere in Socrate – anzi:
attraverso cui introduce la figura di Socrate – assume un aspetto del tutto diverso. Socrate
non è affatto un personaggio tragico nel senso di Antigone. E a questo proposito Lacan ci
ricorda che Socrate è uno che con la dimensione del tragico ha ben poco a che fare; anzi,
dice Lacan, non ne capisce niente: e ci fa pensare per esempio a quello che ne scrive
Nietzsche, il quale, come è noto, fa risalire a Socrate la fine della tragedia e l’inizio della
razionalità e della decadenza. E ci rimanda addirittura allo stesso Platone, il quale, nel
Gorgia, ce lo rivela, facendo fare a Socrate la parte di colui che liquida la tragedia in poche
righe, e come se fosse una "retorica come un’altra". (3) E tuttavia, insiste Lacan, c’è un
desiderio di morte in Socrate. A leggere l’Apologia sembra davvero, sulla base delle
risposte che Socrate dà ai suoi accusatori e ai suoi giudici, che in fondo non gliene importi
molto di salvare la pelle; anzi, sembra di trovarci di fronte, dice Lacan, alla "natura
enigmatica di un desiderio di morte".(4)
Cosa vuol dire? Di quale natura si tratta? Per Lacan, questa natura del desiderio di morte in
Socrate ha a che fare essenzialmente con la sua atopìa, con il suo non avere luogo, secondo
una celebre espressione di Platone. E, soggiunge Lacan, soltanto un demone (altro
elemento difficile a collocarsi, né uomo né dio, lo vedremo meglio più avanti; e comunque
è ciò che costituisce la natura di Socrate, lui stesso lo dice) "sostiene l’atopìa di
Socrate".(5)
Questi due termini, atopìa e dàimon, sono dunque quelli che cercheremo di tenere presenti
e di cui ci serviremo per gettare uno sguardo sulla figura di Socrate, sempre che ce ne sia
una, e comunque tenuto conto che forse non ce n’è una sola. Dunque, come dicevo prima:
non si tratterà tanto di inquadrarla, di delimitarla o di chiarirla, questa figura; quanto
piuttosto di ritrovare in essa qualcosa che ha a che fare, più che con un personaggio, con un
"luogo" (lo chiamo così; potremmo anche chiamarlo "aspetto" o "dimensione") del
discorso filosofico. Ciò che "sostiene" Socrate – uso l’espressione di Lacan di cui va
mantenuto il doppio senso: nel senso di ciò da cui Socrate è sostenuto, la sua "natura"; ma
anche nel senso di ciò che Socrate sostiene: sostenere come si sostiene una parte, un ruolo
– è forse anche ciò attraverso cui si sostiene il discorso filosofico. Ciò che sostiene il
discorso filosofico: nel senso, se vogliamo, di ciò che sta sotto (potremmo chiamarlo forse
"fondamento"?), e che perciò non si vede, di ciò che non si dichiara. Con un po’ di azzardo,
si potrebbe dire: di ciò che il discorso filosofico rimuove, e cioè di ciò che, proprio per
questo e secondo una modalità niente affatto esplicita, continua tuttavia a parlare nel
discorso filosofico. E con questo forse diventa un po’ più chiaro l’uso che possiamo fare di
Lacan, al di là del fatto di riportare quanto dice e tenuto conto che non si tratta
necessariamente di assumere gli stessi obiettivi. Lacan vuole parlare del transfert, e lo fa
attraversando Socrate; tutto quel che dice è in fondo diretto in questo senso. Per noi si tratta
invece di una posta in gioco forse più alta: e cioè di riuscire a individuare in Socrate e
attraverso le parti che sostiene nel Simposio di Platone (ma forse non solo) qualcosa – la
chiamo una "figura", ma è anche una modalità, anche una strategia – del discorso
filosofico.
Comunque, tanto per sapere come finisce con il Socrate di Lacan: alla fine del Simposio,
Lacan gli fa fare la parte dell’analista, gli fa fare il ruolo di colui che dà, in senso vero e
proprio, in senso analitico, una interpretazione ad Alcibiade. A questo punto, alcune cose
del Simposio andrebbero magari ricordate, al di là del fatto che questo dialogo platonico è
famoso soprattutto perché vi si parla dell’amore. E se ne parla in maniera alquanto
rocambolesca, attraverso vari scenari, e anche qualche colpo di scena. In breve: vari
personaggi, tutti ovviamente di rango, gente della buona società, si riuniscono a casa di
Agatone; questi, il giorno prima aveva vinto le gare tragiche. Tutti avevano festeggiato con
lui e si erano sbronzati a tal punto che all’indomani, riunitisi per banchettare, decidono di
non ubriacarsi; non ce la fanno più, non reggerebbero una seconda sbornia. E decidono di
parlare di Amore; con un certo ordine, incominciando da destra verso sinistra. Insomma, si
danno delle regole. Quando tocca a Socrate, che è l’ultimo, questi osserva che fino a quel
momento tutti avevano fatto l’elogio di Amore; il che significa, appunto, che lo hanno
elogiato, ma non per questo, anzi, proprio per questo non hanno detto la verità su Amore. E
Socrate, prima di incominciare il suo discorso, si schermisce: certo non può mettersi a
parlare ora, dopo Agatone (che è un maestro di eloquenza), e alla stessa maniera, negli
stessi termini, senza rischiare figure meschine. E così decide di non fare un elogio di
Amore; vuole parlarne bene, certo, ma vuole soprattutto dire la verità. Dunque comincia, a
modo suo, quel modo che tutti conosciamo bene: Amore è amore di qualcosa o di nulla? Di
qualcosa. Di qualcosa che si possiede o no? Certamente no. Ma se Amore per esempio
desidera la bellezza, vuole dire che non ce l’ha; ma allora Amore è brutto… E proprio qui
Socrate si ferma. Cambia registro. Forse per non deridere troppo Agatone (era a lui che
faceva le domande); forse. Comunque si ferma e si mette a riportare il famoso discorso di
Diotima (sul quale ritornerò in seguito). Finito il discorso, ecco il colpo di scena: entra
Alcibiade, altro personaggio di spicco nella Atene di allora, un personaggio tanto
importante – e, in quell’occasione, anche tanto ubriaco – da modificare le regole: si mette
infatti a parlare non di Amore, ma di Socrate. Cioè del suo oggetto di amore. E tutto ciò –
dettaglio non trascurabile della scena – dopo essersi messo a sedere tra Agatone e Socrate.
E ne racconta davvero di carine, con molta sincerità, come del resto si tende a fare quando
si è sbronzi: non solo si mette a parlare delle grandi e superiori qualità di Socrate, ma anche
di tutti i corteggiamenti che gli ha dedicato e delle magre figure che Socrate gli ha fatto
fare, non cedendo alle sue lusinghe. Anzi, a quel punto, e proprio lì, di fronte a tutti,
Socrate gli fa rimediare un’altra magra figura. Perché gli dice che tutto il suo discorso, il
discorso di Alcibiade, ha soltanto lo scopo di allontanare Socrate da Agatone, perché in
realtà ciò che Alcibiade vuole è che Socrate ami solo lui, mentre Agatone solo da Alcibiade
deve essere amato. E con ciò si rivela però che il vero oggetto di amore di Alcibiade non è
Socrate, ma Agatone.
Niente male come intreccio. E bel colpo da psicoanalista, osserva Lacan; è una vera e
propria interpretazione. In una situazione che ricorda abbastanza da vicino quella della
seduta analitica – dove l’amore di transfert non ha come oggetto l’oggetto del transfert,
cioè l’analista, ma un Altro – parlando di Socrate, dichiarandogli il suo amore, Alcibiade
parla in realtà di un altro, parla di Agatone. E questo, diciamo, è a grandissime linee l’esito,
la conclusione del percorso di Lacan.
Ma, dicevo, non è principalmente per questo esito che ci interessa il discorso di Lacan. Non
è in questione una applicazione della psicoanalisi alla filosofia, né viceversa. è in questione
piuttosto la figura di Socrate in quanto emblematica del modo di sostenersi del discorso
filosofico. E per vederlo cerchiamo adesso di raccogliere qualche elemento su cui Lacan ci
fa cadere l’occhio nel corso del suo commento.
Per trasformare Socrate in analista, Lacan ha bisogno di introdurre nella sua figura dei tratti
che non sono affatto privi di importanza e interesse, e non solo per i suoi scopi. Tutte cose
che, del resto, si conoscono abbastanza. Due di questi tratti li abbiamo già indicati: la
atopìa di Socrate, e il suo demone. Potremmo anche considerarli una "spersonalizzazione"
(forse ha a che fare con quello strano desiderio di morte): ecco allora che già questi due
tratti ci consentono di intendere la sua "figura" anche come qualcosa che scompare, o
qualcosa da cui scompare, per esempio, una dimensione individuale, o soggettiva; e anche
per questo potrebbe forse trasformarsi, e riapparire come una funzione di discorso. Del
resto, la sua stessa posizione nel transfert con Alcibiade ce lo consente: lì Socrate è una
funzione, un ruolo, un luogo cui Alcibiade si rivolge per dire – inconsapevolmente – una
verità che sta altrove, che vale per un altro. E per quanto qui Socrate riveli un aspetto
abbastanza inedito – di solito è molto più sornione e "ironico" con i suoi interlocutori, e
certo con loro non fa la parte dell’analista o del terapeuta, ma semmai quella dell’educatore
– possiamo da qui cominciare a seguire una pista che ci porti in un contesto più generale, e
più ampio. Una pista che ci porti a dire qualcosa di più circa quel particolare rapporto con
la verità che Socrate definisce come un sapere di non sapere e che, vuole la tradizione,
inaugurerebbe la ricerca filosofica non naturalistica. E che forse possiamo ritrovare
presente, ma secondo la modalità della rimozione (o magari soltanto un po’ defilata e sullo
sfondo), nelle varie logiche e strategie del discorso filosofico; soprattutto nella sua pretesa
– costante, infinita, sempre ripetuta – di giungere alla verità.
Cerchiamo allora di dire qualcosa di più su questa che propongo come una traduzione della
"figura" di Socrate in figura di discorso. E lo facciamo, sempre aiutati da Lacan, andando a
vedere come possiamo interpretare quello che è un passo, un episodio molto famoso, e
decisivo, di Socrate: la sua fuga nei lògoi. Nel Fedone Socrate racconta la sua storia, una
sorta di autobiografia intellettuale, di come passò dalla ricerca nelle cose della natura a
un’altra ricerca, a un "nuovo modo per la ricerca della vera causa": "…stanco com’ero di
tali indagini [sulla natura], credetti bene guardarmi da questo, che cioè non mi capitasse
come a coloro che durante una eclissi contemplano e indagano il sole: alcuni infatti ci
perdono gli occhi, se non si limitano a considerarne l’immagine riflessa nell’acqua o in
qualche cos’altro di simile. E così pensai anch’io, e temetti mi si accecasse del tutto
l’anima a voler guardare direttamente le cose con gli occhi e a cercare di coglierle con
ciascuno dei sensi. E mi parve che dovessi rifugiarmi nei discorsi (lògoi), e considerare in
essi la verità delle cose".(6) è un gesto decisivo, dicevo. Che non consiste tanto nel
riportare la ricerca dalla natura all’uomo (come vuole per esempio la lettura di Cicerone),
né tutte le cose all’uomo (come i sofisti, e Protagora in particolare), ma nel fatto che, come
dice Lacan, "bisogna anzitutto garantire il sapere". Ciò che Socrate scopre, e che gli
consente di fondare la scienza, l’epistème, "è che il discorso genera la dimensione della
verità. […] Quando Socrate dice che è la verità, e non lui stesso, a confutare il proprio
interlocutore […] rinvia insomma all’ambito del puro discorso tutta l’ambizione del
discorso. […] Socrate riporta la verità al discorso".(7)
Questa è la sua atopìa, in fondo, il "da nessuna parte" di un individuo, di una coscienza si
potrebbe anche dire, quando entra in gioco la verità. è, se vogliamo, anche un ulteriore
elemento di quella che poco fa ho chiamato, magari con un termine un po’ brutto, una
spersonalizzazione. La verità non avrebbe più direttamente a che fare con un oggetto
(natura), e nemmeno con un soggetto (coscienza), ma la verità sta nel discorso. Forse anche
in questo senso possiamo leggere quello che Lacan chiama il desiderio di morte in Socrate:
non un desiderio tragico, tra due ordini di leggi; ma il desiderio, quasi la necessità, di un
venir meno del soggetto perché la verità possa apparire per ciò che è: non una dimensione
individuale ma una dimensione di discorso.
Un desiderio che è sostenuto da un demone, si diceva anche: e qui si può pensare a un altro
tratto della figura di Socrate. Quel tratto che, secondo ciò che ci racconta nell’Apologia, ha
a che fare con l’inizio della sua ricerca, con l’inizio della sua attività pubblica. Quando
Socrate incomincia ad andare in giro a fare domande? Quando da un amico gli viene
riportata una sentenza dell’oracolo di Delfi, secondo cui egli sarebbe il più sapiente di
tutti.(8) E invece di rimanersene tranquillo e contento, Socrate si mette a girare e a fare
domande; per realizzare attraverso il discorso la verità del dio, incominciando a demolire il
sapere dei sapienti. Ma anche incominciando a demolire la stessa verità del dio. Come se,
insomma, quel demone che lo abita, e che oltretutto gli viene da altrove, da un altro,
anziché soddisfarlo, producesse un desiderio di verità, quel desiderio di verità che animerà
tutti i suoi discorsi. Ma, va sottolineato, un desiderio di verità contro la verità stessa,
addirittura – e paradossalmente – contro la verità del sapere di un dio che non può mentire.
Ma allora che cosa si esprime propriamente attraverso questa figura senza luogo, questo
Socrate che è atopon, il cui desiderio, ciò che porta dentro di sé e che egli stesso chiama
demone, proviene dall’altro, dal dio? Che cosa può significare se questa figura la
traduciamo nel discorso filosofico? Che cosa accade a ciò che abitualmente chiamiamo il
soggetto del discorso filosofico? Anzitutto che esso può qui rivelare una diversa
configurazione, e precisamente una configurazione desiderante. Dove il desiderio ci riporta
a un vuoto costitutivo, a una mancanza, a un non possesso. Non va dimenticato che il
filosofo non è il sapiente, colui che possiede il sapere; ma è colui che desidera il sapere,
colui che non ce l’ha. è una questione di vuoto, quel vuoto che allora la figura di Socrate
per così dire incarna e che impedisce o, si potrebbe dire oggi, decostruisce ogni sapere
positivo.
A questo punto sarebbe abbastanza confortevole sbrigarcela così alla svelta e precipitarci a
dire che ciò che muove Socrate, ciò che muove il discorso filosofico, è un desiderio;
ovvero qualcosa che è dell’ordine della mancanza. Ci manca qualcosa, dunque la
desideriamo, e tutto sembra funzionare. Ma questo in fondo andrebbe proprio in direzione
opposta rispetto alla atopìa di Socrate, perché ci troveremmo di fronte a una specie di
dialettica tra vuoto e pieno e la posizione di Socrate, in quel vuoto, non sarebbe per nulla
atopica, anzi, sarebbe ben collocata. E invece è proprio da qui che le cose incominciano a
complicarsi, perché il vuoto del discorso filosofico, il vuoto di Socrate che vuole sapere, il
vuoto del desiderio non è assolutamente una nozione così maneggevole come sembra. Del
resto abbiamo già visto che questo vuoto non è del tutto vuoto: questo vuoto, l’abbiamo
visto, sono le parole del dio, quelle che forse possono sembrare addirittura le parole più
piene. Eppure queste parole non bloccano il desiderio; semmai, anzi, nel caso di Socrate, lo
schiudono, lo suscitano.
Proprio da qui possiamo ritornare, dopo questo giro, al Simposio, a ciò che forse è
soprattutto la questione di questo dialogo: l’amore, il desiderio, certo, ma anche la loro
presenza nel discorso filosofico, più che il loro essere oggetto del discorso filosofico. E per
arrivare al loro carattere costitutivo e insieme inafferrabile per il discorso filosofico stesso,
alla loro incollocabilità, alla loro atopìa. Alla impossibilità, quasi, di parlarne.
Partiamo allora da un punto che di solito non ci viene subito in mente quando pensiamo a
Socrate. Quando pensiamo a Socrate ci viene in mente che lui è uno che sa di non sapere. E
tuttavia non è proprio così; non è che Socrate non sappia proprio niente. Anzi, come in più
parti dice, egli non sa niente di niente, fuorché le cose dell’amore. Per esempio: "… non
dirmi più se ami o no perché vedo che non soltanto sei innamorato, ma sei già anche avanti
nell’amore. Ché, se in tutto il resto sono mediocre ed inutile, in questo ho come un dono
divino di poter riconoscere a prima vista chi ama e chi è amato";(9) ed è, questa, una
dichiarazione che Socrate riprende in maniera ancora più chiara proprio nel Simposio, dove
afferma di essere stato istruito da Diotima nelle cose d’amore: "fu proprio lei che mi istruì
nelle cose d’amore…"; e, prima ancora, quando Eurissimaco propone di parlare di amore:
"Nessuno, o Eurissimaco, disse Socrate, ti voterà contro, perché non potrei oppormi
certamente io che vo sempre dicendo di non saper altro che cose d’amore…".(10)
Eppure, quando si tratta di parlare di amore, di quell’unica cosa che conosce, Socrate non
si comporta fino in fondo da Socrate. Incomincia a farlo, lo abbiamo visto prima, riprende
le cose appena dette da Agatone e procede a confutarle, però si ferma. Dove si ferma?
Proprio nel momento in cui il rigore del suo discorso scientifico, il rigore della epistème,
non lo farebbe procedere oltre. Nel momento in cui, volendo affrontare l’amore nella sua
verità, volendo dire la verità sull’amore, è costretto a trasformarlo in desiderio, forse così
smascherandone la natura, ma sbarrandosi anche la strada per parlare del desiderio in
termini scientifici, in termini "filosofici". Amore è amore di qualcosa; amore è amore di
bellezza; ma si ama ciò di cui si è privi; amore quindi è privo di bellezza; ma allora amore
non è bello; e, se ciò che è bello è buono, amore è anche privo di bontà ecc.(11)
Insomma, quando Socrate comincia a cercare di dire la verità sull’amore, quando cerca di
dire la verità del desiderio, si accorge che non può andare oltre. E proprio di fronte a
quell’unica cosa che conosce. Ecco dunque che Socrate esita, si ferma, esce quasi di scena.
Come a significare, senza poterlo dire, che non c’è verità di quel luogo della verità che lui
incarna; che lui incarna non solo con la sua mancanza, con il suo vuoto, ma anche, e questo
può suonare del tutto paradossale, con l’unica cosa che sa. L’unica cosa che sa, che lo
sostiene, come direbbe Lacan, sono le cose dell’amore, ma proprio queste non possono
essere oggetto di scienza, non possono essere l’oggetto del suo discorso. Sono le cose che
lo sostengono, senz’altro, nel suo desiderio e nel suo discorso, ma proprio come tali gli
sfuggono, sfuggono alla fuga nei lògoi che lui è, sostengono il discorso sfuggendogli.
Ma allora come si può affrontare il discorso sull’amore? Non sembra che ci siano
alternative: proprio introducendo uno scarto rispetto all’epistème. Attraverso una
esitazione; forse, più ancora, attraverso una rinuncia. La rinuncia alla onnipotenza della
logica del discorso, la rinuncia alla pretesa scientifica, la rinuncia alla epistème. La
rinuncia a quella macchina scientifica che proprio Socrate aveva inventato e di cui ci dà un
ulteriore assaggio quando si rivolge ad Agatone; una macchina che improvvisamente deve
essere bloccata. Ed è proprio qui che Diotima entra in scena; è Diotima che, per bocca di
Socrate, riprende proprio il discorso che lui aveva interrotto per dirgli, grosso modo, che
l’alternativa bello/brutto, sapiente/ignorante, insomma quella macchina non va più bene,
non regge se si parla di amore. C’è anche una via di mezzo tra la sapienza e l’ignoranza.
Qual è? chiede Socrate: ""Giudicare con giustezza, anche senza essere in grado di darne
ragione. Non sai che ciò appunto non è scienza – perché dove non si sa dar ragione come
potrebbe esservi scienza? Né ignoranza – giacché ciò che coglie il vero come potrebbe
essere ignoranza? Orbene qualcosa di simile è la giusta opinione, qualcosa di mezzo fra
l’intendere e l’ignoranza"".(12)
E dopo che Socrate continua a chiedere cos’è amore, ecco la risposta di Diotima: ""Un
demone grande, o Socrate. E difatti ogni essere demonico sta in mezzo fra il dio e il
mortale. […] Anche fra sapienza e ignoranza [Amore] si trova a mezza strada, e per questa
ragione nessuno degli dèi è filosofo, o desidera diventare sapiente (ché lo è già), né chi è
già sapiente s’applica alla filosofia. D’altra parte, neppure gli ignoranti si danno a
filosofare né aspirano a diventare saggi, ché proprio per questo l’ignoranza è terribile, che
chi non è né nobile né saggio crede d’aver tutto a sufficienza; e naturalmente chi non
avverte d’essere in difetto non aspira a ciò di cui non crede d’aver bisogno." "Chi sono
allora, o Diotima, replicai, quelli che s’applicano alla filosofia, se escludi i sapienti e gli
ignoranti?". "Ma lo vedrebbe anche un bambino, rispose, che sono quelli a mezza strada fra
i due, e che anche Amore è uno di questi. Poiché appunto la sapienza lo è delle cose più
belle ed Amore è amore del bello, ne consegue necessariamente che Amore è filosofo, e in
quanto tale sta in mezzo fra il sapiente e l’ignorante.""(13)
Una via di mezzo, come abbiamo sentito. Che però, ancora una volta, non possiamo
prendere troppo tranquillamente, facendo la media tra un po’ di sapere e un po’ di non
sapere. Soprattutto se ci accorgiamo che quando Diotima dice che "Amore è filosofo" non
sta solo parlando di un personaggio atopico, di un demone, come lo chiama, ma sta
parlando anche, e forse soprattutto, di quella modalità del discorso che quando è discorso
filosofico che ha per oggetto amore non può pretendere di darne ragione: non può
pretendere di dare ragione di ciò che lo sostiene. Lo abbiamo sentito poco fa: qual è questa
via di mezzo tra la sapienza e l’ignoranza, chiede Socrate. E Diotima: "Giudicare con
giustezza, anche senza essere in grado di darne ragione". Che potremmo a questo punto
tradurre come una figura un po’ bizzarra, paradossale, della verità: una verità che non può
dare conto, che non può dare ragione di se stessa. Una verità che, se vogliamo seguire
Lacan, è piuttosto dell’ordine dell’inconscio, secondo la scoperta freudiana. Ma se anche
non lo volessimo seguire su quella che è una possibile traduzione psicoanalitica del
discorso filosofico, non dovremmo tuttavia restare sordi a quel carattere di paradossalità
che il discorso filosofico assume quando scopre non solo che è abitato da amore, non solo
che amore, già con Socrate e proprio in riferimento al discorso filosofico stesso, è
dell’ordine del desiderio, ma soprattutto che di questo desiderio, che sostiene Socrate, che
sostiene il discorso filosofico stesso, non si può venire a capo. Si può dire la verità, ma non
si può dire la verità sulla verità; non si può darne ragione. Non si può dare ragione,
insomma, proprio dell’unica cosa che si sa.
Da qui un’ultimissima considerazione. Che cioè del desiderio che abita il discorso
filosofico non sappiamo nulla, se non che è, appunto, desiderio. Qui la parola "desiderio"
potrebbe sembrare, e forse è, una parola allo stesso tempo piena e vuota; forse potremmo
chiamarla una parola atopica. Proprio per questo, se la filosofia potesse familiarizzare con
questa parola, forse potrebbe anche imparare ad abitarla. Forse, se imparasse ad abitarla – e
in questo non nascondo la incombenza di un compito etico – avrebbe la possibilità non
dico di sospendere o arrestare, ma di declinare in maniera diversa la propria macchina
scientifica, la propria deriva scientifica; di introdurre nel discorso filosofico ciò che
comunque già c’è, il suo desiderio.
Non saprei cosa altro dire su questa faccenda del desiderio. Voglio ricordare però che in
una seduta del seminario sull’etica, e parlando del desiderio dell’analista, Lacan grosso
modo dice che nell’analisi c’è il desiderio dell’analizzato, ma c’è anche il desiderio
dell’analista. Solo, la differenza è che il secondo, il desiderio dell’analista, deve essere "un
desiderio avveduto".(14) Introdurre il desiderio in filosofia, come Socrate forse sembra
avere fatto senza su questo punto essere seguito, e come Lacan indica all’analista che si
deve fare, significa forse introdurlo come un desiderio avveduto, come un desiderio che
non ceda al desiderio di non vedersi.
Note.
(1) Jacques Lacan, Le Séminaire. Livre VIII. Le Transfert, 1960-1961, texte établi par Jacques-Alain Miller,
Seuil, Paris 1991. back
(2) Jacques Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi, 1959-1960 (1986), testo stabilito da
Jacques-Alain Miller, edizione italiana a cura di Giacomo B. Contri, Einaudi, Torino 1994; cfr. in particolare
pp. 307-361. back
(3) Jacques Lacan, Le Transfert, cit., p. 102; il passo del Gorgia cui Lacan si riferisce è probabilmente 502b.
back
(4) Ibid. back
(5) Ibid. back
(6) Fedone, 99d-e. back
(7) Jacques Lacan, Le Transfert, cit., p. 100; qui Lacan si riferisce a un passo del Simposio, 201c: "La verità,
amato Agatone, non puoi contraddire, perché contraddire Socrate non è difficile". back
(8) Cfr. Apologia, 21a. back
(9) Liside, 204b-c. back
(10) Simposio, 201d; 177d. back
(11) Cfr. Simposio, 200e-201c. back
(12) Simposio, 202a. back
(13) Simposio, 202d-e; 203e-204b. back
(14) Jacques Lacan, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 377; l’intero passo dice: "Ciò che l’analista ha da dare,
contrariamente al partner dell’amore, è ciò che la più bella sposa del mondo non può oltrepassare, ossia ciò che
egli ha. E ciò che egli ha, non è nient’altro che il suo desiderio, come l’analizzato, a parte il fatto che è un
desiderio avveduto." back
Aspetti etici della teoria della reminiscenza*
Elisabetta Zannier
1. Introduzione
"Sì, cercare ed apprendere sono, nel loro complesso, reminiscenza!" ("Tò gàr zetèin àra kài
tò manthànein anàmnesis hòlon estìn"; Men. 81 d 5) (1).
"...ogni nostro apprendimento non è altro che reminiscenza..." ("…he màthesis ouk àllo ti è
anàmnesis tynchànei òusa…"; Phaed. 72 e 5) (2).
Stando alle due icastiche affermazioni ora riportate, il Menone ed il Fedone platonici
presentano la teoria della reminiscenza come una teoria prettamente gnoseologica (3):
l'anàmnesis la reminiscenza] e la màthesis [l'apprendimento] si equivalgono, per cui
apprendere consiste appunto, com'è noto, nell'avere reminiscenza. Ad un esame più
approfondito, tuttavia, tale celebre dottrina sembra oltrepassare i limiti della pura
gnoseologia, per acquisire anche una valenza etica: i concetti di kathàrsis e di eudaimonìa fondamentali nell'etica platonica- paiono, infatti, strettamente connessi al concetto di
anàmnesis.
Prima di provare ad evidenziare tali aspetti etici della teoria dell'anamnesi, è necessario,
però, soffermarsi brevemente sul termine stesso anàmnesis per richiamare che cosa esso
denoti specificatamente nel pensiero platonico- scopo per cui lo confronteremo con un altro
termine, ad esso in qualche modo legato, e cioè mnème, ricordo-, e per chiarire, quindi, il
possibile significato che la dottrina della reminiscenza (tanto nota quanto, forse, fraintesa)
pare assumere.
2. Il concetto platonico di reminescenza
La reminiscenza è una funzione di tipo rimemorativo- per cui avere reminiscenza di x
significa ricordare x-, ma essa non va confusa con il semplice ricordo, con la greca
mnème: Platone, infatti, distingue nettamente e, per certi versi, contrappone anàmnesis e
mnème Tale distinzione emerge con chiarezza da un confronto tra i brani di alcuni dei
dialoghi in cui compaiono i due termini(4): ad una lettura anche solo superficiale appare
evidente, infatti, che il nostro filosofo fa un uso diverso di queste due parole, ovvero che,
scrivendo mnème egli?intende indicare qualcosa di differente da ciò a cui, invece, si
riferisce scrivendo anàmnesis, e viceversa.
Egli, infatti, pare servirsi del termine anamnesi per designare un particolare atto di
rimemorazione, di tipo associativo, che può avere per oggetto tanto la realtà sensibile
quanto quella intelligibile e che, in quest'ultimo caso, equivale all'apprendimento del vero.
Vediamo i testi più significativi sulla base dei quali è stata formulata quest'ipotesi
interpretativa (5).
Nel Menone, in 81 e 2, Socrate si chiede: "...quello che denominiamo apprendimento è
reminiscenza?" ("…hèn kalòumen màthesin anàmnesìs estin"). In 98 a 4, poi, egli precisa:
"Proprio in questo [nel ragionamento causale, ovvero nella conoscenza delle cause, delle
idee] consiste l'anamnesi …" ("Tòuto d'estìn…anàmnesis…").
Nel Fedone, in 73 b 5, leggiamo: "Tu, dunque, sei in dubbio di questo, in che modo quello
che diciamo apprendimento sia reminiscenza?" ("Apistèis gàr dè pòs he kaloumène
màthesis anàmesìs estin?"). E in 73 d 8: "...gli innamorati ... accade questo, che
riconoscono la lira e al tempo stesso rivedono con la mente la figura dell'innamorato di cui
è la lira? Questo è reminiscenza" ("…hoi erastài…pàschousi tòuto: ègnosàn te tèn lýran
kài en tè dianòia èlabon tò èlabon tò èidos tòu paidòs hòu èn he lýra? Tòuto dè estin
anàmesis"). Quindi, in 76 a 7, Socrate riflette: "...e questo apprendimento [delle idee] sarà
appunto reminiscenza" ("...kài he màthesis anàmneis àn èie"). E, in 91 e 6: "...di quel
ragionamento in cui io sostenevo che l'apprendimento è reminiscenza..." ("...tòu lògou…en
hò èfamen tèn màthesin anàmesin èinai…"). Infine, in 92 c 9 e in 92 d 6 leggiamo:
"...l'apprendimento è reminiscenza..." ("...tèn màthesin anàmnesin èinai…") e: "...il
ragionamento riguardo alla reminiscenza e all'apprendimento..." ("...ho dè perì tès
anamnèseos kài mathèseos lògos…").
Nel Fedro possiamo trovare il termine che ci interessa al passo 249 c 2: "...e questa
[l'attività che consiste nel procedere da una molteplicità di sensazioni ad una unità colta
con il pensiero] è una reminiscenza di quelle cose che la nostra anima ha visto, quando
procedeva al seguito di un dio e guardava dall'alto le cose che diciamo che sono essere..."
("…tòuto d'estìn anàmnesis ekèinon hà pot'èiden hemòn he psychè…") (6).
Infine, nel V libro delle Leggi, in 732 b 8, Platone scrive: "la reminiscenza...è l'affluire
dell'intelligenza perduta..." ("anàmnesis…estìn epirroè phronèseos apoleipòuses…") (7).
L'uso che il nostro filosofo fa del termine mnème, invece, pare sostanzialmente diverso. Il
ricordo sembra essere, infatti, per Platone, in primo luogo la facoltà della memoria, ma
anche l'oggetto stesso della memoria e la gloria postuma.
Facciamo alcuni esempi (8). In Phaed. 96 b 6, troviamo l'espressione "…memoria ed
opinione…" ("…mnème kài dòxa…") in un discorso che non tocca nemmeno da vicino il
tema del conoscere: Socrate, infatti, sta spiegando ai suoi discepoli, le sue prime esperienze
filosofiche, quelle di tipo naturalistico.
In Resp. VI 490 b 6, la mnème viene elencata in una lista delle virtù che caratterizzano il
vero filosofo: "Tu ricordi che le abbiamo identificate nel coraggio, nella generosità, nella
facilità ad apprendere, nella memoria" ("Mèmnesai gàr pou hòti synèbe prosèkon tòutois
andrèia, mephaloprèpeia, heumàtheia, mnème") (9).
Nel Convito, in 209 d 4, leggiamo: "…lo studio, ingenerando un nuovo ricordo, al posto
di quello che è andato via…" ("…melète…kainèn empoiòusa antì tès apiòuses mnèmen…")
(10).
Infine, sempre nel Convito, in 209 d 4, Platone associa: "gloria e ricordo immortale…"
("…athànaton klèos kài mnèmen…").
La conferma indiscutibile del fatto che anàmnesis e mnème non sono due sinonimi
intercambiabili, cioè la conferma di un uso platonico di tali termini niente affatto casuale e
privo di significato filosofico, la troviamo, però, nel passo 34 b 2 del Filebo, in cui Socrate
domanda a Protarco: "Non diciamo che la memoria [mnème] differisce dalla reminiscenza
[anàmnesis]?"; e Protarco risponde: "Giustamente" (11). Il medesimo brano, poi, spiega in
che cosa consista tale differenza tra mnème ed anàmnesis: mentre la prima è una funzione
passiva, in quanto semplice conservazione della sensazione (soterìa tòinyn aisthèseos;
Phil. 34 a 10 (12)), la reminiscenza, al contrario, è una funzione attiva. Essa, infatti, si
verifica quando l'anima rivive (analambàne), ripete (anapolèse) sensazioni assenti, ovvero
quando recupera un'affezione sensibile oppure una conoscenza il cui ricordo era andato
perduto: "Anche quando, avendo perso il ricordo [mnème] sia di una sensazione sia anche
di un'intellezione, l'anima la recupera di nuovo in se stessa, da sola (anapolèse pàlin autè
en heautè), ecco, anche tutti questi atti dovremmo chiamarli riminiscenze" (13).
Quest'attività in cui consiste l'anamnesi prende avvio dalla sensazione ed è, come già
accennato, di tipo associativo: avere reminiscenza di x significa percepire y e pensare ad x
(associare, dunque, y ad x), in virtù di un legame tra x ed y (14). Tale legame può
instaurarsi in seguito ad una somiglianza naturale fra l'oggetto percepito e quello pensato
(vedo il ritratto di Simmia e penso a Simmia)- caso nel quale la reminiscenza è diretta-,
oppure in seguito all'abitudine ad associare due oggetti dissimili (l'innamorato pensa alla
persona amata vedendo la lira che le appartiene) - caso nel quale la reminiscenza è indiretta
- (15)
L'anamnesi sembra essere, dunque, frutto di una cooperazione tra sensi e ragione: la
percezione sensoriale è punto di partenza e stimolo del processo anamnestico, ma, per dare
origine a tale processo, essa deve essere seguita dalla riflessione razionale sull'oggetto
percepito (16).
Il ricordare ha, quindi, in Platone, una duplice valenza, dal momento che può consistere in
un mero avere in sé (conservare) le tracce delle sensazioni o delle conoscenze acquisite nel
corso della vita- in questo caso si connette alla funzione che il nostro filosofo definisce
mnème-, oppure esso può consistere in un attivo, impegnativo e faticoso recuperare
qualcosa di passato- in questo caso essa è frutto particolare della facoltà chiamata
anàmnesis- (17).
L'opposizione tra ricordo e reminiscenza può essere vista, oltre che secondo le categorie di
attivo e passivo, anche secondo le categorie di attuale e virtuale. Socrate, infatti, nel già
citato brano del Filebo, afferma che, grazie all'anamnesi, l'anima ripete, rivive, da sola in sé
e senza il corpo (àneu tòu sòmatos autè en heautè) le affezioni provate un tempo con il
corpo (Phil. 34 b 7); la reminiscenza, allora, non parrebbe limitarsi a rievocare qualcosa
che ormai non c'è più, bensì darebbe un'esperienza effettiva del passato, rendendolo di
nuovo attuale: "… l'anima ricorda, 'ripete' il passato come presenza nell'anàmnesis" (18).
Un'importante differenza tra anamnesi e ricordo riguarda, poi, l'oggetto specifico di queste
due facoltà: mentre la mnème, in quanto semplice conservazione delle sensazioni e degli
avvenimenti che costituiscono la nostra vita presente, ha per oggetto il solo mondo
sensibile, l'anàmnesis ha una sfera d'azione più ampia, che può comprendere tanto
l'universo intelligibile – le idee e gli enti matematici intermedi (19) –, quanto quello
empirico. Di quest'ultimo, dunque, ci può essere tanto anamnesi quanto ricordo; mentre
dell'intelligibile ci può essere solo reminiscenza (19).
3. Il significato gnoseologico della teoria della reminiscenza
Nel suo essere rimemorazione di ciò che i sensi non possono cogliere- l'intelligibile-, la
funzione anamnestica acquista uno spessore ed un valore che la semplice mnème non ha:
essa diventa infatti la facoltà conoscitiva umana per eccellenza, in quanto, appunto,
"…ogni nostro apprendimento non è altro, in realtà, che reminiscenza [dell'intelligibile
(21)]…" (Phaed. 72 e 5).
L'equivalenza tra anamnesi ed apprendimento pare poi debba essere intesa in due sensi. La
reminiscenza dell'essere meta-sensibile può consistere innanzitutto nel "richiamare alla
mente" gli enti intelligibili per utilizzarli come strumenti tramite i quali rapportarsi alla
realtà empirica (22); tali criteri sono a-priori, nel senso che non derivano dall'esperienza:
l'anima li ha acquisiti prima di incarnarsi e poi, al momento dell'incarnazione, li ha
dimenticati. L'uomo, quindi, ogni volta che, nella dimensione empirica, se ne serve, in
qualche modo li "ricorda" (23). In questo caso, dunque, si tratta di un "ricordare" volto alla
conoscenza del sensibile e strumentale, perciò, alla formazione della dòxa (24): l'uomo non
può relazionarsi alla realtà empirica e conoscerla, senza di fatto "ricordare", nella maggior
parte dei casi inconsapevolmente, le idee, né può risolvere problemi matematici- nemmeno
i più banali e quotidiani- senza utilizzare e dunque "ricordare" gli enti intermedi.
Oppure l'anàmnesis dell'intelligibile può essere un "ricordare" in cui l'intelligibile stesso è
ciò che viene, in se stesso e come tale, conosciuto; essa, in questo caso, equivale, dunque,
all' epistème (alla nòesis ed alla diànoia), come sostiene chiaramente il Menone (25). In
base al diverso oggetto che, grazie all'anamnesi, viene conosciuto- il sensibile o
l'intelligibile-, possiamo, dunque, distinguere tra una reminiscenza in senso lato ed una
reminiscenza in senso stretto(26).
La discriminante tra la molteplicità degli uomini comuni e la ristretta cerchia dei filosofi è
costituita proprio dal tipo di anamnesi di cui gli uni e gli altri sono capaci. Tutti gli uomini
hanno effettivamente reminiscenza in senso lato, in quanto l'anima che si incarna in un
corpo umano ha senz'altro (in misura maggiore o minore, in modo più o meno chiaro) visto
le idee e gli enti intermedi (27). Di conseguenza, tutti in teoria possono avere reminiscenza
in senso stretto, appunto perché hanno avuto modo di vedere l'intelligibile: è importante, a
questo proposito, quanto Socrate afferma in Men. 85 c 9: "Tali opinioni sono emerse in lui
[nel servo] come in un sogno, e se ripetutamente lo s'interrogasse sugli stessi argomenti e
da punti di vista diversi, puoi star sicuro che alla fine ne avrebbe scienza [epistème] non
meno esatta di chiunque altro (…òisth' hòti teleutòn hètton akribòs epistèsetai tòuton)"
(28). La scienza, che è conoscenza tematica dell'intelligibile, ovvero reminiscenza in senso
stretto, è dunque una possibilità dell'essere umano in quanto tale; di fatto, però, essa è
strettamente legata alla natura ed alle capacità di ogni singolo e concreto uomo e, di
conseguenza, non ogni uomo è in grado di cogliere tematicamente le idee e gli enti
intermedi. Platone ci fornisce una spiegazione mitica di questo nel Fedro: l'anima si
incarna in un certo corpo e, quindi, dà origine ad un determinato tipo umano- il filosofo, il
re, il condottiero e così via-, a seconda di quanto ha contemplato l'intelligibile, ma soltanto
le anime che hanno potuto contemplare più a lungo e meglio la Pianura della Verità sono
capaci di raggiungere, poi, nella vita terrena, un grado di reminiscenza maggiore delle
altre: esse sono le anime dei filosofi. Attraverso il mito, Platone spiega le diverse attitudini
intellettuali e morali degli uomini ed afferma che sono necessarie doti straordinarie, e
difficilmente riunite in una stessa persona, per ottenere la scienza tematica e dispiegata del
mondo ideale (nòesis): tali requisiti sono la capacità di apprendimento, la buona memoria,
l'intelligenza, la perspicacia, la forza d'animo, la generosità (Resp. 503 c) (29).
4. Reminiscenza e purificazione
La reminiscenza dell'omonima teoria platonica coglie dunque, come abbiamo visto, non ciò
che è nel tempo, bensì una realtà intemporale e divina, sottratta al divenire. Essa non mira,
perciò, a ricostruire il tempo umano, a ripercorrerlo, salvandolo dalla dimenticanza: proprio
perché è pensamento dell'immutabile, l'anamnesi platonica, al contrario, "sottrae al tempo,
per accostare al divino, all'eterno..." (30). Potremmo, forse, dire che "ricordare", in senso
stretto, l'intelligibile significa fuggire dal tempo ed unirsi al divino in un senso prima di
tutto "astratto", puramente "mentale" e, in fin dei conti, parziale, incompleto: chi ha
reminiscenza è, infatti, pur sempre un uomo, che ha un corpo e che vive, e non può non
vivere, nella dimensione sensibile, quella appunto del mutamento e della temporalità.
Una volta purificatasi dalla sua colpa originaria, però, l'anima cessa, come si sa, di
reincarnarsi, liberandosi così dalla corporeità e, con essa, dal tempo: la psychè ritorna
allora di fatto a quella dimensione divina e intemporale cui è congenere. La purificazione,
che mette fine al ciclo delle rinascite, si realizza in primis per mezzo della reminiscenza la
quale, perciò, pare essere salvifica ed avere una funzione catartica (31).
In realtà, nessun dialogo platonico descrive in modo esplicito l'anamnesi dell'intelligibile in
termini di catarsi; anzi, le due dottrine- quella secondo cui apprendere è "ricordare", e
quella che presenta l'acquisizione della conoscenza come una purificazione dell'anima dal
corpo- sono tenute per lo più separate: il Menone ed il Fedro presentano la reminiscenza; la
Repubblica ed il Timeo la dottrina della catarsi; il Fedone, infine, tratta entrambe le
tematiche, senza, tuttavia, connetterle apertamente. Platone, però, dissemina nelle sue
opere diversi indizi in base ai quali si può giungere alla conclusione ipotizzata, che
l'anàmnesis- in senso stretto- valga, appunto, anche come kathàrsis.
Credo che ciò possa essere dedotto, innanzitutto, dal Fedone stesso. Nel passo 69 c
leggiamo infatti: "... [badiamo allora che] non siano invece temperanza e giustizia e
fortezza- questa è la realtà vera- una specie di purificazione da tutto codesto, ed esso stesso,
il sapere non sia un modo o un mezzo di purificazione (… hè phrònesis mè katharmòs tis
è)" (32); Platone ha appena affermato che l'uomo si purifica attraverso la vera aretè, la
quale, per essere autentica e non solo vana parvenza, non può essere disgiunta dal sapere,
ma ha proprio nella phrònesis la sua essenza: a ciò egli aggiunge appunto che la phrònesis
stessa è un mezzo di purificazione.
La phrònesis di cui qui si parla consiste nella conoscenza dell'intelligibile, come appare
evidente in Phaed. 79 d: "Quando invece l'anima procede tutta sola in se stessa alla sua
ricerca, allora se ne va colà dov'è il puro, dov'è l'eterno e l'immortale e l'invariabile; ...E
questa sua condizione è ciò che diciamo intelligenza [phrònesis]"; il termine phrònesis,
dunque, sembrerebbe assumere, in Platone, un significato tecnico, mirante a definire lo
stato della psychè in contatto con la realtà meta-fisica. Tale contatto può essere la
conoscenza immediata e diretta, vale a dire la visione intellettuale che l'anima ha dell'èidos
e degli enti intermedi quando, libera dalla corporeità, essa è (o torna, purificatasi) nella
sfera sovraceleste; oppure, può essere l'unica forma di conoscenza che l'uomo può avere
dell'universo meta-empirico: daccapo, reminiscenza- in senso stretto-.
D'altra parte, che la phrònesis coincida con la sophìa, cioè con la conoscenza della Verità,
dell'Essere, credo si possa dedurre dal passo 65 a-68 b dello stesso Fedone, nel quale
Socrate domanda a Simmia se il corpo sia d'ostacolo o meno all'acquisizione del sapere
(ancora phrònesis). Il discorso si divide in due parti; nella prima, il filosofo discute della
non-idoneità degli strumenti corporei- i sensi- al conseguimento della conoscenza
(phrònesis), strumenti che, egli afferma, sono imprecisi e fuorvianti, poiché non colgono né
ti tòn ònton, né tòu òntos (33); nella seconda parte, poi, egli passa a trattare degli oggetti
che i sensi dovrebbero cogliere per portare alla phrònesis, affermando che tali oggetti, le
idee, per loro natura, non sono però percepibili dai sensi, bensì solo dal puro pensiero.
Il passo 248 a-249 d del Fedro pare, poi, confermare la tesi della funzione catartica
dell'anamnesi: qui Platone descrive, per mezzo di un mito molto suggestivo- quello celebre
del carro alato- l'anima prima della sua unione con il corpo e spiega la causa che ne ha
determinato l'incarnazione. Paragonata la psychè ad una biga alata, trainata da due cavalliuno bello e buono, l'altro brutto e cattivo- e guidata da un auriga, e spiegato perché essa
perde le ali e quindi s'incarna, Platone, in Phaedr. 249 c, fa una precisazione importante:
tutte le anime, egli dice, rimettono le ali, cioè ritornano nella regione sovraceleste, dopo
diecimila anni, tranne quelle che per tre vite consecutive si sono dedicate alla vera
filosofia; esse, infatti, solo dopo tremila anni tornano presso gli dèi. L'anima del filosofo,
insomma, gode di una sorte privilegiata: rimette, giustamente sottolinea lo stesso Platone,
le ali prima delle altre. Qual è la ragione di ciò? Platone è molto esplicito in proposito: "Ed
è per questo che sola la ragione del filosofo mette, a giusto diritto [dikàios], le ali; però che
sempre, per quanto le è possibile, ella è col ricordo [mnème (34)]in quegli obietti, nella
contemplazione dei quali la divinità è divina". L'anima del filosofo ritorna dunque in
anticipo rispetto alle altre, ed appunto a diritto, presso gli dèi, perché egli è colui che ha
"reminiscenza di quegli enti che la nostra anima ha un tempo veduti" (Phaedr. 249 c 2): la
reminiscenza appare qui, evidentemente, come mezzo di purificazione e di espiazione della
colpa (35).
La possibilità di concepire la reminiscenza come una purificazione, inoltre, potrebbe essere
dedotta anche da Phaed. 75 e 3, dove leggiamo che "..acquistate delle conoscenze prima di
nascere, noi le perdiamo nascendo...." (36). L'interpretazione della dimenticanza di ciò che
è stato appreso nella dimensione prenatale come contestuale all'incarnazione dell'anima
implica che sia possibile interpretare la riconquista di quello che è stato scordato, ovvero la
reminiscenza, come complementare separazione della psychè dal corpo, cioè appunto come
catarsi (37); infatti Platone si chiede, a proposito della catarsi: "E purificazione non è,
dunque, ... adoperarsi in ogni modo di tenere separata l'anima dal corpo (…tò chorìzein
hòti màlista apò tòu sòmatos tèn psychèn), e abituarla a raccogliersi e racchiudersi in se
medesima fuori da ogni elemento corporeo, e a restarsene, per quanto è possibile, anche
nella vita presente come nella futura, tutta solitaria in se stessa, intesa a questa sua
liberazione dal corpo come da catene?" (Phaed. 67 c-d).
Pare opportuno, inoltre, citare un altro brano del Fedone, il 76 c. Socrate domanda a
Simmia: "E dunque le nostre anime esistevano anche prima: prima, dico, di essere in questa
forma umana, indipendentemente dal corpo; e avevano intelligenza"; Simmia risponde:
"Salvo che, o Socrate, queste conoscenze non le veniamo apprendendo durante il processo
del nostro nascere; perché rimane tuttavia questo intervallo di tempo"; Socrate a sua volta
ribatte: "E sia, amico: ma allora in che sorta mai d'altro tempo le perdiamo?..."; e Simmia
conclude: "Oh no, Socrate: io non sapevo in verità quello che mi dicessi".
K. Dorter, notando che, in questo passo, Socrate afferma che l'anima deve aver acquisito la
conoscenza delle idee prima di incarnarsi, mentre Simmia allude alla possibilità che "noi",
cioè l'uomo, insieme di anima e corpo, l'abbiamo acquisita alla nascita, commenta: "…our
souls possess it, but our bodies obscure it so that we- as conjunction of soul and bodyacquire it as already 'forgotten'" (38). è vero, nonostante Socrate non lo affermi, che l'uomo
acquista la conoscenza nel momento in cui s'incarna, perché egli, prima di allora non
esisteva; ma ciò che qui interessa è che l'affermazione di Dorter suffraga quanto ipotizzato:
la dimenticanza può essere interpretata come consustanziale all'incarnazione, il che
legittima l'affermazione complementare della reminiscenza come purificazione-separazione
dal corpo.
Degno di nota è, sempre secondo Dorter, quanto dice Simmia, alla fine di questo breve
passo: "...èlathon emautòn oudèn eipòn", frase che lo studioso inglese traduce così: "I
forgot, I was talking nonsense" (39); a proposito di essa egli nota: "The use of lanthàno
here is suggestive, since it is the word for the 'forgetting' that is presupposed by
'recollection'. Its use here shows that we can 'forget' things...not only in the sense of having
possessed and lost them, but also in the sense of simply 'not noticing'; which would be
consistent with an interpretation of recollection in terms of purification" (40). Perché
Simmia ha dimenticato, nel senso appunto che non ha fatto attenzione? Forse perché preso
da se stesso, dice Dorter, o forse, perché preso dalla sua corporeità: ecco, allora, che la
dimenticanza apparirebbe di nuovo come un essere troppo coinvolti nella propria fisicità,
cioè come una contaminazione, e l'anamnesi, di converso, come un riguadagnarsi puri da
tale contaminazione, secondo quella che è la definizione platonica appena richiamata di
catarsi, come abbiamo visto. L'affermazione di Simmia potrebbe, dunque, anch'essa
suggerire la possibilità di interpretare il "dimenticare" come frutto della contaminazione
dell'anima da parte del corpo e, di converso, l'anamnesi come una purificazione. Tutto ciò,
però, non è detto e può solo essere ipotizzato: il giovane pitagorico non dice, infatti,
esplicitamente perché egli non ha fatto attenzione. Tuttavia, un ulteriore supporto
all'interpretazione dell'anamnesi come catarsi, si può trovare, sempre secondo Dorter, in
quello che Platone scrive nel passo successivo a quello di cui ci siamo ora occupati. In esso
il nostro filosofo sostiene che, se esistono le idee e se esse esistevano come possesso della
psychè già prima che questa s'incarnasse e iniziasse a vedere e toccare i sensibili, allora non
c'è alcun dubbio che le anime preesistano all'incarnazione (76 d 7): "...and is there an equal
necessity both that these exist and that our souls existed even before we were born, and if
the former dont' exist neither did the latter" (41).
Platone quindi non si limita ad affermare che l'esistenza delle idee implica quella
dell'anima ad esse congenere, ma aggiunge che l'esistenza delle idee è equivalente a (ha
uguale necessità di) quella dell'anima. In questo modo, egli trasforma la conclusione
dell'argomento della reminiscenza, rendendolo simile alla teoria della catarsi, tutta
imperniata sul concetto di somiglianza tra l'anima e le idee: la psychè, quando si è
purificata staccandosi dal corpo, ritorna presso ciò cui è connaturale, l'intelligibile (Phaed.
79 d 1-3).
Ci sono, dunque, ragioni sufficienti per affermare che la reminiscenza in senso stretto sia
un mezzo di purificazione, cioè che essa sia catartica: l'anima, "ricordando" l'universo
meta-sensibile, espierebbe la colpa commessa (42). Si potrebbe forse dire che la catarsi si
realizza pienamente quando l'anima si impossessa intellettualmente dell'intelligibile,
congiungendosi ad esso, come a ciò che le è congenere.
Se la reminiscenza è purificazione, essa è anche concentrazione dell'anima in se stessa: nel
già citato passo 67 c del Fedone, infatti, Platone afferma che la catarsi consiste nel separare
l'anima dal corpo, ovvero nel far sì che essa si abitui a raccogliersi e racchiudersi in sé, a
convertirsi dalla dispersione corporea, concentrandosi in sé medesima (i verbi usati sono
athpòizo e synagèiro, che significano entrambi "raccolgo", "raduno"). Platone, rifacendosi,
come lui stesso ammette, ad un'antica tradizione, descrive dunque la catarsi come un
raccogliersi in sé, da tutti i punti del corpo (43); presupposto di tale tesi è, evidentemente,
che l'anima sia mescolata al corpo, dispersa in esso, come ritenevano già gli orfici, stando a
quanto del resto riferisce Aristotele (De an. A 5, 410 b 28) (44).
È opportuno, ora, chiarire un punto. I passi citati, in cui Platone dice che, unendosi al sòma,
la psychè dimentica ciò che ha appreso precedentemente, possono essere letti non solo nel
senso in cui lo si è appena fatto qui, provando, cioè, a sostenere che l'oblio è unione
dell'anima al corpo, e che, quindi, la reminiscenza di quanto dimenticato sia separazione da
questo e dunque purificazione. Se questo è vero, però, è anche vero che è l'incarnazione a
determinare la dimenticanza e che, quindi, è la separazione, ovvero la purificazione, a
determinare la reminiscenza. La catarsi, insomma, pare ora mezzo per il verificarsi della
reminiscenza. Tutto ciò è evidente nel brano 64 a- 67 d del Fedone. Socrate spiega, qui,
che il filosofo non teme la morte, poiché la vera filosofia non è che esercizio di morte ed il
vero amante della sapienza non si cura di altro, in realtà, che di morire ed essere morto,
perché la piena acquisizione del sapere pare preclusa all'anima incarnata: solo la pura
psychè, libera dal corpo, accede alla contemplazione dell'intelligibile, in cui consiste la
conoscenza più vera. Se la morte è separazione dell'anima dal corpo, allora il filosofo che
si esercita a morire non fa che sforzarsi di tenere separati i due eterogenei elementi dai
quali, come uomo, è composto.
Il filosofo, che aspira alla conoscenza dell'intelligibile, cioè alla reminiscenza in senso
stretto, deve dunque purificarsi; l'anima non può "ricordare" la realtà meta-empirica, non
può avere phrònesis, senza prendere le distanze dal corpo, poiché esso la distrae, la
confonde, la fa volgere al sensibile: "L'anima, quando per qualche sua ricerca si vale del
corpo, adoperando la vista o l'udito o altro senso qualunque...allora…è trascinata dal corpo
a cose che non sono mai costanti, ed ella medesima va errando qua e là e si conturba e
barcolla come ebbra, perché tali appunto sono le cose a cui si appiglia" (Phaed. 79 c).
L'anima, dunque, per avere reminiscenza dell'intelligibile, deve staccarsi dal corpo e,
quindi, la purificazione è appunto mezzo dell'anamnesi; allo stesso tempo, la psychè si
purifica tramite l'anamnesi della realtà meta-empirica, la quale è essa, dunque, strumento
della kathàrsis. Questo potrebbe sembrare un circolo vizioso, ma, alla luce di quanto già si
è provato a sostenere, si può, forse, affermare che Platone intende reminiscenza e
purificazione come intimamente e reciprocamente legate, interdipendenti, tali da non
potersi verificare l'una senza l'altra: non ci sarebbe anamnesi senza catarsi né catarsi senza
anamnesi. Il rapporto fra esse è tale per cui si esse verificano insieme, parallelamente; la
reminiscenza implica ed è un prendere le distanze dal corpo e la purificazione dell'anima
comporta a sua volta ed è un volgersi dell'anima verso l'intelligibile, un riappropriarsi di
esso, dunque, un "ricordarlo": c'è quasi una sorta di fusione tra i due fenomeni, uno
sconfinamento dell'uno nell'altro (45).
L'anamnesi dell'omonima teoria platonica, dunque, non ha un senso puramente
gnoseologico, ma anche morale: essa è un processo conoscitivo, ma anche, nello stesso
tempo e secondo lo spirito della tradizione orfico-pitagorica, di affrancamento dalla
negatività del corpo. Essa è sì conversione intellettuale, poiché fa volgere lo sguardo della
mente dal sensibile- che non è in senso pieno, poiché misto di essere e di non-essere, di cui
perciò non si dà vera conoscenza, bensì solo opinione- all'intelligibile- che, esso solo, è
pienamente e del quale c'è vera scienza-; ma essa è anche conversione morale, perché
comporta un tipo di vita diverso da quello dei più, in quanto non si dà senza distacco dalle
passioni e dai piaceri corporei ed anzi è un distacco da essi; ed infine perché è un volgersi
alla Verità ed a quella dimensione ideale che è per Platone intrinsecamente un valore. Le
idee, infatti, hanno come fondamento il Bene: "Dunque, anche delle cose intelligibili si può
affermare che dal bene esse ricevono non solo il loro essere conosciute, ma anche
l'esistenza e l'essenza...." (Resp. 509 b 2-4); il Bene è, perciò, la fonte dell'essere delle idee,
che sono, così, qualcosa di strutturalmente positivo anche sul piano assiologico.
5. Reminiscenza, felicità e piacere
Quanto proposto fin qui sulla funzione catartica dell'anamnesi non pare esaurire però i
possibili rapporti della reminiscenza con l'etica platonica. L'anàmnesis, infatti, può avere
un significato etico anche nel senso che, proprio "ricordando"- in senso strettol'intelligibile, l'uomo acquisisce l'autentica felicità (eudaimonìa), quella felicità che pare
essere, nel pensiero antico, essenza stessa della morale. Tratti tipico e costante dell'etica
antica pare sia, infatti, quello di essere eudemonistica, poiché essa indicherebbe nella
felicità appunto, e solo in essa, il movente e lo scopo della condotta morale (46).
L'elemento che permette di legare eudaimonìa e moralità è poi il concetto di virtù. Per i
Greci l'aretè è ciò che consente ad un uomo, ad un animale, perfino ad un oggetto
inanimato, di realizzare la propria essenza, cioè di essere pienamente quello che deve
essere e di svolgere al meglio il compito che, per natura, gli è proprio: "Ogni
cosa…animata od inanimata, ha una propria funzione (èrgon), che è ciò che si fa con quella
cosa soltanto o con essa nel modo migliore: nessuna cosa può realizzare il proprio èrgon se
manca della propria specifica virtù" (47). Da tale realizzazione della propria intima natura
deriva all'uomo la felicità.
Platone condivide questa concezione, come emerge dalla Repubblica (I 353 e-354 a):
"Dunque l'anima giusta [virtuosa: poco prima Socrate ha, infatti, affermato che l'aretè
specifica dell'uomo è la giustizia] e l'uomo giusto [virtuoso] vivranno bene, e l'ingiusto
vivrà male…chi vive bene è sereno e felice, mentre chi vive male si trova nella condizione
opposta" (48). Quindi, il virtuoso che realizza il proprio essere secondo natura e che,
pertanto, vive in una dimensione autentica, è felice; l'ingiusto, che trascura la propria
specifica natura, che non si cura di svilupparla e realizzarla, non può che essere infelice
(Resp. 354 a 1-4: "…e l'ingiusto vivrà male…l'ingiusto è infelice").
Passiamo ora, tenendo in mente questa concezione etica, all'esame del Fedone (49). Qui, la
psychè, vera essenza dell'uomo, appare come elemento unitario, che presiede
sostanzialmente alla funzione conoscitiva: secondo la terza prova dell'immortalità, essa è
caratterizzata, da un lato, dall'assoluta eterogeneità rispetto al corpo, e, dall'altro, dal suo
essere pura razionalità, capacità di cogliere l'intelligibile, cui è affine (50). Realizza allora
la natura razionale dell'uomo solo la conoscenza, che, al suo livello più alto è, come
sappiamo, phrònesis, conoscenza dell'intelligibile, cioè anamnesi in senso stretto. Il
concetto di phrònesis è, infatti, come visto, duplice: esso indica tanto il contatto diretto con
la realtà meta-sensibile, contatto che solo l'anima disincarnata può avere, quanto l'unico
modo conoscitivo delle forme possibile all'uomo, ovvero all'anima incarnata: reminiscenza,
appunto. Sembra, perciò, che "ricordando", in senso stretto, le idee, l'uomo realizzi la
propria natura e, di conseguenza, trovi la piena felicità (51).
Il discorso sull'aretè e quello sull'eudaimonìa non sono, in Platone, distinti da quello
sull'hedonè, sul piacere, né, tantomeno, ad esso radicalmente contrapposti: il nostro
filosofo non pare affatto un antiedonista radicale, come troppo spesso si è sostenuto (52).
Evidenziamo alcune brevi righe del Fedone (53) in 59 a 2-3, il giovane Fedone, iniziando il
racconto delle ultime ore di Socrate in carcere, afferma: "…nemmeno un senso di piacere
[mi sfiorò l'animo], per quanto fossimo a ragionare di filosofia secondo la nostra
consuetudine " (54). In 66 e 2-3, poi, Platone scrive: "E solamente allora [quando l'anima si
sarà spogliata del corpo] riusciremo a possedere ciò che desideriamo e di cui ci
professiamo amanti, la sapienza [phrònesis]" (55). Infine, nel passo 114 e 1-4, Socrate
parla "dei piaceri dell'apprendere" (56).
In questo dialogo, Platone certo critica i piaceri fisici, condannati, insieme a dolori,
passioni, desideri, amori, insieme, insomma, a tutto ciò che concerne il corpo, in quanto
non solo sviano dall'indagine filosofica, ma anche e soprattutto "perché ogni piacere o
dolore, quasi avesse un chiodo, inchioda l'anima al corpo e ve la conficca e la rende
corporea, e la induce nella illusione che ciò solo è vero, che anche il corpo dice vero" (83
d); piacere e dolore, dunque, sono condannati alla pari, poiché fanno apparire solido e vero
il sensibile, che, invece, solido e vero per Platone non è. Ma, accanto ai piaceri fisici, come
segnalano i passi sopra citati, Platone pone i piaceri dell'intelletto, legati all'indagine
filosofica, all'esercizio della razionalità ed al conseguimento della conoscenza.
La phrònesis, cioè, daccapo, la reminiscenza dell'èidos è ciò che i filosofi desiderano ed
amano: quale oggetto di desiderio ed amore, essa, una volta conquistata, non può che
essere fonte di piacere, oltre che di felicità, essendo ciò che realizza al massimo la natura
umana. L'hedonè, tuttavia, come emerge dai passi citati, non scaturisce solo dalla
soddisfazione del desiderio di sapienza, ma pare frutto dello stesso processo di ricerca: non
è solo il conseguimento della saggezza a dare piacere (66 e 2-3), poiché questo
accompagna la fase stessa di progressiva acquisizione della phrònesis (59 a 2-3).
Del resto, l'esistenza di un desiderio intellettuale e di un piacere conseguente non solo alla
soddisfazione di questo, ma anche all'attività razionale stessa, si potrebbero dedurre già dal
Menone, dove leggiamo: "E ora, proprio perché non sa, [lo schiavo di Menone], ricercherà
con piacere…" (84 b 9 ) (57). Il sapere di non sapere, cioè la consapevolezza della propria
ignoranza, genera nell'uomo un disagio intollerabile: da qui, il desiderio di superare
l'ignoranza, cioè di sapere, attraverso un'attiva ricerca. L'acquisizione della conoscenza, in
quanto appaga un desiderio, colma una mancanza e mette fine ad una sofferenza, non può
allora che essere piacevole; ma è fonte di hedonè la stessa ricerca, sia perché questa è
stimolata dalla prospettiva di un risultato, appunto, gratificante, sia perché tramite la ricerca
intellettuale si attua ed ottimizza la natura umana, che, ci pare emerga anche da questo
passo del Menone, è sostanzialmente, all'altezza di questo dialogo, razionale.
Il discorso platonico su piacere e felicità si arricchisce e si complica nella Repubblica, testo
che riprende ed amplia la tesi nel Fedone solo accennata, dell'esistenza di un piacere
intellettuale, proprio della saggezza, e di un'eudaimonìa legata ad esso. Nella Repubblica,
Platone, infatti, abbandona l'unitarietà della psychè individuando in essa tre parti, o
elementi, o "principi motivazionali del comportamento" (58). Essa è divisa in una parte
razionale, il logistikòn ed in una irrazionale, suddivisa, a sua volta, in due, l'epithymetikòn,
la parte appetitiva o concupiscibile, ed il thymoeidès, la parte irascibile. L'esperienza
quotidiana, infatti, mostra che nell'uomo operano pulsioni diverse, spesso in contrasto,
giustificabili senza contraddizione solo se si ammette, nell'uomo stesso, l'esistenza di
principi diversi; in ognuno, allora, c'è un elemento razionale, con cui l'anima ragiona, ce n'è
uno irrazionale appetitivo, con cui essa prova desideri fisici, come mangiare, bere, amare, e
ce n'è, infine, uno irrazionale irascibile, grazie al quale la psychè si adira, è ambiziosa ed
impetuosa. Fra tali parti c'è una precisa gerarchia naturale: il logistikòn può e deve per
natura comandare e dirigere tutta l'anima, aiutato dal thymoeidès, che, se ben educato, si
allea con l'elemento razionale contro gli eccessi cui per natura l'epithymetikòn è portato.
Ogni parte ha, dunque, una funzione specifica nella vita dell'uomo, il che comporta che
ognuna abbia anche una virtù propria, che le permetta di attuare il suo compito specifico.
Virtù della psychè sono la sapienza (per la parte razionale), la temperanza (per la parte
concupiscibile) ed il coraggio (per la parte irascibile); al di sopra di esse c'è la giustizia, che
si realizza quando le tre componenti dell'anima svolgono ciascuna il proprio compito (59).
Alle tre virtù, corrispondono poi tre tipi di desideri e, legati alla soddisfazione di questi, tre
tipi di piaceri: "…ognuna [delle tre parti dell'anima] è detta capace, contestualmente
all'esercizio della funzione cui è per natura deputata, di provare tensione o aspirazione, di
'tendere' o 'indirizzarsi' verso qualcosa di specifico, cioè di 'muoversi' verso di esso…In
quanto 'programmata' per natura ad aspirare a qualcosa, ogni parte è allora capace di
amarlo e di desiderarlo ed è perciò del pari capace di godere della sua acquisizione" (60).
Conoscere il vero è desiderio proprio del logistikòn (Resp. 581 b 5-7), mentre il thymoeidès
desidera prevalere ed avere fama (Resp. 581 a 9-10); l'epithymetikòn, infine, desidera
appagare esigenze fisiche, quelle del mangiare, del bere, dell'amare, ovvero, desidera la
ricchezza, poiché è soprattutto col denaro che si soddisfano tali desideri (Resp. 580 e-581
a).
L'anima i cui elementi svolgono ognuno il compito per natura proprio; l'anima, cioè, il cui
elemento razionale si dedica all'attività conoscitiva (attività anamnestica, intesa, al suo
livello più alto, come reminiscenza in senso stretto delle forme) e governa gli elementi
irrazionali; l'anima il cui elemento concupiscibile presiede secondo misura alle funzioni
fisiologiche, sottomettendosi al governo della razionalità; l'anima la cui parte razionale è
aiutata, nel suo ruolo di governo, dal thymoeidès quest'anima, prova, nel suo essere
virtuosa, felicità e piacere. L'eudaimonìa perciò, ingloba in sé tutti e tre i tipi di piacere
(intellettuali, del successo, fisici) di cui Platone ha parlato, legati al compimento delle
funzioni specifiche delle singole parti dell'anima: quindi, ed è ciò che qui interessa, la
conoscenza, che, al suo grado più alto è reminiscenza delle idee, è componente essenziale
dell'hedonè e della felicità.
Ma il rapporto stabilito nella Repubblica tra piacere, felicità ed anamnesi non è così diverso
da quello emergente già dal Fedone: se qui, Platone asseriva che vera felicità è quella
derivante dai piaceri intellettuali, dalla phrònesis ovvero dalla reminiscenza in senso
stretto, egli, nella Repubblica, non attribuisce al piacere delle tre parti dell'anima stesso
peso e valore ai fini della felicità. Se infatti ogni uomo è giusto perché virtuoso, e dunque è
felice, quando ognuna delle sue facoltà svolge la propria funzione facendo ciò che per
natura è abilitata a fare, non tutti però sono virtuosi e felici nella stessa misura: pochi,
infatti, sanno realizzare al massimo la propria razionalità, ottimizzarla- ed ottimizzare,
conseguentemente, anche la parti irrazionali dell'anima-; costoro sono i filosofi, ovvero
quanti raggiungono il livello conoscitivo più alto, quello delle idee, delle quali, come più
volte sottolineato, l'anima incarnata non può avere che reminiscenza.
Chi "ricorda" l'èidos è, allora, più giusto, più felice, e non solo perché è l'unico a
raggiungere la piena realizzazione di sé, ma anche perché i piaceri razionali sono i più
dolci, i più intensi ed anche i più veri. Di ciò Platone fornisce tre prove nella Repubblica
(61): la prima chiama in causa l'esperienza del filosofo, il quale, diversamente dall'amante
del successo e da chi è incline al lucro, ha esperienza di tutte e tre le forme di piacere
possibili. È costui, dunque, il più adatto a giudicare l'hedonè ed a lui bisogna prestare fede
quando afferma che l'esercizio della phrònesis la reminiscenza) è il più piacevole (Resp.
581 a-583 a) (62). D'altra parte, solo i piaceri del saggio sono veri e puri, mentre gli altricome semplici cessazioni del dolore- non sono né puri né veri (Resp. 583 b); il piacere
puro, per Platone, non nasce dal dolore, non si configura come cessazione di una
sofferenza. Pochi sono i piaceri di tal genere e tra di essi vi sono, naturalmente, quelli
dell'intelletto.
Una seconda prova concepisce il piacere come riempimento di un vuoto (tesi propria già
dei Pitagorici), per cui l'hedonè fisica segue al colmare un vuoto del corpo, quella
intellettuale, invece, al colmare un vuoto dell'anima. Quanto riempie il corpo, cioè il cibo,
appartenendo al mondo sensibile, non è però essere autentico e stabile, al contrario di ciò
che riempie l'anima, le idee, le quali sono, appunto, l'essere vero; anche tra psychè e sòma
c'è il medesimo divario, in quanto l'una, come sappiamo, è affine all'intelligibile, l'altro è
sensibile. Da tutto ciò, Platone conclude che solo il riempimento dell'anima tramite la
conoscenza delle idee è autentico riempimento, e che solo questo è autentico piacere (Resp.
585 a-e) (63). Ciò conferma la nostra ipotesi: l'anamnesi dell'èidos è fonte del piacere più
vero ed intenso.
La dottrina della reminiscenza occupa, com'è noto, uno spazio limitato nel corpus
platonico, ma non può, per questo, essere reputata tratto di scarso rilievo del pensiero di
Platone. Alla luce delle considerazioni svolte sul possibile significato gnoseologico di tale
teoria, si può anzi sostenere che essa rivesta notevole importanza, poiché strettamente
correlata con la filosofia platonica nel suo complesso.
La tesi secondo cui l'apprendimento è anamnesi, infatti, pare integrarsi innanzitutto con la
dottrina dei diversi livelli conoscitivi corrispondenti ai diversi livelli ontologici: non c'è
conoscenza del sensibile, ovvero opinione, senza reminiscenza- in senso latodell'intelligibile; la conoscenza dell'intelligibile, a sua volta, è reminiscenza- in senso
stretto-. Tale tesi pare poi intimamente legata anche all'etica del nostro filosofo: l'anima si
purifica e raggiunge vera felicità ed autentico piacere solo conoscendo il puro essere,
ovvero solo "ricordando" in senso stretto l'intelligibile. Le nozioni di realtà sensibile e
realtà meta-sensibile, di opinione e scienza, di catarsi, felicità e piacere- fondamentali nella
filosofia platonica- possono allora forse essere comprese più pienamente facendo
riferimento al concetto appunto di reminiscenza.
Note.
(1) Platone, Menone, traduzione e introduzione di F. Adorno, Bari- Roma, Laterza 1997. back
(2) Platone, Fedone, a cura di M. Valgimigli, Bari-Roma, Laterza 1932. back
(3) Il Menone ed il Fedone sono gli unici dialoghi del corpus platonico che trattano esaurientemente la teoria
della reminiscenza; gli altri dialoghi non la nominano affatto, ad esclusione del Fedro, che fa ad essa un breve,
seppur importante, cenno. back
(4) Per questo esame comparativo, ho fatto riferimento al testo di E. Des Places, Platon, Lexique, Paris, Les
Belles Lettres 1964, vol. I, e Paris, Les Belles Lettres 1970, vol. II, in cui sono evidenziati i principali
significati e, all'interno di essi, le occorrenze più significative, dei termini filosofici e religiosi usati da Platone.
back
(5) Tutti i luoghi platonici che citerò, compresi i già richiamati Men. 81 d 5 e Phaed. 98 a 4, vengono elencati
dal Des Places, Platon cit., vol. I, ad esclusione di Men. 98 a 4 e di Phaed. 73 d 8, passi che, invece, sono qui
riportati, in quanto l'uno evidenzia il fatto che la reminiscenza, intesa come apprendimento, ha per oggetto le
idee, mentre l'altro mette in luce l'intera sfera d'azione- comprendente anche il sensibile- dell'anamnesi ed il suo
meccanismo. L'elenco completo dei passi platonici- che sono in totale 18- nei quali compare il termine
anàmnesis figura in V. Meattini, Anamnesi e conoscenza in Platone, Pisa, ETS 1981, p. 135, nota 1; tali passi
sono: Men. 81 d ; e 2; 82 a 2; 98 a 4; Phaed. 72 e 5; 73 b 5; c 5; d 8; e 1; 74 a 2; d 2; 76 a 7; 91 e 6; 92 c 9; d 6;
Phaedr. 249 c 2; Phil. 34 b 2; Leg. 732 b 8. back
(6) Platone, Fedro, a cura di G. Reale, Milano, Rusconi 1993. back
(7) Platone, Leggi, in Platone, Opere, vol. II, traduzione di A. Zadro, Bari-Roma, Laterza 1966. back
(8) Des Places, Platon cit., vol. II, p. 349. Elenco solo alcuni dei passi citati dal Des Places, senza, però,
tralasciare nessuno dei significati che tale termine pare assumere in Platone. back
(9) Platone, Repubblica, a cura di G. Lozza, Milano, Mondadori 1990. back
(10) Platone, Convito, in Dialoghi, vol. III, trad. di C. Diano, Bari-Roma, Laterza 1964. back
(11) Platone, Filebo, a cura di M. Migliori, Milano, Rusconi 1995. back
(12) Questo passo si collega a quanto Platone scrive nel Teeteto (194 d-195 a): la mente umana è come una
massa di cera sulla quale conoscenze e sensazioni si imprimono, lasciandovi delle tracce; nella conservazione
di tali tracce consiste appunto la mnème. back
(13) Phil. 34 b 10, corsivo mio. back
(14) In Phaed. 73 c 5-d 1, Socrate descrive così il meccanismo anamnestico: "Se uno, veduta una cosa o uditala
o avutane comunque un'altra sensazione, non solamente venga a conoscere quella tale cosa, ma anche gliene
venga in mente un'altra,- un'altra la cui cognizione non è la medesima bensì diversa-; ebbene, non s'adoperava
noi la parola nel suo giusto valore quando dicevamo, a proposito di quest'altra cosa venutagli in mente, che
colui se ne era ricordato [ne aveva avuta reminiscenza]?", corsivo mio. back
(15) "… la reminiscenza avviene in due modi, per via di somiglianza e per via di dissomiglianza" (Phaed. 74 a
2-3). back
(16) È significativo, a questo proposito, che l'oggetto ricordato- di cui cioè si ha reminiscenza- sia, per Platone,
ciò che è venuto in mente, ciò che è stato pensato a partire, appunto, dalla sensazione. In Phaed. 73 c 9,
leggiamo: "…non s'adoperava noi la parola nel suo giusto valore quando dicevamo, a proposito di quest'altra
cosa venutagli in mente, che colui se n'era ricordato?", corsivo mio. Che la reminiscenza non coincida con la
semplice percezione sensoriale, bensì con il ragionamento che segue la sensazione ed è da essa stimolato vien
messo bene in evidenza da J.T Bedu-Addo, Sense-experience and the Argument for Recollection in Plato's
Phaedo, "Phronesis" 36 (1991), pp. 27-60, il quale scrive a pp. 37-38: "…he [Plato] thinks of recollection…as
being, not indeed, the result of simple sense-experience, but rather of what follows the sense-experience,
namely, thought or reason. Thus, one sees something, recognizes it, and thinks of something else…This means
that there is no recollection where sense-experience is not followed by reasoning", corsivo mio. back
(17) Per chiarezza, da ora in poi, userò il verbo "ricordare" tra virgolette, quando esso si connette alla
reminiscenza. È interessante notare, poi, che per Platone esistono due generi di dimenticanza: c'è l'oblio
corrispondente in modo specifico alla mnème, e che equivale alla perdita delle tracce di sensazioni e
conoscenze acquisite nella dimensione del sensibile, e c'è l'oblio presupposto dall'anàmnesis che consiste nel
possedere, ma non avere, una conoscenza, nel senso che essa è nell'anima, ma non è a sua disposizione, cioè
che non c'è per questa accesso immediato ad essa. Per questa distinzione cfr. M. Dixaut, Phédon, Paris,
Flammarion 1991, pp. 348-349, nota 143; D.J. Melling, Platone, Bologna, Il Mulino 1994 (ed. or.
Understanding Plato, Oxford 1987), p. 163-164; A. Tagliapietra in Platone, Fedone o Sull'anima, Milano,
Feltrinelli 1994, p. 262, nota 83. Cfr., inoltre, Theaet. 194 d segg., 197b segg. back
(18) J.P. Vernant, Mito e pensiero presso i Greci. Studi di psicologia storica, Torino, Einaudi 1970, p. 61, nota
2 (ed. or. Mythe et pensèe chez les Grecs. Études de Psychologie historique, Paris, 1965). back
(19) Si possono distinguere, così, una reminiscenza noetica ed una reminiscenza dianoetica. Cfr. Dixaut,
Phédon cit., p. 344, nota 128: "La réminiscence n'a pas lieu seulement dans le champ que la République
nommera dianoétique"; K. Dorter, Equality, Recollection, and Purification, "Phronesis", 17 (1972), pp. 198218, p. 200. back
(20) Per quanto riguarda il sensibile come oggetto della mnème,cfr. il già citato Phil. 34 a 9: "la memoria è
conservazione della sensazione", e Gorg. 501 a: "…memoria,…di quello che suole avvenire" (trad. it. di F.
Adorno, in Platone, Opere Complete, Bari-Roma, Laterza 1988, vol. V). Anche la reminiscenza può avere per
oggetto la realtà sensibile, come appare chiaro da Phaed 72 e-77 b, dove Socrate spiega che cos'è l'anamnesi,
attraverso vari esempi in cui essa "ricorda" ciò che i sensi, e non l'intelletto, colgono (l'innamorato "ricorda" la
persona amata vedendone la lira o il mantello; colui che vede un ritratto di Simmia "ricorda" Cebete). Ma la
reminiscenza si volge anche all'intelligibile, alle idee in primis: il passo 74 a-75 d del Fedone- incentrato sulla
dimostrazione del fatto che l'idea di uguaglianza viene "ricordata"- e il passo 249 c del Fedro- in cui l'anima del
filosofo è descritta come privilegiata rispetto alle altre anime, in quanto essa "è sempre in rapporto con quelle
realtà, in relazione alle quali anche un dio è divino"- lo dimostrano chiaramente. Nel Menone, invece, il nesso
reminiscenza-intelligibile non è chiaramente esplicitato, tanto che alcuni studiosi parlano, a proposito di questo
dialogo, di teoria empirica dell'anamnesi [cfr., per questa tesi, P. Frutiger, Les mythes de Platon, Paris, Alcan
1930, pp. 72-73; D. Ross, Platone e la teoria delle idee, Bologna, Il Mulino 1989, p. 49 (ed. or. Plato's Theory
of Ideas, Oxford, 1951)]. Tuttavia, ci sono elementi in base ai quali si può affermare che già in quest'opera la
reminiscenza ha per oggetto la realtà meta-empirica: basti pensare che la teoria dell'anamnesi viene introdotta
in risposta all'affermazione di Menone secondo la quale non è possibile cercare quello che non si sa (Men. 80 d
5), affermazione che nega la possibilità di rispondere alla domanda del "che cos'è", di individuare, cioè, la
forma. Del resto, il brano 86 b 1, in cui Socrate parla, nel contesto della dimostrazione della reminiscenza, della
"verità degli enti" appresa nel tempo in cui non si è ancora uomini, ed il 98 a 4, dove Socrate afferma che
l'anamnesi è la conoscenza delle vere cause, parrebbero riferirsi proprio alle idee, alla luce di ciò che esse
rappresentano nel pensiero platonico [cfr., per questo argomento, N. Gulley, Plato's Theory of Recollection,
"The Classical Quarterly", 48 (1954), pp. 194-213, p 197; Meattini, Anamnesi e conoscenza cit., pp. 30, 138,
nota 4; R. Porcheddu, Mito e ragione nella dottrina platonica dell'anamnesi (Meno 80 d-81 e), "Sandalion", 5
(1982), pagg. 59-89, pagg. 75-76]. back
(21) Cfr. supra note 5 e 20, per quanto riguarda il tema dell'intelligibile come oggetto della reminiscenza nella
teoria secondo cui apprendere è "ricordare". back
(22) J.M. Paisse, Le thème de la réminiscence dans les dialogues de Platon, "Les ètudes Classiques", 33
(1965), pp. 377-400, p. 246: "L'esprit ne peut acquérir une connaissance réelle s'il n'applique point au mond
sensible les critéres de l'égal, du Beau, du Juste et d'autres analogues, notions qui lui ont été données en une
existence antérieure à son incarnation". back
(23) La posizione platonica potrebbe anche essere definita empirista, però di un empirismo particolare: è vero
infatti che l'esperienza e la conoscenza della realtà sensibile sono rese possibili da elementi indipendenti
dall'esperienza stessa, ma questi elementi- le idee e gli enti intermedi- sono nell'uomo perché la sua anima le
vide, le acquisì, cioè le esperì, seppure in modo molto particolare, cioè prima della nascita. Si potrebbe,
dunque, semplificare dicendo che nella filosofia platonica l'intelligibile è a-priori per l'uomo che è complesso
di anima e corpo, ma è a-posteriori, frutto di una particolare esperienza, per la psychè disincarnata. Cfr., per
questo argomento, A. Guzzo, in Platone, Fedone, introd. e note di Guzzo, trad. di F. Acri, Firenze, Vallecchi
1925. back
(24) Quando Platone afferma che conoscere è "ricordare" e che l'anima dell'uomo non apprende niente, ma che
essa "ricorda" quello che ha contemplato in un'epoca anteriore all'incarnazione, egli, dunque, non intende dire
che l'anima ha già conosciuto, prima di incarnarsi, le cose ed i fenomeni di cui, poi, l'uomo viene a conoscenza
nel corso della sua vita. Il nostro filosofo, infatti, con la sua dottrina vuole, innanzitutto, affermare qualcosa di
ben diverso: la necessità imprescindibile di criteri razionali e stabili, essi sì conosciuti ed acquisiti prima
dell'incarnazione e poi, nella dimensione empirica, "ricordati", indispensabili alla conoscenza degli enti e dei
fenomeni costituenti il mondo sensibile. Men. 98 a 4-5:" Ma proprio in questo [nel ragionamento fondato sulla
causalità], compagno Menone, consiste l'anamnesi …". back
(25) Nel Menone, tale distinzione pare emergere chiaramente: Platone, in questo dialogo, afferma che la
scienza, conoscenza delle cause, cioè delle forme, coincide con la reminiscenza, la quale, allora ha per oggetto
l'idèa (98 a); ma non solo: nel già citato episodio dello schiavo, il nostro filosofo sostiene che il giovane
servitore- il quale, pur non avendo mai studiato la geometria, è riuscito a risolvere il problema geometrico
sottopostogli- "ricorda" (82 e 10), che egli "ha cavato da sé" il sapere e che ricavare da sé il sapere è "ricordare"
(85 c-d); ma dichiara anche che questo sapere non è ancora scienza, bensì solo retta opinione (85 c-d; 86 a). Ciò
lascia presupporre un rapporto tra l'opinione e l'anamnesi, ma non, com'è evidente dal passo stesso, nel senso
che la retta opinione è ciò che viene "ricordato"; lo schiavo, infatti, usa le nozioni di quadrato, diagonale, pari,
dispari etc. e, grazie ad esse, riesce a risolvere il problema di geometria. L'anamnesi è, in questo caso, appunto
strumentale alla formazione della dòxa ovvero è anamnesi dianoetica in senso lato. back
(26) Nel passo 72 e-77 d del Fedone, Platone dimostra che l'idea viene "ricordata" e di fatto, anche se non
esplicitamente, introduce la differenza tra anamnesi in senso lato ed anamnesi in senso stretto. In primo luogo,
egli evidenzia che ogni percezione è sempre una percezione giudicata: due sassi o due legni non sono mai
semplicemente due sassi o due legni, ma sono, nel caso specifico, sassi uguali e legni uguali (del resto, non si
dà nemmeno percezione senza giudizio, nel senso che è un'attività di giudizio a connettere nell'affermazione di
quel singolo oggetto gli specifici inputs sensoriali ricevuti, come quando, ad esempio, giudico che questo
bianco, scabroso, duro e pesante sia un sasso). Le idee, che sono appunto oggetto di reminiscenza, vengono
utilizzate, dunque, quali criteri di giudizio mediante i quali rapportarsi alla realtà empirica: "ricordare" le forme
è, in questo caso, servirsi di esse (anamnesi noetica in senso lato). Tale uso è per lo più inconscio: in Phaed. 76
b-c, Simmia afferma che Socrate è forse l'unico uomo in grado di rendere ragione delle idee, l'unico che
conosce veramente le forme, che sa che cosa esse sono e qual è la loro funzione- in Resp. 534 b il discorso
filosofico è definito come quello che coglie l'essenza delle cose, ovvero che sa rendere ragione di tale essenza-.
Questo sapere di cui solo il filosofo è capace parrebbe avere le caratteristiche di quella che abbiamo definito
invece reminiscenza noetica in senso stretto. back
(27) Phaedr. 249 e 4-5: "… ciascun'anima di uomo, per sua natura, ha contemplato gli esseri, altrimenti non
sarebbe venuta in questo vivente" (trad. it. in Platone, Fedro, a cura di G. Reale, Milano, Rusconi 1993). back
(28) Corsivo mio. back
(29) Cfr. R. Mondolfo, La comprensione del soggetto umano nell'antichità classica, Firenze, La nuova Italia
1958; p. 181: "…la reminiscenza non è una possibilità automatica ed uguale per tutti (come dovrebbe essere se
derivasse da una contemplazione previa uguale per tutte le anime)…"; J.M. Paisse, Le thème platonicien de la
réminiscence et la purification morale, "Les études Classiques" 38 (1970), pp. 274-284, p. 275: "…la plupart
des hommes, n'ayant pu contempler à loisir l'univers idéal au moment où ils ne s'étaient pas encore incarnés,
n'éprouveront aucune anàmnese [lo studioso si sta riferendo a quella che abbiamo definito reminiscenza in
senso stretto] et se montreront incapables de se soumettre aux exigences de l'exercise dialectique. Le texte que
nous venons de citer [Phèdre 248 b] apparait comme une façon mythique d'exprimer l'inégalité des aptitudes
spirituelles". Abbiamo detto, precedentemente, che reminiscenza e memoria sono diverse, anzi, per certi aspetti,
addirittura opposte, ma ciò non deve essere inteso nel senso che esse siano contraddittorie, cioè l'una la
negazione dell'altra, al punto da escludersi a vicenda: anzi, evidentemente, l'anamnesi dell'idea implica la
memoria, intesa come capacità di conservare ciò che è stato, com'è evidente dal passo della Repubblica citato
supra. back
(30) E. Tetamo, La teoria platonica dell'anima nel Fedone e negli altri dialoghi, in Platone, Fedone, a cura di
Tagliapietra cit., p. 293. Cfr., a questo proposito, anche Vernant, Mito e pensiero cit., pp. 42-63. back
(31) Vernant, Mito e pensiero cit., p. 62: "Ogni anima immortale è infatti legata ad un astro, al quale il
Demiurgo l'ha assegnata, e verso il quale essa ritorna quando si è purificata per mezzo della reminiscenza",
corsivo mio. back
(32) Corsivo mio. back
(33) Che cosa intenda Socrate con queste due espressioni non è del tutto chiaro: esse potrebbero sinificare le
idee, e allora, se è così, sarebbe già evidente l'identificazione della phrònesis, con la conoscenza dell'èidos però
esse potrebbero anche indicare ciò che di intelligibile è nelle cose: per quest'ultima interpretazione propende in
effetti M. F. Sciacca, Platone, Milano, Marzorati 1967, pp. 195-196, note 41 e 42. back
(34) Platone, in questo caso, usa il termine mnème per indicare proprio quel "ricordare" che ha per oggetto
l'intelligibile. Ciò, tuttavia, non ci pare metta in discussione quanto sostenuto a proposito della differenza tra
anamnesi e ricordo. Innanzitutto, bisogna tenere presente che "… nella gioiosa spinta creativa del Fedro
difficile è distinguere ciò che vive di immediata realizzazione artistica da ciò che deve essere materia di
speculazione: il tono scherzoso, la suggestione dei miti, la leggiadria letteraria … s'intrecciano e mettono a
disagio l'interprete" (Meattini, Temi filosofici nella dottrina platonica della conoscenza, "Filosofia", 30 (1979),
pp. 113-128, p. 125); ciò significa tenere presente il fatto che nel Fedro predominano l'atmosfera mitica e la
poesia, ma manca, proprio per questa ragione, quella precisione scientifica, che è anche precisione
terminologica, che certo troviamo in alcuni dialoghi, come ad esempio il Filebo, ma che tuttavia non è la
caratteristica essenziale della filosofia di Platone. D'altra parte, ci sembra di notevole importanza il fatto che sia
Platone stesso, appunto nel più "tecnico" e preciso Filebo, a differenziare nettamente la reminiscenza ed il
ricordo. Cfr. anche Meattini, Anamnesi e conoscenza cit., pag. 144, nota 52: "Il Bonghi, 1985, p. 85 di Note al
Filebo … diceva che spesso in Platone noi troviamo mneme dove dovrebbe dirsi anamnesi …". back
(35) È interessante notare l'affinità tra la natura della colpa commessa dall'anima e la natura dell'espiazione.
Sembrerebbe quasi una sorta di legge del contrappasso. back
(36) Corsivo mio. back
(37) Molto chiaro il commento del Valgimigli, a proposito del citato passo 75 e : "... le avevamo dimenticate [le
idee] nel precedente processo del nascere o rivivere, quando nuovamente l'anima si rincarna e riveste forma
corporea; e le riapprendiamo nel processo del morire, che va dalla vita alla morte, in questo nostro graduale
disincarnarsi e spogliarsi e dissolversi del corpo e ritornare pura anima nuda. E, tutto codesto, perpetuamente,
in un circolo senza fine, dove i due processi dal vivere al morire e dal morire al vivere si inseguono immediati;
e a cui corrispondono perpetuamente, nel medesimo circolo, i due processi del dimenticare e del ricordare";
Phaed. cit. pp. 65-66, corsivo mio. back
(38) Dorter, Equality, Recollection cit., pp. 211-212, corsivo mio. back
(39) Ivi, p. 213 corsivo mio. back
(40) Ibidem, corsivo mio. back
(41) Ivi, p. 214. back
(42) È degno di nota che Platone scelga nel Fedone come suoi principali interlocutori proprio Simmia e Cebete,
due Pitagorici; fu, infatti il pitagorismo per primo a concepire la conoscenza come mezzo di purificazione: esso
affiancò certe regole di vita ascetiche, di astinenza, spesso frutto di mera superstizione, volte alla catarsi del
corpo, allo studio della scienza, finalizzato alla purificazione dell'anima. L'iter scientifico cui gli adepti
dovevano sottoporsi comprendeva: musica, aritmetica, geometria. Cfr. B. Centrone, Introduzione ai Pitagorici,
Bari-Roma, Laterza 1996; M. Vegetti, L'etica degli antichi, Bari- Roma, Laterza 1989, pp. 84 e segg. back
(43) Vernant, Mito e pensiero cit., p. 54. back
(44) Ibidem, nota 7. back
(45) La purificazione morale non va intesa solo come condizione preliminare della reminiscenza, cioè come
processo che si svolge prima del processo anamnestico, indipendentemente da esso, come fa Paisse, Le thème
platonicien de la réminiscence cit., p. 276: sottolineata l'importanza della purezza dell'anima, egli si riferisce
infatti ad essa come ad "une ascèse préalable"; del resto, anche il fatto che, nel passo citato, si parli di "colui
che va alla scoperta del mondo intelligibile", indica che lo studioso concepisce la purificazione sì come
indispensabile alla reminiscenza, ma antecedente ad essa. Reminiscenza e purificazione paiono piuttosto
appunto due processi paralleli. Certo, forse, c'è una fase catartica preliminare, un previo distacco dal corpo, che
è ciò che consente di dedicarsi alla filosofia, ma è proprio quest'ultima, intesa come conoscenza-reminiscenza
dell'èidos, la più vera forma di purificazione, quella che libererà l'anima dal ciclo delle rinascite. Indagine
filosofica e catarsi, dunque, paiono davvero compenetrarsi a vicenda. Cfr. Sciacca, Platone cit., p. 61:
"...l'ascesi conoscitiva va di pari passo con quella morale", corsivo mio; ivi, p. 86: "l'ascesi conoscitiva è,
contemporaneamente, perfezionamento morale", corsivo mio. Così è, del resto, per i filosofi-re della
Repubblica, che, se nei gradi alti della formazione pedagogica, studiano le matematiche, propedeutiche
all'apprensione intellettuale-noetica delle idee (libro VII), sono nei gradi pedagogici precedenti formati
moralmente, soprattutto alla temperanza ed al coraggio, tramite musica e ginnastica (libro III). back
(46) Cfr. Vegetti, L'etica cit., p. 11: "essa [la felicità] costituirà sempre per l'etica antica il fine, la motivazione,
la promessa dell'azione morale". back
(47) L. M. Napolitano Valditara, Il piacere nei Preplatonici e in Platone, dispensa del corso di Storia della
filosofia antica, Università di Trieste, A.A. 1995-'96, p. 120, nota 308, a commento di Plat., Resp. I, 353 a-b;
cfr. Aristot., Eth. Nic. A 7, 1097 b 22-1098 a 5. back
(48) Corsivo mio. back
(49) A partire da Socrate la felicità viene interiorizzata e fatta coincidere con la virtù: la Repubblica, dunque,
riprende una tesi comune al mondo greco e che, quindi, Platone aveva fatto propria già prima di questo dialogo.
D'altra parte, anche Vegetti ritiene il nesso virtù-felicità una costante dell'etica antica (Vegetti, L'etica cit. pp.
10-11). back
(50) Phaed. 79 d: "Quando invece l'anima procede tutta sola in se stessa alla sua ricerca, allora se ne va colà
dov'è l'eterno e l'immortale e l'invariabile; e, come di questi è congenere…"; in 76 c 11: "E dunque, le nostre
anime esistevano anche prima: prima…di essere in questa forma umana indipendentemente dal corpo; e
avevano intelligenza", corsivo mio. Qui, evidentemente, l'intelligenza, la razionalità, è caratteristica essenziale
dell'anima. back
(51) Naturalmente, anche la reminiscenza in senso stretto degli intermedi realizza l'anima ed è quindi fonte di
felicità, che, tuttavia, è di grado inferiore rispetto a quella che succede all'anàmnesis dell'èidos. Ciò rinvia alla
gerarchia tra diànoiae nòesis. back
(52) A. Magris, L'idea di destino nel pensiero antico, Udine, Del Bianco 1984, vol. I, p. 325: "…si può dire che
in tutta la morale greca il concetto di 'bene' è stato sempre sinonimo di 'utile' e di 'piacevole' "; corsivo mio.
back
(53) Cfr. Napolitano Valditara, Il piacere cit., p. 78. back
(54) Corsivo mio. back
(55) Corsivo mio. back
(56) Corsivo mio. back
(57) Corsivo mio. back
(58) Vegetti, L'etica cit., p. 130. back
(59) Ma nel IV libro della Resp., Platone dice che la sophrosýneè simile ad un accordo, ad un'armonia fra le tre
parti dell'anima (e dello Stato) a proposito di chi deve governare e che ubbidire. Tale virtù non è perciò della
sola parte concupiscibile. back
(60) Napolitano Valditara, Il piacere cit., p. 97. back
(61) Ivi, pp. 104-105. back
(62) Resp. 583 a 4: "L'uomo intelligente approva la propria esistenza da giudice autorevole". back
(63) Resp. 585 e: "… ciò che si nutre più realmente e delle cose più reali, gode più veramente e più realmente
del vero piacere, mentre ciò he partecipa a cose meno reali può nutrirsi meno veramente e sicuramente e
partecipare a un piacere meno sicuro". back